«Evoluzione del calcio» di Gino Palumbo
Il 13 maggio 1929 un orafo francese, Abel La Fleure, ebbe l'incarico di realizzare un trofeo in oro massiccio, destinato a simboleggiare una fra le più popolari competizioni sportive: i campionati mondiali di calcio. Il trofeo rappresenta una Vittoria alata, con le braccia levate sulle quali poggia un globo. La statuetta è alta 30 centimetri. La base è di marmo. Il peso è di circa quattro chili. Il valore, anche venale, notevole. Alla vigilia dei campionati del mondo del 1966, mentre era esposto a Londra, il trofeo improvvisamente scomparve, rubato: fu rinvenuto qualche giorno più tardi, per merito di un cane, Pikles, che scavando con le zampe lo fece riemergere dalle zolle di un giardino, ove il ladro lo aveva nascosto. Il cane fu trattato come un eroe dagli Inglesi, mortificati per il furto: partecipò da ospite d'onore al banchetto conclusivo dei campionati. Al di là del suo valore intrinseco la «coppa del mondo» - come il trofeo viene chiamato - ha ormai un ruolo ed un significato importanti nell'ambiente calcistico; essa simboleggia il cammino compiuto dal football, ne ricorda l'evoluzione, le difficoltà, le soste, i successi. I suoi viaggi ininterrotti da un continente all'altro testimoniano della diffusione del football nel mondo. Dal 1930 al 1978 ha varcato cinque volte l'Oceano. Ha percorso migliaia di chilometri. E' stata vinta due volte dall'Uruguay, tre volte dal Brasile, due volte dall'Italia, due volte dalla Germania, una volta dall'Inghilterra. Il regolamento prevede ch'essa passi in proprietà definitiva alla federazione che l'ha conquistata per tre volte: dal 1970 è quindi rimasta in Brasile. Quando si decise di «lanciare» ed organizzare i campionati del mondo, il calcio era già uscito dalla fase pioneristica. Erano finiti i tempi del football inteso come svago per i ricchi, quando si giocava senza arbitro perché sarebbe stato disonorevole essere controllati da qualcuno, e la «parola d'onore» dei due capitani doveva esser sufficiente a dirimere le più controverse questioni di gioco. Erano finiti anche i tempi del calcio dilettantistico: la maggior parte dei giocatori faceva del calcio una professione, sicché le rappresentative ammesse alle Olimpiadi, e composte di soli dilettanti, non costituivano il meglio del football d'ogni Paese. Perciò venne varato il campionato del mondo, aperto a tutti, senza limitazioni. La prima edizione venne disputata in Uruguay in quanto i Sudamericani erano stati coloro che più avevano sostenuto l'iniziativa, partita dal francese Jules Rimet, presidente della Fifa (Fédération Internationale Football Association). La designazione della sede provocò notevoli difficoltà: nel 1930 non esistevano i moderni collegamenti aerei, e anche quelli marittimi erano molto lenti. I giocatori delle sole quattro nazionali europee che aderirono alla competizione - Belgio, Francia, Jugoslavia e Romania - furono impegnati, fra viaggi e torneo, per oltre due mesi. Poiché molti giocatori avevano anche un'occupazione - il calcio, pur essendo già professionistico, non offriva ancora lauti guadagni - in qualche caso vi fu bisogno di autorevoli interventi per far concedere loro il permesso di così prolungate assenze; in Romania se ne occupò personalmente re Carol, appassionato di calcio; in Francia un giocatore che stava effettuando il servizio militare, e non avrebbe potuto quindi affrontare la trasferta, venne mandato in Uruguay quale attendente dell'addetto militare dell'ambasciata. Il primo contatto ufficiale tra il calcio sudamericano e quello europeo fu tuttavia molto utile: cominciarono a delinearsi le differenze tecniche e d'impostazione che ancor oggi, sia pure