«Terapia occupazionale o Ergoterapia» di Giuseppe De Luca
La psicologia applicata al mondo del lavoro è oggi in forte espansione e tende a permeare di sé tutti i campi dell'attività lavorativa, da quello politico a quello socio-economico a quello assistenziale, che del mondo del lavoro costituisce in certo senso l'aspetto patologico. Come in tutte le fasi di sviluppo di qualsiasi altra disciplina scientifica, si sperimentano tecniche e metodi di lavoro nuovi nei settori più disparati, con modalità di applicazione spesso originali, non sempre corrispondenti ai principi dell'ortodossia scientifica. Uno dei settori cui, in Italia, la psicologia applicata si dedica con maggiore frequenza ed interesse è quello dei subnormali in generale e degli ammalati di mente in particolare. I problemi che queste categorie di persone presentano non sono soltanto terapeutici, cioè non concernono solo la scelta della terapia più efficace, sia essa di tipo farmacologico, organico o psicoterapico, ma quasi sempre mirano alla loro recuperabilità sociale e al loro reinserimento professionale, elementi che spesso decidono della validità o meno degli stessi interventi terapeutici. In una indagine pilota svolta su un campione composta da 254 individui ricoverati in un ospedale psichiatrico milanese, per mettere a fuoco un programma di intervento di tipo occupazionale a breve, medio e lungo termine sia all'interno dell'ospedale, sia all'esterno, si riscontrava che gli individui maggiormente aggrediti dalla malattia mentale erano coloro i quali o non avevano dei ruoli professionali stabili, oppure, quando li avevano, erano molto generici e poco differenziati, ciò oltre, naturalmente, ad altri fattori predisponenti di ordine socio-familiare e individuale. Le 259 persone che costituivano il campione di studio erano divise per attività professionali: 69 erano casalinghe, 36 manovali, 53 operai generici, 28 operai qualificati, 39 impiegati, 16 artigiani, 13 svolgevano un lavoro indipendente e 5 si trovavano in condizioni non professionali. A parte il basso livello socio-economico che emerge con evidenza e che può essere giustificato col fatto che le persone erano ricoverate in un ospedale pubblico e non in una clinica privata, i problemi che l'équipe di ricercatori si trovò ad affrontare furono di due ordini: il primo consisteva nell'accertamento delle attitudini professionali di ciascun ricoverato; il secondo nel trovare loro una occupazione, durante il periodo della degenza, che tenesse conto non solo delle capacità lavorative del singolo paziente ma anche del tipo di disturbo che lo aveva portato al ricovero (dall'indagine risultava che la maggior parte delle persone del campione soffriva di psicosi schizofreniche e maniaco depressive, di psicosi organiche e di etilismo, mentre minore era il numero dei nevrotici e degli psicopatici). Le attitudini venivano accertate mediante un esame psicologico centrato da una parte sull'analisi delle componenti della personalità e dall'altra su una prova di orientamento professionale che permetteva di mettere a fuoco gii interessi e le aspirazioni lavorative. In molti casi si scopriva che uno dei disturbi che avevano fatto esplodere la malattia era dovuto alla trasformazione tecnologica delle strutture aziendali in cui l'individuo era inserito, che non era stata seguita da un'adeguata opera di addestramento e riqualificazione professionale. Questo si notava soprattutto in alcuni giovani al loro primo impiego, oppure in alcuni anziani già ben adattati ad un certo tipo di organizzazione del lavoro e che pertanto non tolleravano nessun cambiamento. Dai risultati appariva che i giovani si configuravano il mondo del lavoro come una fonte di autonomia e di indipendenza dalla famiglia, una modalità per entrare nel processo concreto delle cose e trarne soddisfazione e gratificazione, e quindi si accostavano ad esso con entusiasmo e slancio, per rimanere poi delusi dalla scoperta di un mondo in cui prevaleva l'aspetto esclusivamente operativo, che richiedeva un'alta qualifica professionale e spiccate attitudini lavorative; nei giovani, proprio in quanto la loro personalità non era ancora matura e in quanto ricercavano attraverso il lavoro la possibilità di instaurare dei rapporti interpersonali, erano frequenti disturbi del carattere e del comportamento che in genere sono sintomi premonitori di disturbi ancor più gravi in età avanzata ed hanno una nociva ripercussione sulla stabilità e omogeneità della struttura familiare. Per gli anziani, invece, risultava che il problema era ancora più grave, in quanto essi si erano profondamente identificati con l'immagine dell'Azienda, vissuta come una seconda famiglia, un mondo personale intimo da difendere dalle minacce derivanti dall'invasione delle macchine. Questo loro mondo veniva messo in crisi dall'automazione e le conseguenze per loro erano tragiche: difficoltà ad accedere ai corsi di riqualificazione a causa dell'età avanzata, quindi de-qualificazione, mancato inserimento aziendale, utilizzazione marginale, isolamento; tutti questi fattori erano alla base di depressioni psichiche che li portavano ad atteggiamenti auto ed etero-aggressivi, o nel migliore dei casi al pre-pensionamento, con tutti i pericoli connessi: alto indice di mortalità, psicosi, nevrosi, arteriosclerosi da pensionamento. Per altre categorie professionali, invece, come le casalinghe, si notava che molti disturbi erano determinati dalle difficoltà che esse incontravano nel trovare un lavoro, data la loro scarsa qualifica professionale, allorché vi erano spinte da un forte bisogno economico o da un'urgenza psicologica di rendersi autonome e indipendenti. Il problema dell'occupazione intra ed extra-ospedaliera era affrontato invece secondo due direttive: la prima prevedeva l'analisi dei posti di lavoro esistenti in ospedale e il suggerimento ai medici ed alle assistenti sociali della mansione più idonea alle capacità, al carattere, alla personalità generale dell'ammalato. Questo permetteva di impostare dei programmi di qualifica professionale e di occupazione tali da non interrompere negativamente e disastrosamente i legami con il mondo del lavoro esterno, e di stabilire una specie di continuità lavorativa che, nel caso degli ammalati di mente, può essere alla base della loro guarigione; tale lavoro di collocamento professionale era facilitato nelle persone con disturbi leggeri del carattere o del comportamento, mentre diveniva difficile negli ammalati con gravi disturbi della personalità, come gli psicotici, in quanto una volta accertata la loro attitudine professionale e la loro preferenza socio-ambientale non esistevano in ospedale gli strumenti idonei ad una efficace terapia occupazionale. La seconda direttiva consisteva nella elaborazione di una diagnosi socio-professionale al momento della dimissione dall'ospedale, con l'indicazione del tipo di lavoro e di ambiente sociale più idonei a restringere il margine di ricaduta nella malattia (il tasso di recidività tra gli ammalati di mente è molto alto: nel campione cui queste considerazioni si riferiscono era superiore al 50%). La diagnosi socio-professionale era molto utile a livello profilattico, in quanto consentiva alla persona che seguiva l'ammalato all'esterno dell'ospedale di avere dei dati precisi di riferimento, frutto del lavoro di gruppo, su cui basarsi per continuare la propria opera sia a livello di ricerca del primo impiego, sia a livello di cambiamento di ruolo, fornendole dati sicuri con cui motivare la richiesta di uno spostamento del soggetto da un settore lavorativo ad un altro.
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