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Anno 2011 Ricerca scientifica Le ricerche di Medicina

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Anno 2011.

Ricerca scientifica.

Come tutti gli anni la prestigiosa rivista americana
Science ha stilato una classifica delle
dieci scoperte più importanti degli ultimi 12
mesi: quello passato è stato un anno ricco di
importanti scoperte scientifiche e di enormi
passi avanti nella comprensione di fenomeni
fino ad oggi ancora in parte oscuri.
Nella classifica ci sono anche alcuni contributi
italiani.

AIDS. La scoperta più importante del 2011 è
nel campo medico, con importanti passi avanti
nello studio dell’AIDS e della sua trasmissione.
Il 96% dei casi clinici osservati hanno
dimostrato come il rischio di trasmissione del
virus si attenui se i malati assumono farmaci
antivirali. Lo studio a dir la verità era iniziato
nel 2007, testando la possibilità di un trattamento
in coppie ad alto rischio, in cui solo
uno dei due partner era sieropositivo. I risultati,
ottenuti su oltre 1700 coppie, sono stati
molto positivi (nel 96% dei casi la persona
malata non trasmetteva il virus), tanto da sperare
in una vera e propria possibilità di ottenere
un vaccino contro l’HIV che sembra la
via più efficace per combatterlo, più della
cura, una volta che il virus ha già provocato le
complicazioni.

Missione Hayabusa. La sonda spaziale giapponese
ha portato sulla Terra campioni dell’asteroide
Itokawa. Gli ultimi prelievi di materiale
non terrestre risalgono a quelli compiuti
dall’Apollo 11, risalente a 35 anni fa. I campioni
di polvere che è riuscita a portare sulla
Terra hanno permesso agli scienziati di trovare
la risposta a un enigma sul quale s’interrogavano
da decenni: da dove provengono le
condriti, le meteoriti più comuni? Solo grazie
all’analisi nei laboratori a Terra si è riusciti a
stabilire che l’incertezza sulla loro identità è
dovuta all’azione del vento solare. Hayabusa,
per consegnarci quella preziosa manciata di
polveri (appena 52 particelle microscopiche,
meno d’un decimo di millimetro di diametro
l’una), ha dovuto affrontare un’autentica
odissea, durata sette anni abbondanti durante
i quali le è successo proprio di tutto: dalla rottura
di due dei suoi tre giroscopi ai ripetuti
tentativi d’atterraggio sull’asteroide, fino alla
perdita della rotta durante il viaggio di rientro,
con il rischio di non fare mai più ritorno.
Ma ne è valsa decisamente la pena.

Origini dell’uomo. Attraverso lo studio comparato
di campioni di DNA, si è scoperto
come alcuni individui conservino ancora
varianti ereditate dai primi uomini. La scoperta
è utile per rispondere alla domanda che
da sempre affascina i patologi: come ci difendiamo
dalle malattie? Secondo le ultime evidenze
fossili, i nostri antenati Homo Sapiens,
una volta usciti dall’Africa 65.000 anni fa, si
sarebbero accoppiati con altri esemplari del
genere Homo, all’epoca i veri padroni dei territorio.
Compagni del Sapiens sarebbero stati
l’Uomo di Neanderthal e l’uomo di Denisova.
L’accoppiamento con queste specie avrebbe
introdotto nel DNA dei nostri antenati geni
diversi che lo avrebbero aiutato a combattere
i nuovi parassiti incontrati fuori dall’Africa.

Processo foto-sintetico. Dal Giappone arriva
la scoperta di una proteina in grado di scindere
le molecole dell’acqua in idrogeno e ossigeno.
La proteina, usata dalle piante nel processo
di fotosintesi è la chiave della vita sulla
terra e potrebbe essere un contributo di inestimabile
valore nel raggiungimento dell’energia
pulita.

Nubi di gas primordiale nell’universo. Alle
Hawaii, il telescopio Keck ha osservato nubi
di idrogeno risalenti a due miliardi dopo la
nascita dell’universo, da cui si sarebbero formate
stelle e galassie. Inoltre è stata scoperta
una stella composta solo da gas: secondo le
attuali teorie, una stella con simili caratteristiche
non potrebbe esistere, sul piano cosmologico.
Restringendo di molto la visuale, invece,
abbiamo la scoperta di una piccola stella
che, a rigor di logica, non dovrebbe esserci:
la concentrazione in essa presente d’elementi
più pesanti dell’elio è talmente bassa, un decimillesimo
di quella del Sole, da farla sembrare
appena uscita dal Big Bang. Con i suoi 13
miliardi di anni abbondanti d’età, è probabilmente
la stella più vecchia che si conosca. A
scoprirla, un team guidato dall’italiana Elisabetta
Caffau, del Centro per l’astronomia dell’Università
di Heidelberg e dell’Osservatorio
di Parigi.

Microbioma. I biologi hanno studiato i microbi
che albergano in un corpo umano, scoprendo
che ognuno di noi ha un batterio dominante
nel proprio tratto intestinale che influenza il
tipo di dieta (vegetariana od onnivora) seguito
dall’individuo. Lo studio verrà applicato
per studiare i meccanismi nutrizionali e l’insorgere
di nuove malattie.

Vaccino anti malaria. La prima sperimentazione
di un nuovo vaccino contro la malaria
ha dati risultati incoraggianti: ora si passa alla
sperimentazione su 15.000 bambini di sette
paesi africani.

Nuovi sistemi solari. Il satellite astronomico
Kepler della Nasa ha osservato nuovi sistemi
solari della nostra galassia. Alcuni pianeti
ruotano intorno alla loro stella in modo retrogrado,
oppure addirittura "liberi". La nuova
scoperta contraddice le attuali teorie scientifiche
sulla Via Lattea. È un risultato frutto di
un’ampia serie di osservazioni di pianeti
extrasolari condotte dalla sonda e dalle quali
emerge sempre più chiaramente quanto questi
mondi lontani, di cui ormai ne conosciamo un
migliaio, siano alieni in tutti i sensi, strani e
imprevedibili. Fra i più sorprendenti, Science
cita il sistema planetario con sei pianeti, il
gigante gassoso contromano e i mondi solitari
rimasti orfani della stella madre.

Progettazione zeoliti. Usate per trasformare
il petrolio in benzina, purificare l’acqua e filtrare
l’aria, le zeoliti sono minerali piuttosto
costosi. Nel 2011 un team di scienziati è
riuscito a creare sinteticamente delle zeoliti
più grandi ed economiche, usate a scopi chimici.

Invecchiamento cellulare. Grazie agli studi
condotti sui topi oggi sappiamo molto di più
su come le cellule invecchiano, gli sviluppi
della ricerca potranno allungare e migliorare
la vita umana.

Arriva "Solar Impulse".
Il velivolo sperimentale "Solar impulse",
l'aereo che l'anno scorso ha vinto la scommessa
di volare di notte grazie alla sola energia
del sole, è partito per il primo volo del
2011 dalla base aerea di Payerne, in Svizzera.
A bordo il pilota tedesco Markus Scherdel.
Ma il velivolo voluto dallo svizzero Bertrand
Piccard non mira a trasportare passeggeri,
bensì un messaggio: dimostrare che con la
tecnologia pulita si possono vincere sfide che
si credevano impossibili e che questo è possibile
già adesso. Il prototipo quest’anno viaggerà
più spesso e più lontano nei cieli europei,
in diverse capitali, mentre parallelamente a
terra proseguirà la costruzione del prossimo
aereo, il velivolo dell'ultima sfida del progetto
Solar Impulse: realizzare il giro del mondo
in cinque tappe, nel 2013.
La prova del fuoco per Solar Impulse è stata
quando l’aereo è atterrato dopo aver volato
per la prima volta giorno e notte per più di 26
ore a 8mila metri di altitudine, grazie alla sola
energia del sole. Il volo più lungo e alto della
storia dell’aviazione solare. La notizia e le
immagini hanno fatto il giro del mondo e 22
milioni di visitatori si sono collegati al sito
web per seguire l’avventura. È stato il secondo
grande successo di Solar Impulse, dopo il
primo volo di un paio d’ore in aprile, sempre
con il prototipo HB-SIA, frutto di una collaborazione
che coinvolge un’ottantina di partner,
tra cui numerose aziende private, che
hanno preso parte ai lavori di concezione,
costruzione, sperimentazione e volo.
L'aereo è impressionante nelle sue dimensioni:
ha l’apertura alare di unAirbusA340 (63,4
m) ed il peso di un’automobile (1.600 kg): la
struttura è in fibre di carbonio e la superficie
delle ali è coperta da celle solari sottilissime:
circa 12.000 cellule fotovoltaiche in grado di
alimentare quattro motori elettrici. Sembra
un'enorme libellula ed è un concentrato di
ingegno. Sembra fragilissimo, ma può raggiungere
una velocità media di 70 km orari.
"Il volo è una avventura recente nella storia
umana", ma improvvisamente proprio la storia
ha cominciato a correre e la stessa definizione
della parola "impossibile è cambiata",
secondo Bertrand Piccard, "caduto nel pentolone"
dell'avventura da piccolo, con il nonno
Auguste Piccard, che su una mongolfiera nel
1932 stabilì il record del mondo e il padre
Jacques che nel 1960 s’immerse invece nel
punto più basso del mondo. Lo stesso Bertrand
Piccard è già entrato nei libri dei record.
Nel 1999 ha effettuato il primo giro della
Terra senza scali con un pallone aerostatico.
Ed è proprio da questa avventura che è nata
l'ambizione di Solar Impulse.

Un nuovo pianeta.

Ha una massa pari a tre volte e mezzo quella
della Terra, il pianeta esterno al Sistema Solare
che è tra i più probabili candidati per ospitare
la vita. Si chiama HD 85512 b e lo ha individuato
un gruppo ricerca al quale partecipa
anche l’italiano Francesco Pepe, ricercatore
all'Osservatorio dell'università di Ginevra.
Il pianeta orbita attorno a una piccola stella a
circa 30 anni luce dalla Terra e sembra avere
tutte le carte in regola per consentire, se non
di ospitare la vita, quanto meno la presenza di
acqua sulla sua superficie.
La scoperta è in via di pubblicazione sulla
rivista Astronomy and Astrophysics e il pianeta
presenta molte caratteristiche che lo rendono
potenzialmente abitabile.
Certo, può sembrare grosso per gli standard
del nostro Sistema Solare, ma paragonato ai
pianeti gassosi è piccolo. E questo ci fa pensare
che debba essere roccioso, come la Terra.
Anche se non sappiamo se abbia un’atmosfera
più o meno densa, o se sia ricoperto da un
oceano. Quello che sappiamo è che, essendo
piccolo, probabilmente è roccioso. E che la
distanza che lo separa dalla sua stella fa sì che
la temperatura sulla superficie sia compatibile
con la presenza di acqua.
La distanza, in realtà, è molto ridotta, circa un
quarto di quella fra la Terra e il Sole. Infatti
un anno su HD 85512 b dura appena sessanta
giorni terrestri. Ma poiché la stella attorno
alla quale orbita, HD 85512, è piccola e fredda,
raggiungendo circa la metà della temperatura
del Sole, il pianeta sembrerebbe offrire
un clima ragionevolmente tiepido. Secondo
gli autori se risultasse che HD 85512 b presenta
per oltre il 50% una copertura nuvolosa,
riteniamo che potrebbe essere potenzialmente
abitabile.

