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Zanardelli, Giuseppe.

Uomo politico italiano. Costretto all'esilio in Toscana per aver partecipato ai moti antiaustriaci bresciani del 1848-49, poté far ritorno a Brescia solo dopo l'amnistia del 1851. Nel frattempo, laureatosi in Legge, aveva intrapreso un'intensa attività giornalistica e politica clandestina. Tra i promotori dell'insurrezione bresciana del giugno 1859, dovette nuovamente fuggire riparando a Lugano. Allo scoppio della seconda guerra d'indipendenza si unì ai garibaldini che combattevano nell'alta Lombardia e nel 1860 fu eletto deputato al primo Parlamento italiano. Inviato da Cavour a Napoli, insieme con Visconti Venosta, dopo la liberazione del Veneto fu nominato (1864) commissario del re, con l'incarico di reggere la provincia di Belluno. Appartenente alla Sinistra storica, quando nel 1876 questa assunse il potere con il primo Governo Depretis, Z. divenne ministro dei Lavori Pubblici e nel 1878 assunse il ministero dell'Interno nel Governo Cairoli. Estensore della legge elettorale del 1880, che preparò la riforma del 1882 portando gli elettori da seicentomila a oltre due milioni, divenne ministro di Grazia e Giustizia nel terzo Governo Depretis (1881-83). Si dimise nel maggio 1883, unendosi alla Sinistra di Crispi, Nicotera e Cairoli, in segno di protesta contro il "trasformismo" di Depretis. Riassunto il ministero di Grazia e Giustizia nel 1887, poco prima della scomparsa di Depretis, lo conservò nei tre successivi Governi Crispi (1887-91), preparando la grande riforma legislativa che istituì, tra l'altro, speciali tribunali amministrativi per la riparazione dei torti subiti dai privati da parte della pubblica amministrazione, riconobbe un limitato diritto di sciopero e introdusse un nuovo Codice Penale, approvato nel 1890 e rimasto in vigore sino all'introduzione del Codice Rocco nel 1931. Costituitosi nel 1892 il primo ministero Giolitti, divenne presidente della Camera e nel 1893, caduto Giolitti, fu incaricato di formare il nuovo Governo, rinunciandovi per non sottostare al veto del re contro la nomina del generale Barattieri a ministro degli Esteri. Accettata la pratica del "trasformismo", nel 1897 entrò a far parte del Governo Di Rudinì come ministro di Grazia e Giustizia, ma si dimise, non potendo far propria la politica reazionaria perseguita e culminata nella carneficina provocata a Milano (giugno 1898) dalle cannonate del generale Bava Beccaris. Tardò tuttavia a passare all'opposizione contro il Governo reazionario di Pelloux e anche dopo operò vari tentativi di mediazione tra la maggioranza reazionaria e l'opposizione liberale, di cui il suo gruppo era il più forte. Visto vano ogni sforzo, nell'aprile del 1900 Z. compì un gesto estremamente significativo, dichiarando alla Camera che avrebbe abbandonato l'aula insieme coi deputati del centro-sinistra piuttosto che assistere alla condotta tirannica del Governo. Quando nel 1901 cadde il ministero Saracco, costituitosi dopo l'uccisione di Umberto I (1900), il nuovo re Vittorio Emanuele III gli affidò l'incarico di costituire il nuovo Governo. Stanco e ammalato, affidò il ministero dell'Interno a Giolitti, inaugurando quella che sarebbe passata alla storia come "età giolittiana"; ripristinò la prassi di Governo parlamentare, contribuendo inoltre direttamente alla crescita del movimento operaio e sindacale. Si rifiutò di fare intervenire l'esercito negli scioperi agrari, ma, privo di una solida base di maggioranza e incapace di fondere i diversi e contrastanti interessi dei vari gruppi della coalizione, si venne a trovare in crescente difficoltà. Il colpo di grazia gli venne inferto quando decise di presentare un disegno di legge sul divorzio, in violazione ai taciti accordi su cui la coalizione di Governo si reggeva. Dimessosi nell'ottobre 1903, morì due mesi più tardi (Brescia 1826 - Maderno, Brescia 1903).