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In questa pagina: Anicio Manlio Torquato Severino Boezio Anicio Manlio Torquato Severino Boezio L'ultima patristica.Decadenza della patristica. A partire dalla metà del V secolo la patristica perde ogni vitalità speculativa. In Oriente, la sua attività sopravvive nelle dispute teologiche, che però passano sempre più al servizio della politica ecclesiastica e quindi perdono ogni valore filosofico. In Occidente, la civiltà romana è andata in frantumi sotto i colpi dei barbari e non ancora si è formata la nuova civiltà europea. Il sonno del pensiero filosofico è in realtà il sonno della civiltà europea. La cultura vive a spese del passato. Il potere di creazione è venuto meno; rimane l'attività erudita, che si esplica nella compilazione di estratti o di commentari e parte da una preliminare rinuncia a ogni ricerca originale. In Occidente rimane tuttavia un nucleo di interesse laico che si dirige alle sette arti liberali, del trivio [grammatica, retorica, dialettica] e del quadrivio [aritmetica, geometria, astronomia, musica]. Il contenuto di questo interesse è offerto da poche opere che compendiano nella forma più generica la sapienza dell'antichità: la Storia naturale di Plinio il Vecchio, il De officiis di Cicerone, la Farsaglia di Lucano e la Consolazione della filosofia di Boezio. In virtù di queste opere si salva quella tradizione umanistica che è propria della latinità e che condurrà alla fioritura del XII secolo. Scrittori greci. Più vicino al neoplatonismo che al cristianesimo rimane anche dopo la conversione SINESIO di Cirene, nato tra il 370 e il 375 e morto verso il 413. Egli era stato discepolo della neoplatonica Ipazia con la quale rimase in rapporti amichevoli anche in seguito. Nel 409 fu nominato vescovo di Tolemaide, con la riserva di non rinunziare alla moglie e alle sue convinzioni filosofiche. Alcune sue opere non mostrano tracce di cristianesimo. Tali sono i discorsi sulla podestà regia, lo scritto sul dono dell'astrolabio, le narrazioni egiziane o sulla provvidenza, l'elogio della calvizie, satire dei Sofisti che parlano a vanvera, l'apologia di Dione Crisostomo, uno scritto sui sogni. Carattere più spiccatamente cristiano hanno numerose lettere, due omelie, due orazioni e alcuni inni. Sinesio considera Dio neoplatonicamente come l'unità delle unità e nega la resurrezione della carne e la fine del mondo. Assai vicino al neoplatonismo è anche Nemesio che fu vescovo di Emesa in Fenicia e compose alla fine del IV o al principio del V secolo uno scritto, Sulla natura dell'uomo, che si diffuse nel Medio Evo attraverso la versione latina fatta nell'Xl secolo probabilmente da Alfano [1058-85], arcivescovo di Salerno. L'uomo è, secondo Nemesio, il tratto di unione tra il mondo sensibile, e il mondo soprasensibile: per lo spirito egli appartiene al mondo soprasensibile, cioè al mondo degli esseri spirituali o angeli; per il corpo appartiene al mondo sensibile. Perciò il primo uomo non fu creato né immortale né mortale; poteva diventare l'una o l'altra cosa e stava a lui di scegliere l'una o l'altra alternativa. Trasgredendo al comando divino, divenne mortale; ma può di nuovo, ritornando a Dio, partecipare dell'immortalità [De nat. hom., 1]. Nemesio accetta la definizione aristotelica dell'anima come «entelechia di un corpo fisico che ha la vita in potenza». Come tale l'anima è una sostanza immateriale e incorporea, che sussiste di per sé e non viene quindi generata nel corpo o con il corpo. La sua unione con il corpo non è una mescolanza di sostanze ma un rapporto per il quale l'anima è presente tutta in tutte le parti del corpo e lo vivifica al modo in cui il sole illumina con la sua presenza l'aria [Ib., 3]. L'anima è dotata di libero arbitrio perché la sua natura è razionale. Chi pensa può anche riflettere e chi riflette deve anche poter scegliere liberamente [Ib., 41]. Sfugge alla libertà umana ciò che sfugge alla riflessione, la salute, le malattie, la morte e via dicendo [Ib., 40]. Quando già le scuole retoriche del mondo greco si avviavano alla rovina, ebbero una breve fioritura le scuole della città siriaca di Gaza. Tra i maestri di queste scuole due hanno un certo rilievo e figurano come apologeti del cristianesimo. Uno è PROCOPIO, la cui vita cade tra il 465 e il 528, che fu autore di commentati del Vecchio Testamento; l'altro è ENEA vissuto nel medesimo tempo e che deve la sua celebrità nel Medio Evo al dialogo Teofrasto o sull'immortalità dell'anima e sulla resurrezione del corpo, composto prima