Un pianeta "gemello".

Un pianeta abitabile 2.4 volte più grande della
Terra è stato scoperto dalla sonda Kepler della
Nasa a 600 anni luce da noi. Il pianeta è
Kepler 22-b, ha una temperatura superficiale
di circa 22 gradi celsius e orbita attorno ad
una stella molto simile al Sole. Acqua e terra
non mancano, anche se gli astronomi non
sono ancora sicuri se il pianeta sia più roccioso,
liquido o gassoso. Kepler 22-b rientra
comunque nella zona di Goldilocks, cioè la
zona dei pianeti abitabili attorno ad una stella
anche detta Cintura verde. Il telescopio
Kepler ha scoperto più di 1000 pianeti potenzialmente
abitabili, ma Kepler 22-b è il più
piccolo tra quelli che maggiormente somigliano
alla Terra.
Questa è la pietra miliare nella strada della
scoperta del pianeta gemello della Terra. I
risultati di Kepler continuano a dimostrare
l’importanza delle missioni scientifiche della
Nasa, che vuole rispondere al grande interrogativo
del nostro posto nell'universo. Il primo
passaggio del pianeta è stato osservato dopo
appena 3 giorni dall'inizio della fase operativa
della sonda. Kepler apre così la strada della
colonizzazione dello spazio, con la scoperta
di un pianeta abitabile simile alla Terra tra i
tanti candidati osservati.

Arrivano i "mostri cosmici".

Sono stati scoperti i due più grandi buchi neri
mai individuati. Il risultato pubblicato su
Nature si deve a un gruppo coordinato da
Chung-Pei Ma dell'università americana della
California a Berkeley. Autentici "mostri
cosmici" i due oggetti hanno una massa pari a
9,7 miliardi di masse solari e si trovano al
centro delle galassie NGC 3842 e NGC 4889.
Prima di questa scoperta il più grande buco
nero individuato si trova nella galassia ellittica
Messier 87 e ha una massa pari a circa 6,3
miliardi di masse solari.
La scoperta dei due buchi neri è stata possibile
grazie al telescopio spaziale Hubble gestito
da Nasa ed Esa e a telescopi basati a terra.
Secondo gli esperti, il risultato aiuterà a chiarire
come si formano questi oggetti e le galassie
che li ospitano. Inoltre la scoperta suggerisce
che i processi che influenzano l’evoluzione
delle più grandi galassie e dei loro
buchi neri sono diversi dalle dinamiche che
interessano le galassie più piccole. Si immagina
che tutte le galassie molto massive, con
una forma sferoidale ospitino buchi neri al
loro centro. Per esempio si ipotizza che galassie
lontanissime ed estremamente brillanti
come i quasar, che si sono formate quando l'universo
era giovanissimo, siano alimentati da
buchi neri con masse pari a oltre dieci miliardi
di volte quella del Sole.

Il microscopio 3D con un occhio solo.

I ricercatori statunitensi trovano il modo di
visualizzare in stereoscopia campioni ingranditi,
utilizzando una singola lente progressiva
I microscopi 3D attuali utilizzano più lenti o
più telecamere, che si muovono intorno
all’oggetto per ricreare un’immagine tridimensionale.
Ora, grazie all'invenzione degli
ingegneri della Ohio State University, sarà
possibile utilizzare una sola lente per esaminare
un elemento microscopico da nove differenti
punti di vista. Il prototipo della lente
progressiva, grande quanto un’unghia, è intagliato
come una sorta di diamante. Intorno
alla parte centrale dell’ottica free-form ci
sono infatti otto impercettibili sfaccettature,
asimmetriche: sono geometrie che servono a
inquadrare il campione da ulteriori prospettive.
Queste diverse immagini vengono inviate
ad un computer che, in tempo reale, le combina
in una unica immagine elaborata in 3D. La
tecnica free-form, utilizzata per personalizzare
gli occhiali e consentire una corretta visione
a qualunque distanza, permette di progettare
la superficie della lente punto per punto,
sia dentro che fuori. Utilizzando questo sistema,
che in pratica combina tanti microscopi
in un unico microscopio, sarà quindi possibile
ridurre la dimensione e il numero delle
attrezzature da utilizzare in laboratorio. Ma
anche i produttori di microelettronica potrebbero
trarre vantaggio da una soluzione di questo
tipo. Per realizzare gli intagli del prototipo
presentato, i ricercatori hanno lavorato
l’ottica termoplastica utilizzando una tecnica
"artigianale" con un macchinario apposito,
ma assicurano la possibilità di una produzione
in serie, con le tradizionali tecniche di
stampa, per abbattere costi e tempi.

Il guscio di antimateria.

La Terra è avvolta da un "guscio" di antimateria:
intrappolata nel nostro campo magnetico,
potenzialmente potrebbe rappresentare
un’enorme fonte di energia. La scoperta, pubblicata
su Asthrophysical Journal Letters, è
stata possibile grazie all’esperimento internazionale
"Pamela", coordinato dall'Istituto
Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) e condotto
in collaborazione con l’Agenzia Spaziale
Italiana (Asi).
Lo strumento "Pamela" (Payload for Antimatter
Matter Exploration and Light-nuclei
Astrophysics), creato quasi interamente in
Italia, è un vero e proprio cacciatore di antimateria
spaziale che è stato mandato in orbita
intorno alla Terra a bordo del satellite russo
Resurs-DK1, che viaggia tra i 350 e i 600 chilometri
sopra le nostre teste. Grazie alle misurazioni
effettuate Pamela è riuscita a contare
per la prima volta ben 28 antiprotoni (le particelle-
specchio che vivono nell'antimondo e
sono opposte rispetto ai protoni) intrappolati
nel campo magnetico terrestre. Il satellite ha
potuto incrociare quella particolare "ciambella",
chiamata Fascia di Van Allen, che è formata
da particelle cariche generate dalla collisione
tra i raggi cosmici provenienti dallo
spazio e le particelle della parte più esterna
dell’atmosfera. La sua forma ricorda quella di
una ciambella perché in corrispondenza del
Brasile si schiaccia verso il suolo, formando
una depressione conosciuta come "Anomalia
del Sud Atlantico". Questa è la prima volta
che si dimostra la presenza di antimateria
intorno alla Terra. Riguardo alla sua origine,
l’ipotesi più probabile è che gli antiprotoni
derivino dagli antineutroni generati dallo
scontro tra raggi cosmici e atmosfera. Una
volta entrati nel campo magnetico terrestre si
trasformano in antiprotoni che rimangono poi
intrappolati. Questa fascia di antimateria può
rappresentare, da un punto di vista teorico,
un'enorme fonte di energia, che potremmo
ottenere facendo scontrare materia con antimateria.
Qualcuno tra gli esperti avanza
anche l'ipotesi di usare questa energia come
carburante per le astronavi del futuro.

Verso una nuova fisica?

Mentre andavano a caccia della ormai celebre
"particella di Dio", ossia il bosone di Higgs
che dà origine alla massa, i fisici del Fermilab
di Chicago hanno incontrato qualcosa di completamente
inaspettato, una particella misteriosa
che ha già messo in subbuglio il mondo
della ricerca perché potrebbe essere il primo
passo verso la scoperta di leggi fisiche completamente
nuove. I ricercatori italiani sono in
prima fila: il programma di ricerca Cdf (Collider
Detector at Fermilab) è coordinato dall’italiano
Giovanni Punzi e sono 70 i ricercatori
dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare
(Infn) coinvolti, sui 520 che stanno lavorando
al programma.
La strada verso la "nuova fisica" promessa
dal più grande e potente acceleratore del
mondo, il Large Hadron Collider (Lhc) del
Cern di Ginevra, potrebbe quindi averla aperta
il vecchio Tevatron, l’acceleratore del Fermilab
pronto ad andare in pensione a fine
anno, dopo 23 anni di lavoro.
La particella misteriosa è stata rivelata dalle
tracce che ha lasciato: un bosone W e due
getti di adroni, ossia di particelle composte da
due o tre quark che in genere rappresentano la
firma del decadimento di una particella
pesante. La nuova particella non somiglia
assolutamente a nulla di tutto ciò che i fisici
si aspettavano di vedere o che stessero cercando.
L’entusiasmo è tale che già oggi i fisici
teorici hanno pubblicati i primi articoli nei
quali vedono nella nuova particella la conferma
della loro teoria. Quello che è certo è che
fra tutte le teorie che potrebbero spiegare la
natura di questa particella "non c’è nemmeno
una che non sia estrosa". E' il caso del modello
Technicolor, che prevede l'esistenza di particelle
prodotte ad energie molto alte, o l’ipotesi
che esista un nuovo modello, molto bizzarro,
della particella Z scoperta dal Nobel
Carlo Rubbia.

I neutrini che mandano Einstein in soffitta.

