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Anno 2011 Ricerca scientifica Le ricerche di Medicina
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Anno 2011. Processo foto-sintetico. Dal Giappone arriva Ha una massa pari a tre volte e mezzo quella Un pianeta abitabile 2.4 volte più grande della Sono stati scoperti i due più grandi buchi neri I ricercatori statunitensi trovano il modo di La Terra è avvolta da un "guscio" di antimateria: Mentre andavano a caccia della ormai celebre
Una Nuova Stella. |
Anno 2011. Medicina. Le ricerche del 2011. Dal primo trapianto di laringe al mondo ai geni di alcune alghe che possono ridare la vista, al rilascio di zanzare anti-dengue fino alla prevenzione del cancro del colon retto con l’aspirina: sono queste alcune delle scoperte e dei trattamenti di salute più interessanti e promettenti che hanno caratterizzato il 2011, secondo la rivista ‘New Scientist’, che ha stilato la sua top-ten. Al primo posto c’è il pionieristico trapianto combinato di laringe, tiroide e trachea, che ha ridato la voce a una donna. Segue il nuovo trattamento preventivo del tumore del colon retto con un’aspirina al giorno, utile per chi ha il rischio per via ereditaria di sviluppare il cancro. Altra storia che ha caratterizzato il 2011 è stato l’aver svelato come l’orgasmo, il piacere e il dolore alterano il cervello, e l’aver visto che patologie come il diabete, il Parkinson e l’obesità potrebbero essere curate rimpiazzando i batteri dell’intestino. Tra gli altri studi interessanti c’è quello che ha consentito di vedere gli effetti dei geni di un’alga sulla vista delle persone cieche, l’aver fatto crescere per la prima volta spermatozoi fuori dai testicoli, il rilascio di 300.000 zanzare anti-dengue in Australia, e l’aver annullato i danni dell’ Alzheimer con una profonda stimolazione cerebrale con impulsi elettrici. Infatti in più della metà dei casi di Alzheimer prima dei 60 anni, viene posta inizialmente una diagnosi scorretta a causa della diversità dei sintomi cognitivi rispetto alle forme più tardive: in particolare, i soggetti non sembrano evidenziare problemi di memoria. È questa la conclusione di uno studio in cui sono stati considerati 40 casi di Alzheimer registrati presso la banca dei tessuti neurologici dell'Università di Barcellona, in Spagna, e diagnosticati post mortem con un'autopsia. Contestualmente, sono state anche riesaminate le informazioni riguardanti l'età di manifestazione dei primi sintomi e la storia familiare. In circa il 38 % dei casi, i sintomi iniziali erano diversi dal deficit di memoria, e comprendevano disturbi del comportamento, del linguaggio e della visione, uniti a un declino delle funzioni esecutive. Nelle persone con sintomi atipici e nessun problema di memoria, il 53 % aveva ricevuto una diagnosi scorretta rispetto al 4 % di coloro che manifestavano problemi di memoria. Più nello specifico, agli stessi soggetti era stata diagnosticata nella maggior parte dei casi un altro tipo di demenza. L’aspetto più drammatico emerso dalla ricerca è che per il 47% dei pazienti con sintomi iniziali inusuali, l’Alzheimer non era stato ancora riconosciuto al momento del decesso. Per quanto riguarda l’area medica propriamente detta, tra le scoperte importanti che renderanno memorabile il 2011 ci sono: la mappa dei batteri, ovvero lo studio e la classificazione dei batteri che caratterizzano soprattutto il nostro apparato digerente, aiutandoci nella selezione delle proteine del cibo e nell’eliminazione delle tossine. Grazie a questa mappatura si potranno studiare meglio le malattie della zona gastrica ma la teoria si potrà estendere ad altri tipi di batteri in altre zone del corpo; il vaccino antimalaria, sperimentato su 15.000 bambini malati di diversi paesi africani e asiatici colpiti da questa malattia e che sta dando risultati più che soddisfacenti; l’arresto dell'invecchiamento, grazie ad alcuni esperimenti condotti sui gatti sui quali, eliminando le cellule morte, si riusciva a inibire il processo di invecchiamento cellulare in tutto l'organismo; infine, naturalmente, le cure contro l'AIDS che stanno per giungere a una tanto attesa svolta grazie agli ultimi studi portati a termine in questo anno e che in alcuni casi hanno fatto registrare risultati positivi sul 96% dei soggetti testati. Gli studiosi si sono chiesti se l’assunzione precoce dei farmaci potesse ridurre il livello di trasmissione della malattia. Sulla questione si è acceso un lungo e complesso dibattito, finché proprio nel 2011, è arrivata la conferma scientifica, in base alla quale, in termini di prevenzione dell'AIDS, i farmaci retrovirali diminuiscono in maniera ingente il pericolo di trasmissione del virus. Le ultime scoperte sull’AIDS hanno dato più certezze sul rischio di contagio dell'HIV. Nuovi rimedi contro l’influenza. Mai un’influenza, mai una linea di febbre. C’è chi dimostra di essere particolarmente resistente agli acciacchi stagionali, al contrario di chi al primo fiato di vento comincia a starnutire. Oggi gli studiosi hanno individuato il "superanticorpo" che garantisce eterna salute. Questione di geni insomma, a sostenerlo è uno studio pubblicato su Plos One da un gruppo di ricercatori guidati da Massimo Clementi e Roberto Burioni. La scoperta è stata fatta studiando il sistema immunitario "di un individuo che ricordava di non essere stato mai colpito dall’influenza nonostante un’intensa esposizione al virus". E la conclusione è che vi sono persone il cui sistema immunitario riesce ad attaccare il virus influenzale producendo un anticorpo estremamente potente. Coloro in grado di farlo sono pochi, ma grazie alla scoperta del "talento" di cui sono dotati, si apre ora la porta ad una nuova generazione di farmaci antinfluenzali e di vaccini in grado di stimolare proprio questi anticorpi "invincibili" anche in chi normalmente non ne produce. Il cervello cura il diabete. Uno studio giapponese ha impiantato cellule celebrali nel pancreas dei topi scoprendo che sono un efficace trattamento per questa patologia. Il diabete affligge 26 milioni di persone negli Stati Uniti e ben 200 milioni di persone nel mondo. È la settima causa di morte nel mondo ed ogni anno le terapie costano 174 