del 534. Lo scritto è diretto contro la dottrina della preesistenza dell'anima e della sua trasmigrazione. Le anime non esistono prima della loro unione con il corpo, ma sono create da Dio al momento di questa unione. Dio ha creato tutte in una volta le intelligenze incorporee, ma crea giornalmente le anime degli uomini. Sulla stessa linea di pensiero si muove il fratello di Enea, ZACCARIA che fu vescovo di Mitilene, detto lo scolastico [cioè il retore] e morto prima del 533. Zaccaria è autore di un dialogo intitolato Ammonio inteso a combattere la dottrina dell'eternità del mondo. Notevole è il fatto che per negarne l'eternità Zaccaria neghi la necessità del mondo: procedimento tenute da tutte le critiche dello stesso genere che verranno in seguito. Il mondo è stato creato dalla volontà di Dio, perciò non è l'effetto necessario della natura divina e non è coeterno con Dio. All'obiezione che, se Dio non avesse creato il mondo ab aeterno, non sarebbe l'eterno creatore e fattore del bene, Zaccaria risponde che Dio ha in sé dall'eternità l'idea del mondo e di tutte le cose che lo compongono, e anche la potenza e la volontà di crearlo. Un costruttore è pur sempre un costruttore anche se al momento non costruisce nulla e un retore è sempre tale anche se non sempre pronuncia discorsi. Contro l'eternità del mondo scrisse anche un'opera il grammatico alessandrino GIOVANNI detto FILOPONO per la sua instancabile attività. Egli è anche autore di un'opera teologica intitolata Arbitro o dell'unità, di un'altra, Sulla resurrezione del corpo, e di un commentario al racconto biblico della creazione intitolato Sulla costruzione del mondo. Quest'ultimo e lo scritto Sull'eternità ci sono stati conservati; delle altre due opere abbiamo frammenti conservatici dal suo avversario Leonzio di Bisanzio e da Giovanni Damasceno. Giovanni Filopono intendeva per natura l'essenza comune degli individui e per ipostasi o persona la natura stessa circoscritta all'esistenza singola da determinate qualità. Perciò intendeva l'unità di sostanza in Dio come la natura comune delle tre ipostasi e faceva in tal modo, delle tre persone divine, tre esistenze particolari cioè tre divinità. Accanto a questo triteismo (che per altro ebbe in questo periodo, come in quello precedente, numerosi sostenitori) Giovanni ammetteva il monofisismo per ciò che riguarda l'incarnazione. Due nature non possono sussistere in un'unica ipostasi: nella persona di Cristo non può quindi sussistere che la natura divina. Il presupposto di queste interpretazioni dogmatiche è la logica aristotelica, alla quale Giovanni aveva dedicato un commentario: il significato di natura e di ipostasi è difatti desunto da Aristotele. È curioso notare che quando la logica aristotelica verrà di nuovo adoperata, ad opera di Roscellino di Compiègne, per l'interpretazione del dogma trinitario, porterà alla stessa conclusione triteistica. Al tempo di Giustiniano appartiene LEONZIO di Bisanzio vissuto tra il 475 e il 543 circa, autore di tre libri contro i Nestoriani e gli Eutichiani e di due scritti contro Severo, il patriarca monofisita di Antiochia. Il fondamento delle interpretazioni dogmatiche di Leonzio è la logica aristotelica filtrata attraverso gli scritti dei Neoplatonici. Per salvare l'interpretazione ortodossa del dogma dell'incarnazione, secondo la quale nell'unica persona di Cristo sussistono le due nature, umana e divina, e per tener fermo insieme il principio aristotelico che ogni natura non può sussistere che in un'ipostasi, Leonzio introduce il concetto di enipostasi, cioè di una natura che sussista, non in un'ipostasi propria, ma nell'ipostasi di un'altra natura. Tale è il caso della natura umana del Cristo, la quale non ha una sua ipostasi ma sussiste nell'ipostasi propria della natura divina di lui. Ma né in questa dottrina, che si trova già in Cirillo, il massimo antagonista dei monofisiti, né nelle altre, Leonzio assurge a originalità di pensiero. Pseudo Dionigi l'Areopagita. Verso il principio del VI secolo cominciano ad essere conosciuti e citati alcuni scritti il cui autore si qualifica come DIONIGI, colui che, secondo gli Atti degli Apostoli [XVII, 34], fu dalla predica dell'apostolo Paolo dinanzi all'Areopago convertito al cristianesimo. Motivi interni ed esterni dimostrano che essi non possono risalire al di là della fine del V secolo e che per tanto la loro attribuzione a Dionigi è impossibile. Difatti la fonte principale di questi scritti è il neoplatonico Proclo [411-85] di cui l'autore in qualche punto include estratti