In contraddizione con la regola aurea della
fisica moderna, secondo cui nulla può viaggiare
più velocemente di 299.792.458 metri al
secondo, i neutrini hanno impiegato 60 nanosecondi
(un nanosecondo equivale a un
miliardesimo di secondo) in meno dei fotoni
per coprire i 730 chilometri di distanza che
separano il Cern di Ginevra dai Laboratori
Nazionali del Gran Sasso. In pratica hanno
viaggiato a 300.000.006 metri al secondo. È
quello che ha sperimentato un gruppo di
ricercatori del Cern e dell'Infn guidato dall’italiano Antonio
Ereditato presso il laboratorio
del Cern di Ginevra. In campo scientifico,
quando un esperimento si imbatte in un risultato
apparentemente incredibile e non riesce a
individuare un errore sistematico che abbia
prodotto quella misura,la procedura standard
è sottoporlo a una più ampia indagine. Esattamente
ciò che sta facendo la collaborazione
Opera. La nostra è una corretta pratica scientifica",
ha commentato il Direttore di ricerca
del Cern Sergio Bertolucci. "Se questa misura
fosse confermata potrebbe cambiare la
nostra visione della fisica e quindi non possiamo
che attendere conferme da misure indipendenti".
La velocità delle particelle è stata misurata
dal rivelatore Opera, dell'esperimento Cngs
(Cern Neutrinos to Gran Sasso), nel quale un
fascio di neutrini viene lanciato dal Cern di
Ginevra e raggiunge i Laboratori Nazionali
del Gran Sasso, dell'Istituto nazionale di Fisica
Nucleare. I neutrini sono particelle fondamentali
elettricamente neutre dotate di una
massa infinitamente piccola, e fino a oggi si
riteneva impossibile che potessero davvero
viaggiare più veloci dei fotoni, particelle
senza massa in grado di raggiungere una velocità
di circa un miliardo di chilometri l’ora. I
risultati, ottenuti analizzando gli oltre 15 mila
neutrini sinora prodotti dall'acceleratore del
Cern Super Proton Synchrotron lungo il tragitto
Cngs (Cern Neutrinos to Gran Sasso),
sono noti ai ricercatori impegnati nell'esperimento
da circa tre anni, ma solo oggi si è
deciso di presentarli al pubblico con un articolo
preprint pubblicato sul sito ArXiv.org e
con un seminario al Cern. Secondo i ricercatori
potrebbe esserci un margine di errore di
massimo 10 nanosecondi. La scoperta per la
prima volta mette in crisi la Teoria della relatività
ristretta di Einstein. Pubblicata oltre 100
anni fa, nel 1905, questa teoria contiene due
affermazioni rivoluzionarie: le leggi fisiche
hanno la stessa forma sia nello stato di quiete
che in quello di moto uniforme e la velocità
della luce è la stessa, di 300.000 chilometri al
secondo, indipendentemente dal sistema di
riferimento, sia che venga emessa da un corpo
in quiete che da un corpo in moto uniforme.
Alla velocità della luce si propagano tutti i
segnali di tipo elettromagnetico (oltre alla
luce, i raggi X, raggi gamma, ultravioletti,
infrarossi e microonde) e le onde gravitazionali,
le increspature nello spazio tempo previste
sempre dalla relatività di Einstein e generate
da eventi cosmici violentissimi come collisioni
fra stelle. Secondo la relatività ristretta,
la velocità della luce non può essere superata
ed è la velocità di particelle senza massa
come le particelle della luce (i fotoni) nel
vuoto. "Non si sa se i neutrini abbiano massa
o no - ha osservato Giancarlo Ruocco direttore
del Dipartimento di Fisica dell'università di
Roma La Sapienza - è ancora in discussione
ma se non avessero massa dovrebbero essere
veloci come la luce, se avessero massa sarebbero
più lenti. Finora, ha proseguito l'esperto,
non si riteneva possibile arrivare o superare la
velocità della luce. Perché ciò richiederebbe o
un'energia infinita o di non avere massa,
come i fotoni". Se la misura sarà confermata
ci vorrà uno sforzo intellettuale per superare
la teoria della relatività ristretta che ovviamente
resta valida ma va integrata per i corpi
più veloci della luce. "La scoperta è sconcertante
- ha rilevato De Bernardis - sia a livello
teorico sia sperimentale ed è importante che
venga confermata da altri esperimenti indipendenti".
È sconcertante a livello sperimentale
perché, ha spiegato l’esperto, negli anni
‘80 per esempio quando è stata osservata l'esplosione
di una supernova nella Nube di
Magellano a 150.000 anni luce da noi, sono
stati rivelati anche neutrini alla velocità della
luce. Se i neutrini fossero più veloci della luce
sarebbero arrivati qualche anno prima. Ma in
quel caso i neutrini avevano un'energia più
bassa dei neutrini dell'esperimento Opera. Se
i dati saranno confermati, potrebbe significare
anche che i neutrini più sono energetici più
sono veloci, ma è ancora presto per fare
deduzioni. Si potrebbe aprire un momento
eccitante per la scienza, ha aggiunto Ruocco,
come quello tra la fine dell’800 e gli inizi del
‘900 e vi potrebbe essere spazio per scommesse
intellettuali a cui dedicarsi. C'è chi
paragona questa scoperta a quelle di Galileo.
"Lo stesso Albert Einstein verrebbe messo in
discussione. Se i neutrini sono per davvero
più veloci della luce, la teoria della Relatività
speciale subirebbe un duro colpo. Nella
concezione relativistica lo spazio ed il tempo
formano un'unica entità, il «continuo spaziotempo
», con quattro dimensioni: tre dimensioni
spaziali ed una temporale. Se gli scienziati
dovessero confermare l'osservazione,
questo «continuo» non esisterebbe, così
come il «principio di casualità», e si aprirebbero
scenari inediti.
Un altro esperimento simile a quello condotto
dall'equipe del Cern e dell'Infn era stato effettuato
nel 2007 in Minnesota; in quell'occasione
il Main Injector Neutrino Oscillation
Search (Minos) aveva segnalato l'arrivo di un
fascio di neutrini provenienti dal Centro di
fisica delle particelle di Fermilab, in Illinois,
in anticipo sui tempi previsti. Ma in quella
circostanza il risultato era stato minimizzato
perché c’era troppa incertezza circa la posizione
esatta del rivelatore per essere sicuri
della significatività dei dati. In effetti l'idea
che nulla può viaggiare più veloce della luce
nel vuoto rappresenta la pietra angolare della
Teoria della Relatività Speciale di Einstein,
che assume tale velocità come una costante.
Se i neutrini sono più veloci della luce, allora
uno dei presupposti fondamentali della scienza,
secondo cui le leggi della fisica sono le
stesse per tutti gli osservatori, potrebbe essere
invalidato. Tra l'altro, la teoria della relatività
implica l'impossibilità fisica delle traversate
interstellari e dei viaggi nel tempo, il che
sembrerebbe rendere plausibili congetture
finora confinate nel campo fantascientifico.
Nessuna rivoluzione per la vita quotidiana?
C'è chi ipotizza la possibilità di viaggi indietro
nel tempo per la materia. Una cosa difficile
anche solo da immaginare... Si parla della
possibilità di vedere un fenomeno prima del
verificarsi delle sue cause. La violazione
della velocità della luce teorizzata da Einstein
comporterebbe la violazione del principio di
causalità. "Nessuno e niente viaggia indietro
nel tempo. Ci sono determinate soluzioni di
equazioni di teorie fisiche che matematicamente
ammettono la possibilità che, andando
avanti, si torni in un tempo precedente. Ma
questa è pura speculazione teorica".

Successivi controlli, effettuati nel 2012, hanno
dimostrato che alla base dell’esperimento vi
erano degli errori nella misurazione dei
tempi: di conseguenza tutti i risultati ne risultano
inficiati. Come conseguenza immediata
il direttore dell’esperimento, Dott. Antonio
Ereditato, ha rassegnato le dimissioni.
Abbiamo voluto pubblicare ugualmente
questo articolo a riprova di quanto la scienza
sia soggetta a dei banali errori umani che ne
determinano l’esattezza.



Le Curiosità Scientifiche dell'anno 2011.

Le misteriose stragi di animali.
All’inizio di gennaio in tutto il mondo, Italia compresa, si sono susseguiti diversi decessi
di massa di pesci e uccelli. E mentre qualcuno teme l'avvicinarsi della fine del
mondo, gli scienziati rassicurano: le morie di gruppo ci sono sempre state e solitamente
sono riconducibili a ben precise cause, come l’ingestione di alimenti avariati o
lo scontro, nel caso degli uccelli, con radar, cavi dell'alta tensione e altre infrastrutture
umane.

Confermato il surriscaldamento del pianeta.
Il pianeta si sta riscaldando sul serio: a porre fine al dibattito sul reale aumento delle
temperature della Terra è il fisico Richard Muller, direttore del più vasto studio indipendente mai condotto su questo tema.
Con oltre 14.5 milioni di osservazioni medie al mese Muller risponde punto per punto
alle obiezioni degli scettici che non credono alle teorie sul surriscaldamento e contestano
i metodi di rilevazione della NASA e degli altri enti accreditati.

Sequenziato il genoma della peste nera.
Un team di ricercatori della McMaster University (Canada) insieme ai colleghi tedeschi
dell'Università di Tubinga è riuscito a sequenziare il DNA del batterio Yersinia pestis,
responsabile della temibile pesta nera che nel '300 fece oltre 50 milioni di vittime in
tutto il mondo. Il codice genetico del batterio è stato estratto con una innovativa tecnica
dai denti di 5 cadaveri sepolti alla metà del 1300 in un cimitero inglese. Oggi la peste
può essere curata con la somministrazione di antibiotici: streptomicina e tetraciclina.

Il rientro del satellite UARS.
Tra il 22 e il 23 settembre tutto il mondo è stato con il naso all'insù per cercare di capire
dove sarebbe caduto il satellite artificiale UARS, una gigantesca macchina da 6 tonnellate
di peso, spenta dai tecnici della NASA qualche anno fa e di cui non si conosceva
con certezza la traiettoria di rientro. Per parecchi giorni i giornali avevano riportato
la notizia che una delle zone interessate alla caduta sarebbe stata la fascia alpina
e una parte del nord Italia. Nonostante le preoccupazioni iniziali, UARS ha toccato
terra la mattina del 24 settembre, in una zona disabitata del Canada. La NASA ha spiegato
che eventi del genere sono «poco frequenti, ma non così inusuali». E a tutt’oggi
risulta che non abbiano mai provocato danni a persone.

Chiude il Tevatron.
Il 30 settembre 2011 è stato definitivamente spento il Tevatron, l'acceleratore di particelle
dei Fermi National Accelerator Laboratory di Batavia, Illinois. Terminato nel 1983,
questo grande acceleratore di protoni e antiprotoni - 6,3 km di lunghezza e 290 milioni
di dollari di costo - ha permesso di scoprire l'esistenza del quark top, una particella
elementare la cui vita è di circa a 5-10-25 secondi.

Siamo 7 miliardi. Troppi?
Il 31 ottobre la popolazione mondiale ha raggiunto quota 7 miliardi. E nel 2050 gli abitanti
del pianeta potrebbero essere ancora di più: tra gli 8 e 10 miliardi a seconda delle
stime. La Terra avrà abbastanza risorse per tutti? Per ciò che riguarda il cibo probabilmente
sì: secondo la FAO il pianeta potrebbe nutrire fino a 20 miliardi di individui.
Il vero problema potrebbe essere l'approvvigionamento energetico, soprattutto per i
paesi poveri che registreranno la maggior parte della crescita.


Svizzera: Accesso negato a Street View.

