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Verbo.

(dal latino verbum: parola). Ant. - Parola. ║ Non dire, non profferire v.: tacere.
• Fil. - Nel linguaggio scolastico medioevale, concetto, pensiero, soprattutto in quanto espresso.
• Teol. - Nella teologia cristiana, Gesù Cristo, la seconda persona della Trinità, il quale nella terminologia del Vangelo di Giovanni corrisponde al Logos, o V., o ragione eterna o Sapienza del Padre incarnata.
• Gramm. - Parte del discorso che esprime l'azione o lo stato del soggetto, e che è variabile nel tempo, nel modo, nella persona e nel numero. ║ Voce del v.: una qualsiasi forma che appartiene alla flessione di un v.; per esempio, "andarono" è una voce del v. "andare".
• Ling - Considerato da Platone e Aristotele soprattutto da un punto di vista logico, in contrapposizione al nome o soggetto, il v. venne invece studiato in quanto categoria grammaticale dagli stoici, che elaborarono un sistema organico delle forme temporali del greco antico. I linguisti moderni hanno dato del v. definizioni diverse, a seconda che, ad esempio, si ponesse (come A. Meillet) l'accento sulla funzione del v. in quanto indicante un "processo", oppure (come L. Hjemslev) lo si considerasse come un insieme di categorie grammaticali. I sistemi verbali delle varie lingue si differenziano per il diverso modo con cui si organizzano tra loro l'elemento verbale, portatore del significato (il semantema verbale), e la flessione, la quale introduce le distinzioni grammaticali nelle categorie di tempo, modo, persona, numero, ecc. Storicamente le lingue hanno preso ad organizzare le proprie forme verbali in paradigmi, in relazione ai quali si parla, per esempio, di verbi regolari o irregolari. Un sistema verbale comprende inoltre, normalmente, accanto alle forme personali, talune forme dette nominali (in quanto possono svolgere funzione nominale) e modi infiniti o indefiniti, perché non sono determinate nella persona, ma solo nella diatesi e nel tempo (infinito), o nella diatesi, nel tempo e nel numero (participio), ecc. Dal punto di vista sintattico si distinguono inoltre v. transitivi e intransitivi, a seconda che possano essere seguiti oppure no da un complemento oggetto.

I verbi sono parole che esprimono: Azioni, Modi di Essere e Situazioni. 3^ primaria

1 Un'azione
Lo studente scrive, legge, ascolta
L'acqua scorre, bagna , disseta
Gli insetti volano, succhiano, pungono
Il medico cura, opera, guarisce
Il fuoco brucia, riscalda, illumina
I palloni, volano, scoppiano, rimbalzano

La bambina nuota
Il gatto dorme
Il ciclista pedala
Il serpente striscia

Il mio cane abbaia agli sconosciuti
Simone e i suoi amici giocano a calcio
Il prossimo anno io frequenterò la classe quarta
Domani Luca lavorerà fino a tardi
A colazione bevo una tazza di latte e mangio dei biscotti
La fata Turchina aiutò Pinocchio
La zia passerà a trovarmi la prossima settimana
2 Un modo: di essere
Lo studente è attento, studioso, disattento
L'acqua è trasparente, pulita, sporca
Gli insetti sono velenosi, piccoli, nocivi
Il medico è bravo, attento, gentile
Il fuoco è rovente, caldo, violento
I palloni sono colorati, leggeri, gonfi
3 Una situazione, uno stato

Clara si trova a Roma per lavoro
Il cane sta nella cuccia
Lia è in bagno
Il cuscino è sul letto
Ieri il nonno era a Palermo

Per un po' Susi resterà  a casa mia
Il papà è in garage
Il gatto dorme sul cuscino
Domani Michele andrà a Verona

1
Il verbo (< Lat. verbum = "parola" per eccellenza) è la parte più importante di una frase (sentence) e ne indica l'azione principale, lo stato (state), l'esistenza, il modo di essere (way, manner of being) delle persone, degli animali o delle cose. È possibile avere più verbi in una frase.