testuali. Come Proclo, Dionigi distingue una teologia affermativa, la quale, procedendo da Dio muove verso il finito con la determinazione degli attributi o nomi di Dio ed una teologia negativa, la quale procede dal finito a Dio e lo considera al di sopra di tutti i predicati o nomi con i quali si può designarlo. A questo secondo tipo di teologia appartiene il breve trattato Teologia mistica, secondo il quale la più alta conoscenza è il non sapere mistico: solo se si prescinde da ogni determinazione di Dio, si comprende Dio nel suo essere in sé. Nel trattato Sui nomi divini Dionigi insiste sull'impossibilità di designare adeguatamente la natura di Dio. Sebbene sia l'assoluta unità e il bene sommo di cui tutte le cose partecipano e senza di cui non potrebbero essere, Dio è superiore alla stessa unità, qual è da noi concepita: è l'Uno superessenziale, che è causa e principio di ogni numero e di ogni ordine. Esso non può essere designato veramente né come unità, né come trinità, né come numero, né come qualsiasi altro termine di cui ci serviamo per le cose finite. Il nome stesso di Bene, che è il più alto di tutti, è inadeguato all'altezza della perfezione divina. L'emanazione delle cose da Dio, che ha in sé le idee o modelli di tutte le realtà, è intesa da Dionigi come creazione. Il mondo non è uno stadio dello sviluppo di Dio, ma un prodotto della volontà divina. Tuttavia gli esseri del mondo sono tutti manifestazioni o simboli di Dio e perciò la considerazione di essi consente all'uomo di risalire a Dio e di rifare così all'inverso il cammino della creazione. Nei due trattati Sulla gerarchia celeste e Sulla gerarchia ecclesiastica Dionigi pone Dio al centro delle sfere nelle quali si ordinano tutte le cose create. Più vicine a lui sono le creature più perfette, mentre nelle sfere periferiche sono situate le creature meno perfette. La gerarchia celeste è costituita dagli angeli che si distribuiscono in 9 ordini riuniti in disposizioni ternarie. La prima è quella dei Troni, dei Cherubini e dei Serafini, la seconda è quella delle Podestà, delle Dominazioni e delle Virtù; la terza è quella degli Angeli, degli Arcangeli e dei Principati [De celesti hier., 6 sgg.]. Alla gerarchia celeste corrisponde quella ecclesiastica, disposta anch'essa in tre ordini. Il primo è costituito dai Misteri: Battesimo, Eucaristia, Ordine sacro. Il secondo è costituito dagli organi che amministrano i misteri: il Vescovo, il Prete, il Diacono. Il terzo è costituito da quelli che attraverso questi organi sono condotti alla grazia divina: Catecumeni, Energumeni e Penitenti. Il termine della vita gerarchica è la deificazione, la trasfigurazione dell'uomo in Dio. Esso si raggiunge soltanto attraverso l'ascesa mistica e il suo culmine è il non sapere mistico, la muta contemplazione dell'Uno. I libri di Dionigi seguono la falsariga neoplatonica, adattandola alla meglio alle esigenze cristiane, ma servendosi ancora della terminologia dei misteri, di cui si compiaceva il neoplatonismo. Tradotti da Giovanni Eriugena, ebbero nel Medio Evo una diffusione larghissima e costituirono il fondamento della mistica e dell'angelologia medievale. Massimo Confessore. Agli scritti del falso Dionigi si ispira MASSIMO, detto íl CONFESSORE, nato a Costantinopoli nel 580, morto nel 662. Egli fu il maggiore avversario del cosiddetto monoteletismo secondo il quale tutti gli atti di Cristo dipenderebbero dalla sola volontà divina, della quale la natura umana sarebbe lo strumento passivo. Questa dottrina fu poi condannata nel VI Concilio ecumenico del 680; ma la lotta contro di essa costò a Massimo persecuzioni e supplizi. Egli scrisse tuttavia numerose opere quasi tutte in forma di commenti o di raccolte di sentenze. Tra tali opere ci sono commenti allo pseudo Dionigi ed a Gregorio di Nazianzo [Ambigua in S. Gregorium theologum], opuscoli teologici e varie raccolte o florilegi di sentenze. Secondo S. Massimo, l'uomo può conoscere Dio non in se stesso ma soltanto attraverso le cose create, di cui Dio è la causa. Perciò può giungere a determinare solo gli attributi di Dio che le cose stesse rivelano: l'eternità, l'infinità, la bontà, la sapienza e via dicendo. Nel suo essere in sé, Dio è inconcepibile e inesprimibile. Le stesse perfezioni che noi gli attribuiamo sul fondamento della considerazione delle cose create sono; il disotto della sua natura, e possono quindi essere sia negate sia affermate di lui. L'influsso della teologia negativa dello pseudo Dionigi è qui evidente. Ed è pure evidente nella dottrina mistica di