«"Big Bill" Broonzy» di Marco Pastonesi


William Lee Conley Broonzy nacque a Scott, nello stato del Mississippi il 26 giugno 1893, ma la sua famiglia si trasferì nell'Arkansas quando lui era ancora un bambino, e là nell'Arkansas trascorse tutta la giovinezza. Erano in diciannove: padre, madre e diciassette figli. La loro vita era drammaticamente dura e povera. Ma in qualche maniera, lavorando nei campi e spesso vivendo di espedienti, i Broonzy tiravano avanti. Quando era ancora un ragazzo, Bill (il diminutivo di William) si costruì un violino con una scatola di sigari e il suo amico Louis Carter una chitarra: insieme suonavano nelle festicciole campestri. Poi, a ventidue anni, Bill si sposò e dovette cominciare a lavorare nella fattoria, ma sempre sperando di poter diventare un giorno un predicatore. Così smise di suonare finché non gli furono offerti cinquanta dollari e un violino nuovo per quattro giorni di musica: ma sua moglie prese i soldi e li spese tutti, e a Bill non rimase che continuare a suonare. L'anno seguente, il 1916, una terribile siccità distrusse il raccolto, vanificò le scorte, intaccò a fondo i pochi risparmi. Allora Bill lavorò per un anno come minatore e poi venne arruolato nell'esercito, in cui militò per due anni. Quando tornò nell'Arkansas, la vita gli sembrò impossibile, non tanto per la povertà, quanto per la pesante discriminazione sociale nei confronti della gente di colore. Era il 1920 allorché se ne andò a Chicago, ove trovò lavoro in una compagnia di trasporti. Al nord le condizioni sociali ed economiche erano certamente migliori di quanto lo fossero al sud; c'erano più possibiiità di trovare posti di lavoro, e generalmente meno duro che raccogliere il cotone nei campi; inoltre esisteva già una certa forma di rispetto anche verso i neri. Bill era molto ambizioso e avrebbe voluto avere tutto quello che aveva un bianco: il suo bell'aspetto, i suoi vestiti, una grande automobile e una donna bianca. Ricominciò a suonare. Quando conobbe Papa Charlie Jackson, uno dei primi musicisti neri ad incidere dischi, si fece insegnare la chitarra. Poi incontrò John Thomas, un chitarrista introdotto nell'ambiente discografico, e lo convinse a suonare con lui e a registrare qualcosa insieme. Il giorno in cui entrarono in sala di incisione, avevano bevuto, si erano ubriacati e non riuscivano più a controllarsi: Bill non centrava neppure il microfono quando cantava, mentre Thomas vagava per lo studio. Ovviamente la prova risultò negativa. I due ci riprovarono qualche mese dopo, e stavolta si comportarono meglio: fu così pubblicato un disco con due pezzi, «House Rent Stomp» e «Big Bill Blues». Era il 1927: da allora «Big Bill» continuò ad incidere. Le sue canzoni, però, non piacevano: poiché l'Arkansas non aveva una lunga e prospera tradizione di blues, Bill aveva potuto imparare a cantare solamente attraverso i dischi. Inizialmente a suo modello aveva preso Lemon Jefferson, un cantore cieco e vagabondo del Texas, senza riuscire tuttavia a imitarne lo stile chitarristico e il perticolare timbro di voce. In seguito, invece, provò a riprodurre lo stile più sofisticato e aggraziato del chitarrista Lonnie Johnson e del pianista Leroy Carr, due musicisti più facili da avvicinare per cultura e tradizione. Bill lavorava come garzone in una drogheria quando incontrò il produttore discografico bianco Lester Melrose: da allora poté finalmente vivere solo suonando, dapprima in duo col pianista Black Bob, poi sostituito da Josh Altheimer, quindi in una band con gli altri bluesmen della stessa casa discografica (fra i quali spiccavano Jazz Gillum, Washboard Sam, Tampa Red, Sonny Boy Williamson ecc.). Si dice che il successo non sia una formula: per ottenerlo è necessario andare incontro ai gusti della gente. L'operazione (commerciale), che Broonzy preparò molto accuratamente, consisteva nel rendere più soffici, più delicati, più dolci i blues violenti, grezzi, rozzi, suonati e cantati dalla gente del sud; consisteva nell'eliminare la pesantezza della esecuzione solitaria vivacizzandola con l'accompagnamento di altri strumenti e nell'addolcire il linguaggio faticoso e sgrammaticato con espressioni più civili e corrette. Bill divenne un perfetto uomo d'affari: cantava suonava e incideva, adottava nuove formule impiegando sassofoni o intere orchestre di jazz, promuoveva nuovi musicisti, riscuoteva i diritti d'autore, batteva cassa. Fama e soldi, ricchezza e notorietà: ma a proprie spese, Broonzy si accorse di essere diventato un semplice ingranaggio nel complesso meccanismo del mondo dello spettacolo. Si era nel 1939 e Big Bill venne invitato a partecipare alla rassegna «Spirituals To Swing», che si teneva nella Carnegie Hall di New York. In quella occasione si esibiva anche un uomo forte e deciso, dalla travolgente personalità, ex-galeotto nel penitenziario della Louisiana, (facilmente) convinto a lasciare il sud da alcuni ricercatori di musica popolare. Si chiamava Huddie Ledbetter, ma era meglio noto come «Leadbelly», letteralmente «pancia di piombo». Bill venne invece presentato non come uno dei cantanti o dei compositori di blues maggiormente apprezzati e ascoltati in tutto il paese, ma come un ex-raccoglitore di cotone. E non vi era nulla di più falso, giacché aveva lavorato nei campi solo per un brevissimo periodo: e questo era accaduto ben ventitré anni prima! Pur sorpreso, quando due giovani entusiasti lo pregarono