miliardi di dollari. Se il risultato ottenuto con i topi fosse applicabile all’uomo si otterrebbe una nuova ed efficace terapia. Le cellule staminali neurali estratte dall’ippocampo dei topi sono state iniettate nel pancreas dei roditori malati. I topi hanno evidenziato un abbassamento del livello di zuccheri nel sangue. Trapiantando cellule staminali neurali direttamente nel pancreas si libera l’abilità intrinseca di regolare la produzione di insulina, e ancor pù importante si dimostra che le cellule possono essere estratte da un paziente senza bisogno di manipolazione genetica. Sale e ipertensione. Una nuova ricerca ha permesso di compiere un notevole passo in avanti nella comprensione dei meccanismi che determinano la correlazione tra consumo di sale e pressione arteriosa. Secondo i risultati dello studio, il sale indurrebbe un aumento dei valori pressori perché renderebbe più difficoltoso per il sistema cardiovascolare regolare sia la pressione sanguigna sia la temperatura. Da decenni, la ricerca medica sta cercando di chiarire in che modo i valori di pressione siano legati all’introito di sale. Alcuni individui, descritti come altamente sensibili, mostrano un incremento della pressione arteriosa, contrariamente alle persone in cui tale reazione fisiologica non si verifica. Tenuto conto che l’apparato cardiovascolare è responsabile del mantenimento della pressione normale e aiuta anche a controllare la temperatura corporea trasferendo il calore dai muscoli e dagli organi interni alla superficie della pelle, un gruppo di ricercatori guidati Robert P. Blankfield, professore di medicina di famiglia della Case Western Reserve University School of Medicine, e da Ellen L. Glickman, docente di scienze motorie della Kent State University, ha verificato se questo duplice ruolo potesse spiegare l'ipertensione sensibile al sale. Si è così proceduto a esaminare la reazione di un gruppo di 22 soggetti di sesso maschile in salute non affetti da ipertensione all'assunzione di acqua e sale. A tutti è stata rilevata a intervalli regolari una serie di parametri, quali pressione sanguigna, temperatura rettale e indice cardiaco (il volume di sangue pompato dal cuore in un minuto). Si è così riscontrato come l'ingestione di sale e acqua diminuisca la temperatura corporea più dell'ingestione di sola acqua. In particolare, nei soggetti resistenti al sale la temperatura diminuiva in misura maggiore che in quelli sensibili. Sembra che i soggetti sensibili al sale mantengano l’omeostasi termica in modo più efficace rispetto a quelli resistenti, ma sperimentano un incremento di pressione nel processo. Per converso, gli individui resistenti, mantengono un corretto valore di pressione arteriosa con l’introito di acqua e sale ma sperimentano una più intensa riduzione di temperatura nel processo. Se i risultati fossero generalizzabili, sarebbe possibile rendere conto del ruolo del sale nello sviluppo dell'ipertensione negli individui sensibili, in cui l’effetto persiste per breve tempo dopo l'assunzione. Questo innalzamento temporaneo dei valori pressori, non importa se brevi o prolungati, potrebbero dare il via a una complessa catena di processi all’interno delle arterie grandi e piccole che caratterizzano i soggetti con ipertensione essenziale. Le infezioni batteriche. Le infezioni rappresentano una delle principali cause di morte nelle unità di cura intensiva degli ospedali: per cercare di mitigare questo problema è stata messa a punto una tecnica di manipolazione di un fattore genetico in grado di indurre una risposta efficace da parte dell'organismo. Gli studiosi hanno scoperto che stimolando in modo indiscriminato il sistema immunitario in realtà si può aumentare la gravità delle condizioni del paziente: quando un paziente soffre di una sepsi allo stadio terminale, occorre paradossalmente impedire che il sistema immunitario possa determinare un shock e quindi la morte. Secondo quanto esposto in un articolo sulla rivista Immunity, la chiave per migliori terapie della sepsi è sapere quando attivare e quando disattivare il fattore di trascrizione di Kruppel di tipo 2 (KLF2). All’interno delle cellule immunitarie chiamate macrofagi, il KLF2 regola le attività cellulari secondo i segnali dell’ambiente interno. Normalmente, il fattore mantiene le cellule immunitarie in uno stato quiescente; durante la prima fase dell’infezione, quando il batterio comincia il suo attacco, i risultanti bassi livelli di ossigeno e l’alta quantità di prodotti batterici determinano una riduzione del livello di KLF2. Quest’ultima a sua volta determina il rilascio da parte dei macrofagi di sostanze che uccidono i batteri. Ma quando la sepsi entra nella seconda fase, caratterizzata da bassa temperatura corporea e bassa pressione, danno ai tessuti e agli organi, le difese interne dell'organismo sono pericolose perché promuovono un’infiammazione che può causare shock e morte. In questa fase occorre promuovere l'azione del KLF2 e calmare quest’infiammazione senza controllo. Il corpo, tuttavia, non fa questo in modo naturale: i ricercatori non sanno perché, ma sospettano che l’ipossia continuata e la presenza di prodotti batterici in circolo mantenga bassi i livelli di KLF2. La ricerca si basa su una scoperta dello stesso laboratorio di Jain del 2006 del KLF2 nei macrofagi. In questo nuovo studio, i test hanno mostrato che i topi mancanti di KLF2 riuscivano a superare in modo efficace le infezioni polimicrobiche nella prima fase dell’infezione. Nell’ultima fase, per contro, gli stessi animali avevano una maggiore mortalità e morivano in più giovane età. L’analisi di campioni di sangue raccolti da pazienti ricoverati in ospedale e colpiti da sepsi mostravano lo stesso fenomeno. Il gruppo è ora alla ricerca di composti che possano ridurre la quantità di KLF2 nella prima fase dell'infezione e di altri che possano elevarla nella seconda fase. Si è riscontrato che le statine, la classe di farmaci utilizzati per ridurre i livelli di colesterolo, e il resveratrolo, la sostanza presente nel vino rosso che si ritiene possa elevare i livelli di colesterolo buono, possano essere utili per combattere le sepsi. Preservare le ossa per contrastare la distrofia. La lotta