S. Massimo. Se noi volgiamo le spalle alle passioni che contrastano con la ragione e ci innalziamo al perfetto amore di Dio, possiamo giungere ad una conoscenza di Dio che trascende la ragione e il procedimento discorsivo e nella quale Dio si rivela immediatamente. Ma a questa conoscenza di Dio non si può giungere con le capacità della natura umana, ma mercé la grazia divina; la quale tuttavia non agisce da sola, ma innalza e perfeziona le capacità che sono proprie dell'uomo [Quaest. ad Thalassium, q. 59]. Il centro delle speculazioni teologiche di S. Massimo è il Dio-uomo. Per lui il Logos è la ragione e lo scopo ultimo di tutto il creato. La storia del mondo effettua un doppio processo: quello dell'incarnazione di Dio e quello della divinizzazione dell'uomo. Quest'ultimo poté iniziarsi soltanto con l'incarnazione e allo scopo di ristabilire nell'uomo l'immagine di Dio. Come principio di questo secondo processo, Cristo doveva necessariamente essere vero Dio e vero uomo. Le due nature in lui non si mescolano e non incrinano l'unità della persona. Poiché a ciascuna delle due nature è connessa la capacità dì volere, in Cristo sussistevano due volontà, la divina e l'umana; ma la volontà umana era condotta alla decisione e all'azione dalla volontà divina. Massimo il confessore Giovanni Damasceno. Riassume i caratteri dell'ultimo periodo della patristica e conclude la patristica stessa nel suo ramo orientale, riprendendone e sistemandone i risultati, Giovanni Damasceno. Non si conosce l'anno della sua nascita. Si sa che apparteneva a una famiglia cristiana di Damasco nella quale era ereditario di padre in figlio un ufficio pubblico per conto del governo arabo; e Giovanni portava infatti anche il nome arabo di Mansur. Verso il 730 comincia la sua attività di scrittore teologico in favore del culto delle immagini che era stato vietato qualche anno prima da Leone l'Isaurico. Quando nel 754 Giovanni fu condannato da un Concilio iconoclasta di Costantinopoli, era già morto. La più famosa delle sue opere è la Fonte della conoscenza, che è divisa in tre parti. La prima parte è un'introduzione filosofica che segue da vicino la metafisica e la logica di Aristotele. La seconda è una storia delle eresie condotta in buona parte sul Panario di Epifanio. La terza è dedicata all'esposizione della fede ortodossa, e con questo titolo appunto [De fide orthodoxa] fu tradotta in latino da Burgundione di Pisa, morto nel 1194, divenne uno dei testi fondamentali della scolastica. L'opera di Giovanni Damasceno non è che una compilazione, nella quale la parte originale è scarsissima. Ma essa ha il merito di raccogliere e riordinare sistematicamente tutta la speculazione della patristica greca che la Chiesa ha riconosciuta e fatta sua. La sua opera è quindi una specie di florilegio della patristica stessa, messa insieme con il criterio dell'ortodossia. Giovanni ribadisce il principio della subordinazione delle scienze profane alla teologia ed in particolare afferma che la filosofia deve essere la serva della teologia, secondo un'espressione che doveva essere ripresa nella scolastica da Pier Damiani. Come serva della teologia, la filosofia fornisce certi presupposti fondamentali della fede e in primo luogo la dimostrazione dell'esistenza di Dio. La dimostrazione è attinta da Giovanni ad altri scrittori, ma la formulazione che egli ne dà è quella dalla quale hanno preso lo spunto molti scolastici, fra i quali S. Tommaso. In primo luogo, tutto ciò che è creato è mutevole, giacché la creazione stessa è mutamento (dal nulla all'essere). Ma tutto ciò che è nel mondo sensibile o spirituale è mutevole, quindi creato: suppone dunque un creatore, che non sia creato a sua volta ma increato; e questo è Dio. In secondo luogo, la conservazione e la durata delle cose suppongono l'esistenza di Dio. Giacché elementi diversi e contrastanti come il fuoco, l'acqua, la terra, l'aria non potrebbero rimanere congiunti senza distruggersi se non intervenisse una forza onnipotente a tenerli e a conservarli insieme; e questa forza onnipotente è Dio. Infine l'ordine e l'armonia del mondo non possono essere prodotti dal puro caso e presuppongono un principio ordinatore, che è Dio. Ma se l'esistenza di Dio può essere raggiunta dalla ragione umana, l'essenza di lui è incomprensibile. «La divinità, dice Giovanni, è indeterminabile e incomprensibile; e questo solo può essere compreso di essa, la sua indeterminabilità e incomprensibilità». Noi possiamo negare di essa tutto ciò che contrasta con la sua perfezione infinita e possiamo