«Calcio come industria» di Gino Palumbo
Il calcio è una fra le più grandi industrie nazionali. Il movimento di denaro provocato ogni anno dagli avvenimenti calcistici in Italia pone il football al ventunesimo posto tra le industrie del nostro Paese: dopo la Fiat, l'Agip, la Esso, l'Alitalia, l'Alfa Romeo, la Snia Viscosa, e prima della Rai TV, della Falck, della Dalmine. Il raffronto non ha alcun significato sul piano strettamente economico, in quanto le industrie sono classificate in base al fatturato, mentre il calcio lo è in base al movimento globale, e soprattutto indiretto, che provoca. Tuttavia aiuta a capire meglio quel fenomeno che si chiama calcio e l'importanza ch'esso ha assunto nell'attuale vita italiana. Alla luce di quel raffronto, appare ancor più inconcepibile e paradossale che le società che danno vita a quel fenomeno, facendo circolare tanto danaro, siano poi tutte largamente e preoccupantemente passive. La «voce» in apparenza più importante è quella del Totocalcio che è il concorso pronostici, gestito dal Coni, su incarico dello Stato, e basato sulle partite domenicali del campionato. L'incasso delle giocate del Totocalcio, detratti il monte premi, le percentuali ai ricevitori e le spese di gestione, viene diviso in parti eguali tra Stato e Coni. Sul movimento di danaro provocato dal calcio lo Stato interviene anche con i diritti erariali sui biglietti d'ingresso: per i soli campionati di serie A e B, esclusi tutti i campionati minori, l'incidenza fiscale degli avvenimenti calcistici è di parecchi miliardi. Esistono tuttavia tanti altri rivoli, attraverso cui il movimento provocato dal calcio conduce danaro nelle casse dello Stato o reca profitto ad enti e privati: le imposte che gravano sul carburante - e il carburante stesso - consumato per consentire ai tifosi di spostarsi da una città all'altra, onde seguire la squadra del cuore, anche da Napoli a Milano o a Torino; i pedaggi pagati all'ingresso delle autostrade; il logorio delle automobili e dei pneumatici per così frequenti e lunghi spostamenti; il costo dei biglietti per i trasporti pubblici nelle città; il costo dei biglietti ferroviari; i voli charters, che vengono sempre più frequentemente organizzati; i pasti e le bibite, che vengono abbondantemente consumati in occasione delle trasferte provocate dagli avvenimenti del football. (Il turismo calcistico rappresenta uno dei fenomeni più interessanti del dopoguerra: per la finale della coppa dei campioni tra Inter e Real Madrid, nel 1964 a Vienna, si calcola che almeno trentamila milanesi raggiunsero la capitale austrica). Alle spese voluttuarie suggerite dai trasferimenti contribuiscono e talvolta si aggiungono anche le spese suggerite dal tifo: i distintivi, le fotografie, i portachiavi, le «figurine» con l'effigie dei calciatori più popolari. Una ditta ne stampa, e ne vende, circa trenta milioni d'esemplari l'anno. La Lega nazionale, che rappresenta il consorzio delle società professionistiche, potrebbe intervenire per chiedere una percentuale su ogni iniziativa industriale o commerciale suggerita dal calcio. Talvolta non lo fa perché molte realizzazioni sfuggono al suo controllo, ed organizzarlo imporrebbe una spesa superiore al gettito che se ne ricaverebbe. Talvolta la Lega impone un pedaggio, ma lo fa sempre in misura molto ridotta, in quanto le iniziative ispirate dal football hanno anche un aspetto positivo, poiché giovano alla propaganda e alla pubblicità di questo sport. Questo è uno dei motivi per cui la Lega non ha mai voluto rompere i rapporti con la Rai TV: contrariamente a quanto spesso si pensa o si dice, le rubriche radiofoniche e televisive dedicate ai campionati giovano al football, creando curiosità e interesse anche in strati dell'opinione pubblica che altrimenti ne sarebbero lontani o indifferenti. La Lega è intransigente su un solo punto: non ammette che siano teletrasmesse partite quando contemporaneamente ne vengono giocate altre. Questo è, in realtà, il solo pericolo concorrenziale della TV nei confronti dello spettacolo calcistico. Proprio in considerazione dei vantaggi che anche il calcio trae dai rapporti con la Rai TV, il canone che l'ente paga alla Lega nazionale non supera il mezzo