alla distrofia di Duchenne passa anche per la salute delle ossa: uno studio finanziato da Telethon condotto presso l’Università dell'Aquila e l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma indica una nuova strada per contrastare questa grave malattia neuromuscolare, che compromette progressivamente i muscoli di gambe e braccia, quelli del respiro e il cuore. Il lavoro è parte di un ampio progetto multicentrico il cui obiettivo era capire se particolari messaggeri chimici del nostro organismo, fra cui l'interleuchina-6 (IL-6), potessero avere un ruolo nella distrofia muscolare di Duchenne. In questo studio si è dimostrato sia nel modello animale sia nelle cellule di bambini distrofici, che questa stessa molecola è coinvolta nella perdita di tessuto osseo già nelle prime fasi della malattia, quando la capacità di camminare non è ancora compromessa. Le condizioni delle ossa sono strettamente correlate a quelle dei muscoli: quando il muscolo è debole, anche l’osso si danneggia di conseguenza, perché non riceve un adeguato stimolo meccanico. È quanto accade non solo nelle malattie neuromuscolari come la distrofia, ma anche durante l'invecchiamento, in condizioni di sedentarietà prolungata o di paralisi, oppure anche agli astronauti sottoposti per lungo tempo alla mancanza di forza di gravità. Allo stesso tempo, un osso debole non fornisce al muscolo un adeguato sostegno e contribuisce così alla debolezza progressiva che si osserva in questi pazienti. In condizioni normali le nostre ossa sono sottoposte a due processi opposti: la deposizione di nuovo tessuto, mediata da cellule chiamate osteoblasti, e il riassorbimento di tessuto vecchio, ad opera invece degli osteoclasti. Nelle persone sane c’è un equilibrio perfetto, mentre quello che abbiamo osservato nei bambini distrofici è che c’è un forte aumento dell’attività degli osteoclasti accompagnato da una riduzione di quella degli osteoblasti, associati proprio all'aumento di IL-6 nel sangue. In termini clinici questo si traduce in una riduzione dell’accrescimento delle ossa e in un aumento della loro fragilità. Questo risultato spiega innanzitutto un fenomeno che in precedenza si pensava dovuto soltanto all'effetto dei glucocorticoidi, farmaci antinfiammatori che attualmente sono utilizzati per rallentare la progressione della malattia ma che alla lunga hanno pesanti effetti collaterali, anche sui muscoli. Soprattutto suggerisce un'alternativa per prolungare la capacità di camminare in questi bambini. Scopo finale delle ricerche in corso è proprio fornire un’alternativa al trattamento con i glucocorticoidi, tale da rappresentare una terapia di supporto più efficace nel mantenere una migliore funzionalità del sistema muscolo-scheletrico. Questo è particolarmente importante nel caso della distrofia di Duchenne, visto che sono attualmente in sperimentazione diversi approcci terapeutici che richiedono però di iniziare il trattamento quando la capacità di camminare non è ancora del tutto compromessa dalla malattia. La struttura del colesterolo "buono". La struttura del colesterolo HDL - il cosiddetto colesterolo buono - è stata ricostruita per la prima volta da un gruppo di ricercatori dell’Università di Cincinnati (UC) coordinato da Sean Davidson, professore di anatomia patologica del dipartimento di medicina dell'UC. Il risultato, pubblicato sulla rivista Nature Structural & Molecular Biology è il primo passo per poter riuscire a spiegare perché questa sostanza sia in grado di proteggere dai disturbi cardiovascolari, incluso l'infarto del miocardio e l’ictus. Il colesterolo HDL, o lipoproteina ad alta densità è un insieme di proteine e grassi che trasporta i grassi in specifici siti dell'organismo. Nell’ambito della ricerca biomedica, molti sforzi sono diretti alla sintesi di farmaci in grado di incrementare i suoi livelli in combinazione con i farmaci esistenti che diminuiscono i livelli di lipoproteine a bassa densità, o colesterolo LDL, conosciuto come "cattivo". Studi su HDL ottenuto per sintesi hanno mostrato il ruolo cruciale dell’apolipoproteina A-I, una proteina abbondante nel colesterolo HDL, nelle proprietà cardioprotettive, antinfiammatorie e antiossidative della sostanza. La principale ragione di ciò è la mancanza di comprensione della struttura dell'HDL e di come interagisce con altri fattori importanti presenti nel plasma. In quest'ultimo studio, Davidson e colleghi hanno isolato HDL umano e analizzato la sua struttura tridimensionale come si trova nel circolo sanguigno. Precedenti studi si sono focalizzati solo su HDL sintetico. Il gruppo ha utilizzato sofisticate tecniche di spettrometria di massa e di spettroscopia per studiare il colesterolo HDL e ha riscontrato come nella sua struttura molecolare le proteine formino una struttura a gabbia in grado di incapsulare il suo carico lipidico. È stato così possibile stabilire che molte delle particelle HDL che circolano nel plasma umano sono notevolmente simili tra loro per struttura; tuttavia si è anche scoperto che le particelle hanno una notevole adattabilità al contenuto lipidico. Cardiologia. Verso un cuore nuovo. È stata scoperta una molecola che fa rigenerare il cuore dopo un infarto. Il peptide, chiamato limosina beta 4, aiuta alcune cellule del muscolo cardiaco a dividersi, differenziarsi e prendere il posto delle cellule morte, migliorando la funzionalità cardiaca. Lo studio è stato condotto sui topi, ma apre nuove prospettive anche per gli esseri umani. Finora la medicina rigenerativa aveva puntato su un’altra strategia: isolare le cellule staminali, trattarle in laboratorio per farle diventare cellule del muscolo cardiaco, cioè cardiomiotici, e trapiantarle nel cuore malato. Questa tecnica però ha alcuni difetti: le nuove cellule sopravvivono per un tempo limitato, sostituiscono solo in parte quelle morte e possono essere rigettate dal sistema immunitario. La nuova strategia supera molti di questi ostacoli, perché riattiva le cellule progenitrici che sono già presenti nel muscolo e le induce a produrre cardiomiotici. Probabilmente il peptide riaccende nelle cellule un gene attivo durante lo sviluppo embrionale, il Wt1. L’intero processo però è ancora inefficiente: solo poche cellule