«Ellington fuori dal mito» di Franco Fayenz


Dopo il polverone celebrativo che aveva fatto seguito alla morte di Duke Ellington (Washington 1899 - New York 1974) si sta lentamente affermando la speranza che, oltre alla sua discussa autobiografia Music is my mistress e a qualche temeraria agiografia scritta mentre il compositore era ancora in vita, si profili all'orizzonte una seria opera storica. Ce n'è davvero bisogno. Che Ellington sia un grande del jazz come autore e come pianista - un po' meno come direttore d'orchestra - è fuori discussione: ma certi tratti dell'artista hanno prodotto negli appassionati (uso non a caso questo vocabolo frusto e antipatico perché indica una mentalità superata e perché lo stesso critico tradizionale è soltanto un appassionato che ha sentito il bisogno di scrivere e di approfondire) certi innamoramenti così sperticati da portare fuori strada. Vien da pensare che il fenomeno abbia le sue lontane radici, per quanto riguarda l'osservatore europeo e più oltre bianco, o comunque borghese, nell'ordine vagamente europeizzante, appunto, che Ellington ha portato fin dagli esordi nella musica ribollente di New Orleans e dintorni, da cui il vecchio neofita si sentiva a un tempo attratto e respinto. E' a questo che alludono di solito gli scrittori che parlano di «compromesso ellingtoniano». E va ricordato che un critico rispettabile come Iain Lang, difensore rigoroso del jazz come musica circoscritta a un lessico e a un ambiente ben definiti, escluse Ellington da questo concetto, cioè dal jazz. Fra gli argomenti prodotti da coloro che nel 1974 tirarono per la manica gli estensori di altissimi elogi funebri, ce n'è uno che va riveduto perché è troppo severo. Non è corretto affermare che dopo il 1950 il maestro, consapevole di essere un uomo-spettacolo di richiamo mondiale, cessò di creare con impegno. Di sicuro, in prevalenza Ellington si limitò a ripetere, o tutt'al più ad arricchire (nel senso ornamentale del termine) i suoi temi più fortunati. Ma ogni tanto c'è l'unghiata di gran classe, come negli stupendi brani registrati in trio con Charlie Mingus e Max Roach (1962), nella Far East suite (1966), nei tre concerti di musica sacra e in alcune deliziose miniature musicali disseminate qua e là. Nondimeno rimangono confermate la flessione della sua più genuina disposizione compositiva dopo la metà del secolo, l'appartenenza del suo inconfondibile linguaggio al jazz tradizionale e classico, con qualche incursione nel moderno, e la collocazione del suo periodo d'oro negli anni Quaranta. E' in questo decennio che Ellington, forte della collaborazione di musicisti eccellenti, licenzia un'opera valida dopo l'altra e propone quello che rimane il suo capolavoro, la suite Black, brown and beige (1943). Questo punto, oggi dedotto in discussione, va difeso perché in nessuna suite antecedente e posteriore egli ha mai conseguito una creatività così continua e limpida, priva di abbellimenti inutili, e inoltre l'opera è perfettamente centrata dal punto di vista storico. Conviene spiegarsi meglio. Negli anni della seconda guerra mondiale, in cui la suite viene elaborata, il jazz si trova in una grossa crisi di crescenza. I musicisti più coscienti cercano con sofferta tenacia uno sbocco vitale, mentre la musica europea tende a rinchiudersi sempre più in se stessa, in un ascetismo da laboratorio estraneo alla realtà. In questa cornice Ellington inserisce una composizione - oltretutto di notevole ortodossia jazzistica - con la quale utilizza tutta la sua esperienza musicale trascorsa, la porta a un livello più alto conferendole un'imprevista vastità di respiro e indica al jazz e a se stesso nuove strade da percorrere. Se poi si parla di musica senza aggettivi, egli insegna come sia possibile proporre una creazione profondamente originale, moderna pur nel suo assetto rigorosamente tonale, che abbia comunque un carattere nazional-popolare e una rara immediatezza espressiva. Quanto alla giustezza storica, si vuol dire che Black, brown and beige, proprio perché è una saga dei neri d'America, è a suo modo una protesta redatta in termini sommessi e discreti (e infatti l'opera ha toni controllati, accorati o arcadici, quasi mai drammatici). Ma in quegli anni era difficile fare di più, e proprio questa era l'impostazione più adatta a essere raccolta e capita. La grande e legittima ira dei neri era