ESEMPI:

1. L'uomo cammina.
2. Il tempo passa.
3. Dopo che avevano mangiato, i ragazzi sono usciti con i loro genitori che erano appena tornati dall'Italia.
4. "Penso quindi sono". (Descartes)



http://lab.chass.utoronto.ca/italian/verbi/cosa.html
(azione)
(stato, modo di essere)
(azione, azione, azione)
(modo di esssere)



Il verbo non solo definisce (defines) il soggetto, ma definisce anche il tempo dell'azione, presente, passato, futuro, ecc. e il tipo di rapporto temporale fra un'azione e l'altra. In aggiunta (in addition), il verbo indica e il "modo" o la maniera in cui l'azione avviene (occurs).
 

2
s. m. 1 Parola: predicare il verbo di Dio | A verbo a –v, parola per parola | Non dire, non aggiungere, non proferire –v, tacere. 2 Il Verbo, nella teologia cristiana, la seconda persona della Trinità, Gesù Cristo. 3 (ling.) Parte variabile del discorso che indica un'azione o un modo di essere di persona o di cosa: verbo attivo, passivo, transitivo, intransitivo.
 

Verbo
1 INTRODUZIONE

Verbo Parte variabile del discorso che, insieme al soggetto, costituisce il nucleo di una frase. Pur essendo fondamentale nella struttura della frase, il verbo può essere sottinteso; esistono addirittura enunciati che non lo prevedono, com'è il caso delle parole olofrastiche, che equivalgono a un'intera frase e sono costituite da interiezioni o da avverbi ('sì', 'no', 'ecco'), o delle frasi nominali, costruite senza verbo.

Il verbo, esprimendo un'azione compiuta dal soggetto o su di esso, o un suo modo di essere, svolge la funzione di predicato; nella frase si distinguono i predicati verbali, costituiti dalla sola voce verbale ('Fioriscono i ciliegi'), e i predicati nominali, costituiti dalla parte nominale e da un verbo copulativo ('I ciliegi sono in fiore').

I verbi si dividono inoltre in transitivi e intransitivi a seconda che possano o non possano reggere un complemento oggetto; sottocategorie sono quelle dei riflessivi ('lavarsi', 'chinarsi'), dei pronominali ('fidarsi', 'pentirsi'), degli impersonali ('piovere', 'tuonare'), degli ausiliari ('essere' e 'avere'), dei modali o servili ('potere', 'volere'), dei fraseologici ('cominciare', 'stare per').

Molti verbi derivano da nomi, tramite l'aggiunta del suffisso verbale corrispondente a una delle tre coniugazioni; a loro volta possono dare origine a nomi o aggettivi. Il verbo può subire alterazione tramite l'aggiunta di suffissi che ne modificano il significato ('cant-icchiare', 'gioch-erellare').

2 LA CONIUGAZIONE

In molte lingue il verbo assume forme diverse a seconda del modo, del tempo e della persona. La coniugazione del verbo è caratteristica di ogni lingua: alcune presentano un gran numero di variazioni, altre meno. L'inglese, ad esempio, mantiene la stessa forma per tutte le persone, con l'eccezione della terza persona singolare all'indicativo presente.

In italiano la coniugazione è piuttosto complessa: si hanno sette modi, di cui quattro finiti (indicativo, congiuntivo, condizionale e imperativo) e tre indefiniti (infinito, gerundio e participio); più tempi per ogni singolo modo, ad esempio per l'indicativo si hanno otto tempi, di cui quattro semplici (presente, imperfetto, passato remoto e futuro semplice) e quattro composti (passato prossimo, trapassato prossimo, trapassato remoto e futuro anteriore); e sei persone (tre singolari e tre plurali). I verbi transitivi, oltre alla forma attiva, hanno la forma passiva. Le varie forme si ottengono aggiungendo alla radice del verbo una desinenza caratteristica del modo, del tempo e della persona; nei tempi composti e nelle forme passive, si coniuga l'ausiliare e a questo si fa seguire il participio passato del verbo.