di suonare qualche canto dei raccoglitori di cotone, Bill fu pronto a rispondere che certo non l'avrebbe fatto, perché temeva di essere rimandato nei campi. In realtà non ne era capace: imbrogliare i bianchi poteva essere facile, ma imbrogliare i neri era come imbrogliare se stesso. Così nacquero due Broonzy: da una parte il musicista che aveva composto oltre duecento blues urbani, dall'altra colui che poteva tenere da solo il palcoscenico affascinando i presenti con i canti di lavoro (imparati dai dischi), con i blues campagnoli (appresi dai libri sulla musica campestre) e con le storie veramente accadute o inventate di sana pianta. Per esempio Big Bill amava raccontare che un giorno, quando era ragazzo, aveva preso una grossa tartaruga con suo zio; la portarono a casa e lo zio disse di fare qualcosa perché mettesse la testa fuori dal guscio. Bill prese un bastone e lo mise davanti alla tartaruga, che lo afferrò e non mollò la presa. Lo zio impugnò una scure e decapitò la tartaruga. Ma un'ora dopo la tartaruga era scomparsa: strisciando, era riuscita ad arrivare al vicino lago. Riportandola indietro, lo zio disse: «Ecco una tartaruga che è morta e non lo sa». E Bill commentava: «La stessa cosa accade oggi con molte persone: hanno il blues e non lo sanno». Maestro in questa seconda attività gli fu Josh White, un cantante e chitarrista che Bill aveva conosciuto molti anni prima a Chicago, e che a New York aveva «slavato» e «sbiancato» i blues della propria gente per venderli al pubblico bianco. Broonzy conobbe ancora molti anni di successo e di popolarità, e ricevette consensi non solo in America ma anche in Europa. Se i vecchi neri lo avevano dimenticato e i giovani l'avevano appena conosciuto, molti bianchi invece si interessarono a lui e attraverso lui alla musica afro-americana. Bill ebbe quindi l'opportunità di incidere numerosissimi dischi e di compiere lunghe tournées; ma nulla era rimasto della sua originaria vivacità, nulla di quella voce dura, nulla di quella chitarra così precisa e penetrante. Infine, all'apice della celebrità, Big Bill accusò i primi dolori alla gola: quando venne ricoverato in ospedale, si scoprì che si trattava di cancro. Una prima operazione per bloccarne la crescita lo lasciò senza voce. Morì il 14 agosto 1958 a Chicago, mentre veniva trasportato in ambulanza. Esprimere un giudizio su un uomo e un musicista così importante è impresa ardua e rischiosa. C'è la tentazione di denunciarlo traditore della sua gente e delle sue tradizioni: modificava musiche e testi. Intratteneva i bianchi, contrabbandava i canti di lavoro, le antiche ballate e le canzoni dei carcerati. Spendeva e spandeva. Ma sinceramente non possiamo farlo: se è vero - come è vero - che Big Bill non seppe resistere (e forse giustamente) ai compromessi col mondo commerciale discografico, d'altra parte è doveroso sottolineare l'estrema importanza del suo ruolo di divulgatore della cultura afro-americana. Raffinato, dolce, elegante. Ma così la musica era più facilmente avvicinabile e pure i testi, sebbene corretti, mantenevano quasi inalterata la loro forza. «Big Bill Blues» così recitava: «Questa canzoncina che vi sto cantando voi tutti sapete che è vera, se tu sei nero e devi lavorare per vivere questo è quel che ti dicono: se sei bianco va tutto bene, se sei bruno sta' qui intorno, ma se sei nero, fratello, vattene via, vattene via, vattene via. Sono andato al caffé, tutti si divertivano e bevevano birra e vino, ma a me non hanno voluto dar nulla. Sono stato all'ufficio di collocamento, ho preso un numero e mi sono messo in fila. Sapete, hanno chiamato tutti i numeri, ma non hanno mai chiamato il mio. Ho lavorato per questo paese, ho anche combattuto. Mi piacerebbe che qualcuno mi dicesse cosa deve fare un uomo nero», Ma il denaro e la celebrità lo allontanarono dalla sua gente. Lui stesso ricordava che un giorno alcuni neri gli domandarono perché non imparasse a suonare qualcos'altro oltre al blues, dal momento che i blues risalivano al tempo della schiavitù e la schiavitù era finita. «Allora io dico a loro che non so suonare altro e loro mi dicono: "Bisogna imparare, va a prendere lezioni e impara a suonare della vera musica". Allora io gli domando: "E il blues non è vera musica?". Tutto quello che loro possono rispondere è; "Non lo è la maniera con cui suoni e canti delle canzoni sui muli, sul cotone, sul mais, sui campi e sui canti dei prigionieri. Big Bill, quei giorni là sono finiti per sempre". "Oh no - rispondo loro - vi sbagliate di grosso. Non dovete fare altro che guardare i vostri vestiti, si coltiva ancora il cotone, e avete ancora i muli. E dovunque io vada negli USA, si cantano i blues"». Il migliore giudizio, comunque, rimane quello che lui stesso si attribuì: «Quando scrivete di me, per favore, non dite che sono un musicista di jazz. Non dite che sono un musicista o un chitarrista - scrivete solemente che Big Bill era un cantante e un suonatore di blues ben conosciuto e che ha inciso duecentossessanta blues dal 1925 fino al 1952; era un uomo felice quando beveva e si divertiva con le donne, era amato da tutti i cantanti di blues, qualcuno poteva diventare talvolta un po' geloso, ma Big Bill comperava una bottiglia di whisky e tutti ricominciavano a ridere e a divertirsi, Big Bill si sbronzava e se la squagliava dalla festa e andava a casa a dormire».

 

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