Il servizio Street View registra l'ennesima sconfitta. Questa volta è la Svizzera, Stato
da sempre attento alla tutela della privacy dei propri cittadini e che già da tempo aveva
manifestato le sue perplessità sul grande occhio di Google, ad osteggiare il servizio.
Una sentenza emessa dal tribunale amministrativo federale (TAF), al termine di un contenzioso
che si trascina da tempo, ha dato torto al servizio di mappatura di Google
concordando con le argomentazioni portate alla luce dall'Hanspeter Thur, l'ufficio
federale per la protezione dei dati.
Il servizio di Mountain View dovrebbe garantire che le singole persone immortalate al
passaggio delle Google Car non debbano essere riconosciute, che si debbano rimuovere
assolutamente aree interne delle abitazioni, giardini e strade private e che le targhe
dei veicoli debbano essere offuscate. Inoltre, si impone l'obbligo al servizio di
mappatura di comunicare, con almeno una settimana di anticipo, le città che verranno
fotografate e ciò che intendono pubblicare online.
Grazie anche all'ausilio di un software che interviene automaticamente, circa il 99 per
cento dei volti e delle targhe sarebbero già stati resi irriconoscibili. Ma tale dato rappresenterebbe
una quota ancora insufficiente per l'incaricato federale della protezione
dei dati che si sta occupando della questione. BigG dovrà, pertanto, sfumare il
resto delle immagini manualmente, nonostante tale soluzione - stando a quanto rammentato
dalla società - abbia costi supplementari ed ingenti oltre che risultare un'operazione
logisticamente impossibile.
Nella decisione il TAF ha ribadito che è vietato fotografare una persona senza esplicito
consenso. "Ognuno ha diritto di proteggere la propria immagine e ciò fa parte del
diritto più ampio della salvaguardia della personalità. Nell'ambito della protezione dei
dati - ha sottolineato il TAF - il diritto all'autodeterminazione in materia di informazione
è garantito dalla Costituzione federale".
Il Tribunale amministrativo federale tiene a precisare che non si tratta di vietare Google
Street View ma che semplicemente vanno pubblicate online soltanto immagini che
salvaguardano il diritto della personalità. E che tale protezione deve essere rispettata
in maniera ancora più accurata in prossimità di luoghi "sensibili" quali ospedali, prigioni,
tribunali o sedi di servizi sociali".
Per Google vi è ancora la possibilità di ricorrere in appello e portare il caso all'attenzione
del Tribunale federale della Svizzera. Mountain View ha dichiarato di essere contraria
alla decisione presa dal TAF affermando che gli obblighi imposti a seguito della
sentenza sono praticamente inattuabili.
 

Una Nuova Stella.

Lo scorso 23 Agosto, l’occhio del telescopio Samuel Oschin dell’Osservatorio del
Monte Palomar che si trova nella Contea di San Diego in California, ha scoperto un
bagliore provenire da 21 milioni di anni luce.
Si tratta della conseguenza dell’esplosione di una supernova molto particolare che
appartiene ad una famiglia utilizzata per misurare l'espansione dell'Universo. Si tratta
di una nana bianca, stella che si forma quando una stella grande come il nostro Sole
collassa alla fine della sua esistenza, riducendo drammaticamente il volume e rimpicciolendosi
come la Terra.
Questa stella si trova a nord-ovest di Alkaid ed è l'ultima del Grande Carro nella
costellazione dell’Orsa Maggiore: si tratta della più luminosa apparsa negli ultimi 30
anni e promette di essere un astro da record in futuro. Per osservarla basta infatti un
binocolo di piccole dimensioni ed è visibile da settembre.

Anno 2011.

Medicina.

Le ricerche del 2011.

Dal primo trapianto di laringe al mondo ai
geni di alcune alghe che possono ridare la
vista, al rilascio di zanzare anti-dengue fino
alla prevenzione del cancro del colon retto
con l’aspirina: sono queste alcune delle scoperte
e dei trattamenti di salute più interessanti
e promettenti che hanno caratterizzato il
2011, secondo la rivista ‘New Scientist’, che
ha stilato la sua top-ten. Al primo posto c’è il
pionieristico trapianto combinato di laringe,
tiroide e trachea, che ha ridato la voce a una
donna. Segue il nuovo trattamento preventivo
del tumore del colon retto con un’aspirina al
giorno, utile per chi ha il rischio per via ereditaria
di sviluppare il cancro. Altra storia che
ha caratterizzato il 2011 è stato l’aver svelato
come l’orgasmo, il piacere e il dolore alterano
il cervello, e l’aver visto che patologie come il
diabete, il Parkinson e l’obesità potrebbero
essere curate rimpiazzando i batteri dell’intestino.
Tra gli altri studi interessanti c’è quello
che ha consentito di vedere gli effetti dei geni
di un’alga sulla vista delle persone cieche,
l’aver fatto crescere per la prima volta spermatozoi
fuori dai testicoli, il rilascio di
300.000 zanzare anti-dengue in Australia, e
l’aver annullato i danni dell’ Alzheimer con
una profonda stimolazione cerebrale con
impulsi elettrici.
Infatti in più della metà dei casi di Alzheimer
prima dei 60 anni, viene posta inizialmente
una diagnosi scorretta a causa della diversità
dei sintomi cognitivi rispetto alle forme più
tardive: in particolare, i soggetti non sembrano
evidenziare problemi di memoria. È questa
la conclusione di uno studio in cui sono stati
considerati 40 casi di Alzheimer registrati
presso la banca dei tessuti neurologici dell'Università
di Barcellona, in Spagna, e diagnosticati
post mortem con un'autopsia. Contestualmente,
sono state anche riesaminate le
informazioni riguardanti l'età di manifestazione
dei primi sintomi e la storia familiare.
In circa il 38 % dei casi, i sintomi iniziali
erano diversi dal deficit di memoria, e comprendevano
disturbi del comportamento, del
linguaggio e della visione, uniti a un declino
delle funzioni esecutive. Nelle persone con
sintomi atipici e nessun problema di memoria,
il 53 % aveva ricevuto una diagnosi scorretta
rispetto al 4 % di coloro che manifestavano
problemi di memoria. Più nello specifico, agli
stessi soggetti era stata diagnosticata nella
maggior parte dei casi un altro tipo di demenza.
L’aspetto più drammatico emerso dalla
ricerca è che per il 47% dei pazienti con sintomi
iniziali inusuali, l’Alzheimer non era stato
ancora riconosciuto al momento del decesso.
Per quanto riguarda l’area medica propriamente
detta, tra le scoperte importanti che
renderanno memorabile il 2011 ci sono: la
mappa dei batteri, ovvero lo studio e la classificazione
dei batteri che caratterizzano
soprattutto il nostro apparato digerente, aiutandoci
nella selezione delle proteine del cibo
e nell’eliminazione delle tossine. Grazie a
questa mappatura si potranno studiare meglio
le malattie della zona gastrica ma la teoria si
potrà estendere ad altri tipi di batteri in altre
zone del corpo; il vaccino antimalaria, sperimentato
su 15.000 bambini malati di diversi
paesi africani e asiatici colpiti da questa
malattia e che sta dando risultati più che soddisfacenti;
l’arresto dell'invecchiamento, grazie
ad alcuni esperimenti condotti sui gatti sui
quali, eliminando le cellule morte, si riusciva
a inibire il processo di invecchiamento cellulare
in tutto l'organismo; infine, naturalmente,
le cure contro l'AIDS che stanno per giungere
a una tanto attesa svolta grazie agli ultimi
studi portati a termine in questo anno e che in
alcuni casi hanno fatto registrare risultati
positivi sul 96% dei soggetti testati.
Gli studiosi si sono chiesti se l’assunzione
precoce dei farmaci potesse ridurre il livello
di trasmissione della malattia. Sulla questione
si è acceso un lungo e complesso dibattito,
finché proprio nel 2011, è arrivata la conferma
scientifica, in base alla quale, in termini di
prevenzione dell'AIDS, i farmaci retrovirali
diminuiscono in maniera ingente il pericolo
di trasmissione del virus. Le ultime scoperte
sull’AIDS hanno dato più certezze sul rischio
di contagio dell'HIV.

Nuovi rimedi contro l’influenza.

Mai un’influenza, mai una linea di febbre.
C’è chi dimostra di essere particolarmente
resistente agli acciacchi stagionali, al contrario
di chi al primo fiato di vento comincia a
starnutire. Oggi gli studiosi hanno individuato
il "superanticorpo" che garantisce eterna
salute.
Questione di geni insomma, a sostenerlo è
uno studio pubblicato su Plos One da un gruppo
di ricercatori guidati da Massimo Clementi
e Roberto Burioni. La scoperta è stata fatta
studiando il sistema immunitario "di un individuo
che ricordava di non essere stato mai
colpito dall’influenza nonostante un’intensa
esposizione al virus".
E la conclusione è che vi sono persone il cui
sistema immunitario riesce ad attaccare il
virus influenzale producendo un anticorpo
estremamente potente. Coloro in grado di
farlo sono pochi, ma grazie alla scoperta del
"talento" di cui sono dotati, si apre ora la
porta ad una nuova generazione di farmaci
antinfluenzali e di vaccini in grado di stimolare
proprio questi anticorpi "invincibili"
anche in chi normalmente non ne produce.

Il cervello cura il diabete.

Uno studio giapponese ha impiantato cellule
celebrali nel pancreas dei topi scoprendo che
sono un efficace trattamento per questa patologia.
Il diabete affligge 26 milioni di persone
negli Stati Uniti e ben 200 milioni di persone
nel mondo. È la settima causa di morte nel
mondo ed ogni anno le terapie costano 174
miliardi di dollari. Se il risultato ottenuto con
i topi fosse applicabile all’uomo si otterrebbe
una nuova ed efficace terapia.
Le cellule staminali neurali estratte dall’ippocampo
dei topi sono state iniettate nel pancreas
dei roditori malati. I topi hanno evidenziato
un abbassamento del livello di zuccheri
nel sangue. Trapiantando cellule staminali
neurali direttamente nel pancreas si libera l’abilità
intrinseca di regolare la produzione di
insulina, e ancor pù importante si dimostra
che le cellule possono essere estratte da un
paziente senza bisogno di manipolazione
genetica.

Sale e ipertensione.

Una nuova ricerca ha permesso di compiere
un notevole passo in avanti nella comprensione
dei meccanismi che determinano la correlazione
tra consumo di sale e pressione arteriosa.
Secondo i risultati dello studio, il sale
indurrebbe un aumento dei valori pressori
perché renderebbe più difficoltoso per il sistema
cardiovascolare regolare sia la pressione
sanguigna sia la temperatura. Da decenni, la
ricerca medica sta cercando di chiarire in che
modo i valori di pressione siano legati all’introito
di sale. Alcuni individui, descritti come
altamente sensibili, mostrano un incremento
della pressione arteriosa, contrariamente alle
persone in cui tale reazione fisiologica non si
verifica. Tenuto conto che l’apparato cardiovascolare
è responsabile del mantenimento
della pressione normale e aiuta anche a controllare
la temperatura corporea trasferendo il
calore dai muscoli e dagli organi interni alla
superficie della pelle, un gruppo di ricercatori
guidati Robert P. Blankfield, professore di
medicina di famiglia della Case Western
Reserve University School of Medicine, e da
Ellen L. Glickman, docente di scienze motorie
della Kent State University, ha verificato
se questo duplice ruolo potesse spiegare l'ipertensione
sensibile al sale.
Si è così proceduto a esaminare la reazione di
un gruppo di 22 soggetti di sesso maschile in
salute non affetti da ipertensione all'assunzione
di acqua e sale. A tutti è stata rilevata a
intervalli regolari una serie di parametri, quali
pressione sanguigna, temperatura rettale e
indice cardiaco (il volume di sangue pompato
dal cuore in un minuto).
Si è così riscontrato come l'ingestione di sale
e acqua diminuisca la temperatura corporea
più dell'ingestione di sola acqua. In particolare,
nei soggetti resistenti al sale la temperatura
diminuiva in misura maggiore che in quelli
sensibili. Sembra che i soggetti sensibili al
sale mantengano l’omeostasi termica in modo
più efficace rispetto a quelli resistenti, ma
sperimentano un incremento di pressione nel
processo. Per converso, gli individui resistenti,
mantengono un corretto valore di pressione
arteriosa con l’introito di acqua e sale ma sperimentano
una più intensa riduzione di temperatura
nel processo.
Se i risultati fossero generalizzabili, sarebbe
possibile rendere conto del ruolo del sale
nello sviluppo dell'ipertensione negli individui
sensibili, in cui l’effetto persiste per breve
tempo dopo l'assunzione. Questo innalzamento
temporaneo dei valori pressori, non importa
se brevi o prolungati, potrebbero dare il via
a una complessa catena di processi all’interno
delle arterie grandi e piccole che caratterizzano
i soggetti con ipertensione essenziale.