in misura diversa li distinguono. La caratteristica più tipica del calcio sudamericano è rappresentata dal repertorio individuale d'ogni giocatore, dal suo estro, e dalla prevalenza del «fuoriclasse» sulla manovra corale della squadra. Il calcio europeo ha un più spiccato senso collettivo, e - soprattutto da parte degli Inglesi e dei Tedeschi - tende ad imporre il peso di una preponderanza fisica e atletica. Nel primo campionato del mondo è però rappresentato troppo mediocremente perché possa efficacemente contrastare la diabolica abilità dei giocolieri sudamericani. La finalissima viene giocata tra Uruguay ed Argentina: e vincono i padroni di casa, evento non raro nella storia della coppa del mondo, tanto da far spesso chiedere con sospetto quanto influisca il fattore campo anche sulle decisioni degli arbitri. Tra i protagonisti di quella finale si ritrovano giocatori come Scarone, Monti, Stabile, che poi avranno un'influenza notevole sullo sviluppo del calcio in Italia, ove si trasferiranno attratti dai più lauti guadagni. Luisito Monti, centromediano della nazionale argentina, seconda classificata ai «mondiali» del 1930, è infatti il centromediano della nazionale italiana vincitrice dei campionati del mondo del 1934. Il trasferimento dall'Argentina alla Juventus viene favorito dalle autorità fasciste che presentano il ritorno in Patria dei figli degli emigrati come una prova della crescente prosperità dell'Italia, e nello stesso tempo creano le premesse per successi sportivi di grande prestigio. L'organizzazione dei «mondiali» 1934 viene affidata alla federazione italiana. Gli azzurri godono, dunque, del vantaggio del fattore campo, e qualche arbitro non vi rimarrà insensibile. Sul piano del gioco, Vittorio Pozzo - un giornalista cui viene affidato il compito di curare la nazionale, e la cui figura è entrata nella leggenda del football - crea un felice innesto tra il rude calcio italiano dell'epoca e le estrose finezze degli oriundi di scuola sudamericana. Ne allinea sei: oltre Monti, anche Orsi, Guaita, De Maris, Fantoni II, Guarisi. L'innesto riesce. Le squadre di scuola danubiana, che sinora hanno imperato in Europa in virtù di un gioco fondato su trame molto precise ma lente e troppo elaborate, vengono soppiantate: la Cecoslovacchia è battuta in finalissima e l'Italia è campione del mondo. Tra i preziosismi individualistici del calcio sudamericano e quelli «corali» delle squadre danubiane, il football - attraverso gli insegnamenti della nazionale italiana - ha trovato una soluzione più equilibrata, nella quale forza, estro, potenza atletica si integrano. La bontà della formula - che sul piano tattico è impostata sul metodo: i terzini raccolti ai limiti dell'area di rigore, il centromediano come elemento propulsore, i mediani laterali nella zona delle ali avversarie, tre attaccanti «di punta» e due mezzeali a far da spola - riceverà un'inequivocabile conferma dopo quattro anni, durante i quali la nazionale italiana è passata trionfalmente sui campi di tutto il mondo. La finalissima dei campionati del 1938 si svolge a Parigi, in un ambiente che l'ostilità politica dei Francesi al fascismo rende rabbiosamente avverso. L'antagonista - dopo un arduo ciclo eliminatorio - è di nuovo un'esponente del calcio danubiano: invece della Cecoslovacchia, stavolta è l'Ungheria. E viene travolta. Il titolo mondiale è conquistato nuovamente dall'Italia. Stavolta non c'è stato il vantaggio del fattore campo, e il contributo degli «oriundi» è minimo: tra i campioni del mondo solo Andreolo è nato fuori dei confini. Significa che in Italia si è ormai creata una scuola, ove la potenza di Piola e di Allemandi si completa con l'altruismo di