attribuirle tutto ciò che è implicito in tale perfezione; ma la via più sicura è la negativa perché ogni attributo positivo è impari a Dio. Si tratta, come si vede, di nozioni familiari a tutta la patristica orientale, che il Damasceno riproduce con le stesse formule. Con lo stesso procedimento egli tratta la natura dell'anima umana che ritiene naturalmente immortale, perché appartenente al novero delle sostanze incorporee e spirituali, e dotata di libero arbitrio. Questo non è negato dalla prescienza divina, che prevede tutto ma non predetermina tutto: il male dipende unicamente dal libero volere dell'uomo. Romanzo di Barlaam e Joasaf Giovanni di Damasco o Damasceno (c. a. 690-749). Giovanni era stato iniziato alla dottrina teologica dal monaco Cosma, riscattato dalle mani dei pirati saraceni dal padre, logoteta, ossia governatore civile della popolazione greca sotto gli Arabi [carica che sarà anche di Giovanni]. Intorno al 725 si era ritirato nel monastero di San Saba a Gerusalemme, dove aveva ricevuto l'ordinazione sacerdotale. Durante gli anni della lotta iconoclasta difese strenuamente la liceità delle immagini sacre e subì poi la curiosa sorte di essere scomunicato dopo morto, nel 754 [a Hieria], e riabilitato più tardi, al concilio di Nicea. Viene considerato l'ultimo grande Padre della Chiesa greca, colui che compì la sintesi della patristica orientale nell'opera intitolata Fonte della conoscenza, dove dopo aver trattato della Trinità, della creazione e dell'incarnazione, nel quarto libro Giovanni difende il culto delle immagini, sottolineandone il valore pedagogico e morale, e distinguendolo dall'idolatria. Le immagini furono proibite nell'Antico Testamento, ma dopo la venuta di Cristo hanno il ruolo di tramandare ai posteri lo straordinario evento del Dio che assume una natura di uomo Molto discussa è l'attribuzione al Damasceno del celebre Romanzo di Barlaam e Joasaf, che è un adattamento greco della leggenda popolare di origine buddhistica. L'opera è un romanzo agiografico edificante che, sul fondo della vita di Buddha, inserisce elementi tratti dal mondo monastico e dalla polemica religiosa cristiana. Ví si narra di un re che, per impedire il compimento delle predizioni degli astrologi, la conversione cioè del proprio figlio al cristianesimo, lo fa vivere isolato in uno splendido palazzo appositamente costruito, tra gioie e piaceri, lontano dalle miserie della vita. Ma nonostante queste misure precauzionali, la crudele tirannide del dolore giunge agli occhi e all'anima del giovane: l'impressione suscitatagli dalla visione di un malato, di un cieco, di un vecchio e, poi, di un morto determina la sua intima trasformazione che, attraverso l'incontro di un asceta cristiano, Barlaam, diventa conversione al cristianesimo. Né il padre riesce a mutare la decisione del figlio; alla fine anzi, si converte anche lui. Il principe, poi, si ritira nella solitudine del deserto, dove vive una vita da pio asceta fino alla morte. Le sue ossa seppellite in una magnifica chiesa operano grandi miracoli. L'opera è una nuova testimonianza preziosa della grande capacità di sintesi e dí sincretismo, anche degli elementi più contrastanti, che il mondo bizantino riesce a operare e che ha ereditato dall'ellenismo: capacità che si manterrà soprattutto nella letteratura romanzesca. La leggenda buddhistica cristianizzata si diffuse nel mondo bizantino e passò anche nel mondo occidentale, trovando echi in opere letterarie e nelle arti figurative. Scrittori latini. Gli scrittori latini dell'ultima patristica si muovono sulla scia di Sant'Agostino e manifestano la stessa assenza di originalità speculativa dei loro contemporanei greci e la stessa tendenza a riesporre, coordinare e sistemare dottrine già conosciute. Iniziatore del semipelagianismo fu Giovanni Cassiano, nato verso il 360 nella Gallia meridionale, morto nel 435, autore di uno scritto sull'organizzazione e le regole dei monasteri e di un'opera intitolata Collationes che è il resoconto di colloqui tenuti da lui e dal suo amico Germano con eremiti egiziani. Appunto in quest'opera, Cassiano sostiene la tesi che Dio illumina e rafforza la buona volontà che nasce nell'uomo, ma che questa volontà ha origine soltanto dallo sforzo umano. Se il buon volere non basta all'uomo, quando non è sorretto dalla grazia divina, questa grazia tuttavia non è data se non a colui che ha buona volontà. La tesi di Cassiano si diffuse largamente nei monasteri del mezzogiorno della Gallia. Claudiano Mamerto, che fu prete a Vienne nel Delfinato e morì