La facoltà del volere; potere insito
nell'uomo di scegliere un comportamento idoneo al raggiungimento di fini
determinati. • Dir. - La
v.
è l'elemento che assume
rilevanza per il diritto con riferimento alla capacità di agire dei
soggetti, alla classificazione degli atti giuridici e con riferimento ai
vizi
della v. negli atti giuridici. La capacità di agire corrisponde alla
capacità di intendere e
volere, facoltà queste ultime, che
sono comunemente ritenute sufficienti a determinare un comportamento normale e a
fondare la conseguente responsabilità. • Filos. - Definita come
energia psichica e massima forma dell'atteggiamento pratico in diretto rapporto
con tutte le attività dello spirito, la
v. fu oggetto di analisi
sin dalle origini della filosofia. La contrapposizione tra vita attiva e vita
contemplativa, propria del pensiero greco è presente in Platone e in
Aristotele che considerano l'uomo teorico come l'esemplare più alto del
genere umano, affermando la superiorità della vita contemplativa su
quella attiva. Ciò comporta una distinzione tra pensiero e volere, tra
conoscere e operare, e una frattura storica tra conoscenza e lavoro. Una
rivalutazione del concetto di
v. fu operata dal pensiero cristiano che
sancì la fusione tra
logos e
v., ottenuta per mezzo della
rinuncia alla vita del peccato, considerando quindi la
v. come peccato,
qualora sia priva della grazia divina. Una concezione decisamente volontaristica
caratterizza il pensiero medioevale, pur rimanendo circoscritta nell'ambito
della
v.
divina, da cui l'affermazione di Duns Scoto che il vero
fondamento dell'essenza divina è la
v. Il concetto di
v.,
intesa essenzialmente come
v. divina, permane anche nella filosofia
moderna, soprattutto in pensatori come G. Berkeley, nella cui opera l'empirismo
diventa una metodologia metafisica e religiosa: Dio è la mente infinita
che percepisce il mondo, in quanto lo crea con un atto della sua
v.
illuminata. Anticipando gli sviluppi del pensiero successivo, Cartesio riconosce
invece che l'uomo possiede, oltre alle idee innate, una
v. capace di
aderire all'evidenza della verità. L'intelletto e la
v., che in
Dio si identificano, sono distinti nell'uomo: l'intelletto umano è
limitato, mentre la
v. è potenzialmente infinita e può
oltrepassare i limiti dell'intelligenza, sconfinando nell'arbitrio, sino a
precipitare nell'errore. Ne consegue che l'uomo possiede un intelletto inferiore
a quello divino, ma è simile a Dio per la
v. che anche in lui
è infinita e illimitata. Dall'arbitrio cartesiano, si passa alla
concezione leibniziana in cui la libertà dei singoli risulta fortemente
compromessa dalla necessità morale e dall'armonia prestabilita, lasciando
all'uomo la sola libertà di comprendere e accettare la razionalità
del mondo, voluto da Dio che, con un atto creativo, ha realizzato il migliore
dei mondi possibili. La morale kantiana, basata sull'idea di libertà e di
autonomia, riconosce che ogni azione avviene per un comando della
v. che
si dice
imperativo e che può essere
ipotetico (
v.
determinata da fini sensibili, particolari e relativi) e
categorico
(comando fondato sulla pura ragione, senza alcun contenuto sensibile, avente
valore di universalità). Hobbes considera la
v. umana unicamente
come
v. di affermazione, frenata solo dall'interesse. Nasce così
una
v. assoluta, quella dello Stato, che gli individui accettano per non
autodistruggersi. Rifacendosi alla distinzione kantiana tra
fenomeno e
noumeno, A. Schopenhauer afferma che la filosofia deve partire dal mondo
dell'esperienza, considerando il fenomeno come apparenza, illusione, e riducendo
la realtà del fenomeno a causalità e il mondo a oggetto. Il
soggetto, e quindi l'uomo, non può invece mai diventare oggetto ed essere
conosciuto fenomenicamente, a differenza del suo corpo che è
"oggetto". La
v. pur essendo connaturata indissolubilmente al
corpo nel processo dell'azione pratica, in quanto noumeno è sottratta
alla forma ed è perciò cosa in sé, vera realtà e
libertà, infinita, universale, e unica in tutti gli esseri. La
v.
