«Goethe in Italia» di Emilia Koll


Fin dagli antichi tempi delle grandi migrazioni di razze e di popoli un forte e irresistibile impulso attraeva i nordici verso il Sud, verso le fertili, calde, fiorite terre mediterranee. Ma quello che Goethe cercava in Italia era qualche cosa di più consapevole e di più profondo: egli voleva accostarsi al mondo della classicità, studiare la natura e l'uomo. Quando scese dal Nord era già maturo ed era passato attraverso contrastanti esperienze letterarie e umane (aveva 37 anni); era pronto a ricevere impressioni imperiture. Nella sua casa natale di Francoforte sul Meno la madre, col suo lieto e fantasioso carattere, era solita evocare intorno a lui un mondo arcano di favole e di leggende; era il padre, uomo positivo e grave, che seguiva i suoi studi e gli parlava dell'Italia, dove aveva viaggiato e sulla quale aveva anche pubblicato uno studio in italiano. Per ogni tedesco di buona cultura questo viaggio era un pellegrinaggio doveroso alla terra classica per eccellenza. Alle pareti della casa paterna le acqueforti di paesaggi italiani rendevano già familiare al ragazzo un mondo verso il quale la sua anima avrebbe sempre anelato. Conosci la terra dove fioriscono i limoni? ¦ Tra l'oscuro fogliame ardono gli aranci d'oro, ¦ un dolce vento spira dal cielo azzurro, ¦ il mirto sta modesto, superbo l'alloro. ¦ Laggiù, laggiù vorrei andarmene con te, o mio amato. Questa lirica, dove Mignon, la fanciulla rapita e portata al Nord, canta la sua nostalgia, è diventata il simbolo della Sehnsucht (nostalgia) nordica verso l'Italia. Dopo gli anni universitari di Strasburgo e l'agitato periodo dello Sturm und Drang Goethe è chiamato a Weimar dal giovane duca Carlo Augusto, che voleva radunare intorno a sè gli uomini migliori dell' epoca. Alla corte di Weimar lo scrittore assunse ben presto cariche importanti di governo, ma soprattutto il suo carattere e la sua visione generale delle cose (Weltanschauung) ne furono notevolmente influenzati. L'ambiente più raffinato e in particolare l'amicizia di Carlotta di Stein, la moglie del primo scudiere di corte, trasformarono il giovane acceso e stravagante, che si fece più maturo e più tranquillo. Il suo stile divenne più conciso e realistico, meno declamatorio. Ma l'intensa attività politica, che non gli lasciava tempo per la creazione letteraria, e la relazione senza via di uscita con la signora di Stein l'avevano portato ad una tensione anormale, che sarà appunto risolta dalla sua improvvisa decisione di partenza. Senza avvertire nessuno, quasi di nascosto, egli parte il 3 settembre 1786 per quall'avventura italiana che lo terrà lontano dalla Germania per quasi due anni. Scende in Italia dal Brennero e visita Verona, Vicenza, Venezia, Bologna, si sofferma appena a Firenze, arriva finalmente a Roma dove resterà fino al giugno 1788. Da qui si spingerà poi anche a Napoli e in Sicilia per appagare la sua curiosità di mondi nuovi. Sotto la guida paterna aveva già studiato l'italiano (si esercitava a tradurre anche in sei lingue lo stesso brano) e fu a Rovereto che incominciò a mettere in pratica le sue cognizioni. Qui per la prima volta ha un postiglione italiano e l'oste non parla tedesco: «Come sono lieto che ormai questa prediletta lingua si faccia viva e diventi per me una lingua dell'uso». Il lago di Garda subito lo avvince e versi di Virgilio sull'azzurro Benaco gli ritornano alla mente quando contempla le sponde pittoresche e si attarda a schizzare le rovine dei castelli. Ma la preoccupazione costante del poeta è di penetrare la ragione delle cose che vede e di capire gli uomini che incontra, questo popolo nuovo per lui, di cui vuole studiare l'animo e il volto. Così egli mette in rapporto la conformazione fisica degli uomini e delle donne al di qua delle Alpi col loro modo di vivere, col moto che essi fanno o con la vita sedentaria che conducono, col nutrimento, col carattere. Osserva il colore della loro pelle e lo mette in rapporto al clima. La natura lo affascina, i monumenti parlano al suo cuore di esteta e l'uomo, come popolo e come