intorno al 474, è autore di uno scritto in tre libri, De statu animae, composto nel 468 o 469, nel quale si difende l'incorporeità dell'anima umana. E impossibile che l'anima stia sotto la categoria della quantità, che è propria del corpo; giacché le sue potenze, memoria, ragione, volontà sono prive di quantità, quindi incorporee. Ora queste capacità dell'anima sono la sua stessa sostanza: giacché tutta l'anima è ragione, volontà, memoria; ne segue che l'anima intera è priva di quantità ed è incorporea [De statu an., III, 14]. L'anima è la vita del corpo ed è quindi presente in tutte le parti del corpo; ma è presente in un modo che esclude la sua distribuzione spaziale perché è tutta in tutto il corpo e tutta in ogni singola parte del corpo. La sua presenza nel corpo è identica a quella di Dio nel mondo. L'anima dunque ha la stessa incorporeità di Dio. Si tratta di un riassunto della dimostrazione agostiniana dell'immaterialità dell'anima. Verso il 430 Marciano Capella componeva il suo scritto De nuptiis Mercurii et Philologiae, un prospetto di tutte le arti liberali, che rimase uno dei testi fondamentali dell'erudizione medievale. Ma colui al quale si deve la sopravvivenza di una parte notevole della filosofia greca nel Medio Evo è Anicio Manlio Torquato Severino Boezio, nato a Roma intorno al 480, console di Roma sotto il re Teodorico, poi caduto in disgrazia di costui, incarcerato e messo a morte nel 524. Boezio si era assunto il compito di tradurre e interpretare tutte le opere di Platone e di Aristotele e di dimostrare il loro accordo fondamentale; ma solo in piccola parte riuscì a realizzare questo vasto progetto. Noi possediamo le versioni degli Analitici I e II, dei Topici (di cui è andato perduto un commentario), degli Elenchi sofistici e del De interpretatione con due commentari, delle Categorie con un commentario. Abbiamo inoltre il commentario alla versione di Mario Vittorino dell'Isagoge di Porfirio, la sua versione dell'Isagoge con un commentario ed altri lavori di logica. Tra questi ultimi sono importanti quelli sul sillogismo ipotetico giacché in essi Boezio, sull'esempio stesso degli Aristotelici, innesta la logica stoica sul tronco della logica aristotelica; e fu da questi scritti e da quelli di Cicerone che gli scrittori medievali ebbero conoscenza della logica stoica. Ma l'opera più famosa di Boezio è il De consolatione philosophiae, che anch'essa è scarsamente originale perché risulta dall'utilizzazione di varie fonti tra le quali il Protrettico di Aristotele, conosciuto forse attraverso qualche scritto più recente che lo riproduceva. L'opera è scritta in forma retorica e allegorica e la filosofia viene presentata nella figura di una nobile dama che conforta Boezio e risponde ai suoi dubbi. Nulla di specificamente cristiano si trova nell'opera e così non è mancato chi, in tempi recenti, ha creduto che Boezio fosse pagano, oppure cristiano soltanto di nome, e che pertanto fossero apocrifi gli opuscoli teologici che ci rimangono di lui [De Sancta Trinitate; Utrum Pater et Filius et Spiritus Sanctus de divinitate substantialiter praedicentur; Quomodo substantiae in eo quod sint bonae sint; De fide; Liber contra Nestorium et Eutychen]. Ma l'autenticità di questi scritti ad eccezione del De fide, è suffragata, oltre che dalla testimonianza dei codici, da quella del contemporaneo di Boezio, Cassiodoro e pertanto non può essere posta in dubbio. D'altronde se il De consolatione manca di qualsiasi accenno ai misteri del cristianesimo, è permeato di quello spirito platonico o neoplatonico che gli scrittori della patristica considerano sostanzialmente cristiano. Le traduzioni e gli scritti logici di Boezio hanno assicurato la sopravvivenza della logica aristotelica anche nel periodo della maggiore oscurità medievale e ne hanno fatto un elemento fondamentale della cultura e dell'insegnamento medievale. Quanto al De consolatione, essa è fra le opere più famose del Medio Evo. E' divisa in 5 libri ed è mista di versi e prosa. Il primo libro è una specie di introduzione nella quale la filosofia si presenta a Boezio nella forma di una augusta matrona che viene a portargli conforto nella triste condizione in cui si trova, non per sua colpa, ma per aver voluto seguire la verità e la giustizia. Nel secondo libro, la filosofia fa vedere a Boezio che la felicità non consiste nei beni della fortuna, che sono mutevoli e caduchi e che, anche quando si posseggono, portano con sé il pericolo e il timore della perdita. La felicità deve consistere in una condizione che escluda