miliardo, che viene diviso fra tutte le società, mentre il numero delle ore che i programmi radiotelevisivi dedicano al football richiederebbe un pagamento notevolmente più alto. Le teletrasmissioni hanno anche offerto spunti ad iniziative commerciali connesse al calcio: la più singolare è quella degli striscioni e dei cartelli pubblicitari sistemati intorno ai terreni di gioco. C'è una ditta specializzata, che si è organizzata per sistemarli ovunque - in Italia e all'estero - si giochi una partita destinata alla teletrasmissione. E' un'altra «voce» del movimento economico che il calcio provoca. Il pullulare di tante iniziative, e l'importanza che esse hanno assunto non deve però far credere che il movimento di danaro provocato dal football avvenga tutto al di fuori del mondo calcistico: gli incassi delle società professionistiche nella stagione sono dell'ordine della diecina di miliardi. E' una cifra notevole, anche se scaturisce dalla somma d'incassi che sono molto diversi tra una società e l'altra. Esiste tuttavia anche un proporzionale rapporto tra le spese cui sono sottoposte le grandi società e quelle piccole. Non si tratta di cifre di lieve entità, ma ciononostante tutte le società - tranne rarissime eccezioni - presentano ogni anno preoccupanti deficit. I dirigenti del calcio sostengono che la causa del passivo sia da attribuirsi all'incidenza fiscale, ma non esiste attività che resti esente dai gravami del fisco. Di quell'incidenza bisognerebbe comunque tenere conto nello stabilire i criteri amministrativi, così come fa ogni azienda che voglia sfuggire al rischio del fallimento. Le società del calcio, invece, sono state amministrate con molta disinvoltura, e quasi sempre da industriali che nei loro rispettivi campi hanno dato invece esemplari prove d'oculatezza, costruendo talvolta dal niente ingenti fortune. La spiegazione è più psicologica che amministrativa. Chi diventa presidente di una società di calcio lo fa innanzitutto per tifo, e poi per conquistare popolarità: si è sempre pensato, quindi, che spendendo molto si potesse più facilmente vincere ed essere applauditi. Intorno a queste concezioni spesso ingenue si è venuto man mano formando un fenomeno di speculazione: ne hanno approfittato i giocatori e gli allenatori chiedendo compensi sempre più elevati; sono progressivamente cresciuti i prezzi per il passaggio dei giocatori da una società all'altra; si è creata una categoria di specialisti del «mercato», i quali contribuiscono a tenere alti i prezzi anche perché spesso proprio ai prezzi dei giocatori gli ingenui presidenti hanno ancorato le percentuali spettanti ai mediatori. Sicché nel calcio si è determinata una situazione sconcertante: distribuisce ricchezza fuori e dentro dei suoi confini, arricchisce molti di coloro che vi trafficano, ma i suoi bilanci - nonostante l'ininterrotto accrescersi dei prezzi d'ingresso - presentano paurosi deficit. Per molto tempo - mascherata dalla fluida circolazione di un denaro facilmente guadagnato durante la guerra - la crisi non è affiorata: quando un presidente si stancava, ce n'era un altro subito pronto a sostituirlo, assumendosi tutti i debiti contratti dal predecessore, e sicuro di trovar sempre un altro sul quale poi riversarli. Sicché presidenti che son passati alla storia del calcio come mecenati non hanno perduto neanche una lira, e spesso anzi hanno guadagnato molto dal calcio, proprio in virtù della popolarità, delle amicizie, dei nuovi rapporti d'affari che il calcio ha loro consentito. Quando però ci si è resi conto che il «gioco del cerino» - cioè il passaggio ininterrotto dei deficit da un presidente all'altro - stava per esaurirsi (anche perché si stavano esaurendo i presidenti) e che se qualcuno ne fosse rimasto scottato tutto il calcio avrebbe rischiato un crack colossale, uno dei presidenti della federcalcio, Giuseppe Pasquale, con provvedimento ardito e discusso ma improrogabile, ordinò la trasformazione delle società sportive in società per azioni, di modo che le responsabilità anche giuridiche fossero chiaramente delineate e stabilite. Adesso anche per le società di calcio vi sono i controlli della magistratura, l'incubo del fallimento, il rischio della bancarotta.