In base alla terminazione (-are, -ere, -ire), si distinguono tre coniugazioni, cui corrisponde un modello di flessione. Sono però numerosi i verbi irregolari, che non seguono il modello della coniugazione cui appartengono. Ci sono poi i verbi difettivi, che mancano di alcune forme verbali, e quelli sovrabbondanti, che hanno due forme appartenenti a coniugazioni diverse, con significato simile ('riémpiere', 'riempire') o, più spesso, diverso ('arrossare', 'arrossire').

Accusativo.

(dal latino accusativus). Caso grammaticale della lingua italiana che indica, essenzialmente, il compimento o l'effetto di un'azione. In genere si immedesima con l'oggetto su cui cade direttamente l'azione che viene espressa dal verbo. Nei sostantivi neutri, tale caso non si distingue mai dal nominativo. Il caso a. serve anche a indicare direzione, estensioni di tipo spaziale o temporale, complementi di relazione, esclamazioni, oppure può avere anche funzione avverbiale. In linea di massima, i sostantivi e gli aggettivi delle lingue romanze derivano, di fatto, tranne che in rari casi, dall'a. latino: ad esempio la parola nazione deriva da nationem e non da natio. L'a. grammaticale dipende direttamente da un verbo transitivo; l'a. libero è un tipo di a. che può assumere vari significati. All'interno della sintassi, inoltre, si possono distinguere, in opposizione all'a. ordinario, altri tipi di a.: l'a. di relazione (o alla greca) viene usato quando si limita a un determinato oggetto il significato di un attributo; il doppio a. viene impiegato con i verbi che si costruiscono con l'a. della cosa; l'a. con l'infinito è un particolare tipo di costruzione che consiste nel porre il soggetto della proposizione nel caso a., mentre il predicato collegato ad esso viene posto all'infinito, per dare maggiore risalto alla narrazione.
 

Ausiliare.

Persona o cosa che è di aiuto.
• Dir. - Libri a.: le scritture non obbligatorie delle imprese. ║ A. dell'imprenditore: colui che collabora con lui nell'espletamento dell'attività, sia sotto forma di dipendente, sia con mansioni indipendenti. ║ A. dei giudici: colui che ha parte preminente in un processo, oltre al giudice, cioè avvocati, curatori fallimentari, liquidatori, ecc.
• Ling. - Verbi a.: a. per eccellenza sono i verbi essere e avere, impiegati per la formazione dei tempi composti dei verbi attivi e per il passivo dei verbi transitivi. Avere si usa con i verbi transitivi attivi e con i verbi intransitivi che esprimono attività fisica e morale. Con i verbi modali servili come potere, dovere e volere si usa l'a. richiesto dal verbo cui sono uniti.
 

Avverbio.

Parte invariabile del discorso che ha la funzione di determinare un verbo, un aggettivo o un altro a. a cui si riferisce. Si distinguono diversi gruppi secondo la funzione che esplicano: di maniera (bene, male); di tempo (ora, adesso, poi, allora, ancora, oggi, ieri, domani, tardi, spesso, ecc.); di quantità (più, meno, troppo, molto, affatto); di luogo (qui, qua, laggiù, lassù, lì, là, ecc.) di negazione (no, non); di affermazione (sì, certamente, sicuramente, proprio, appunto); di dubbio (forse, probabilmente); interrogativi (perché? come?).
 

Concessivo.

Che esprime concessione.
• Gramm. - Proposizione c.: proposizione subordinata che esprime un fatto, nonostante il quale avviene ugualmente quanto è detto nella proposizione reggente. Nella forma esplicita ha di norma il congiuntivo ed è introdotta dalle congiunzioni benché, quantunque, sebbene o dalle locuzioni per quanto, con tutto che, nonostante che. Nella forma implicita può avere il verbo nel participio passato, retto dalle stesse congiunzioni, o al gerundio introdotto da pure.
 

Congiuntivo.

Ciò che è atto a congiungere, ad unire.
• Gramm. - Modo del verbo (detto anche soggiuntivo) che indica l'azione come possibile ma non certa o, comunque, non ancora avvenuta. In conseguenza di ciò, si avrà il c. ottativo o desiderativo, il c. dubitativo, il c. esortativo, il c. potenziale, ecc.
 

Coniugazione.