diventano davvero cardiomiotici. I ricercatori sperano quindi di trovare una molecola che abbia la stessa azione del peptide, ma sia più efficace. Le placche aterosclerotiche. Le placche aterosclerotiche si formano in un tempo abbastanza breve, di 3-5 anni, e in una fase tardiva dell'esistenza: è quanto affermano i ricercatori del Karolinska Institutet in Svezia. Il risultato è stato ottenuto con un'ingegnosa tecnica di datazione al carbonio 14, utilizzato da molto tempo in archeologia e in geologia, andando a cercare i residui di questo isotopo presenti in atmosfera, la cui abbondanza è cresciuta rapidamente in seguito ai test atomici a terra eseguiti negli anni Cinquanta e Sessanta per poi diminuire in modo graduale. Ora proprio questo fenomeno può essere sfruttato per determinare quando è stato sintetizzato un tessuto biologico, anche in epoca relativamente recente. Gli studiosi hanno raccolto campioni di placche aterosclerotiche durante gli interventi chirurgici per stenosi dell'aorta effettuati presso lo Stockholm South General Hospital (Södersjukhuset). I pazienti erano stati ricoverati a causa delle lesioni carotidee che ostruivano il flusso sanguigno verso il cervello, causando i sintomi del cosiddetto attacco ischemico transitorio (TIA) che in alcuni casi ha portato all’ictus. Quello che i ricercatori si aspettavano era che le placche fossero notevolmente più vecchie. I pazienti avevano un’età media di 68 anni all'epoca degli interventi, mentre le placche non erano più vecchie di 10 anni. Un altro dato estremamente interessante è la limitata variabilità dell’età delle placche, il che fa ipotizzare che la loro formazione sia avvenuta durante un periodo di tempo relativamente breve e entro pochi anni prima dell’operazione. Se queste conclusioni verranno confermate, potrebbe aprirsi una nuova prospettiva terapeutica per l'interruzione della formazione delle lesioni aterosclerotiche prima che vi siano manifestazioni cliniche. Genetica. Si camperà fino a 150 anni? Che la vita si sia allungata nelle ultime generazioni è ormai cosa palese, ma che i nostri nipoti possano raggiungere record di longevità per ora impensabili è l’ultima speranza che arriva dalla ricerca. È un vermetto a fare sognare gli scienziati sull’elisir di lunga vita per restare al mondo fino a 100, 120 e ancora 150 anni. Sarà davvero possibile o sono solo sparate sensazionalistiche? La genetica sta cercando di dare una risposta perché il piccolo vermetto C. elegans è già una grande promessa: con qualche modifica strutturale la sua vita può essere allungata per cinque volte di più del normale. Basta scovare gli interruttori dell’invecchiamento nelle diverse specie animali: allungare l’esistenza del topo del 45% o del 60% per le scimmie sembra solo il primo step. Altra storia e grande sogno per quanto riguarda gli uomini, visto che la questione della vita artificiale è molto più complessa sia dal punto di vista scientifico che da quello etico. Mettendo le mani sul nostro genoma in effetti si potrebbe centrale l’obiettivo e la ricerca ha già collezionato progressi. A breve gli ingegneri potranno confezionare in laboratorio anche tessuti vitali, come quelli che formano la parete dei vasi sanguigni. È già in cantiere, per esempio, la macchina per organ printing, ovvero per copiare gli organi. Si direbbe quindi che raggiungere i 150 anni sarà un gioco da ragazzi. Non resterà che farlo constatare ai nostri nipoti. Intanto si calcola che gli ultraottantenni in America sono quasi 6 milioni, l’1,8 per cento della popolazione e nel 2050 saranno 19 milioni, pari al 4,3% degli americani. Sindrome di Down: il profilo dei geni alterati. La mappa completa dei geni alterati nella sindrome di Down è stata ottenuta dall’Istituto di genetica e biofisica del Cnr di Napoli: il risultato conferma che a determinare le alterazioni patologiche è un complessa interazione tra i geni del cromosoma 21, quello coinvolto nella trisomia, e altri. Com’è noto infatti la sindrome è caratterizzata da tre copie, invece che dalle normali due, del ventunesimo cromosoma. Ciò che finora non era noto nel dettaglio era quali fossero i geni la cui espressione determina le condizioni patologiche che la accompagnano. Costruire una "mappa" accurata dei geni alterati degli individui malati è il primo passo verso la cura, e avere la possibilità di studiarne la sequenza, può fornire una più accurata rappresentazione, ad alta definizione, di come la patologia nasce ed evolve. A rendere possibile il risultato è stata l’utilizzazione di una nuova procedura denominata "sequenziamento di nuova generazione" (next generation sequencing). Si tratta di una procedura di "sequenziamento massivo" (deep sequencing) su larga scala che richiede una stretta interazione tra competenze avanzate di biologia molecolare e di bioinformatica. Un software ricostruisce una "mappa" ad alta risoluzione componendo milioni di piccoli frammenti. Una procedura impensabile fino a pochi anni fa, poiché richiedeva anni di lavoro e investimenti molto ingenti. La metodica, unita all’utilizzo di un nuovo protocollo sperimentale nella preparazione dei campioni da sequenziare, ha reso possibile l’identificazione di forme alternative di alcuni geni presenti esclusivamente nelle cellule dei pazienti e ha consentito, per la prima volta, di analizzare piccole molecole di RNA che interagiscono con i geni regolandone la loro espressione. La prospettiva è ora quella di convertire queste nuove conoscenze in nuovi approcci terapeutici per le più comuni manifestazioni cliniche della sindrome di Down. Sla: Scoperto il gene. Scoperto il gene responsabile della Sla (la Sclerosi Laterale Amiotrofica) familiare e sporadica. Lo studio, definito dai ricercatori, "una svolta storica", getta nuova luce sulla malattia e accende speranze per future (ma non vicine) terapie per gli oltre 5 mila italiani colpiti da questa malattia che ha, con tempi diversi, sempre esito letale, e che ha avuto attenzione anche per il tragico destino di una quarantina di calciatori. Da circa 10 anni i laboratori di tutto il mondo stavano tentando di identificare il gene di cui era nota solo la localizzazione a livello del cromosoma 9. I ricercatori hanno analizzato 