è presente in tutte le forze che agiscono nella natura, è
l'energia creatrice del mondo, la forza naturale, l'istinto universale.
Nell'uomo la
v. agisce come istinto di autoconservazione, come egoismo, e
finché non è soddisfatta, genera bisogno e il bisogno dolore.
L'uomo è spinto dalla
v. ad agire, convinto di farlo per propri
fini, mentre invece è strumento della
v., tesa alla perpetuazione
di se stessa. Così come la
v.
è infinita, infinito
è il dolore, mentre il piacere altro non è che soddisfazione di un
bisogno, cessazione momentanea del dolore. Ne consegue una negazione della
v. di vivere e un annullamento del Nirvana, di derivazione buddhista. La
filosofia di Nietzsche è invece l'espressione del punto di vista opposto,
in cui l'etica si risolve nella
v. di potenza: il volere per il volere.
Essenzialmente basata sul concetto di
v. è l'elaborazione
filosofica di M. Blondel, da cui prese ispirazione il movimento cattolico
modernista. Proseguendo sulla linea iniziata da Pascal e sviluppatasi nello
Spiritualismo francese, egli sostenne la necessità di porre il centro
della filosofia nell'azione, trovandosi in essa il centro della vita:
"essere è volere e amare". L'uomo, in quanto essere vivente,
è costretto dalla vita stessa ad agire, essendo la vita azione. La
v. da lui definita "
v. voluta" è perennemente
insoddisfatta, essendo per sua natura assetata d'infinito e perciò
inappagabile. • Psicol. - L'azione volontaria si distingue dagli atti
istintivi e automatici, in quanto questi non sono coscienti e non esigono
l'intervento della
v. La psicologia sperimentale si è soprattutto
occupata della
v. quale scelta tra alternative portatrici di valori
diversi, della scelta tra dovere e inclinazione, associando la
v. al
primo. Poiché la
v. non è una semplice risposta agli
stimoli esterni, ma una sintesi di processi psichici, essa non consiste
semplicemente nella realizzazione di atti, ma sottintende precise scelte e
valutazioni che precedono e guidano l'atto da compiere. In relazione ai processi
psichici connessi all'atto volontario, si possono riscontrare aspetti patologici
e disturbi della
v. per eccesso o per difetto: nel primo caso si parla di
impulsività, nel secondo di abulia. Il concetto di
v.
di
potenza, quale affermazione della propria individualità,
costituì un punto centrale della teoria psicoanalitica che fa capo ad A.
Adler: posto che lo sviluppo equilibrato della personalità si attui
attraverso il senso sociale, Adler considera ogni forma di anomalia dello
sviluppo come una manifestazione della spinta verso il dominio, ossia della
v. Si tratta di una rielaborazione della teoria freudiana secondo cui lo
sviluppo della personalità è l'interazione di due forze psichiche:
ricerca del piacere (libido) e istinto di aggressione. C.G. Jung fa rientrare la
v., intesa come energia psichica liberamente disponibile, in tutte le
funzioni fondamentali, congenite all'individuo: pensiero, intuizione, sentimento
e sensazione. Nel suo processo di individuazione, Jung rivela la presenza
nell'individuo di una
v. estranea che fa il contrario di ciò che
inconsciamente l'individuo stesso vuole e approva. Ciò che fa quest'altra
v. non è necessariamente "male", poiché essa
può anche volere il meglio ed essere avvertita dall'individuo come una
forza interiore, ispiratrice e protettiva.