qualsiasi timore di questo genere, e comprenda in sé tutti i beni che rendono l'uomo sufficiente a se stesso. Il terzo libro contiene appunto la teoria della felicità così intensa. È evidente che essa non può consistere né nella ricchezza, né nella potenza, né negli onori, né nella gloria, né nei piaceri. Nessuno di questi è il bene sommo, il bene di cui nulla è migliore e che rende l'uomo autosufficiente. Rimane dunque che la felicità consista in Dio stesso, in quanto è l'essere di cui non si può concepire il migliore, quindi il bene supremo. Dio è insieme l'origine di tutte le cose e il fondamento della vera felicità umana (III, 10). Il quarto libro esamina in che modo Dio, come supremo bene, regge il mondo ed espone una teoria della provvidenza e del fato. La provvidenza è il piano dell'ordine e della disposizione del mondo nell'intelligenza divina; il fato è l'ordine stesso che da quel piano viene determinato nel mondo. «La provvidenza è la stessa ragione [ratio] divina che costituita nel supremo Principe di tutto, dispone tutte le cose; il fato è la disposizione inerente alle cose mutevoli, disposizione per la quale la Provvidenza assegna ogni cosa al suo ordine proprio» (IV, 6). L'ordine del fato, nella molteplicità dei suoi sviluppi temporali, dipende dunque dalla ragione stessa di Dio. I problemi che nascono da questo concetto della Provvidenza e del fato sono esaminati nel quinto libro. La Provvidenza ed il fato sembrano escludere a prima vista la libertà; ma in tal caso inutile sarebbe all'uomo la ragione che serve a giudicare e a scegliere liberamente. La risposta della filosofia al problema è che, se Dio prevede tutto, non prevede che tutto avvenga con necessità. La previsione di un evento non implica che l'evento si debba necessariamente realizzare. In Dio poi la previsione è inerente alla natura della sua vita, che è una eternità priva di qualsiasi successione. In Lui non esiste né il passato né il futuro e la sua scienza è la conoscenza totale e simultanea di tutti gli eventi che si verificano successivamente nel tempo (V, 6). In Lui sono presenti anche gli eventi futuri, ma sono presenti nel modo stesso del loro accadimento: e quelli che dipendono dal libero arbitrio sono presenti appunto nella loro contingenza (V,6). L'importanza di Boezio per la cultura medievale è stata grandissima. Il De consolatione ha avuto numerosissimi commenti, le opere logiche hanno introdotta la logica aristotelica [come si è detto] nell'insegnamento e nella cultura scolastica. I suoi opuscoli teologici hanno fornito alle discussioni teologiche medievali i concetti, la terminologia e il metodo. Con tutto ciò, Boezio non assurge al rango di pensatore originale. E' un abile compilatore ed un retore eloquente, che ha saputo adattare alla lingua e alla mentalità latina la speculazione greca, seguendo le orme di S. Agostino, di cui ha fatto proprio il motto: unisci, nei limiti del possibile, fede e ragione. Contemporaneo ed amico di Boezio ma di tempra diversa fu Magno Aurelio Cassiodoro, nato verso il 477 a Squillace in Calabria, ministro di Teodorico e dei suoi successori. Nel 540 abbandonò la corte e si ritirò nel monastero di Vivario da lui fondato per dedicarsi alla vita spirituale ed alla scienza, e lì morì nel 570. Di Cassiodoro hanno grande interesse storico le lettere che egli scrisse per conto di Teodorico, la cui raccolta porta il nome di Variae e la Storia dei Goti, che ci è giunta solo in un estratto. L'opera più importante, che egli scrisse nel chiostro, sono le Istitutiones divinarum et saecularium lectionum in due libri: il primo indica gli autori che vanno studiati come guida delle discipline teologiche, il secondo è un manuale delle sette arti liberali. L'opera doveva servire ai monaci e fu nel Medio Evo uno dei manuali più usati. In un breve scritto, De anima, Cassiodoro si propone di dimostrare, sulle orme di Claudiano Mamerto, l'incorporeità dell'anima umana. Lo scritto riproduce gli argomenti di Mamerto che a loro volta, come si è visto, erano desunti da Sant'Agostino. L'ultima figura della patristica è il papa Gregorio Magno nato a Roma probabilmente nel 540, consacrato pontefice nel 590, morto nel 604. Documento dell'attività papale di Gregorio è il Registrum epistolarum, la collezione delle sue lettere ufficiali. Il Liber regulae pastoralis delinea il cómpito del pastore di anime. I Dialoghi trattano della vita e dei miracoli di diversi uomini pii d'Italia, il più noto dei quali è S. Benedetto di Norcia. Gregorio scrisse pure un'esposizione del libro