268 casi familiari di Sla americani, tedeschi ed italiani e 402 casi familiari e sporadici di Sla finlandesi. Il 38% dei casi familiari e circa il 20% dei casi sporadici erano portatori di un’alterazione di uno specifico gene (lo c9orf72). Questa scoperta, hanno spiegato i ricercatori, rappresenta un importante progresso verso l’identificazione della causa della Sla e della sua terapia, soprattutto perché permette di spiegare la causa della Sla in un’elevata percentuale di casi familiari e sporadici. Fondamentale per il successo della ricerca è stato l’apporto del consorzio italiano per lo studio della genetica della Sla (ITALSGEN), che riunisce 14 centri universitari ed ospedalieri italiani che si sono uniti per la lotta contro la Sla. Lo studio è stato finanziato dalla Federazione Italiana Giuoco Calcio (Figc), dalla Fondazione Vialli e Mauro per la Sla e dal Ministero della Salute (ricerca finalizzata). Altri studi cercheranno ora di approfondire meglio che tipo di correlazioni ci sono con la frequenza dei casi fra i calciatori. Si tratta di uno dei più importanti risultati della storia della ricerca sulla Sla perché dimostra in maniera incontrovertibile che la predisposizione genetica è una causa di gran lunga più importante rispetto ad eventuali fattori ambientali. Il risultato è stato ottenuto grazie all’applicazione di modernissime tecnologie di indagine genetica. Ecco il gene della miopia. Scovato un gene della miopia che quando è difettoso causa questo diffusissimo difetto oculare. La scoperta è stata possibile studiando il DNA di una tribù Beduina nel Sud di Israele tra i cui membri ricorrono di frequente casi di miopia a esordio precoce. Si tratta del gene "Leprel1", che serve a produrre un enzima fondamentale per dare la forma giusta al bulbo oculare; se l’enzima non funziona, il collagene si deposita nell’occhio in modo aberrante e il bulbo oculare si allunga più del dovuto. L’allungamento del bulbo oculare genera la miopia perché impedisce una corretta messa a fuoco in quanto l’immagine non si forma sulla retina ma davanti ad essa, risultando sfocata. Leprel1 non è il primo gene scoperto ricollegabile alla miopia, ma sicuramente averlo isolato aiuterà a capire meglio l’origine del problema che affligge milioni di persone. Il dna nel computer. È stato costruito un calcolatore capace di eseguire le operazioni logiche and, or e not. Fin qui nulla di nuovo, a parte il fatto che la macchina è formata da più di cento filamenti di dna. Proposti per la prima volta nel 1994, i computer biologici sono ancora rudimentali. Ma avere un minicomputer da inserire nelle cellule, nei tessuti o negli organi degli esseri viventi potrebbe avere applicazioni mediche molto interessanti. Questi piccoli cervelli artificiali potrebbero aiutare a diagnosticare le malattie e a curarle. La ricerca si è concentrata sullo studio di dispositivi biochimici di grandezza microscopica capaci di eseguire semplici operazioni logiche. Il nuovo studio, pubblicato su Science, descrive la costruzione di un computer che usa il dna al posto dei chip di silicio. Il sistema funziona attraverso la copia delle sequenze dei filamenti di dna, organizzati in più livelli che operano a cascata. La velocità di computazione per ora è limitata: per calcolare una radice quadrata occorrono dalle sei alle dieci ore. Ma i ricercatori non aspirano a creare delle biomacchine capaci di competere con i computer tradizionali per potenza e velocità. Il loro obiettivo è invece riuscire a integrare questi circuiti ai sistemi biologici viventi. Geriatria. Una proteina associata all’Alzheimer. Più alti livelli sanguigni della proteina clusterina, nota anche come apolipoproteina J, sono associati in modo significativo con la prevalenza e la severità della malattia di Alzheimer, ma non con il rischio di insorgenza di nuova malattia, secondo uno studio apparso sulla rivista JAMA. La proteina si trova infatti incrementata nel cervello e nel fluido cerebrospinale dei pazienti affetti da Alzheimer, al punto che in passato si era pensato a un suo ruolo nell’eziopatogenesi della malattia. In passato, i livelli di clusterina sono stati associati all’atrofia cerebrale, alla gravità della patologia, alla sua rapida progressione clinica: per questo si era pensato di poterla usare come biomarker. Le cose sembrano invece essere alquanto diverse, almeno stando alle conclusioni di quest’ultimo studio, che ha preso in considerazione i dati relativi ai livelli plasmatici di clusterina al basale, nel triennio 1997-1999, in 60 individui con Alzheimer prevalente (secondo la definizione del Mini mental state examination, MMSE), sottogruppo casuale dei 926 partecipanti, e in un ulteriore gruppo di 156 soggetti che hanno ricevuto la diagnosi durante il follow-up, durato in media 7,2 anni. Dall’analisi dei dati è emerso che la probabilità di Alzheimer prevalente aumenta con i livelli di clusterina, nella misura del 63 % per ogni deviazione standard di incremento, una volta normalizzati i risultati per età, sesso, livello di istruzione, livelli di apolipoproteina E, diabete, fumo di sigaretta, patologia coronarica e ipertensione. Tra i pazienti con Alzheimer, i livelli di clusterina più alti sono risultati associati a una maggiore severità della malattia. Non è invece emersa alcuna associazione statisticamente significativa tra i livelli di clusterina con nuovi casi di Alzheimer diagnosticati durante il follow-up complessivo o con nuovi casi a tre anni dall’inizio dello studio. Risultati simili sono stati ottenuti per la demenza da tutte le cause e per la demenza vascolare. Un esame del sangue per diagnosticare l’Alzheimer. Un innovativo test del sangue in grado di diagnosticare la malattia di Alzheimer potrebbe presto arrivare sul mercato grazie a un innovativo studio condotto presso il Research Institute del McGill University Health Centre (MUHC). Gli studiosi sono infatti riusciti a caratterizzare una diagnosi biochimica semplice e non invasiva, descritta sulle pagine della rivista Journal of Alzheimer’s Disease. Finora non era disponibile alcuno strumento diagnostico accurato per questa malattia tranne l’analisi post mortem del tessuto cerebrale. Questi risultati dimostrano