individuo, pone alla sua mente infiniti problemi. Eccolo nell'arena di Verona a meditare sul perché di queste forme ad anfiteatro, ad immaginare quale impressione le scalinate, ora vuote, possano dare quando sono riempite di folla:.... l'architetto prepara con l'arte un simile cratere, lo fa più semplice che può, e il popolo stesso deve poi servire ad esso di ornamento. E il popolo, quando si è visto così unito insieme, ha dovuto ammirare se stesso». Aggiunge poi una lode ai Veronesi che hanno saputo conservare così bene questo loro monumento. A Vicenza ammira l'opera del Palladio e soprattutto il Teatro Olimpico, ma si lamenta di vedervi accanto un edificio che ne turba la valorizzazione dell'insieme. Sembra di sentire un uomo dei nostri tempi quando dice: «Il tempo moderno si compiace di molte cose che sono contrarie ad ogni buon gusto». Da Vicenza a Padova il poeta impiega quattro ore; vuole che il vetturino faccia la strada comodamente per ammirare il paesaggio: un immenso mare di verde con alberi, boschetti, piante, case bianche, ville, e lontano sull'orizzonte, distinto, il campanile di San Marco di Venezia. La piazza di Padova, chiamata Prato della Valle, un immenso ovale tutto limitato da statue di uomini illustri, lo soddisfa per l'insieme bello e grandioso che offre. Dell'università egli riconosce l'imponenza ma ne lamenta lo spazio ristretto riservato alle lezioni: «Locali così ristretti non ce li possiamo neppure immaginare; benché anche noialtri, da studenti, si sia pur dovuto soffrire parecchio sui banchi delle Accademie tedesche. Specialmente la sala anatomica può servire di modello per insegnar l'arte di accatastare e pigiare studenti; in una sala a forma di imbuto alto e acuto, gli alunni sono agglomerati gli uni sugli altri». Male antico! Negli appunti di viaggio il quadro che egli ci tramanda della Venezia di allora è quanto mai interessante, perché sempre riesce a cogliere e a ridare con immediatezza l'umanità dei personaggi, gli usi, le località. Nei giorni di festa si sofferma ad osservare il popolo, i vari tipi, il modo di vestirsi di tutti i ceti. Fa cantare i gondolieri, va nelle isolette lontane ad osservare e ascoltare i pescatori e i canti delle loro donne. Dall'alto del campanile di San Marco vuole vedere la città nei vari momenti della giornata e sotto le luci più diverse. L'ammira quando la marea sale fino a coprire i gradini delle scalinate e quando si ritira lasciando all'asciutto strane lingue di terra. Si fa condurre al Lido e per la prima volta in vita sua vede il mare aperto. Studia i «murazzi» e cerca di capire e discutere il problema della Laguna e delle maree. Azzarda persino delle ipotesi tecniche nel caso che «il mare cercasse altre vie»; perciò, dice «si deve munire il Lido quanto si può, affinché l'elemento non attacchi arbitrariamente e metta a soqquadro ciò che gli uomini hanno già occupato e a cui già hanno dato forma e direzione secondo determinati scopi». Frequenta i teatri e studia gli artisti e il pubblico; giudica e critica. Ma ha parole di vero entusiasmo per una commedia di cui parla a lungo, Le baruffe chiozzotte. Loda con calore il Goldoni che «dal nulla ha saputo cavare una produzione così divertente. Ma una tal cosa è possibile solamente con un popolo giocondo come questo. La commedia è composta con mano maestra». Il 14 ottobre col battello postale riparte per Ferrara, dove niente lo entusiasma, nemmeno la prigione supposta del Tasso, che invece ispira Byron. A Cento accorda al Guercino un tributo di ammirazione, che ai nostri giorni sembra inspiegabile. Nei due giorni passati a Bologna gusta e loda soprattutto i dipinti di Guido Reni e di Raffaello. Ma l'impazienza di arrivare a Roma diventa sempre più forte. La «capitale del mondo» lo aspetta. Gli Appennini lo trovano distratto e di cattivo umore per le locande scomode, anzi «detestabili». Dedica a Firenze solo tre ore; menziona appena il Duomo, il Battistero e il giardino di Boboli; gli artisti prerinascimentali erano a quei tempi stranamente al di fuori della sua comprensione. La sua inquietudine e