di Giobbe e due raccolte di omelie sugli Evangeli e su Ezechiele. La parte speculativa di tutti questi scritti è molto ristretta. L'importanza di Gregorio sta tutta nell'avere egli cercato di conservare, in un periodo di decadenza totale della cultura, le conquiste dei secoli passati. Il tempo in cui egli viveva sembrava aver portata la distruzione totale della cultura e di ogni civiltà e preannunziare la fine del mondo. «Le città sono spopolate, scriveva Gregorio (Dial., III, 38), i villaggi travolti, le chiese bruciate, i monasteri di uomini e donne distrutti, i campi abbandonati dagli uomini sono privi di chi li coltivi, la terra è deserta nella solitudine e nessun proprietario la abita, le bestie hanno occupato i luoghi che prima erano affollati di uomini. Io non so quello che accade nelle altre parti del mondo. Ma nella terra in cui noi viviamo, la fine del mondo non solo si annunzia, ma già si mostra in atto». La desolazione di una civiltà infranta e crollata non si poteva descrivere meglio. In questa desolazione la cultura si mantiene viva soltanto in qualche figura solitaria di erudito che l'attinge alle opere del passato e la trasmette in rozzi e disordinati compendia. Così Isidoro di Siviglia, nato verso il 570, morto nel 636, compose una serie di opere che dovevano servire alle scuole abbaziali ed episcopali, dove si formavano i chierici. Queste opere hanno un carattere di pura compilazione: nozioni eterogenee sono poste insieme, senza neppure un tentativo di unificazione. Nel De natura rerum Isidoro espone l'astronomia e la meteorologia attinte alle Questioni naturali di Seneca. Nel De ordine creaturarum espone la gerarchia degli esseri spirituali, secondo il modello neoplatonico. Nelle Sententiae fa la storia dell'umanità dalla creazione e tratta della grazia, delle condizioni della vita terrestre dell'uomo e del diritto naturale. L'opera più celebre sono i 20 libri di Origini o Etimologie, una specie di enciclopedia, dove è condensato tutto il sapere del passato, dalle arti liberali all'agricoltura e alle altre arti manuali. Gran parte di questa enciclopedia è destinata a ricerche grammaticali, ma non è trascurato ciò che può essere utile ad una educazione filosofico-teologica. Vi sono nel mezzo estratti desunti dalle opere di scrittori classici e dei Padri della Chiesa, in particolare di Gregorio Magno. La filosofia vi è definita, con gli Stoici, come «la scienza delle cose umane e divine» ed è divisa in fisica, etica e logica. Attraverso l'opera di Isidoro di Siviglia i risultati della scienza antica venivano sottratti al naufragio e destinati ad alimentare il lavoro intellettuale dei secoli successivi. San Cutberto mentre viene convinto da re Egfrido ad accettare la carica di Vescovo di Lindisfarne, nel 685. La miniatura è tratta da un codice che contiene il testo della Vita di san Cutberto scritta dal monaco benedettino Beda il Venerabile. La stessa natura hanno gli scritti di BEDA il Venerabile, nato nel 674 in Inghilterra, morto nel 735 nel chiostro di Jarrow. Beda ha fornito al cattolicesimo inglese lo stesso armamentario intellettuale che Isidoro ha fornito a quello spagnolo. Il suo De natura rerum fondato prevalentemente sull'opera di Plinio il Vecchio dà la stessa immagine del mondo del trattato omonimo di Isidoro. Beda è anche autore di scritti grammaticali e cronologici e di una Storia ecclesiastica della gente degli Angli che va sino al 731. Dal punto di vista filosofico, Beda si ispira alle opere di S. Agostino. In particolare ritiene che la materia del mondo contenga i semi di tutte le cose e che da essi, come da cause primordiali, si sviluppino nel corso del tempo tutti gli esseri del mondo. L'uomo è un microcosmo; la storia si divide in parti corrispondenti alle sette giornate della creazione. Beda è un altro anello della catena attraverso la quale la cultura antica si trasmette al Medio Evo. Enciclopedia termini lemmi con iniziale a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z Storia Antica dizionario lemmi a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z Dizionario di Storia Moderna e Contemporanea a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w y z Lemmi Storia Antica Lemmi Storia Moderna e Contemporanea Dizionario Egizio Dizionario di storia antica e medievale Dizionario Storia Antica e Medievale Prima Seconda Terza Parte Storia Antica e Medievale Storia Moderna e Contemporanea Dizionario di matematica iniziale: a b c d e f g i k l m n o p q r s t u v z |
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