Le infezioni batteriche.

Le infezioni rappresentano una delle principali
cause di morte nelle unità di cura intensiva
degli ospedali: per cercare di mitigare
questo problema è stata messa a punto una
tecnica di manipolazione di un fattore genetico
in grado di indurre una risposta efficace da
parte dell'organismo.
Gli studiosi hanno scoperto che stimolando in
modo indiscriminato il sistema immunitario
in realtà si può aumentare la gravità delle condizioni
del paziente: quando un paziente soffre
di una sepsi allo stadio terminale, occorre
paradossalmente impedire che il sistema
immunitario possa determinare un shock e
quindi la morte.
Secondo quanto esposto in un articolo sulla
rivista Immunity, la chiave per migliori terapie
della sepsi è sapere quando attivare e quando
disattivare il fattore di trascrizione di Kruppel
di tipo 2 (KLF2). All’interno delle cellule
immunitarie chiamate macrofagi, il KLF2
regola le attività cellulari secondo i segnali dell’ambiente
interno. Normalmente, il fattore
mantiene le cellule immunitarie in uno stato
quiescente; durante la prima fase dell’infezione,
quando il batterio comincia il suo
attacco, i risultanti bassi livelli di ossigeno e
l’alta quantità di prodotti batterici determinano
una riduzione del livello di KLF2. Quest’ultima
a sua volta determina il rilascio da parte dei
macrofagi di sostanze che uccidono i batteri.
Ma quando la sepsi entra nella seconda fase,
caratterizzata da bassa temperatura corporea e
bassa pressione, danno ai tessuti e agli organi,
le difese interne dell'organismo sono pericolose
perché promuovono un’infiammazione
che può causare shock e morte.
In questa fase occorre promuovere l'azione
del KLF2 e calmare quest’infiammazione
senza controllo. Il corpo, tuttavia, non fa
questo in modo naturale: i ricercatori non
sanno perché, ma sospettano che l’ipossia
continuata e la presenza di prodotti batterici
in circolo mantenga bassi i livelli di KLF2.
La ricerca si basa su una scoperta dello stesso
laboratorio di Jain del 2006 del KLF2 nei
macrofagi. In questo nuovo studio, i test
hanno mostrato che i topi mancanti di KLF2
riuscivano a superare in modo efficace le
infezioni polimicrobiche nella prima fase dell’infezione.
Nell’ultima fase, per contro, gli
stessi animali avevano una maggiore mortalità
e morivano in più giovane età. L’analisi di
campioni di sangue raccolti da pazienti
ricoverati in ospedale e colpiti da sepsi
mostravano lo stesso fenomeno.
Il gruppo è ora alla ricerca di composti che
possano ridurre la quantità di KLF2 nella
prima fase dell'infezione e di altri che possano
elevarla nella seconda fase. Si è riscontrato
che le statine, la classe di farmaci utilizzati
per ridurre i livelli di colesterolo, e il
resveratrolo, la sostanza presente nel vino
rosso che si ritiene possa elevare i livelli di
colesterolo buono, possano essere utili per
combattere le sepsi.

Preservare le ossa per contrastare la distrofia.

La lotta alla distrofia di Duchenne passa
anche per la salute delle ossa: uno studio
finanziato da Telethon condotto presso l’Università
dell'Aquila e l’Ospedale Pediatrico
Bambino Gesù di Roma indica una nuova
strada per contrastare questa grave malattia
neuromuscolare, che compromette progressivamente
i muscoli di gambe e braccia, quelli
del respiro e il cuore.
Il lavoro è parte di un ampio progetto multicentrico
il cui obiettivo era capire se particolari
messaggeri chimici del nostro organismo,
fra cui l'interleuchina-6 (IL-6), potessero
avere un ruolo nella distrofia muscolare di
Duchenne. In questo studio si è dimostrato sia
nel modello animale sia nelle cellule di bambini
distrofici, che questa stessa molecola è
coinvolta nella perdita di tessuto osseo già
nelle prime fasi della malattia, quando la
capacità di camminare non è ancora compromessa.
Le condizioni delle ossa sono strettamente
correlate a quelle dei muscoli: quando
il muscolo è debole, anche l’osso si danneggia
di conseguenza, perché non riceve un
adeguato stimolo meccanico. È quanto accade
non solo nelle malattie neuromuscolari come
la distrofia, ma anche durante l'invecchiamento,
in condizioni di sedentarietà prolungata o
di paralisi, oppure anche agli astronauti sottoposti
per lungo tempo alla mancanza di forza
di gravità. Allo stesso tempo, un osso debole
non fornisce al muscolo un adeguato sostegno
e contribuisce così alla debolezza progressiva
che si osserva in questi pazienti.
In condizioni normali le nostre ossa sono sottoposte
a due processi opposti: la deposizione
di nuovo tessuto, mediata da cellule chiamate
osteoblasti, e il riassorbimento di tessuto vecchio,
ad opera invece degli osteoclasti. Nelle
persone sane c’è un equilibrio perfetto, mentre
quello che abbiamo osservato nei bambini
distrofici è che c’è un forte aumento dell’attività
degli osteoclasti accompagnato da una
riduzione di quella degli osteoblasti, associati
proprio all'aumento di IL-6 nel sangue. In termini
clinici questo si traduce in una riduzione
dell’accrescimento delle ossa e in un aumento
della loro fragilità.
Questo risultato spiega innanzitutto un
fenomeno che in precedenza si pensava dovuto
soltanto all'effetto dei glucocorticoidi, farmaci
antinfiammatori che attualmente sono
utilizzati per rallentare la progressione della
malattia ma che alla lunga hanno pesanti
effetti collaterali, anche sui muscoli. Soprattutto
suggerisce un'alternativa per prolungare
la capacità di camminare in questi bambini.
Scopo finale delle ricerche in corso è proprio
fornire un’alternativa al trattamento con i glucocorticoidi,
tale da rappresentare una terapia
di supporto più efficace nel mantenere una
migliore funzionalità del sistema muscolo-scheletrico.
Questo è particolarmente importante
nel caso della distrofia di Duchenne,
visto che sono attualmente in sperimentazione
diversi approcci terapeutici che
richiedono però di iniziare il trattamento
quando la capacità di camminare non è ancora
del tutto compromessa dalla malattia.

La struttura del colesterolo "buono".

La struttura del colesterolo HDL - il cosiddetto
colesterolo buono - è stata ricostruita per la
prima volta da un gruppo di ricercatori dell’Università
di Cincinnati (UC) coordinato da
Sean Davidson, professore di anatomia patologica
del dipartimento di medicina dell'UC.
Il risultato, pubblicato sulla rivista Nature
Structural & Molecular Biology è il primo
passo per poter riuscire a spiegare perché
questa sostanza sia in grado di proteggere dai
disturbi cardiovascolari, incluso l'infarto del
miocardio e l’ictus.
Il colesterolo HDL, o lipoproteina ad alta
densità è un insieme di proteine e grassi che
trasporta i grassi in specifici siti dell'organismo.
Nell’ambito della ricerca biomedica,
molti sforzi sono diretti alla sintesi di farmaci
in grado di incrementare i suoi livelli in combinazione
con i farmaci esistenti che diminuiscono
i livelli di lipoproteine a bassa densità, o
colesterolo LDL, conosciuto come "cattivo".
Studi su HDL ottenuto per sintesi hanno
mostrato il ruolo cruciale dell’apolipoproteina
A-I, una proteina abbondante nel colesterolo
HDL, nelle proprietà cardioprotettive, antinfiammatorie
e antiossidative della sostanza.
La principale ragione di ciò è la mancanza di
comprensione della struttura dell'HDL e di
come interagisce con altri fattori importanti
presenti nel plasma.
In quest'ultimo studio, Davidson e colleghi
hanno isolato HDL umano e analizzato la sua
struttura tridimensionale come si trova nel
circolo sanguigno. Precedenti studi si sono
focalizzati solo su HDL sintetico.
Il gruppo ha utilizzato sofisticate tecniche di
spettrometria di massa e di spettroscopia per
studiare il colesterolo HDL e ha riscontrato
come nella sua struttura molecolare le proteine
formino una struttura a gabbia in grado
di incapsulare il suo carico lipidico.
È stato così possibile stabilire che molte delle
particelle HDL che circolano nel plasma
umano sono notevolmente simili tra loro per
struttura; tuttavia si è anche scoperto che le
particelle hanno una notevole adattabilità al
contenuto lipidico.

Cardiologia.

Verso un cuore nuovo.

È stata scoperta una molecola che fa rigenerare
il cuore dopo un infarto. Il peptide, chiamato
limosina beta 4, aiuta alcune cellule del
muscolo cardiaco a dividersi, differenziarsi e
prendere il posto delle cellule morte, migliorando
la funzionalità cardiaca. Lo studio è
stato condotto sui topi, ma apre nuove prospettive
anche per gli esseri umani. Finora la
medicina rigenerativa aveva puntato su un’altra
strategia: isolare le cellule staminali, trattarle
in laboratorio per farle diventare cellule
del muscolo cardiaco, cioè cardiomiotici, e
trapiantarle nel cuore malato. Questa tecnica
però ha alcuni difetti: le nuove cellule sopravvivono
per un tempo limitato, sostituiscono
solo in parte quelle morte e possono essere
rigettate dal sistema immunitario. La nuova
strategia supera molti di questi ostacoli, perché
riattiva le cellule progenitrici che sono già
presenti nel muscolo e le induce a produrre
cardiomiotici. Probabilmente il peptide riaccende
nelle cellule un gene attivo durante lo
sviluppo embrionale, il Wt1. L’intero processo
però è ancora inefficiente: solo poche cellule
diventano davvero cardiomiotici. I ricercatori
sperano quindi di trovare una molecola
che abbia la stessa azione del peptide, ma sia
più efficace.

