«Etnocentrismo e relativismo» di Vinigi L. Grottanelli


«Etnocentrismo» è termine di nuovo conio, non registrato neppure da certuni fra i migliori e più moderni dizionari della lingua italiana, che designa un fenomeno vecchio quanto l'umanità: l'abitudine di valutare le fedi, istituzioni e usanze di altri popoli alla sola stregua della mentalità e della morale nostrane, con la implicita e indiscussa convinzione che giudizi del genere siano i soli retti e legittimi. Portiamo subito un esempio elementare. Fra i Bantu del Congo (e moltissimi altri gruppi etnici attraverso il mondo) un uomo ha, o può avere, due o più mogli alla volta (poliginia); fra i Tibetani, una donna ha, o può avere, simultaneamente due o più mariti legittimi (poliandria); fra noi, non è possibile avere più d'una moglie o d'un marito alla volta (monogamia). L'europeo medio non esita a dichiarare che l'usanza nostra è la sola degna di gente civile, la sola «morale», o addirittura - aggiungono alcuni - la sola conforme alla retta natura umana; le altre sono segno di pravità, di arretratezza, o quanto meno d'ignoranza, «stranezze» che ci colpiscono per le loro implicazioni a volte comiche, a volte scandalose. Il fatto inoppugnabile che gli altri sistemi matrimoniali funzionano in realtà altrettanto bene quanto il nostro è accolto con incredulità. Erodoto, il quale attribuiva a pazzia di Cambise l'essersi questo sovrano «ridotto a beffeggiare i riti e i costumi degli altri popoli» (III, 38), rammenta per contrasto la saggezza del figlio di lui Dario I: il quale dopo la sua assunzione al trono, convocato un concilio di Greci, domandò loro a qual prezzo si sarebbero indotti a mangiare i loro genitori estinti, ed essi risposero che non lo avrebbero fatto per nessun prezzo. Quindi fattosi venire innanzi alcuni Indiani Collati, che mangiano i genitori, domandò loro in presenza dei Greci per qual prezzo essi avrebbero accettato di bruciare i loro genitori dopo morti; ed essi a gran voce lo pregarono di tacere. Così dunque, commenta Erodoto, sono le tradizioni ataviche, e mi pare che Pindaro egregiamente sentenziasse, cantando che `la tradizione è madre di tutte le cose'. Si intuisce, anche se Erodoto non lo dice in parole esplicite, che il grande Achemenide intendeva proporre all'intelligenza dei Greci un problema, assai più vitale dell'enigma proposto dalla Sfinge a Edipo, che egli stesso si era prospettato, come capo di un impero immenso nei limiti del quale vigevano leggi e costumi contrastanti; e non a caso lo storico di Alicarnasso omette di riferire se gli interpellati avessero formulato qualche riflessione conclusiva in proposito, e quale: poiché di fatto il problema accennato - quello, appunto, dell'etnocentrismo - con tutti i suoi impellenti addentellati di natura filosofica, giuridica e politica, non ha trovato spiegazione soddisfacente fino a oggi, a ventiquattro secoli dalla morte di Erodoto. Fondamento inconfessato (a volte inavvertito) ma evidente nell'etnocentrismo è il postulato della superiorità intrinseca della nazione cui si appartiene: convinzione che assume due varianti distinte sebbene collegate, secondo che tale superiorità si fondi sulle caratteristiche razziali della nazione stessa (o della maggioranza etnica in essa presente) oppure sul tipo e livello della sua cultura. La prima variante si basa sull'assunto che esistano correlazioni stabili fra certi aspetti somatici, propri di singole razze, e le innate attitudini e capacità di esse, in primo luogo intelligenza e carattere. Confortata da un'opportuna impalcatura di dati 'scientifici' o presunti tali, e spinta alle sue conseguenze esasperate, questa tesi sfocia nel razzismo; ma essa è accettata come vera e naturale in molti paesi da gran numero di pacifici cittadini che respingerebbero con sincera indignazione la taccia di razzisti. La seconda variante è la più significativa, e anche la più diffusa, perché come si è detto sussiste anche nei numerosi casi in cui considerazioni razziali non entrano affatto in gioco. Suo fondamento è quel processo che in etnologia è detto acculturazione, mediante il quale ciascun membro di un dato gruppo etnico, popolo o tribù, apprende o per meglio dire assorbe dal suo ambiente sociale l'insieme dei princìpi, delle credenze, delle tecniche e norme di comportamento che dovranno guidare la sua vita. Usi e norme rispondono evidentemente alle aspettative e agli ideali dominanti in quella data società, ossia al suo sistema di valori etici, economici, politici e così via; di modo che già a partire dall'infanzia la coscienza e la personalità dell'individuo vengono plasmate e indirizzate nel rispetto di quei valori e in vista della loro affermazione. L'efficacia, l'intrinseca bontà e giustizia di ogni singolo sistema di valori sono date per scontate, e non si concepisce che possano venir poste in discussione: solo in tal modo l'individuo ha attraverso la vita una guida sicura al suo comportamento, in quanto per lui come per i suoi connazionali quei valori sono degli assoluti. Nella stragrande maggioranza dei casi - e ciò vale in specie per le società illetterate o 'arretrate' studiate dall'etnologia, e per i secoli passati più che per quello attuale - l'individuo è sorretto dalla nascita alla morte da una simile certezza. Questo è senza dubbio l'aspetto positivo