la sua impazienza di vedere Roma sono al massimo. Certo l'interesse di Goethe per Roma è ben diverso da quello di un turista colto dei tempi moderni: egli, che aveva superato il periodo gotico e romantico, cercava ora soltanto le vestigia del mondo classico; l'ideale bellezza greca e le opere del tardo rinascimento: non ha occhi che per questo. Il nome del Bernini non compare mai nei suoi ricordi; gli altri grandi del Seicento romano come il Borromini, l'Algardi o il Caravaggio, non sono annotati da nessuna parte. La Roma che papa Sisto V plasmava con ardita magnificenza, tutta l'architettura barocca non fu da lui compresa. Anzi fu guardata con irritazione, poiché contaminava l'«antico» che egli voleva ammirare puro e non deformato. Goethe del resto era venuto in Italia per cercare alimento e conferma alle sue creazioni poetiche, che dopo gli anni di Weimar erano altamente classicheggianti. Portava con sé tragedie da riplasmare e da finire. La sua Ifigenia, già scritta in prosa, ricevette una nuova veste in bei versi. Il poeta alloggiava a Roma presso un pittore amico, Tischbein, che lo ospitò e per un certo periodo gli cedette anche il suo studio. Era una casa di fronte al palazzo Rondanini, all'angolo di via della Fontanella. Goethe scriveva al mattino fino alle nove e poi girava a scoprire le opere d'arte, ad osservare la gente. La cappella Sistina lo riempie di stupore; l'impressione è così forte che, incapace di analizzare i suoi sentimenti, si lascia semplicemente trascinare e immedesimare nel mondo di quei massimi artisti. Ora vive in una felice esaltazione; sopra al suo letto ha posto una colossale testa di Giove ed ogni mattina rivolge a lui le sue preghiere! Giudica i Romani alle volte in modo severo, ma si lascia plasmare dalla nuova atmosfera e vi si trova a suo agio. Canterà più tardi nelle Elegie Romane: «O come lieto mi sento in Roma se penso al tempo nel quale una luce grigiastra mi avvolgeva lassù nel Settentrione. Torbido e ostile il cielo pesava sulla mia testa; il mondo senza colore e senza forma gravava sulla mia stanca persona... Ora la luce di un più puro etere mi splende sulla fronte; Febo, il divino Febo, fa balzare dall'ombra forme e colore...». Passate le follie carnevalesche, decide di partire con l'amico Tischbein per Napoli e la Sicilia (22 febbraio - 6 giugno 1787). A Napoli vediamo il poeta traboccante di felicità: non più preoccupato di visitare monumenti o musei, abbandonato il lavoro letterario, si lascia prendere dalla gioia di vivere perché a Napoli tutto è vivo, tutto respira, anche la montagna fumante. «Nel Nord voler vivere è lavorare e lottare. A Napoli al contrario la vita è un prodotto naturale, essa sovrabbonda da tutte le parti, non è più una pena, è un piacere, e vivere è godere, perché basta lasciarsi vivere». La vegetazione sembra esplodere sotto i suoi occhi, niente parla di morte o di tempi antichi; il viaggiatore dimentica se stesso e le sue pene. Fa diverse escursioni sul Vesuvio; la sua passione per la mineralogia lo spingeva a raccogliere e a portare con sé gran quantità di pietre. La selvaggia bellezza del vulcano gli fa dire: «Questo contrasto del terribile e del bello fanno del napoletano un uomo stretto tra Dio e Satana». L'impazienza di vedere e di godere ancora lo afferra. «Le sirene (lo) attiravano dall'altra parte del mare» ed egli si imbarca il 29 marzo per la Sicilia. Lo accompagna ora un giovane pittore dal modesto talento, Kniep; Goethe, che spesso non era soddisfatto dei propri disegni, lo portò con sé in cambio di schizzi dei luoghi visitati. La traversata fu penosa per il poeta, il mal di mare lo tormentò dal primo giorno. Cercava di distrarsi lavorando alla tragedia Tasso, che nel periodo italiano subì profondi cambiamenti. Quando dopo tre giorni la costa e la città di Palermo si offrirono ai suoi occhi egli fu colpito da quella incomparabile bellezza ed esclamò: «Solo qui si impara a conoscere l'Italia». Il mare, la terra, la vegetazione gli ricordano l'isola beata dei Feaci; corre a comprare l'Odissea e la traduce, così all'improvviso, all'amico