Le placche aterosclerotiche.

Le placche aterosclerotiche si formano in un
tempo abbastanza breve, di 3-5 anni, e in una
fase tardiva dell'esistenza: è quanto affermano
i ricercatori del Karolinska Institutet in
Svezia.
Il risultato è stato ottenuto con un'ingegnosa
tecnica di datazione al carbonio 14, utilizzato
da molto tempo in archeologia e in geologia,
andando a cercare i residui di questo isotopo
presenti in atmosfera, la cui abbondanza è
cresciuta rapidamente in seguito ai test atomici
a terra eseguiti negli anni Cinquanta e Sessanta
per poi diminuire in modo graduale. Ora
proprio questo fenomeno può essere sfruttato
per determinare quando è stato sintetizzato un
tessuto biologico, anche in epoca relativamente
recente.
Gli studiosi hanno raccolto campioni di placche
aterosclerotiche durante gli interventi chirurgici
per stenosi dell'aorta effettuati presso
lo Stockholm South General Hospital
(Södersjukhuset). I pazienti erano stati ricoverati
a causa delle lesioni carotidee che
ostruivano il flusso sanguigno verso il cervello,
causando i sintomi del cosiddetto attacco
ischemico transitorio (TIA) che in alcuni casi
ha portato all’ictus.
Quello che i ricercatori si aspettavano era che
le placche fossero notevolmente più vecchie.
I pazienti avevano un’età media di 68 anni
all'epoca degli interventi, mentre le placche
non erano più vecchie di 10 anni.
Un altro dato estremamente interessante è la
limitata variabilità dell’età delle placche, il
che fa ipotizzare che la loro formazione sia
avvenuta durante un periodo di tempo relativamente
breve e entro pochi anni prima dell’operazione.
Se queste conclusioni verranno confermate,
potrebbe aprirsi una nuova prospettiva terapeutica
per l'interruzione della formazione
delle lesioni aterosclerotiche prima che vi
siano manifestazioni cliniche.

Genetica.

Si camperà fino a 150 anni?

Che la vita si sia allungata nelle ultime generazioni
è ormai cosa palese, ma che i nostri
nipoti possano raggiungere record di longevità
per ora impensabili è l’ultima speranza che
arriva dalla ricerca.
È un vermetto a fare sognare gli scienziati
sull’elisir di lunga vita per restare al mondo
fino a 100, 120 e ancora 150 anni. Sarà davvero
possibile o sono solo sparate sensazionalistiche?
La genetica sta cercando di dare una
risposta perché il piccolo vermetto C. elegans
è già una grande promessa: con qualche
modifica strutturale la sua vita può essere
allungata per cinque volte di più del normale.
Basta scovare gli interruttori dell’invecchiamento
nelle diverse specie animali: allungare
l’esistenza del topo del 45% o del 60% per le
scimmie sembra solo il primo step. Altra storia
e grande sogno per quanto riguarda gli
uomini, visto che la questione della vita artificiale
è molto più complessa sia dal punto di
vista scientifico che da quello etico.
Mettendo le mani sul nostro genoma in effetti
si potrebbe centrale l’obiettivo e la ricerca
ha già collezionato progressi. A breve gli
ingegneri potranno confezionare in laboratorio
anche tessuti vitali, come quelli che formano
la parete dei vasi sanguigni.
È già in cantiere, per esempio, la macchina
per organ printing, ovvero per copiare gli
organi. Si direbbe quindi che raggiungere i
150 anni sarà un gioco da ragazzi. Non resterà
che farlo constatare ai nostri nipoti. Intanto
si calcola che gli ultraottantenni in America
sono quasi 6 milioni, l’1,8 per cento della
popolazione e nel 2050 saranno 19 milioni,
pari al 4,3% degli americani.

Sindrome di Down: il profilo dei geni alterati.

La mappa completa dei geni alterati nella sindrome
di Down è stata ottenuta dall’Istituto di
genetica e biofisica del Cnr di Napoli: il risultato
conferma che a determinare le alterazioni patologiche
è un complessa interazione tra
i geni del cromosoma 21, quello coinvolto
nella trisomia, e altri.
Com’è noto infatti la sindrome è caratterizzata
da tre copie, invece che dalle normali due,
del ventunesimo cromosoma. Ciò che finora
non era noto nel dettaglio era quali fossero i
geni la cui espressione determina le condizioni
patologiche che la accompagnano.
Costruire una "mappa" accurata dei geni alterati
degli individui malati è il primo passo
verso la cura, e avere la possibilità di studiarne
la sequenza, può fornire una più accurata
rappresentazione, ad alta definizione, di come
la patologia nasce ed evolve.
A rendere possibile il risultato è stata l’utilizzazione
di una nuova procedura denominata
"sequenziamento di nuova generazione" (next
generation sequencing).
Si tratta di una procedura di "sequenziamento
massivo" (deep sequencing) su larga scala che
richiede una stretta interazione tra competenze
avanzate di biologia molecolare e di bioinformatica.
Un software ricostruisce una
"mappa" ad alta risoluzione componendo
milioni di piccoli frammenti. Una procedura
impensabile fino a pochi anni fa, poiché
richiedeva anni di lavoro e investimenti molto
ingenti. La metodica, unita all’utilizzo di un
nuovo protocollo sperimentale nella preparazione
dei campioni da sequenziare, ha reso
possibile l’identificazione di forme alternative
di alcuni geni presenti esclusivamente
nelle cellule dei pazienti e ha consentito, per
la prima volta, di analizzare piccole molecole
di RNA che interagiscono con i geni regolandone
la loro espressione.
La prospettiva è ora quella di convertire queste
nuove conoscenze in nuovi approcci terapeutici
per le più comuni manifestazioni cliniche
della sindrome di Down.

Sla: Scoperto il gene.

Scoperto il gene responsabile della Sla (la
Sclerosi Laterale Amiotrofica) familiare e
sporadica. Lo studio, definito dai ricercatori,
"una svolta storica", getta nuova luce sulla
malattia e accende speranze per future (ma
non vicine) terapie per gli oltre 5 mila italiani
colpiti da questa malattia che ha, con tempi
diversi, sempre esito letale, e che ha avuto
attenzione anche per il tragico destino di una
quarantina di calciatori.
Da circa 10 anni i laboratori di tutto il mondo
stavano tentando di identificare il gene di cui
era nota solo la localizzazione a livello del
cromosoma 9. I ricercatori hanno analizzato
268 casi familiari di Sla americani, tedeschi
ed italiani e 402 casi familiari e sporadici di
Sla finlandesi.
Il 38% dei casi familiari e circa il 20% dei
casi sporadici erano portatori di un’alterazione
di uno specifico gene (lo c9orf72). Questa
scoperta, hanno spiegato i ricercatori, rappresenta
un importante progresso verso l’identificazione
della causa della Sla e della sua
terapia, soprattutto perché permette di spiegare
la causa della Sla in un’elevata percentuale
di casi familiari e sporadici. Fondamentale
per il successo della ricerca è stato l’apporto
del consorzio italiano per lo studio della genetica
della Sla (ITALSGEN), che riunisce 14
centri universitari ed ospedalieri italiani che si
sono uniti per la lotta contro la Sla.
Lo studio è stato finanziato dalla Federazione
Italiana Giuoco Calcio (Figc), dalla Fondazione
Vialli e Mauro per la Sla e dal Ministero
della Salute (ricerca finalizzata). Altri studi
cercheranno ora di approfondire meglio che
tipo di correlazioni ci sono con la frequenza
dei casi fra i calciatori.
Si tratta di uno dei più importanti risultati
della storia della ricerca sulla Sla perché
dimostra in maniera incontrovertibile che la
predisposizione genetica è una causa di gran
lunga più importante rispetto ad eventuali fattori
ambientali. Il risultato è stato ottenuto
grazie all’applicazione di modernissime tecnologie
di indagine genetica.

Ecco il gene della miopia.

Scovato un gene della miopia che quando è
difettoso causa questo diffusissimo difetto
oculare.
La scoperta è stata possibile studiando il
DNA di una tribù Beduina nel Sud di Israele
tra i cui membri ricorrono di frequente casi di
miopia a esordio precoce.
Si tratta del gene "Leprel1", che serve a produrre
un enzima fondamentale per dare la
forma giusta al bulbo oculare; se l’enzima
non funziona, il collagene si deposita nell’occhio
in modo aberrante e il bulbo oculare si
allunga più del dovuto. L’allungamento del
bulbo oculare genera la miopia perché impedisce
una corretta messa a fuoco in quanto
l’immagine non si forma sulla retina ma
davanti ad essa, risultando sfocata.
Leprel1 non è il primo gene scoperto ricollegabile
alla miopia, ma sicuramente averlo isolato
aiuterà a capire meglio l’origine del problema
che affligge milioni di persone.

Il dna nel computer.

È stato costruito un calcolatore capace di eseguire
le operazioni logiche and, or e not. Fin
qui nulla di nuovo, a parte il fatto che la macchina
è formata da più di cento filamenti di
dna. Proposti per la prima volta nel 1994, i
computer biologici sono ancora rudimentali.
Ma avere un minicomputer da inserire nelle
cellule, nei tessuti o negli organi degli esseri
viventi potrebbe avere applicazioni mediche
molto interessanti. Questi piccoli cervelli artificiali
potrebbero aiutare a diagnosticare le
malattie e a curarle. La ricerca si è concentrata
sullo studio di dispositivi biochimici di
grandezza microscopica capaci di eseguire
semplici operazioni logiche. Il nuovo studio,
pubblicato su Science, descrive la costruzione
di un computer che usa il dna al posto dei chip
di silicio. Il sistema funziona attraverso la
copia delle sequenze dei filamenti di dna,
organizzati in più livelli che operano a cascata.
La velocità di computazione per ora è limitata:
per calcolare una radice quadrata occorrono
dalle sei alle dieci ore. Ma i ricercatori
non aspirano a creare delle biomacchine capaci
di competere con i computer tradizionali
per potenza e velocità. Il loro obiettivo è invece
riuscire a integrare questi circuiti ai sistemi
biologici viventi.

Geriatria.

Una proteina associata all’Alzheimer.