Si chiama in genere c. la flessione del verbo in confronto di quella del nome (declinazione); essa in alcune lingue indo-europee esprime il tempo, il modo, il numero, la persona e la diatesi. In particolare, si dice c. la sistemazione delle diverse forme del verbo. Così in latino si hanno quattro c. e le forme essenziali sono quelle dell'indicativo presente (o dell'infinito presente), del perfetto e del supino. In italiano le c. sono tre, se si trascura la differenza tra i verbi in -ere piani e quelli in -ere sdruccioli.
• Biol. - L'accoppiamento sessuale o copulazione.
• Bot. - Fusione di due isogameti liberi dal gametangio che li ha prodotti; contrapposto a copulazione.
• Anat. - Forami di c.: i fori intervertebrali attraverso cui passano le radici spinali.
 

Denominale.

Ling. - Riferito a verbo, aggettivo o sostantivo che deriva da un nome.
 

Deponente.

(dal latino deponens: che depone). Chi o che fa un deposito.
● Ling. - Nella grammatica latina, verbo di forma passiva e di significato attivo.
● Mat. e Chim. - In espressioni matematiche e formule chimiche, termine usato per indicare numeri, lettere e segni aggiunti ad altri, in basso, generalmente a destra, un po' sotto la riga.
 

Desiderativo.

Che esprime desiderio.
● Gramm. - Forma verbale che indica il desiderio di compiere l'azione espressa dal tema del verbo stesso. È riscontrabile in parecchie lingue indoeuropee.
 

Dichiarativo.

Che dichiara o spiega.
● Gramm. - Congiunzioni d.: di tipo coordinativo, quando introducono una proposizione che spiega quanto espresso nella frase precedente (cioè, infatti, invero); di tipo subordinativo, quando introducono una proposizione che dichiara, afferma o enuncia in dipendenza da quanto espresso dalla reggente (che, come). ║ Proposizioni d.: proposizioni subordinate che spiegano un pronome dimostrativo contenuto nella principale, completandone il senso, o che costituiscono l'enunciato di una comunicazione. Nella forma esplicita sono introdotte da che, come e hanno verbo di modo finito; nella forma implicita sono introdotte da di e hanno verbo di modo infinito. Proposizioni d. possono dirsi anche le proposizioni soggettive o oggettive quando dipendano da verba dicendi. ║ Verbi d.: voci verbali che esprimono comunicazione, spesso indicati anche come verba dicendi.
● Dir. - Detto di atti giuridici o amministrativi tesi ad accertare ed evidenziare rapporti e situazioni giuridiche preesistenti.
 

Discorso.

(dal latino discursus, der. di discurrere: correre qua e là). Atto del discorrere. Colloquio, conversazione. ║ Argomento su cui si discorre. ║ Esposizione ordinata ed esaustiva intorno a un argomento, sia scritta sia pronunciata di fronte ad un pubblico di ascoltatori. ║ Nei titoli di alcune opere è sinonimo di saggio.
● Gramm. - Parti del d.: categorie entro cui è sistematizzato il corpo lessicale di una lingua in base alla funzione assolta dalle singole parole. La grammatica tradizionale italiana distingue: nome, articolo, aggettivo, pronome, verbo, preposizione, congiunzione, avverbio, interiezione. Le prime cinque, in quanto soggette a flessione secondo il genere, il numero, la persona, il tempo e il modo, sono dette variabili, le altre quattro invariabili. ║ D. diretto e indiretto: in sintassi sono tali rispettivamente la riproduzione delle parole pronunciate da altri nella forma originaria o la riproduzione in dipendenza sintattica da un verbum dicendi.
 

Finito.