Kniep. L'idea di un poema, Nausicaa, gli si presenta allo spirito, se ne occuperà durante tutto il viaggio in Sicilia. Sarà un poema che non porterà mai a termine ma anche negli uitimi rifacimenti vi si sentirà sempre viva un'eco di gioia e di serenità alimentata dal ricordo di quelle splendide terre. Si addentra nell'isola con l'amico, una guida e le cavalcature. Visita Girgenti, Caltanissetta, Catania, spesso affrontando disagi in alloggi di fortuna, primitivi e scomodi. Alle volte è deluso dai miseri resti che ritrova in località antiche immortalate dai classici, ma a Taormina la splendida posizione naturale e il grandioso teatro greco, i fiori, i profumi, la luce, il mare agitato e rumoroso ai suoi piedi lo incantano e lo circondano di una paradisiaca atmosfera omerica. Da Messina, che porta ancora le tracce dello spaventoso terremoto di dieci anni prima, riparte per Napoli. Qui non evita, come aveva fatto a Roma, la bella società, e passa l'ultima sera contemplando dalla terrazza di un palazzo antico il Vesuvio arrossato dalla lava e avvolto da oscuri vapori. Ed ecco il secondo soggiorno di Goethe a Roma. E' questo il periodo italiano che ha portato più frutti alle sua creazione artistica. Se giudichiamo il poeta secondo un'immagine da lui stesso fornita possiamo raffigurarcelo nelle vesti di un architetto che, avendo costruito un edificio, non ne è soddisfatto e vuole rifarlo. Prima rovescia ciò che esiste: è il lavoro di Goethe durante il suo primo soggiorno a Roma. Poi prepara il terreno per le nuove fondamenta. E' quello che avviene a Napoli e in Sicilia da dove il poeta ritorna con lo spirito pacificato. Infine, di nuovo a Roma, innalza i muri con l'idea chiara di quella che sarà la forma generale dell'edificio. Solo a Weimar vi aggiungerà il tetto. Si occupa dunque della sua tragedia Egmont, ancora dell'Ifigenia in Tauride, del Tasso. Nei giardini di villa Borghese compone, del Faust, la scena che si svolge nella cucina delle streghe. Conduce una vita libera e facile, circondandosi di artisti. Assiste da curioso spettatore alle magnifiche cerimonie papali e le ammira, specie quelle nella cappella Sistina; descrive nelle sue lettere agli amici di Weimar l'illuminazione della cupola di San Pietro, le sue escursioni a Frascati e nella campagna romana, di cui comincia a capire il fascino; ne disegna il paesaggio nudo ed immenso, i selvaggi guardiani di cavalli e di buoi ai piedi degli acquedotti e delle rovine antiche. Queste esercitazioni grafiche e plastiche contribuiranno a rendere più viva la sua poesia: ora ha imparato a vedere e a far vedere. Approfitta della lontananza per chiedere al duca Carlo Augusto di dispensarlo dalle cariche ufficiali alla corte di Weimar. Ormai ha riconquistato la sua piena indipendenza di uomo e di artista, e vuole che gli si permetta di vivere come tale anche al suo ritorno. Ed è al ritorno che purtroppo si prepara. Con animo profondamente triste percorre per l'ultima volta la Via Sacra, in mezzo agli archi di trionfo e ai templi in rovina saluta il Colosseo maestoso e scuro, ogni tanto sfiorato dal raggio di una luna seminascosta. Il 22 aprile 1788 lascia la cittcittà. Il viaggio di ritorno è lento, egli sembra esitare a lasciare un suolo così ospitale. A Firenze questa volta si ferma quasì un mese, ne visita musei e monumenti. Pensa al Tasso nel giardino di Boboli. A Milano resta a lungo ammirato davanti alla Cena di Leonardo da Vinci, il suo pittore preferito insieme a Michelangelo. Il 29 maggio è a Riva del Garda, il 30 passa lo Spluga; il suo viaggio è finito. Arriva a Weimar il 22 giugno, dopo 22 mesi. Il poeta era trasformato. La sua nostalgia era appagata; gioiva dei tesori spirituali acquistati; anche il suo desiderio d'amore aveva trovato appagamento in Christiana Vulpius, bella, serena, semplice e devota. L'arte di Goethe spazia ormai oltre i limitati orizzonti, non rispecchia più solo l'animo tedesco, ma, come il Faust della seconda parte, abbraccia simboli e destini dell'intera umanità.

 

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