Ferrari e l'estro di Meazza. E' un calcio a mezza strada fra la concezione europea e quella sudamericana. L'influenza dei successl italiani sullo sviluppo del calcio mondiale dura a lungo, anche se proprio gli Italiani rimangono estranei al processo evolutivo, e cadono anzi in una lunghissima crisi, provocata in parte dall'avvento del «sistema», in parte dalla guerra, in parte dalla sciagura di Superga. Il «sistema» è la denominazione di un tipo di gioco che si pratica in Inghilterra; i terzini, anziché giocare nel vivo delle aree di rigore, operano nella zona delle ali; il centromediano è meno protetto di quanto fosse nel metodo; i mediani laterali giocano nella fascia centrale del campo insieme alle mezzeali, formando quei reparto-chiave della squadra sistemista diventato popolare sotto il nome di «quadrilatero». E' una formula di gioco offensivo, che provoca però pericolosi scompensi nelle retrovie, troppo sguarnite. Basta che un attaccante sfugga al proprio diretto avversario, perché non trovi più ostacoli nella sua corsa verso il portiere. E' un gioco che per essere realizzato impone un'ininterrotta mobilità e una grande resistenza fisica. Si adatta quindi ai Britannici, non ai Latini. Per di più la guerra ha impoverito anche sul piano fisico le schiere dei giovani italiani. L'imitazione è perciò destinata a fallire. L'unica squadra italiana che dimostri di aver assimilato la nuova formula viene distrutta nel rogo di Superga, la collina contro cui si schianta l'aereo che riporta in patria il Torino, reduce da un'esibizione in Portogallo. La formula più efficace risulta ancora quella intermedia, cioè quella italiana degli anni '34-'38. La conferma arriva nel 1950, allorché vengono ripresi i «mondiali», dopo la parentesi imposta dalla guerra. Si gioca in Brasile e dominano i Sudamericani: la finalissima è tra Brasile ed Uruguay; ma stavolta non vincono i padroni di casa. Vincono gli Uruguayani che, tra gli esponenti del calcio sudamericano, sono quelli che più hanno il senso del gioco collettivo e ne rispettano le esigenze, senza sacrificarlo interamente all'estro dei fuoriclasse. Il loro regista è uno dei più grandi giocatori del mondo, «Pepe» Schiaffino, che diverrà popolarissimo tra gli Italiani quale alfiere di uno spettacolare Milan. L'Uruguay dimostra che si può attaccare validamente senza scoprirsi troppo in difesa: comincia così, seppur ancor timidamente, una nuova era, quella del «libero», cioè di un giocatore che non abbia l'obbligo di controllare alcun avversario, ma possa avanzare o retrocedere a seconda delle circostanze, pronto a chiudere i varchi che volta a volta si aprono in retroguardia, come ad inserirsi inaspettatamente nelle trame d'attacco. Affiorano vivacissime polemiche nel mondo del calcio. I trionfi della nazionale ungherese - la nazionale di Puskas, Kocsis, Hidegkuti - sembrano incoraggiare i fautori del gioco offensivo ma la sconfitta dei Magiari nella finalissima dei «mondiali» del '54 - vinti, dopo una finale rocambolesca, da una Germania che comunque non lascia traccia nell'evoluzione calcistica - assesta un duro colpo ai sostenitori del «sistema». Solo l'Inghilterra rimane fedele ai suoi schemi. In ogni altro paese si cercano varianti. In Italia, purtroppo, l'esigenza di proteggere maggiormente la retroguardia viene esasperata più che altrove, ancor più che in Svizzera: il «libero», nella concezione italiana, diventa quasi un secondo portiere; viene chiamato «libero fisso». Sempre più frequentemente si vedono difensori schierati in attacco; s'invoca che giochino tutti indietro. La denominazione di «catenaccio» - che vien data alla nuova formula - diventa sinonimo di squallore tecnico e