che un esame ematico non invasivo può colmare questa lacuna fornendo un metodo di diagnosi precoce in grado porre anche una diagnosi differenziale rispetto ad altri tipi di demenza. La ricerca si basa su un ormone cerebrale denominato deidroepiandrosterone (DHEA) presente in alti livelli nel cervello, dove è implicato in un’ampia gamma di processi biologici. Nei soggetti non affetti da Alzheimer non si riesce a promuovere la produzione di DHEA sfruttando un processo chimico di ossidazione, così come avviene invece nei pazienti colpiti dalla malattia. Esiste perciò una chiara correlazione tra la mancata capacità di produrre DHEA mediante ossidazione nel sangue e il grado di deficit cognitivo riscontrato nella patologia. Con questo metodo si è dimostrato di poter rilevare in modo accurato e ripetibile la malattia di Alzheimer partendo da semplici campioni di sangue. L’aspetto più interessante tuttavia è la possibilità che presto si rendano disponibili anche nuove terapie in grado di modificare il decorso della terapia: esistono già diverse molecole candidate e per questo la ricerca assume ancora maggiore rilievo. Hiv - Aids. Nuove terapie anti-HIV. Una delle caratteristiche dell’HIV è la sua capacità di adattamento e di sopravvivenza agli attacchi del sistema immunitario dell’ospite: proprio questa peculiarità ora potrebbe fornire la chiave per fermare il virus. È questa l’ipotesi avanzata dai ricercatori dello University of Rochester Medical Center. Uno dei "nascondigli" preferiti dal virus sono i macrofagi, le cellule del sistema immunitario deputate alla distruzione di organismi estranei che hanno invaso l’organismo o di residui dello smaltimento delle strutture cellulari. Si è cercato di studiare in che modo il virus riesca a mettere da parte il suo usuale metodo di replicazione quando si trova nei macrofagi. In effetti si è visto che quando all’interno del macrofago l’HIV si trova di fronte a una mancanza del macchinario molecolare necessario alla replicazione, si adatta bypassando una delle molecole normalmente utilizzate per sfruttare invece un’altra molecola disponibile. Normalmente, infatti, il virus utilizza deossinucleotide trifosfato (dNTP), uno dei mattoni elementari necessari al macchinario genetico del virus, ma questa molecola è difficilmente presente nei macrofagi, in cui si trovano invece alti livelli di una molecola simile ma molto più versatile, chiamata rNTP, ribonucleotide trifosfato: quest’ultima ricerca ha permesso di scoprire che l’HIV utilizza primariamente rNTP invece del dNTP per replicarsi all’interno dei macrofagi. Normalmente il virus utilizzerebbe solo dNTP ma questa molecola semplicemente non è disponibile in grandi quantità nei macrofagi; per questo l’HIV comincia a utilizzare rNTP che da un punto di vista chimico è abbastanza simile. Il virus semplicemente ha bisogno di terminare il processo di replicazione, e utilizza qualunque risorsa sia disponibile. Bloccando la possibilità di interagire con l’rNTP, la capacità dell’HIV di replicarsi all’interno dei macrofagi viene diminuita del 90 per cento. Proprio questo dato apre la strada a un nuovo fronte nella lotta all’HIV: gli attuali farmaci infatti hanno come bersaglio il dNTP, non l’rNTP, e sono diretti a contrastare l’infezione delle cellule immunitarie denominate CD4+ T. Un vaccino contro l’Hiv? Il vaccino Mva-B ha dimostrato efficacia nella lotta contro l’Hiv. Da una ricerca spagnola, ben 22 persone su 24 hanno sviluppato una risposta immunitaria al virus. "È come mostrare un’immagine dell’Hiv così che l’organismo lo riconosca quando lo rivedrà", ha spiegato Mariano Esteban dal National Biotech Centre di Madrid. Il vaccino contiene i geni del virus Hiv che stimolano i linfociti T e B, globuli bianchi che svolgono una funzione immunitaria e difensiva dell’organismo. I linfociti B producono anticorpi che aggrediscono il virus prima che infetti le cellule, mentre i linfociti T individuano e attaccano le cellule già infette. I tre quarti dei soggetti trattati con il vaccino hanno sviluppato gli anticorpi specifici contro l’Hiv in appena 11 mesi dalla somministrazione. Oltre un terzo dei soggetti ha poi sviluppato un solo tipo di linfocita T, il Cd4+, mentre i due terzi ha sviluppato anche il linfocita Cd8+. Esteban ha osservato: "Il nostro corpo è pieno di linfociti, ognuno programmato per debellare un patogeno differente. La preparazione è necessaria quando include un agente patogeno, come ad esempio l’Hiv, da cui non ci si può difendere naturalmente". Ipertensione. Un pacemaker controlla l’ipertensione. Nei casi di ipertensione difficili da trattare può essere di aiuto una stimolazione cerebrale profonda: un impianto chirurgico simile al pacemaker cardiaco utilizzato per inviare impulsi elettrici al cervello. Lo studio ha riguardato un soggetto cinquantacinquenne a cui è stato impiantato uno stimolatore cerebrale per trattare il dolore sviluppato a seguito di un ictus. Al tempo di tale evento, era stata posta una diagnosi d’ipertensione, non risolta neppure con la somministrazione di farmaci. Sebbene la stimolazione elettrica non sia risultata in grado di alleviare in modo permanente il dolore, si è scoperto con stupore che essa consentiva di diminuire la pressione sanguigna sufficientemente da interrompere qualunque terapia farmacologica. Si tratta di una scoperta importante per tutti i milioni di persone nel mondo che soffrono d’ipertensione, un fattore di rischio riconosciuto per eventi cardiovascolari maggiori, e che non rispondono alle terapie farmacologiche. Secondo quanto riferito nell’articolo, la diminuzione dei valori di pressione arteriosa è avvenuta in risposta alla stimolazione cerebrale profonda e non per la variazione di altre condizioni, ed è stata confermata da tre anni di follow-up, al termine del quale il dispositivo è stato disattivato. Ciò ha portato a un incremento medio di 18/5 mmHg nella pressione sanguigna, mentre quando è stato riattivato la pressione è tornata a diminuire in media di 32/12 mmHg. A questo punto è auspicabile che vengano svolte altre ricerche su un campione numeroso di soggetti, anche se l’indicazione è da considerare chiara. Fragole e mirtilli: effetti positivi sulla pressione. Che