«L'eredità del Manzoni» di Cesare Angelini
Il Manzoni è un'eredità che più si divide e più aumenta. E' il poeta che è andato più vicino all'uomo e al suo cuore. Lo ha studiato attentamente, lo ha compreso a fondo e lo ha fatto conoscere a se stesso. E poi, l'altro dono, ci ha dato una lingua per esprimere la nostra umana verità. Tornano a mente le parole di Gino Capponi: «Dopo il Manzoni siamo tutti manzoniani»; e forse è già stato scritto il capitolo: Perché non possiamo non dirci Manzoniani. Il Manzoni è una verità che ci accompagna tutti i giorni, è il nome della nostra morale quotidiana, il nostro esame di coscienza, la lingua con la quale comunichiamo. Grandissimo nel mondo dell'arte, egli continua al di là dell'arte, consolatore, benefattore. Anche per questo è un contemporaneo: cammina con noi, vicino a noi, è in noi se sappiamo vivere con umiltà e parlare con spontaneità e sincerità. In lui troviamo una pienezza di valori che ne fanno uno scrittore di umanità completa; uno che in ogni momento e per ogni situazione ha una risposta da dare. Le sue conclusioni non sono mai negative, e dalla sua lettura si esce sempre con la fiducia e la speranza e la gioia di vivere e di operare. Come Dante, ci rende anche «il di là», che è aumento e potenziamento di vita, cancellamento di confini, universalità. Usa dire che all'universalità è arrivato attraverso i principi romantici, secondo i quali la letteratura, liberatasi della poetica classicità, («rinnovato il di dentro e il di fuori» secondo l'espressione leopardiana), aveva riportato l'arte vicino alla vita; che è un interrogare direttamente la natura, cavare poesia dal fondo del cuore, dandole nuova interiorità, nuovi spazi. Perché anche in letteratura il problema fondamentale è sempre quello di salvare l'anima, cioè la spontaneità del sentire e la sincerità dell'esprimersi. Ce n'era già un annunzio nel carme In morte di Carlo Imbonati: «Sentir - riprese - e meditar...». Ma a fare più veramente ampia la sua arte, concorse la coscienza profondamente cristiana, rifatta col rinnovamento religioso del 1810 (la conversione) e l'adesione totale ai principi del Vangelo che alimentano la vita e sono per se stessi universali. Ci pare allora superfluo parlare di principi romantici e di romanticismo: cadono le formule e restano i fatti, questo: che da un sincero convincimento cattolico è venuta la nuova salute alla nostra poesia. Vogliamo insisterci un poco, poiché questa è l'ora del Manzoni; un rinnovato fervore s'è desto intorno al meglio di lui, all'eterno di lui, il romanzo, che interessa sempre più gli studiosi, vi cerchino la storia della sua elaborazione poetica e sottilmente discorrano di snellimenti stilistici, di rarefazioni espressive, o preferiscano lodarne i motivi religioso-morali. Ma ecco quel che accade: poiché sapienza stilistica e sapienza morale nella sua pagina sono intimamente compenetrate, chi vi cerca la morale s'imbatte neilo stile e in quell'ebbrezza di linguaggio; e chi vi cerca lo stile s'incontra nella morale e s'accorge che proprio essa e le sue inquietudini ascetiche gli valsero a generare le sue migliori creature poetiche. Si diceva dell'universalità. Ci porterebbe a discorrere anche più da vicino delle sue idee, della sua Fede intesa come unità di pensiero e superamento di filosofia. Ora non è colpa nostra se parlando delle sue idee , parrà che facciamo una esposizione della morale cattolica. E' il suo mondo; si tratta piuttosto di vederne il grado dell'incarnazione poetica, qualunque sia la posizione spirituale del lettore. Il Manzoni ci appare sempre più come una nuova rivelazione della morale evangelica che si attua per gradi, lentamente, in tre tempi, e il primo tempo è lirico. Recuperata la Fede, gl'Inni sacri rappresentano l'entusiasmo del neofita e sono l'espressione della rinascita che lo porta ad affacciarsi su un mondo che è suo, consentaneo con la sua indole potentemente morale. Ma gli Inni sono ancora frammenti di quel mondo che gli si andava ampliando dentro, e colmando. Nella sua ansia di perfezione morale, di vita sempre più cristiana che vuol dire intensa accompagnata da una non meno grande ansia di perfezione artistica, il Manzoni sentiva che gli mancavano ancora molte cose: meditazioni, letture più larghe, esperienze interiori. La conversione non l'aveva trovato interamente preparato al canto. Verso il 1816, interviene una interruzione della sua attività entusiastica e poetica, una pausa di raccoglimento. E' il tempo in cui Monsignor Tosi lo invita a difendere la morale cattolica contro le accuse del Sismondi, storico ginevrino e protestante. Accetta l'impegno come una buona occasione di raccogliersi e meditare più a fondo sui valori evangelici, sulle verità religiose; e da queste meditazioni nasce il libretto della Morale cattolica. E' il secondo tempo di quella che abbiamo detta la sua nuova rivelazione. Tempo riflessivo e meditativo. L'entusiasmo del neofita si rassoda e conferma nella coscienza più alta del moralista. Se con gli Inni sacri era stato, sia pure in modo limitato il cantore della morale cattolica, ora ne è l'avvocato, il difensore. Lo sa e lo dice fin dalla prima