«Nozione antropologica di cultura» di Alberto M. Cirese
Uno dei cardini, in apparenza tra i più saldi, delle concezioni e dei comportamenti correnti a tutti i livelli della nostra società è l'idea che la 'cultura' consista in un complesso di conoscenze privilegiate, selezionate ed organiche, il cui pieno possesso si esprime e si manifesta in modi di essere e di agire che separano e distinguono gli uomini 'colti' dagli 'incolti'. Come è ovvio, questa concezione contiene una fortissima carica valutativa: apprezzamento decisamente positivo per la 'cultura' e i 'colti' (= valore), ed apprezzamento altrettanto decisamente negativo per l"incoltura' e gli 'incolti' (= disvalore). Fino a che si resta entro i limiti delle considerazioni relative al nostro mondo abituale e quotidiano, appare davvero difficile, anzi assurdo, contestare la solidità sia della concezione in sé, sia dei giudizi di valore che la fondano e la esprimono: chi mai, e con quali argomenti razionalmente validi, potrebbe sostenere che 'cultura' ed 'incultura' stanno sullo stesso piano, o addirittura che l'incultura è un valore e la cultura è un disvalore? Non è forse vero che la negazione della cultura è una delle manifestazioni più evidenti tanto della violenza dichiaratamente irrazionalistica quanto di quella tragica parodia della razionalità che è la 'ragion di Stato'? Se però si dilata l'orizzonte della riflessione così nel tempo come nello spazio, è la stessa razionalità ad accorgersi che quella concezione della cultura contiene proprio in sé medesima i germi ed i fermenti di cui spesso diviene l'oggetto. Basti pensare al fatto che quegli stessi aggressori, mentre da un lato distruggono o tentano di distruggere gli 'intellettuali' di casa propria, dall'altro giustificano la persecuzione nazionalistica delle minoranze etnico-linguistiche o la dominazione coloniale più o meno scoperta e brutale propria delle nazioni colonialistiche, con l"inferiorità culturale' delle proprie vittime. Il fatto è che la nozione corrente di cultura è, per sua intrinseca natura, una esaltazione esclusivistica, 'proprio-centrica' ed 'eternizzante'. Essa infatti afferma come valori e beni culturali solo certi modi settoriali di essere e di agire degli uomini (in genere quelli 'intellettuali'); inoltre, all'interno stesso del settore intellettuale, tende a privilegiare certi prodotti e certi gusti (in genere quelli letterario-storico-artistici), ed a respingere ai margini, o addirittura a rifiutarne certi altri (quelli fisico-matematici, naturalistici ecc.). Ma c'è di più, anzi di peggio. L'esclusivismo non agisce soltanto con la delimitazione di un settore ristretto; agisce anche decisamente nella determinazione dei contenuti specifici. Non tutti i prodotti e i gusti letterario-storico-artistici sono riconosciuti come 'cultura', ma soltanto quelli appartenenti al filone dominante (egemonico) del 'proprio' mondo, con esclusione, più o meno recisa dei prodotti e dei gusti 'altrui'. Anche i popoli «selvaggi» o «barbari» hanno avuto prodotti letterari o artistici (canti e poesie, narrazioni storiche e fiabe, pitture e sculture ecc.); altrettanto avviene per gli strati sociali 'inferiori' dei popoli cosiddetti civili. Ebbene, a dispetto delle rivalutazioni più o meno solide di questo complesso di prodotti, resta sostanzialmente fermo che la vera cultura è solo la nostra: quella ufficialmente riconosciuta nei manuali scolastici dell'Europa occidentale e delle sue propaggini più o meno immediate ad est e ad ovest. C'è infine una terza caratteristica, ed è che questa delimitazione settoriale e questi contenuti specifici vengono concepiti come fatti eterni ed immutabili, e perciò come unità di misura per giudicare del passato e del futuro, oltre che ovviamente del presente: gli individui, i gruppi sociali ed i popoli vengono considerati 'colti' solo se hanno lo stesso nostro concetto della cultura e se producono e consumano beni intellettuali identici o almeno simili ai nostri. In caso contrario il giudizio è negativo: sono 'incolti' (o rozzi, ignoranti, barbari, selvaggi ecc.). Da tutto ciò deriva che, a dispetto delle migliori intenzioni, una tale concezione non può non sboccare in un colonialismo culturale ora violento ora paternalistico, in ogni caso fondato sul convincimento che non tutti gli uomini sono egualmente umani, e questo non solo a causa del famoso colore della pelle, ma anche in forza delle loro concezioni e dei loro comportamenti, che ci appaiono troppo «diversi» da quelli che ci sono familiari (e che perciò stesso crediamo 'naturali', cioè universali ed eterni). Per misurare la distanza che separa la nozione corrente di cultura da quella che sta alla base di quel complesso di ricerche che oggi si dicono di 'antropologia culturale' basterà rileggere la definizione che della 'cultura' dette fin dal 1871 l'etnologo inglese Edward Burnett Tylor nella sua Primitive culture: «La cultura o civilizzazione, nel suo più lato senso etnografico, è quel complesso unitario che include conoscenze, credenze, arti, moralità, leggi, costumi, e tutte le altre capacità e abitudini acquisite dall'uomo come membro della società». E' facile avvedersi che questa definizione (etnografica, etnologica, antropologica, o come altro voglia dirsi) si contrappone verticalmente alla nozione corrente di cultura. Ne rompe infatti tanto la limitazione settoriale quanto il pregiudizio euro-centrico: della cultura così intesa fanno parte non solo le arti e le conoscenze intellettuali, ma anche le 'istituzioni' (leggi, moralità, credenze, costumi) e più vastamente «tutte le altre capacità e abitudini acquisite dall'uomo», e cioè le tecniche intellettuali e