molti alimenti - i cosiddetti nutraceutici - abbiano un effetto benefico sulla salute è un fatto noto; altrettanto noto è che tra le sostanze con un maggior impatto sull’organismo vi siano i flavonoidi, contenuti in diversi vegetali e negli alimenti da essi derivati (dalla frutta fresca al tè e al vino rosso), e la sottoclasse delle antocianine, tipiche di fragole e mirtilli. Ora però uno studio pubblicato sull’American Journal of Clinical Nutrition mette in correlazione il consumo di almeno una porzione alla settimana di fragole e mirtilli, con la diminuzione fino al 10 % del rischio di sviluppare ipertensione arteriosa rispetto a chi non ne consuma. Il gruppo di ricercatori dell’Università dell’East Anglia (UEA) e di quella di Harvard autori della ricerca hanno studiato per 14 anni 134.000 donne e 47.000 uomini arruolati nell’ambito di due programmi di salute pubblica statunitensi, il Nurses’ Health Study e l’Health Professionals Follow-up Study. A tutti i volontari, che non avevano problemi d’ipertensione all’inizio dello studio, sono stati somministrati questionari dettagliati sulle condizioni di salute ogni due anni, e sulle abitudini alimentari ogni quattro anni. Nel corso della ricerca, 35.000 soggetti hanno sviluppato ipertensione. Le informazioni dietetiche hanno identificato il tè come l’alimento che ha fornito il maggior apporto di flavonoidi, insieme con mele, succo d’arancia, mirtilli, vino rosso e fragole. Quando si è proceduto ad analizzare le singole sottoclassi di flavonoidi in rapporto all’ipertensione, si è trovato che chi si caratterizzava per il maggior consumo di antocianine - contenute principalmente in mirtilli e fragole in questa popolazione - aveva una probabilità di ricevere una diagnosi d’ipertensione ridotto dell’8% rispetto al sottogruppo che ne ha fatto il minor uso. L’effetto era ancora più evidente nei soggetti under 60 e particolarmente riferito ai mirtilli, il cui consumo in dosi di almeno una porzione a settimana ha determinato una riduzione del rischio d’insorgenza dell’ipertensione del 10 % rispetto a che non ne consuma. Oncologia. Un nuovo marker per il tumore del colon. Un enzima potrebbe consentire una più agevole e precoce diagnosi del tumore del colon: a scoprirlo sono stati i ricercatori dell’Università del Colorado Cancer Center. Il laboratorio è specializzato nello studio del ruolo degli enzimi aldeidi deidrogenasi nel metabolismo dei farmaci nei disturbi metabolici delle cellule normali e tumorali e delle cellule staminali. La ricerca ha analizzato i campioni di tessuto tumorale di 40 pazienti, riscontrando in 39 di essi livelli straordinariamente alti dell’enzima denominato ALDH1B1, che normalmente è presente solo nelle cellule staminali. In passato sono stati individuati altri potenziali biomarker, ma nessuno di essi è presente in una percentuale così alta di cellule cancerose e nessuno è sovra-espresso in questa misura. Secondo le attuali conoscenze, l’ALDH1B1 aiuta lo sviluppo o la crescita di queste cellule cancerose perché non sarebbe presente in ogni cellula con livelli così alti se fosse soltanto un prodotto di scarto del cancro, anche se occorrono ulteriori studi per riuscire a chiarire gli esatti meccanismi che portano alla sua sovra-espressione. Ora gli sforzi sono focalizzati sullo sviluppo di un farmaco che possa essere tossico per le cellule cancerose una volta attivato dall’enzima. Questo lavoro potrà essere considerato una pietra miliare per la comprensione dei processi metabolici di base all’interno delle cellule tumorali. Un nuovo gene per il tumore del rene. Viene indicato con la sigla PBRM1 il gene la cui mutazione è presente in un caso su tre di una comune forma neoplastica che colpisce il rene, secondo una nuova ricerca svoltasi presso il National Cancer Centre di Singapore. Fino a tempi recenti, molti degli studi sulla genetica del carcinoma renale coinvolgevano il VHL, un gene mutato in otto pazienti su 10. Si sapeva però che in ogni caso dovevano essere coinvolti altri geni. Una recente ricerca aveva individuato tre mutazioni genetiche associate al carcinoma renale in grado di alterare la cromatina, una sorta di impalcatura che tiene insieme il DNA nelle cellule, e di conseguenza influenza i meccanismi di replicazione e di riparazione dello stesso genoma. Tutto sembra svolgersi in una piccola regione del cromosoma 3: il gene PBRM1 è legato a due altri geni già indicati come coinvolti nell’insorgenza del carcinoma renale: lo stesso VHL e il SETD2. La localizzazione suggerirebbe, secondo gli autori dello studio, che il tumore sembra sfruttare la nostra biologia, riducendo il numero di eventi genetici necessari per inattivare tutti e tre i geni. Esiste inoltre un significativo numero di sovrapposizioni: molti pazienti sono portatori di due se non di tutte e tre le mutazioni. La nostra comprensione di come si sviluppa il tumore del rene era già notevolmente migliorata, grazie all’identificazione di questi tre geni mutati, ciascuno dei quali dà un piccolo contributo all’insorgere della patologia. La scoperta delle mutazioni a carico del gene PBRM1 in uno su tre casi di tumore del rene è un ulteriore progresso, soprattutto perché chiarisce che l’insorgenza della neoplasia passa per un deficit strutturale della cromatina. Il futuro: sequenziare l’intero genoma. I tassi di sopravvivenza ai tumori potrebbero migliorare presto grazie al sequenziamento dell'intero genoma: questa la conclusione di due studi (1, 2) apparsi sull'ultimo numero del Journal of the American Medical Association che descrivono le prime applicazioni cliniche di questa metodica ad alta tecnologia su pazienti con cancro. Il sequenziamento sull'intero genoma è un processo che consente una mappatura del DNA di un individuo e di evidenziare la presenza di eventuali mutazioni. Ciò ha consentito alle terapie oncologiche di evolvere da una terapia standard per tutti i pazienti con un dato tipo di tumore a un trattamento leggermente personalizzato. In pazienti con tumore della mammella, del colon-retto e dello stomaco disponiamo ora di approcci specifici per i tumori che mostrano alcune anomalie genetiche. Il sequenziamento sull’intero genoma ci dà cioè la possibilità di