del suo inconsapevole etnocentrismo. La situazione si capovolge quando dalla sfera endoculturale si passa a quella interculturale. La sorpresa, lo sgomento, lo sdegno di viaggiatori, missionari, pionieri, amministratori coloniali, di fronte a usi esotici che a loro apparivano incomprensibili, barbari, o addirittura immorali, sono arcinoti e in certo senso comprensibili. La posizione scientifica nei riguardi del problema ha subìto nell'ultimo secolo variazioni profonde. L'evoluzionismo, dominante negli ultimi decenni dell'Ottocento, aveva fra i suoi dogmi quello non della perfettibilità dell'uomo, ma della sua predestinazione al progresso biologico, intellettuale e morale, attraverso una serie di tappe che la legge evolutiva lo spingeva a percorrere. Tali tappe seguivano una linea ascendente, ed erano dunque classificabili dalle più basse alle più elevate secondo una gerarchia naturale. Di conseguenza all'uomo bianco, progredito e 'civile', spettava come diritto e dovere d'indirizzare i popoli 'primitivi' ad elevarsi progressivamente salendo i gradini della scala delle civiltà che egli stesso aveva superato in precedenza. Ma nel frattempo non potevano esserci dubbi su chi stesse in alto e chi in basso; poiché la posizione degli Europei era di superiorità, i giudizi che essi davano sulle culture altrui avevano validità obiettiva. L'abbandono delle teorie evoluzionistiche nel primo quarto del nostro secolo, lo sfaldamento della fiducia nell'inarrestabile progresso dopo la profonda scossa della prima guerra mondiale, l'affinamento del pensiero etnologico, la crisi del colonialismo e con esso della mentalità paternalistica che lo giustificava, furono fra le cause che portarono a una revisione critica dell'etnocentrismo e alla formulazione di un diverso criterio di valutazione, noto come relativismo culturale. Alla base di questo sta il principio secondo cui qualsiasi elemento culturale può essere inteso e giudicato soltanto nel quadro del sistema di valori della società cui l'elemento appartiene. Si nega con ciò la legittimità di giudizi di valore interculturali: l'efficacia della cerbottana nella caccia, la giustizia dell'ordalia del veleno per rivelare la colpevolezze d'un imputato, la verità della credenza nella metempsicosi in una religione pagana, non possono essere valutate in astratto, avulse dal contesto culturale e sociale in cui si sono affermate, ma solo entro quel contesto, e alla stregua dei parametri accettati e riconosciuti in quella data società. In concreto, il relativismo culturale si presenta come reazione al complesso di superiorità che fino a ieri permetteva ai bianchi (e non solo ad essi: ancor più intransigenti etnocentristi erano e sono tuttora i Cinesi) di ergersi a giudici dei popoli stranieri, specie di colore, spesso con tanto maggiore severità e sufficienza quanto più superficiale era la conoscenza che ne avevano: reazione dunque per un certo aspetto salutare. Ma spinto alle sue estreme conseguenze, come anche i suoi assertori hanno tosto compreso e ammesso, quel relativismo conduce a conclusioni gravi per il verso opposto, specie nella sfera morale. Se decretiamo l'illegittimità di qualsiasi giudizio interculturale di valore, ci precludiamo ogni condanna di usi quali i sacrifici umani, l'infanticidio, l'antropofagia, dovunque essi siano praticati per accettata consuetudine tribale; li dovremo anzi spiegare e giustificare, perché in seno alle rispettive tradizioni anche quegli usi hanno una loro funzione sociale e una loro logica. In mancanza di un metro universale di valutazione, e tanto meno di criteri assoluti, la morale diventa solo questione di latitudine, i concetti di bene e di male vacillano a ogni confine tribale. Quasi insolubile sul piano astrattamente speculativo, quest'aporia ha sollevato fra gli studiosi controversie vivaci. Ma insolubile essa non è sotto il profilo storico-etnologico: poiché quei medesimi giudizi interculturali, dai quali per scrupolo di obiettività lo studioso a tavolino vorrebbe astenersi, sono di fatto stati (e continuano a essere) pronunciati dai popoli oggetto di studio, come ci dimostra l'analisi della dinamica culturale. Solo un superficiale sguardo sincronico giustifica la concezione delle singole culture come circoli chiusi e incomunicabili; in realtà ogni cultura si è formata, ed ha assunto la fisionomia che ha oggi, anche o soprattutto sulla base della valutazione positiva o negativa di altre culture. Questo millenario processo dimostra che un certo comparativismo, lungi dall'essere arbitraria interpolazione degli etnologi, è autentica sostanza di storia. Le polemiche dottrinarie intorno a etnocentrismo e relativismo hanno lasciato comprendere che ciascuno dei due indirizzi può condurre a posizioni paradossali. Ma affermare che ogni valutazione interculturale richiede presupposti di profondo studio, comprensione umana, ponderatezza e prudenza nelle conclusioni, non equivale a precludersi in partenza ogni possibilità di comparazione e di giudizio: accettare un siffatto agnosticismo sarebbe, da parte dello studioso e della società 'civile' in genere, come la rinunzia a valersi di quei criteri di fattivo buon senso che noi riconosciamo alla umanità incolta e illetterata dalla preistoria ad oggi.

 

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