manuali. Inoltre sono 'cultura' i prodotti dell'uomo «come membro della società», qualunque sia la società cui esso appartiene, foss'anche quella che a noi appare più barbara o selvaggia, o quella degli strati sociali più 'umili' (o, a scelta, più 'volgari') della nostra società. Crolla così in modo definitivo ogni assolutizzazione etnocentrica dei 'propri' valori culturali, i quali appaiono quel che realmente sono, e cioè prodotti storici che hanno avuto una origine e avranno una fine, e comunque sono sempre trasformabili, relativi, al pari dei valori culturali di ogni altra società. Non eterni dunque, né assoluti, ma storicamente variabili, e dunque a loro volta oggetto di giudizio e di valutazione, oltre che misura (ma non assoluta), per valutare e giudicare le culture altrui. In questa prospettiva, per fare un esempio, le fiabe e le leggende di cui si sono alimentati miliardi di uomini per migliaia di anni divengono fatti 'culturali' d'importanza pari, se non addirittura superiore, a quella delle maggiori opere letterarie di 'alta cultura', che hanno toccato solo esigue minoranze. Oppure, per fare un altro esempio, le tecniche 'magiche' così vastamente diffuse presso tante popolazioni assumono un rilievo scientifico pari a quello delle manifestazioni religiose 'superiori'. Insomma, ogni prodotto dell'attività dell'uomo in società è cultura, ed ogni fatto culturale è, in linea di principio, egualmente valido per la ricostruzione della storia e della morfologia sociale dell'umanità. Il raggio o, se si preferiscono le metafore poetiche, il respiro dell'indagine non è più circoscritto all'Italia o all'Europa (non è più italo-centrico o eurocentrico, e cioè considerante l'Italia o l'Europa come l'ombelico e il metro di misura del mondo), ma ambisce a dilatarsi all'ecumene: si fa appunto 'antropologico', anche quando consideri un limitato settore geografico o cronologico: il suo punto di riferimento è sempre l'intera umanità, nella integralità delle sue concezioni e dei suoi comportamenti. Ma - ci si chiederà - se tutto è 'cultura', a che serve una definizione che, abbracciando il tutto, non consente più di distinguere nulla? La nozione corrente di cultura sarà magari errata, ma almeno è una definizione in quanto stabilisce i limiti tra ciò che è (o si crede che sia) la 'cultura' e ciò che è (o si crede che sia) l"incultura'. In realtà anche la nozione antropologica di cultura fa altrettanto: solo che la contrapposizione non è più tra 'cultura' e 'incultura' (e cioè non è più tra uomini optimo iure, e semi-uomini o semi-bestie, o uomini deminuto capite) ma è invece tra cultura e natura, intendendosi per natura (almeno nelle sue linee generalissime) tutto ciò che è universalmente necessitante e che esiste e persiste senza la mediazione dell'attività consapevole o inconsapevole degli uomini. Se quel che si chiama correntemente 'istinto sessuale' è natura, le istituzioni matrimoniali (monogamiche o poligamiche che siano) sono cultura, il primo (l'istinto) esiste e persiste senza che occorrono costruzioni umane; le seconde (le istituzioni) nascono per costruzione umana, vengono rispettate per costrizione culturale esplicita o meno, sussistono fino a tanto che gli uomini non le modificano (l'istituto della indissolubilità cristiana del matrimonio s'è sostituito all'istituto del divorzio del diritto romano, e l'istituto moderno del divorzio s'è nuovamente sostituito alla indissolubilità cristiana). Uno dei problemi di fondo che così si pongono alla prospettiva antropologico-culturale è quello dei confini teorici e di fatto esistenti tra natura e cultura. E la ricerca si dimostra della più alta importanza per la conoscenza reale e scientifica della vicenda umana, sia perché ci viene rivelando come i limiti correntemente stabiliti tra i due 'mondi' non corrispondono affatto alla realtà (si può mangiare carne di serpente senza sapere di che cosa si tratti e perciò gustandola, ma sentirsi immediatamente male non appena ci informano di ciò che abbiamo mangiato: il disgusto quindi non è immediatamente 'fisiologico' ma è 'indotto' dalle abitudini culturali), sia perché mostra con assoluta evidenza l'uso 'ideologico' e contradditorio che correntemente si fa della opposizone natura-cultura (per esaltare e difendere certi comportamenti semplicemente culturali che ci sono cari, si dichiara che essi sono 'naturali' e chi non li rispetta va 'contro natura': ma quando ci si avvede che in 'natura' esiste proprio quel comportamento che noi condanniamo, allora si afferma che bisogna andare al di là della 'bestialità', ossia della 'natura': basti pensare all'atteggiamento corrente nei confronti di quei comportamenti sessuali che vengono socialmente riprovati con la contemporanea e contradditoria motivazione che sono 'contro natura' e che sono 'bestiali'). Anche da questi brevi e sommari accenni appare dunque quali vasti orizzonti di conoscenze si spalanchino dinanzi alla indagine, antropologico-culturale (che ovviamente non può non collegarsi strettamente con tutto intero il gruppo delle cosiddette 'scienze dell'uomo': sociologia, psicologia, etnologia tradizionale ecc.). E chi temesse che una tale prospettiva porti alla distruzione delle 'gerarchie di valori' tradizionalmente costituite potrà utilmente riflettere sul fatto che le nuove gerarchie di valori che già vengono costituendosi sulla base di queste più ampie prospettive non scaturiscono più dalla esperienza conoscitiva di pochi gruppi di uomini appartenenti ai ceti egemoni di civiltà magari eccelse ma che non esauriscono tutte le potenzialità dell'uomo: esse derivano invece da esperienze conoscitive estese a tutta intera la vicenda umana.