Più alti livelli sanguigni della proteina clusterina,
nota anche come apolipoproteina J, sono
associati in modo significativo con la prevalenza
e la severità della malattia di Alzheimer,
ma non con il rischio di insorgenza di nuova
malattia, secondo uno studio apparso sulla
rivista JAMA.
La proteina si trova infatti incrementata nel
cervello e nel fluido cerebrospinale dei pazienti
affetti da Alzheimer, al punto che in passato
si era pensato a un suo ruolo nell’eziopatogenesi
della malattia. In passato, i livelli di clusterina
sono stati associati all’atrofia cerebrale,
alla gravità della patologia, alla sua rapida progressione
clinica: per questo si era pensato di
poterla usare come biomarker.
Le cose sembrano invece essere alquanto
diverse, almeno stando alle conclusioni di
quest’ultimo studio, che ha preso in considerazione
i dati relativi ai livelli plasmatici di
clusterina al basale, nel triennio 1997-1999,
in 60 individui con Alzheimer prevalente
(secondo la definizione del Mini mental state
examination, MMSE), sottogruppo casuale
dei 926 partecipanti, e in un ulteriore gruppo
di 156 soggetti che hanno ricevuto la diagnosi
durante il follow-up, durato in media 7,2
anni.
Dall’analisi dei dati è emerso che la probabilità
di Alzheimer prevalente aumenta con i
livelli di clusterina, nella misura del 63 % per
ogni deviazione standard di incremento, una
volta normalizzati i risultati per età, sesso,
livello di istruzione, livelli di apolipoproteina
E, diabete, fumo di sigaretta, patologia coronarica
e ipertensione. Tra i pazienti con Alzheimer,
i livelli di clusterina più alti sono
risultati associati a una maggiore severità
della malattia.
Non è invece emersa alcuna associazione statisticamente
significativa tra i livelli di clusterina
con nuovi casi di Alzheimer diagnosticati
durante il follow-up complessivo o con
nuovi casi a tre anni dall’inizio dello studio.
Risultati simili sono stati ottenuti per la
demenza da tutte le cause e per la demenza
vascolare.

Un esame del sangue per diagnosticare l’Alzheimer.

Un innovativo test del sangue in grado di diagnosticare
la malattia di Alzheimer potrebbe
presto arrivare sul mercato grazie a un innovativo
studio condotto presso il Research
Institute del McGill University Health Centre
(MUHC). Gli studiosi sono infatti riusciti a
caratterizzare una diagnosi biochimica semplice e
non invasiva, descritta sulle pagine
della rivista Journal of Alzheimer’s Disease.
Finora non era disponibile alcuno strumento
diagnostico accurato per questa malattia tranne
l’analisi post mortem del tessuto cerebrale.
Questi risultati dimostrano che un esame
ematico non invasivo può colmare questa
lacuna fornendo un metodo di diagnosi precoce
in grado porre anche una diagnosi differenziale
rispetto ad altri tipi di demenza.
La ricerca si basa su un ormone cerebrale
denominato deidroepiandrosterone (DHEA)
presente in alti livelli nel cervello, dove è
implicato in un’ampia gamma di processi biologici.
Nei soggetti non affetti da Alzheimer
non si riesce a promuovere la produzione di
DHEA sfruttando un processo chimico di
ossidazione, così come avviene invece nei
pazienti colpiti dalla malattia.
Esiste perciò una chiara correlazione tra la
mancata capacità di produrre DHEA mediante
ossidazione nel sangue e il grado di deficit
cognitivo riscontrato nella patologia. Con
questo metodo si è dimostrato di poter rilevare
in modo accurato e ripetibile la malattia di
Alzheimer partendo da semplici campioni di
sangue. L’aspetto più interessante tuttavia è la
possibilità che presto si rendano disponibili
anche nuove terapie in grado di modificare il
decorso della terapia: esistono già diverse
molecole candidate e per questo la ricerca
assume ancora maggiore rilievo.

Hiv - Aids.

Nuove terapie anti-HIV.

Una delle caratteristiche dell’HIV è la sua
capacità di adattamento e di sopravvivenza
agli attacchi del sistema immunitario dell’ospite:
proprio questa peculiarità ora potrebbe
fornire la chiave per fermare il virus. È questa
l’ipotesi avanzata dai ricercatori dello University
of Rochester Medical Center.
Uno dei "nascondigli" preferiti dal virus sono
i macrofagi, le cellule del sistema immunitario
deputate alla distruzione di organismi
estranei che hanno invaso l’organismo o di
residui dello smaltimento delle strutture cellulari.
Si è cercato di studiare in che modo il
virus riesca a mettere da parte il suo usuale
metodo di replicazione quando si trova nei
macrofagi.
In effetti si è visto che quando all’interno del
macrofago l’HIV si trova di fronte a una mancanza
del macchinario molecolare necessario
alla replicazione, si adatta bypassando una
delle molecole normalmente utilizzate per
sfruttare invece un’altra molecola disponibile.
Normalmente, infatti, il virus utilizza deossinucleotide
trifosfato (dNTP), uno dei mattoni
elementari necessari al macchinario genetico
del virus, ma questa molecola è difficilmente
presente nei macrofagi, in cui si trovano invece
alti livelli di una molecola simile ma molto
più versatile, chiamata rNTP, ribonucleotide
trifosfato: quest’ultima ricerca ha permesso di
scoprire che l’HIV utilizza primariamente
rNTP invece del dNTP per replicarsi all’interno
dei macrofagi.
Normalmente il virus utilizzerebbe solo
dNTP ma questa molecola semplicemente
non è disponibile in grandi quantità nei
macrofagi; per questo l’HIV comincia a utilizzare
rNTP che da un punto di vista chimico
è abbastanza simile. Il virus semplicemente
ha bisogno di terminare il processo di
replicazione, e utilizza qualunque risorsa sia
disponibile. Bloccando la possibilità di interagire
con l’rNTP, la capacità dell’HIV di
replicarsi all’interno dei macrofagi viene
diminuita del 90 per cento. Proprio questo
dato apre la strada a un nuovo fronte nella
lotta all’HIV: gli attuali farmaci infatti hanno
come bersaglio il dNTP, non l’rNTP, e sono
diretti a contrastare l’infezione delle cellule
immunitarie denominate CD4+ T.

Un vaccino contro l’Hiv?

Il vaccino Mva-B ha dimostrato efficacia
nella lotta contro l’Hiv. Da una ricerca spagnola,
ben 22 persone su 24 hanno sviluppato
una risposta immunitaria al virus.
"È come mostrare un’immagine dell’Hiv così
che l’organismo lo riconosca quando lo rivedrà",
ha spiegato Mariano Esteban dal National
Biotech Centre di Madrid.
Il vaccino contiene i geni del virus Hiv che
stimolano i linfociti T e B, globuli bianchi che
svolgono una funzione immunitaria e difensiva
dell’organismo. I linfociti B producono
anticorpi che aggrediscono il virus prima che
infetti le cellule, mentre i linfociti T individuano
e attaccano le cellule già infette.
I tre quarti dei soggetti trattati con il vaccino
hanno sviluppato gli anticorpi specifici contro
l’Hiv in appena 11 mesi dalla somministrazione.
Oltre un terzo dei soggetti ha poi
sviluppato un solo tipo di linfocita T, il Cd4+,
mentre i due terzi ha sviluppato anche il linfocita
Cd8+.
Esteban ha osservato: "Il nostro corpo è pieno
di linfociti, ognuno programmato per debellare
un patogeno differente. La preparazione è
necessaria quando include un agente patogeno,
come ad esempio l’Hiv, da cui non ci si
può difendere naturalmente".

Ipertensione.

Un pacemaker controlla l’ipertensione.

Nei casi di ipertensione difficili da trattare può
essere di aiuto una stimolazione cerebrale profonda:
un impianto chirurgico simile al pacemaker
cardiaco utilizzato per inviare impulsi
elettrici al cervello. Lo studio ha riguardato un
soggetto cinquantacinquenne a cui è stato
impiantato uno stimolatore cerebrale per trattare
il dolore sviluppato a seguito di un ictus. Al
tempo di tale evento, era stata posta una diagnosi
d’ipertensione, non risolta neppure con
la somministrazione di farmaci.
Sebbene la stimolazione elettrica non sia
risultata in grado di alleviare in modo permanente
il dolore, si è scoperto con stupore che
essa consentiva di diminuire la pressione sanguigna
sufficientemente da interrompere qualunque
terapia farmacologica. Si tratta di una
scoperta importante per tutti i milioni di persone
nel mondo che soffrono d’ipertensione,
un fattore di rischio riconosciuto per eventi
cardiovascolari maggiori, e che non rispondono
alle terapie farmacologiche.
Secondo quanto riferito nell’articolo, la diminuzione
dei valori di pressione arteriosa è
avvenuta in risposta alla stimolazione cerebrale
profonda e non per la variazione di altre
condizioni, ed è stata confermata da tre anni
di follow-up, al termine del quale il dispositivo
è stato disattivato.
Ciò ha portato a un incremento medio di 18/5
mmHg nella pressione sanguigna, mentre
quando è stato riattivato la pressione è tornata
a diminuire in media di 32/12 mmHg.
A questo punto è auspicabile che vengano
svolte altre ricerche su un campione numeroso
di soggetti, anche se l’indicazione è da
considerare chiara.

Fragole e mirtilli: effetti positivi sulla pressione.

Che molti alimenti - i cosiddetti nutraceutici -
abbiano un effetto benefico sulla salute è un
fatto noto; altrettanto noto è che tra le sostanze
con un maggior impatto sull’organismo vi
siano i flavonoidi, contenuti in diversi vegetali
e negli alimenti da essi derivati (dalla frutta
fresca al tè e al vino rosso), e la sottoclasse
delle antocianine, tipiche di fragole e mirtilli.
Ora però uno studio pubblicato sull’American
Journal of Clinical Nutrition mette in correlazione
il consumo di almeno una porzione alla
settimana di fragole e mirtilli, con la diminuzione
fino al 10 % del rischio di sviluppare
ipertensione arteriosa rispetto a chi non ne
consuma. Il gruppo di ricercatori dell’Università
dell’East Anglia (UEA) e di quella di Harvard
autori della ricerca hanno studiato per 14
anni 134.000 donne e 47.000 uomini arruolati
nell’ambito di due programmi di salute pubblica
statunitensi, il Nurses’ Health Study e
l’Health Professionals Follow-up Study.
A tutti i volontari, che non avevano problemi
d’ipertensione all’inizio dello studio, sono
stati somministrati questionari dettagliati sulle
condizioni di salute ogni due anni, e sulle abitudini
alimentari ogni quattro anni.
Nel corso della ricerca, 35.000 soggetti hanno
sviluppato ipertensione. Le informazioni dietetiche
hanno identificato il tè come l’alimento
che ha fornito il maggior apporto di flavonoidi,
insieme con mele, succo d’arancia, mirtilli,
vino rosso e fragole. Quando si è proceduto
ad analizzare le singole sottoclassi di flavonoidi
in rapporto all’ipertensione, si è trovato
che chi si caratterizzava per il maggior consumo
di antocianine - contenute principalmente
in mirtilli e fragole in questa popolazione -
aveva una probabilità di ricevere una diagnosi
d’ipertensione ridotto dell’8% rispetto al
sottogruppo che ne ha fatto il minor uso. L’effetto
era ancora più evidente nei soggetti
under 60 e particolarmente riferito ai mirtilli,
il cui consumo in dosi di almeno una porzione
a settimana ha determinato una riduzione
del rischio d’insorgenza dell’ipertensione del
10 % rispetto a che non ne consuma.

