«Gli Inglesi e la natura» di Edward Archer


E' stato detto che se S. Francesco d'Assisi fosse vissuto in Inghilterra intorno al 1930 sarebbe passato inosservato. Il suo abito, il suo attaccamento alla vita semplice e concreta, il suo amore per gli animali - o piuttosto il carattere particolare di questo suo amore - la sua abitudine a conversare con gli animali, l'avrebbero classificato come uno dei tanti ingenui Fabiani ritardatari. Tuttavia approfondendo la questione bisogna ammettere che la sua santità avrebbe potuto benissimo essere una qualità non comune tra gli inglesi del tempo. Non che i socialisti campagnoli degli anni '30 non contassero tra le loro file dei santi sui generis. Ma i loro profeti e ispiratori non erano S. Gerolamo o S. Benedetto, ma i Webbs e i G. B. Shaw da una parte, dall'altra Hudson, Jefferies, Whitman e, alcuni direbbero deplorevolmente, Rupert Brooke, Mary Webb e Sheila Kaye-Smith. Alcune vestigia della zelante brigata di barbuti con la camicia kaki si trovano ancora, in piccole bande, che marciano con impegno attraverso la campagna inglese, la fine settimana. Possono essere membri del Woodcraft Movement, un ramo del Cooperative Movement; o della Ramblers Association; oppure membri delle due ottime organizzazioni «The Country-Wide Holiday Association», e «The Holiday Fellowship». Prima della guerra avrebbero facilmente potuto essere membri delle «Camicie Verdi» ossia del Social Credit Movement. Quest'ultimo si ispirava alla tradizione inglese dell'amore per la natura, con la sua enfatica passione per l'ecologia delle popolazioni rurali, e al movimento Vanderwogel tedesco. Benché non fossero segnatamente anti-semiti né contaminati dalla violenza, le «Camicie Verdi» predicavano una dottrina politica equivalente al fascismo e guardavano con desiderio alla concezione romantica del nazismo allora prevalente. Tutto questo è molto lontano da:
Nel dolce mese di maggio,
un mattino sul far del giorno,
camminavo lungo il bosco,
quando maggio era danzante.
Là spiavo, tutto solo,
Fillida e Coridone.
(Nicholas Breton 1545-1626)

I versi pastorali di Breton erano scevri dai toni sommessi del cupo nordico culto della flora che la poesia naturalistica inglese avrebbe molto più tardi acquisito. Qui siamo ancora in piena tradizione classica, come del resto anche per il Tasso:
O pastori felici,
Che d'un picciol poder lieti e contenti
Avete i cieli amici,
E lungi dalle genti
Non temete di mar ira o di venti...
(Bernardo Tasso 1493-1569)

Tuttavia già in Shakespeare è facile cogliere numerosi esempi per illustrare un'attenzione alla natura assai diversa. Cioè, la natura non è più lo sfondo per un gioco allegorico o per lo svolgersi di un dramma puramente umano. E' ovvio che Shakespeare fa anche uso di queste tecniche classiche. Tuttavia si riscontra questo mutamento. Nei seguenti versi i protagonisti contadini non sono figure che si muovono su uno sfondo naturalistico, ma personaggi le cui occupazioni quotidiane si intrecciano ai fenomeni naturali della stagione.
Quando i ghiacciuoli pendono dal muro,
e Dick il pastore scalda col fiato le mani,
e Tom porta ceppi alla sala,
e il latte entra in casa ghiacciato nel secchio,
quando ti punge il sangue e la via è fangosa,
allora canta notturno il gufo stupefatto,
To-whit!
To-who! - gioiosa nota,
mentre la grassa Gianna lava il tegame.
(William Shakespeare 1564-1616)

Dopo Shakespeare la nota pastorale si sarebbe di nuovo presentata nella poesia inglese, ma non mai con i toni di italianità che aveva nei poeti del XVI sec. Da allora in poi l'uomo veniva coinvolto nei fatti naturali. Molti difatti direbbero che a Shakespeare gli inglesi devono la loro istintiva comunione con la natura attraverso i secoli, con tutti i benefici e malefici ai quali questa comunione avrebbe condotto. Shakespeare ha ereditato una tradizione drammatica di cui il maggior esponente era Marlowe, ma nulla in Marlowe o nei suoi contemporanei può eguagliare la tranquilla, quasi accogliente presenza della natura nel contesto del dramma. La natura di Marlowe è lo sfondo pressoché piranesiano della scena pastorale classica, mentre per Shakespeare è quella della sua foresta di Arden. Ci si può chiedere che influenza avrebbe esercitato sulle opere stesse di Shakespeare e su tutta la letteratura inglese, se egli fosse nato a Cheapside invece che a Stratford-upon-Avon. Tuttavia è ovvio che Shakespeare era anche profondamente figlio di Londra. Gli artigiani nella scena iniziale del «Giulio Cesare» erano tutti londinesi, nessuno escluso. Sarebbe dunque più vicino al vero dire che in Shakespeare troviamo una sintesi della foresta di Arden e di Cheapside, dell'Arcadia e di Bottom. Un perfetto connubio - finché è durato: perché la corrente classicheggiante era troppo forte anche per l'acuto spirito di Shakespeare per essere eliminata dalla descrizione del poeta inglese della sua campagna. Ciò che a Shakespeare non interessava era di spingere lo spirito umano all'inseguimento della felicità attraverso la natura. Ciò che si sarebbe poi chiamato «Spirito di Natura» era estraneo a Shakespeare come ai suoi contemporanei. Come la sua teologia è sempre un po' contraddittoria (così nella scena in cui Amleto medita di uccidere lo zio, poco prima raccolto in preghiera), cosí ci si domanda spesso se Shakespeare avesse profonde convinzioni religiose. Non si sa se avrebbe capito che
Abbiamo l'esigenza di levare al cielo stellato
i nostri fisici occhi e le nostre mani.
Dico
quando e se lo spirito è vivo: non altrimenti.
Perché le cose corporali sono soggette alle spirituali
e sono da esse guidate, non l'opposto.
(The Cloud Of Unknowing - XIV secolo)