effettuare uno screening su un numero di tumori molto più ampio e di correlarli con la prognosi del paziente: per questo è probabile che questo approccio conosca una notevole diffusione nel prossimo decennio. In uno studio, si è dimostrata l’utilità del sequenziamento nel caso di un paziente con leucemia, che com’è noto ha una cattiva prognosi: grazie alla metodica si è trovato che il paziente possedeva un gene che consentiva di prevedere che egli avrebbe reagito in modo più favorevole con una terapia alternativa. Il sequenziamento in sostanza fornisce una fotografia fedele del corredo genetico del soggetto che permette di indirizzare i medici verso le terapie più appropriate. Un ostacolo alla diffusione del sequenziamento potrebbe derivare dal suo alto costo, che nonostante un ribasso di un fattore 100, rimane attualmente tra 30.000 e 40.000 dollari. Ma i prezzi continueranno a diminuire in modo molto rapido e nel prossimo decennio costeranno meno di 10.000 dollari; in ogni caso nei prossimi cinque anni saranno molto di più alla portata. Dieta: Si Torna a Ingrassare. Chiunque abbia provato a perdere chili con una dieta, sa anche che prima o poi il peso perso ritorna. E ora si è scoperto anche perché: si tratta di una sorta di sindrome "post-dieta", un meccanismo di difesa coordinato tra ormoni e metabolismo diretto a farci riprendere i chili. In una clinica che assiste persone per dimagrire, ne sono state reclutate 50 tra uomini e donne, con una media di peso di 105 kg per i primi e 90 per le seconde. Dopo 10 settimane di dieta a basso contenuto calorico, avevano perso in media 13 kg. A quel punto, 34 pazienti hanno interrotto la dieta e iniziato a lavorare per mantenere il nuovo peso, usufruendo anche di counseling e supporto telefonico con i nutrizionisti, facendo esercizio fisico regolare e mangiando più verdura e meno grassi. Ma nonostante gli sforzi, dopo un anno tutti avevano ripreso in media 5 kg, e tutti riportavano di sentirsi affamati e preoccupati del cibo più di quando avessero iniziato la dieta. I ricercatori hanno così riscontrato uno stato biologico alterato. I corpi ancora "cicciottelli" dei pazienti si comportavano come se stessero morendo di fame e facevano gli straordinari per fargli riguadagnare il peso perso. Ad esempio, la grelina, ormone gastrico, noto come ormone della fame, era del 20% più alto rispetto all'inizio dello studio, mentre il peptide YY, ormone legato al contenimento dell'appetito, era più basso del normale. Come se ci fosse una sindrome post dieta. Quello che abbiamo visto è un meccanismo di difesa coordinato con molteplici componenti tutti diretti a farci riprendere peso. Uno contro Tutti! Il traguardo di un vaccino universale contro l’influenza si avvicina: sono stati creati due nuovi tipi di anticorpi che funzionano contro quasi tutti i virus conosciuti. La profilassi contro l’influenza non è semplice: i virus cambiano ogni anno, perciò bisogna aggiornare continuamente il vaccino e produrlo in quantità proporzionate alla popolazione. Se si riuscisse a creare un vaccino unico, valido per tutti i tipi virali, il vantaggio sarebbe notevole. Il problema è che si deve colpire un bersaglio mobile. La strategia più seguita consiste nell’agire su un’area bersaglio che rimane stabile nel tempo nella proteina virale chiamata emaglutinina. È quello che hanno fatto due gruppi di ricerca indipendenti. In un caso è stato creato un anticorpo che riconosce i virus del gruppo 2 dell’influenza, di cui fanno parte i ceppi H3 e H7. Nell’altro caso è stato creato un anticorpo contro una gamma più ampia di ceppi virali, appartenenti oltre che al gruppo 2 anche al gruppo 1, in cui sono compresi gli H1, il virus dell’aviaria H5 e gli H2. Gli anticorpi donano una buona immunità agli animali e potrebbero diventare la base per la produzione di vaccini duraturi e universali. Al momento, però, questi vaccini sperimentali sono ancora poco efficaci. Premio Pezcoller 2011. È l'oncologo italiano Pier Paolo Pandolfi il vincitore del Premio 2011 della Fondazione Alessio Pezcoller per la ricerca internazionale sul cancro. Romano, 47 anni, Pandolfi dirige un laboratorio di ricerca alla Harvard Medical School di Boston e la giuria internazionale ha voluto premiare il suo impegno nel campo della genetica del cancro e dei relativi modelli sui topi 1, come ha sottolineato il direttore della Fondazione Pezcoller di Trento, Gios Bernardi. Le ricerche condotte dal professor Pandolfi - si legge nella motivazione - sono risultate fondamentali per la comprensione dei meccanismi molecolari e genetici alla base della patogenesi delle leucemie, dei linfomi, dei tumori solidi così come nella generazione dei modelli di tali tumori nell'animale transgenico. Queste ricerche hanno permesso di curare la leucemia promielocita acuta e di identificare la funzione aberrante di nuovi geni che causano il cancro, i cosiddetti oncogeni, e gli oncosoppressori. La giuria ha voluto premiare Pandolfi anche per la sua eccezionale carriera: a 47 anni, nessun altro ha una bibliografia paragonabile alla sua e interamente dedicata all'oncologia. Anche di recente, Pier Paolo Pandolfi ha pubblicato su Nature uno studio che attribuisce una nuova funzione ai nostri 20.000 geni codificanti proteine, scoperta che di fatto triplica la dimensione del genoma umano funzionante . IBM - Nanotech che Ammazza i Superbatteri. Dopo aver preso d'assalto le cellule tumorali, le nano-particelle sono ora pronte a ridare speranza per chi cerca una cura contro i cosiddetti "superbatteri" - agenti patogeni resistenti agli antibiotici più forti, che risultano estremamente difficili da trattare una volta annidati nel corpo di un paziente. La tecnologia è targata IBM, che parla di successo nelle prime sperimentazioni animali ed è pronta a passare al test su soggetti umani. Le nano-particelle vengono create a partire da una plastica biodegradabile e sono elettricamente cariche, con segno però contrario alla carica elettrica della parete cellulare del superbatterio. Dopo aver "attaccato" la membrana e provocato la distruzione del microbo, le nano-particelle biodegradabili vengono eliminate facilmente dal corpo. |
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