spettacolare. Il risultato meno gradito al pubblico - lo «zero a zero» - diventa per molti tecnici il simbolo della partita perfetta. Ciò impedisce alla nazionale italiana di partecipare attivamente all'evoluzione del football. I risultati in campo internazionale sono disastrosi. Si tocca il fondo. Chi si avvale felicemente delle esperienze è il Brasile, che finalmente decide di sfruttare meglio le qualità dei suoi fuoriclasse, innestandoli in un più efficace gioco collettivo: nasce Zagalo, ala tornante; la difesa diventa più prudente; la scoperta del magico Pelé ed una naturale tendenza offensiva consentono tuttavia ai Brasiliani di garantire un efficace equilibrio alla loro manovra. Il Brasile del 1958 - come in altra direzione tattica era riuscito all'Ungheria verso il 1953 - si presenta come una macchina da gol e costituisce quanto di meglio il calcio abbia sinora offerto nel mondo sul piano spettacolare. Ma proprio perché ha raggiunto il vertice, non può rimanervi a lungo: il «bis» nei « mondiali» del 1962 in Cile è già meno entusiasmante. Basta ai Brasiliani un po' d'esperienza per dominare in un mondo calcistico che sul piano tecnico-tattico (proprio in conseguenza del diffondersi di un esasperato difensivismo) sta attraversando un periodo di declino e di crisi. Si avverte l'esigenza di un fatto nuovo, che scuota l'ambiente e offra al calcio nuovi spunti. E lo scossone arriva dall'Inghilterra. Il calcio britannico decide di rompere con i suoi vecchi schemi fondati quasi esclusivamente sulla potenza e sull'individualismo. Un vecchio nazionale britannico, Ramsey, escogita il «movimento», diffuso poi in Italia seppur con scarsa popolarità dall'allenatore della Juventus Heriberto Herrera. Il calcio - dice Ramsey - è un gioco collettivo, e deve imporre a tutti gli stessi sforzi: non è giusto che un difensore non partecipi all'azione, se si tratta di un'azione offensiva, e che un attaccante non partecipi al gioco se si tratta di una manovra difensiva. Nello stesso tempo è necessario che la squadra non alteri la sua fisionomia. Ogni giocatore, dunque, dev'essere in grado di saper fare tutto. E tutta la squadra deve sentirsi sempre impegnata. In questo tipo di gioco, i fuoriclasse - cioè gli uomini d'estro, capaci d'inventare uno splendido gol, come d'estraniarsi altrettanto improvvisamente dalla manovra - non si ritrovano. L'Inghilterra vince i «mondiali» rinunciando a Greaves, che è il suo attaccante di maggior intuito, ma anche il più refrattario agli sforzi collettivi e all'altruismo. La Juventus deve rinunciare a Sivori. Il pubblico è molto perplesso di fronte alle nuova formula che lo priva del mito. L'evoluzione continua. Il calcio non è mai fermo. Paesi nuovi premono verso posizioni d'avanguardia. Nessun risultato rappresenta più una sorpresa; nessuna squadra, per grande che sia, può ritenersi imbattibile. Anche una trasferta a Cipro diventa pericolosa. Anche la Corea può diventare la protagonista di una competizione di grande livello. Uno dei motivi di maggior successo del calcio è che esso si adatta a tutte le condizioni d'ambiente e di razza. Altre discipline sportive pretendono attitudini e caratteristiche fisiche: la pallacanestro vuole l'altezza; non si trova mai un negro che prevalga nelle gare di nuoto. Il calcio, invece, lo possono giocare tutti: vi possono emergere Charles o Nordhal ma anche Muccinelli o Sernagiotto, i più alti e i più bassi. Non esistono preclusioni razziali: vi trovano gloria bianchi, neri, gialli, Meazza, Pelè, Bobby Charlton, i Coreani. Perciò lo si gioca in tutto il mondo. E perciò è in perenne trasformazione. La nuova «coppa» continuerà a viaggiare ininterrottamente da un continente all'altro.