Non possiamo dunque essere grati a Shakespeare per una unità tra l'uomo e la natura su di un piano spirituale. Non avrebbe mai esclamato:
Sia gloria a Dio per tutto ciò che è chiazzato - per i cieli bicolori come mucche pezzate;
per le macchie rosate che punteggiano le trote guizzanti;
per la pioggia di tizzoni ardenti di castagne;
per l'ali del fringuello;
paesaggio a mosaico, spezzato - piega, maggese e terra arata;
e ogni mestiere, con i suoi ingranaggi, attrezzi, simmetrie.
(Gerard Manley Hopkins 1844-1889)

Quella voce non si sarebbe fatta sentire prima di due secoli. Nel frattempo dovevano affermarsi molti grandi poeti che avrebbero usato la natura nelle loro opere con una spiritualità sconosciuta all'epoca elisabettiana. Allora l'attenzione dell'inglese era o rivolta all'esplorazione degli oceani e alle guerre esterne, oppure centrata sul proprio ambiente circoscritto. Il suo interesse per lo scenario naturale della propria terra era egoistico e non ancora, come sarebbe diventato poi, intensamente (spesso morbosamente) egoistico. Prima di Wordsworth, Shelley e Keats non troviamo quell'identificazione dell'uomo con la natura che si potrebbe chiamare il moderno culto della natura. Fra Shakespeare e Wordsworth molto era mutato della struttura sociale dell'Inghilterra. Ed è quando gli uomini sono in fermento che, mancando lotte extra-nazionali, essi tendono a sviluppare il proprio spirito critico nei riguardi del proprio ambiente. Con lo spirito critico nasce quell'atteggiamento particolare di odio-amore verso la struttura rurale o urbana in cui l'uomo vive. E da questo atteggiamento scaturisce o un'esigenza negativa di evasione, o una ricerca positiva delle verità riguardanti la vita dell'uomo. Come ha intuito Wordsworth:
Tale, nella tenera illusione del mio cuore,
tale quadro avrei dipinto allora;
E visto l'anima del vero in ogni parte,
una risoluta pace da non tradire mai.
(W. Wordsworth 1770-1850)

Le poesie di Shelley e di Keats propongono un'ancor più intima liaison fra la natura e lo spirito umano. In Keats troviamo il più alto esempio di questo legame, cioè del romanticismo. Hopkins riconobbe in più d'una occasione il suo debito verso Keats. Molti poi riconoscono in Hopkins il più grande poeta inglese della natura. Né era per nulla estranea al temperamento di Hopkins la sensualità della poetica di Keats:
Stagione di brume e di succosa fertilità!
Vicino, intimo amico del sole che matura;
cospirando con lui come colmare e benedire
di frutti la vite che cinge il cornicione;
inarcare di mele gli alberi muscosi,
e riempire ogni frutto di perfetta dolcezza, fino al cuore.
(John Keats 1795-1821)

Questa nota di sensuale malinconia doveva continuare nella poesia e nella prosa inglese fino a tempi relativamente moderni, come pure la concezione del ruolo fatalistico della natura nella vita umana. Va sottolineato che non solo Hopkins fu probabilmente il più grande poeta inglese della natura, ma che fu certemente l'unico grande poeta cristiano della natura. In epoca vittoriana si tendeva a presentare la natura con un forte sapore preraffaellitico, come ne «La Principessa» di Tennyson:
Dorme ora il petalo rosso, ora il bianco;
né ondeggia il cipresso nel viale del palazzo;
né guizza la pinna d'oro nel fonte di porfido;
si desta la lucciola: destati tu con me.
Ora s'abbatte come fantasma il bianco pavone,
e come fantasma su di me traluce.