pagina: «Debole ma sincero apologista d'una morale il cui fine è l'amore...»; e l'esalta con parole convinte, vincenti, apprese specialmente dai grandi moralisti francesi del sec. XVII: Massillon, Nicole, Bourdaloue, Bossuet, Pascal; più ancora da Bossuet, gran maestro di verità e di stile. La stesura del libro gli ha rivelato il tesoro inesauribile della verità del Vangelo, e approfondita la conoscenza dell'uomo. Dice: «Più si esamina questa religione, più si vede che essa ha rivelato l'uomo all'uomo». Proprio quello che interessa lui: l'uomo e il suo cuore: «il guazzabuglio» del suo cuore, e il bisogno di comprenderlo per compatirlo. La comprensione, la compassione sono le due qualità tipicamente manzoniane. Tempo lirico, tempo riflessivo: due momenti importanti, in cui il Manzoni s'è mostrato un rivelatore dell'alte cose della Fede. Ma la rivelazione è piena solo nel terzo tempo, che diremo corale; e oramai tutti gli strumenti son pronti per attuarlo. Scritti gli Inni sacri compreso il più alto, la Pentecoste; scritti i due drammi storici, il Carmagnola e l'Adelchi; scritto il coro dell'Ermengarda dov'è chiarita la verità fondamentale della provvida sventura e risolta l'altra degli oppressi e degli oppressori; ogni cosa è pronta per l'opera maggiore che sta nascendo, lentamente, in tre successive stesure (quella del 1823, quella del '27 e quella del '40) e che assorbirà e dilaterà quanto è stato detto nei precedenti lavori. Siamo ai Promessi Sposi, il famoso romanzo storico. Ora, sviluppando un'idea annunciata dal De Robertis in un suo Studio, vorremmo liberare il romanzo dagli intrecci e legamenti narrativi; e sentirlo come un coro, un coro di voci: ossia la molteplice voce di lui, l'autore, che vive tutti i suoi personaggi. Coro di voci da cui sgorga la nuova e piena rivelazione cristiana. Ciascun personaggio, apparendo, dice una verità, da far pensare alle «beatitudini» dantesche cantate via via sulle varie cornici del Purgatorio, mentre il poeta sale. Là, Dante ne ha affidato l'ufficio agli angeli, qui, il Manzoni l'ha affidato agli uomini. Voce di Federico, che rivela le verità più alte, prendendo tono e fermezza proprio da quelle eccelse verità. Nel romanzo, ovunque è Federico; e se la sua azione è, soprattutto, nel sostenere il peso della peste, la sua voce è nei due grandi colloqui con l'Innominato e con don Abbondio. Voce di padre Cristoforo, pia se consola le due donne afflitte, Lucia e Agnese; veemente se rimprovera il malvagio, don Rodrigo. Voce di padre Felice, nel Lazzaretto, in cui ritornano i motivi di carità, di perdono, cari a Federico e a padre Cristoforo. Dicono che queste voci, pur nella loro finezza espressiva, sono voci di alta oratoria, intendendo una diminuzione di verità artistica. Ma oratoria è parola che oramai ci mette in sospetto contro chi la pronuncia; e lo stesso Croce, che forse l'ha messa in giro per primo, s'è poi dovuto ricredere. Voce di Lucia, la più poetica del coro, voce che sa trovare le vie del cuore. Quella che nel romanzo forse dice la parola più alta e ottiene la conversione dell'Innominato: «Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia». Voci di minori e di minimi, a cui è pure affidata la rivelazione di una verità; affinché non paia che la morale evangelica sia cosa d'eccezione; ma è invece universale, senza esclusione di individui o di classi. Voce del barcaiolo, che ai ringraziamenti degli sposi fuggiaschi che egli ha passato all'altra riva dell' Adda («Addio, monti sorgenti dall'acque....) risponde: «Siamo quaggiù per aiutarci l'uno con l'altro». Voce del sarto: «La disgrazia non è il patire e l'esser povero: la disgrazia è il far del male». Voce di Bortolo: «Dio m'ha dato del bene, perché faccia del bene». Voce di fra Galdino: «Noi siamo come il mare che riceve acqua da tutte le parti, e la torna a distribuire a tutti i fiumi». Voce dell'amico, che Renzo incontra dopo la peste, e in quel momento rappresenta il balsamo dell'amicizia intesa come virtù. Voce dell'anonimo: «A questo mondo si dovrebbe pensare più a far bene che a star bene, e si finirebbe a star meglio». Voci di umili. Un'altra volta la verità è rivelata agli umili, è rivelata dagli umili. Voci, voci del bene. E le voci del male? Per il Manzoni, il male non ha voce. Esiste il malvagio, la mala azione, ma non esiste la voce del male. Il bene è sempre accompagnato da una parola che si ricorda. Il male, no. Che parole si ricordano di don Rodrigo? di Egidio, della Monaca? del padre provinciale? Nessuna. Il male non ha voce. Voci alte, voci umili e, alla fine, tutte voci rivelatrici di verità, di bontà. E ci domandiamo: - Queste voci ci prendono per le verità che dicono o per il modo come le dicono? Quasi non sappiamo rispondervi, tanto gareggiano insieme la consolazione della verità e l'ebbrezza del linguaggio in cui sono liberate. E' da concludere che la nuova rivelazione della morale evangelica ha trovato l'espressione che rimane la più nuova nella storia delle nostre lettere; e il rinnovamento religioso-morale per il quale il Manzoni visse e scrisse, s'incontra col rinnovamento del linguaggio, che è l'acquisto più alto della poesia moderna.