ancora da venire o non aveva ancora trovato forme adeguate in cui esprimersi. Esistevano soltanto sacche isolate di protesta organizzata, gruppi semicoscienti (fra i quali i musicisti-carbonari che stavano costruendo a tentoni il jazz moderno) e anticipazioni da parte di scrittori e d'intellettuali. Proprio per ciò è difficile comprendere perché certuni si arrabbino quando si dice che Ellington, sul fronte della lotta della minoranza di colore per il proprio riscatto, non è mai stato un rivoluzionario. Questa è semplicemente la verità, non un tentativo di mancargli di rispetto. Si comprende meglio, invece, che i suoi atteggiamenti integrazionisti abbiano infastidito i musicisti politicamente più accesi, e così pure le fotografie del maestro accanto a Richard Nixon e a varie teste coronate ostentate nella sua autobiografia. Archie Shepp, ammiratore profondo del musicista ma un po' meno dell'uomo, reagì con un'interpretazione-distorsione di alcuni celebri temi ellingtoniani mista di rabbia e di amore. La posizione ideologica di Ellington si spiega con la sua data di nascita e con il clima del primo quarto del Novecento americano in cui era cresciuto e maturato. La prima indiscrezione in materia che lo riguarda da vicino risale al 1930. Durante una tournée nel sud degli Stati Uniti dove la segregazione razziale è più accentuata, la sua orchestra, composta tutta di musicisti neri, si vide sbarrare le porte di numerosi alberghi riservati ai bianchi. Il leader era già abbastanza celebre per poter fare un gran chiasso attorno a questo episodio e giovare quindi alla causa della sua gente. Invece risolse il dilemma noleggiando da una compagnia ferroviaria due carrozze-letto dove l'orchestra poté viaggiare e pernottare senza ulteriori problemi. Il suo interesse per le minoranze etniche americane si è sempre espresso in una generica esortazione all'amore, alla fratellanza e alla reciproca comprensione, analoga a quella del poeta Langston Hughes che scriveva «anch'io sono l'America/io sono il fratello più scuro». Quando, dopo la fine della seconda guerra mondiale, cominciarono a delinearsi fra i neri americani tendenze assai più radicali, anticipatrici dei roventi proclami di Malcolm X («Io non mi sento americano: io vi parlo da vittima del sistema americano»), Ellington non abbandonò la strada antica e sostanzialmente rifiutò la protesta vibrata del jazz moderno e ancor più la violenza del jazz contemporaneo. La sera in cui fu dato l'annuncio dell'assassinio di Martin Luther King, il maestro era impegnato in un concerto: volle che lo spettacolo fosse sospeso e invitò semplicemente il pubblico a pregare. Altre cose sono motivate dalla sua estrazione piccolo-borghese. Ellington veniva da Washington, da una famiglia che godeva di un certo benessere. Non conobbe nulla di New Orleans e della forzata sregolatezza proletaria dei padri del jazz; fu chiamato «Duke» per un'accentuata alterigia nel tratto; ebbe precettori, studiò al conservatorio. Quando si trasferì a New York nel 1922, imparò a suonare per divertire i bianchi facendo da colonna sonora a delle grottesche azioni teatrali ambientate in una giungla di cartapesta - donde il nome (jungle) della sua prima maniera - e ciò malgrado rriuscì a fare dell'ottima musica. Tenne molto a far sapere di amare la musica classica, pur rivelando, con la citazione delle sue preferenze (Delius, Respighi, Rachmaninoff per quanto concerne il pianoforte) di aver subito influssi eterogenei, casuali e in parte discutibili. Tutto ciò giustifica l'affermazione per cui il compositore si accostò al jazz dall'esterno, dandone un'interpretazione propria della quale è parte integrante, come si è detto, il tentativo di conferirgli una rispettabilità vagamente europeizzante. Per questo ebbe simpatia per le suites e per le architetture musicali complesse, e tanti critici (ed egli stesso) hanno dissertato di una «via ellingtoniana» al jazz. Per la stessa ragione, paradossalmente, si può scrivere una storia della musica afro-americana senza parlare di lui, e il suo stile atipico è un esemplare unico che non ha avuto imitatori rilevanti e quasi di certo non avrà epigoni. Solo un autentico, eccezionale talento gli ha impedito (non sempre) di cadere nel collage inespressivo e nel concertismo da salotto, come ad altri invece è successo.

 

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