Nella prosa di W.H. Hudson (1841-1922) si possono trovare alcune tra le più lucide e commoventi descrizioni della natura di tutta la letteratura inglese: "Non c'è dunque via di scampo da questa insopportabile tristezza - dal pensiero di primavere trascorse, la pienezza di una vita che è passata? La nostra creatrice e madre deride i nostri sforzi - i nostri rifugi filosofici, e li trascina via in un'onda di emozione. Eppure esiste liberazione, l'antica via di scampo che è nostra, che lo vogliamo o no. La natura stessa nei suoi tempi buoni cura la ferita che ha aperto". Se solo questa purezza pure con il suo substrato pagano, si fosse conservata! Invece fu proprio l'eredità vittoriana dell'affettazione poetica, dell'ipocrisia religiosa e della degradazione sociale, a condurre agli eccessi sensuali di Aubrey Beardsley e di Oscar Wilde:
"Cantò dapprima il nascere dell'amore nel cuore di un ragazzo e di una ragazza. E sull'estremo ramo del rosaio sbocciò una meravigliosa rosa, petalo dopo petalo, come a canto seguiva canto. Pallida era, dapprima, come la bruma sospesa pallida come i piedi del mattino, e argentata come l'ali dell'aurora. Come il riflesso di una rosa in uno specchio d'argento, come il riflesso di una rosa in una pozza, tale era la rosa che sbocciò sull'estremo ramo del rosaio". (Oscar Wilde 1854-1900). Anche dopo le numerose riforme attuate durante l' ultimo periodo del regno della regina Vittoria (grazie soprattutto a Lord Shakesbury, Dickens Kingsley e altri come loro), le condizioni sociali in Inghilterra allo scoppio della prima guerra mondiale erano tutt'altro che buone. Questo portò non solo a un notevole fermento tra la popolazione in genere e alla proposta di ulteriori riforme, ma anche a una generale tendenza a cercare conforto nella natura. C'era inoltre un deciso ritorno alla campagna. Molti ex-combattenti spesero tutti i loro risparmi in piccoli poderi dove conducevano una dura esistenza allevando pochi polli e maiali. Il «Sommo Sacerdote» di questo ritorno alle crude cose della natura fu uno scrittore del secolo scorso, Richard Jefferies, la cui Story Of My Heart godette di una larga e secondo molti meritata popolarità. L'opera di Jefferies ha una freschezza e una relativa assenza di romanticismo tetro che ricorda spesso le pagine migliori di R. L. Stevenson: "Una calura e una luce intense ardevano nell'aria, imprigionate dalla foschia. Sopra il faggio l'azzurro brillava di luce. Scorrendo via, il rimbombo del mare passava come una nota d'organo e la terra e l'aria, l'erba e gli esseri viventi rispondevano; la luce era ancor più luminosa e i colori più caldi; la terra offriva tutta la ricchezza del raccolto..." (Richard Jefferies 1848-1887). Ancora insistente sul ruolo fatalistico della natura, e con una chiara e persuasiva insistenza che la prosa inglese non aveva mai prima conosciuto, era Thomas Hardy (1840-1920): "Il gesto istintivo dell'uomo era di fermarsi ad ascoltare, e imparare come gli alberi a destra e quelli a sinistra gemessero o salmodiassero gli uni agli altri in regolari antifone come il coro di una cattedrale; come siepi ed altre forme sottovento rubassero allora la nota, per abbassarla poi fino al più tenero singhiozzo; e come il frettoloso colpo di vento si immergesse nel sud, a non essere più udito". Il ritorno alla terra del dopoguerra ha i suoi bizzarri profeti. Questi scrittori, noti come gli autori «Back to the Earth», erano guidati da Beatrice Webb. I suoi libri erano enormemente popolari, specialmente tra gli estrosi entusiasti della vita semplice e delle diete vegetariane. Un'altra scrittrice, quasi altrettanto popolare, era Sheila Kaye-Smith: il suo Sussex Gorse riuscì chissà come, a riempire gli animi del desiderio di combattere senza tregua la crudele battaglia dell'uomo contro le forze della natura. Tutto questo era molto lontano da:
Vedi ora ripe e arbusti come folti di foglie!
Di nuovo allacciati dal cerfoglio sinuoso, vedi,
e vento fresco li scuote, edificano uccelli - ma non io:
soltanto mi sforzo, eunuco del tempo,
non un'opera nutro che si desti.

Signore della vita, manda alle mie radici pioggia.
(Gerard Manley Hopkins 1844-1889)

La svolta decisiva, la salvezza venne nel 1932, quando Stella Gibbons, allora poco più che adolescente, pubblicò Cold Comfort Farm, che, forse più che ogni altra opera di tutta la novellistica inglese, demolì tutto ciò che di falso e pretenzioso l'aveva preceduta, e aprì la strada al ritorno a un amore sano della natura quale Shakespeare, Keats e Hopkins, ciascuno a suo modo, avrebbero apprezzato.

 

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