Oncologia.

Un nuovo marker per il tumore del colon.

Un enzima potrebbe consentire una più agevole
e precoce diagnosi del tumore del colon:
a scoprirlo sono stati i ricercatori dell’Università
del Colorado Cancer Center.
Il laboratorio è specializzato nello studio del
ruolo degli enzimi aldeidi deidrogenasi nel
metabolismo dei farmaci nei disturbi metabolici
delle cellule normali e tumorali e delle
cellule staminali.
La ricerca ha analizzato i campioni di tessuto
tumorale di 40 pazienti, riscontrando in 39 di
essi livelli straordinariamente alti dell’enzima
denominato ALDH1B1, che normalmente è
presente solo nelle cellule staminali. In passato
sono stati individuati altri potenziali biomarker,
ma nessuno di essi è presente in una
percentuale così alta di cellule cancerose e
nessuno è sovra-espresso in questa misura.
Secondo le attuali conoscenze, l’ALDH1B1
aiuta lo sviluppo o la crescita di queste cellule
cancerose perché non sarebbe presente in
ogni cellula con livelli così alti se fosse soltanto
un prodotto di scarto del cancro, anche
se occorrono ulteriori studi per riuscire a
chiarire gli esatti meccanismi che portano alla
sua sovra-espressione.
Ora gli sforzi sono focalizzati sullo sviluppo
di un farmaco che possa essere tossico per le
cellule cancerose una volta attivato dall’enzima.
Questo lavoro potrà essere considerato
una pietra miliare per la comprensione dei
processi metabolici di base all’interno delle
cellule tumorali.

Un nuovo gene per il tumore del rene.

Viene indicato con la sigla PBRM1 il gene la
cui mutazione è presente in un caso su tre di
una comune forma neoplastica che colpisce il
rene, secondo una nuova ricerca svoltasi presso
il National Cancer Centre di Singapore.
Fino a tempi recenti, molti degli studi sulla
genetica del carcinoma renale coinvolgevano
il VHL, un gene mutato in otto pazienti su 10.
Si sapeva però che in ogni caso dovevano
essere coinvolti altri geni.
Una recente ricerca aveva individuato tre
mutazioni genetiche associate al carcinoma
renale in grado di alterare la cromatina, una
sorta di impalcatura che tiene insieme il DNA
nelle cellule, e di conseguenza influenza i
meccanismi di replicazione e di riparazione
dello stesso genoma.
Tutto sembra svolgersi in una piccola regione
del cromosoma 3: il gene PBRM1 è legato a
due altri geni già indicati come coinvolti nell’insorgenza
del carcinoma renale: lo stesso
VHL e il SETD2. La localizzazione suggerirebbe,
secondo gli autori dello studio, che il
tumore sembra sfruttare la nostra biologia,
riducendo il numero di eventi genetici necessari
per inattivare tutti e tre i geni. Esiste inoltre
un significativo numero di sovrapposizioni:
molti pazienti sono portatori di due se non
di tutte e tre le mutazioni.
La nostra comprensione di come si sviluppa il
tumore del rene era già notevolmente migliorata,
grazie all’identificazione di questi tre geni
mutati, ciascuno dei quali dà un piccolo contributo
all’insorgere della patologia. La scoperta
delle mutazioni a carico del gene PBRM1 in
uno su tre casi di tumore del rene è un ulteriore
progresso, soprattutto perché chiarisce che
l’insorgenza della neoplasia passa per un deficit
strutturale della cromatina.

Il futuro: sequenziare l’intero genoma.

I tassi di sopravvivenza ai tumori potrebbero
migliorare presto grazie al sequenziamento
dell'intero genoma: questa la conclusione di
due studi (1, 2) apparsi sull'ultimo numero del
Journal of the American Medical Association
che descrivono le prime applicazioni cliniche
di questa metodica ad alta tecnologia su
pazienti con cancro.
Il sequenziamento sull'intero genoma è un
processo che consente una mappatura del
DNA di un individuo e di evidenziare la presenza
di eventuali mutazioni. Ciò ha consentito
alle terapie oncologiche di evolvere da
una terapia standard per tutti i pazienti con un
dato tipo di tumore a un trattamento leggermente
personalizzato.
In pazienti con tumore della mammella, del
colon-retto e dello stomaco disponiamo ora di
approcci specifici per i tumori che mostrano
alcune anomalie genetiche. Il sequenziamento
sull’intero genoma ci dà cioè la possibilità
di effettuare uno screening su un numero di
tumori molto più ampio e di correlarli con la
prognosi del paziente: per questo è probabile
che questo approccio conosca una notevole
diffusione nel prossimo decennio.
In uno studio, si è dimostrata l’utilità del
sequenziamento nel caso di un paziente con
leucemia, che com’è noto ha una cattiva prognosi:
grazie alla metodica si è trovato che il
paziente possedeva un gene che consentiva di
prevedere che egli avrebbe reagito in modo
più favorevole con una terapia alternativa.
Il sequenziamento in sostanza fornisce una
fotografia fedele del corredo genetico del
soggetto che permette di indirizzare i medici
verso le terapie più appropriate.
Un ostacolo alla diffusione del sequenziamento
potrebbe derivare dal suo alto costo,
che nonostante un ribasso di un fattore 100,
rimane attualmente tra 30.000 e 40.000 dollari.
Ma i prezzi continueranno a diminuire in
modo molto rapido e nel prossimo decennio
costeranno meno di 10.000 dollari; in ogni
caso nei prossimi cinque anni saranno molto
di più alla portata.


Dieta: Si Torna a Ingrassare.

Chiunque abbia provato a perdere chili con una dieta, sa anche che prima o poi il peso perso
ritorna. E ora si è scoperto anche perché: si tratta di una sorta di sindrome "post-dieta", un
meccanismo di difesa coordinato tra ormoni e metabolismo diretto a farci riprendere i chili.
In una clinica che assiste persone per dimagrire, ne sono state reclutate 50 tra uomini e
donne, con una media di peso di 105 kg per i primi e 90 per le seconde.
Dopo 10 settimane di dieta a basso contenuto calorico, avevano perso in media 13 kg. A
quel punto, 34 pazienti hanno interrotto la dieta e iniziato a lavorare per mantenere il nuovo
peso, usufruendo anche di counseling e supporto telefonico con i nutrizionisti, facendo esercizio
fisico regolare e mangiando più verdura e meno grassi. Ma nonostante gli sforzi, dopo
un anno tutti avevano ripreso in media 5 kg, e tutti riportavano di sentirsi affamati e preoccupati
del cibo più di quando avessero iniziato la dieta. I ricercatori hanno così riscontrato
uno stato biologico alterato. I corpi ancora "cicciottelli" dei pazienti si comportavano come
se stessero morendo di fame e facevano gli straordinari per fargli riguadagnare il peso perso.
Ad esempio, la grelina, ormone gastrico, noto come ormone della fame, era del 20% più alto
rispetto all'inizio dello studio, mentre il peptide YY, ormone legato al contenimento dell'appetito,
era più basso del normale. Come se ci fosse una sindrome post dieta. Quello che
abbiamo visto è un meccanismo di difesa coordinato con molteplici componenti tutti diretti
a farci riprendere peso.


Uno contro Tutti!

Il traguardo di un vaccino universale contro l’influenza si avvicina: sono stati creati due
nuovi tipi di anticorpi che funzionano contro quasi tutti i virus conosciuti.
La profilassi contro l’influenza non è semplice: i virus cambiano ogni anno, perciò
bisogna aggiornare continuamente il vaccino e produrlo in quantità proporzionate alla
popolazione. Se si riuscisse a creare un vaccino unico, valido per tutti i tipi virali, il
vantaggio sarebbe notevole.
Il problema è che si deve colpire un bersaglio mobile. La strategia più seguita consiste
nell’agire su un’area bersaglio che rimane stabile nel tempo nella proteina virale
chiamata emaglutinina. È quello che hanno fatto due gruppi di ricerca indipendenti.
In un caso è stato creato un anticorpo che riconosce i virus del gruppo 2 dell’influenza,
di cui fanno parte i ceppi H3 e H7. Nell’altro caso è stato creato un anticorpo contro
una gamma più ampia di ceppi virali, appartenenti oltre che al gruppo 2 anche al
gruppo 1, in cui sono compresi gli H1, il virus dell’aviaria H5 e gli H2.
Gli anticorpi donano una buona immunità agli animali e potrebbero diventare la base
per la produzione di vaccini duraturi e universali. Al momento, però, questi vaccini
sperimentali sono ancora poco efficaci.


Premio Pezcoller 2011.

È l'oncologo italiano Pier Paolo Pandolfi il vincitore del Premio 2011 della Fondazione Alessio
Pezcoller per la ricerca internazionale sul cancro. Romano, 47 anni, Pandolfi dirige un laboratorio
di ricerca alla Harvard Medical School di Boston e la giuria internazionale ha voluto premiare
il suo impegno nel campo della genetica del cancro e dei relativi modelli sui topi 1, come
ha sottolineato il direttore della Fondazione Pezcoller di Trento, Gios Bernardi.
Le ricerche condotte dal professor Pandolfi - si legge nella motivazione - sono risultate fondamentali
per la comprensione dei meccanismi molecolari e genetici alla base della patogenesi
delle leucemie, dei linfomi, dei tumori solidi così come nella generazione dei modelli di
tali tumori nell'animale transgenico. Queste ricerche hanno permesso di curare la leucemia
promielocita acuta e di identificare la funzione aberrante di nuovi geni che causano il cancro,
i cosiddetti oncogeni, e gli oncosoppressori.
La giuria ha voluto premiare Pandolfi anche per la sua eccezionale carriera: a 47 anni, nessun
altro ha una bibliografia paragonabile alla sua e interamente dedicata all'oncologia.
Anche di recente, Pier Paolo Pandolfi ha pubblicato su Nature uno studio che attribuisce una
nuova funzione ai nostri 20.000 geni codificanti proteine, scoperta che di fatto triplica la
dimensione del genoma umano funzionante .


IBM - Nanotech che Ammazza i Superbatteri.

Dopo aver preso d'assalto le cellule tumorali, le nano-particelle sono ora pronte a ridare speranza
per chi cerca una cura contro i cosiddetti "superbatteri" - agenti patogeni resistenti agli
antibiotici più forti, che risultano estremamente difficili da trattare una volta annidati nel corpo
di un paziente. La tecnologia è targata IBM, che parla di successo nelle prime sperimentazioni
animali ed è pronta a passare al test su soggetti umani.
Le nano-particelle vengono create a partire da una plastica biodegradabile e sono elettricamente
cariche, con segno però contrario alla carica elettrica della parete cellulare del superbatterio.
Dopo aver "attaccato" la membrana e provocato la distruzione del microbo, le
nano-particelle biodegradabili vengono eliminate facilmente dal corpo.
 
       
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