Giunto o condotto a termine, compiuto. ║ Di opere, lavori, prodotti dell'ingegno, della mano o dell'industria, condotto a compiutezza o perfezione, che ha avuto tutte le rifinitiure. ║ Determinato, limitato.
● Econ. - Prodotto f.: in linguaggio economico si considerano prodotti f., per i venditori, i beni che vengono normalmente ceduti a pagamento immediato, sia che siano destinati al consumo sia che debbano a loro volta servire per ulteriori produzioni.
● Arald. - Attributo del manico di un martello quando all'estremità è guarnito di smalto diverso.
● Gramm. - Modi f. del verbo: quelli che distinguono la persona, il numero, il tempo, e cioè, nella lingua italiana, i modi indicativo, congiuntivo, condizionale, imperativo.
● Filos. - Ciò che ha limite o termine, contrapponendosi a infinito. La contrapposizione tra il concetto di f. e quello di infinito è presente già nella filosofia greca, passando poi al pensiero scolastico medioevale. La caduta della dualità tradizionale tra f. e infinito viene posta da G. Bruno, secondo cui a Dio, causa infinita, deve necessariamente corrispondere un effetto infinito. Pertanto, secondo Bruno, così come è contraddittorio pensare che l'infinita potenza creatrice di Dio si esaurisca nella creazione di una realtà f., è altrettanto contraddittorio considerare f. l'universo. L'universo è infinito come Dio, anzi esso non è che la rappresentazione sensibile di Dio. Il tema della dualità f.-infinito viene largamente ripreso da Schelling che, nella fase più schiettamente religiosa del suo pensiero, giunse a concepire l'esistenza del f. come una caduta, un salto. Poiché il reale, in Dio, è anche ideale, la nascita della realtà f. equivale a una separazione del reale dall'ideale, il determinarsi di una realtà che non ha più in sé tutte le possibilità della sua esistenza ed è quindi condizionata. Pertanto, secondo Schelling, la caduta è il distacco del reale dall'ideale. La logica hegeliana intende cogliere l'immanenza dell'infinito nel f., dell'assoluto nel divenire, concependo la dialettica come un articolarsi dell'infinito nello sviluppo e nelle relazioni del f. Il tema del f., in contrapposizione all'infinito, ricorre in tutto il pensiero del filosofo danese S. Kierkegaard che, da esso, formula tutta una serie di categorie divenute i temi obbligati della filosofia esistenziale. Kierkegaard ripudia il f., in nome di una vita religiosa in cui l'esistenza umana si rivela nella sua singolarità irripetibile, come esistenza f. nella quale irrompe l'infinito. Secondo Kierkegaard, il f. è proprio della vita estetica che ha valore solo se si pone come momento di transizione verso una vita più alta. Egli pone come secondo stadio, quello della vita etica in cui l'uomo diviene consapevole di essere una creatura f. e peccaminosa e viene preso dalla disperazione del f. e dall'angoscia dell'assoluto, che egli risolve nella vita religiosa. L'umanesimo contemporaneo ha rivalutato il mondo f., non trascendentale, proprio dell'uomo storico, condizionato dalle proprie matrici biologiche ed esistenziali.
● Mat. - Un insieme I si dirà f. quando esso è equivalente a un insieme composto dai primi n numeri naturali. Ciò vuol dire che è possibile stabilire una corrispondenza biunivoca tra gli elementi di I e i numeri da 1 a n. Ma degli insiemi f. si può dare anche una definizione indiretta: un insieme è f. quando non è possibile stabilire una corrispondenza biunivoca tra i suoi elementi e gli elementi di un suo sottoinsieme proprio.
 

H.

Ottava lettera dell'alfabeto italiano e latino; segno consonantico usato con funzioni ortografiche, in alcune voci del verbo avere, in qualche interiezione e in alcune parole, in gran parte non italiane. Nei digrammi ch e gh serve ad indicare il suono gutturale di c e g davanti a e e i. La h è usata largamente nelle lingue classiche e straniere soprattutto come lettera iniziale. ║ Presso i Greci indicava il n. 100, poi il n. 8; presso i Romani, il n. 200. ║ Simbolo di ora. ║ Simbolo di etto. ║ Targa automobilistica internazionale dell'Ungheria.
• Chim. - Simbolo dell'idrogeno.
• Elettr. - Simbolo del campo magnetico e dell'induttanza.
• Fis. - Simbolo della costante di Planck.
• Mus. - Nella notazione musicale dei paesi di lingua tedesca, equivale alla nota si.
 

Imperativo.

Fil. - Legge della ragione che si impone alla volontà. Secondo Kant, l'i. può essere ipotetico, e allora comanda un'azione non come fine a se stessa, ma come mezzo per giungere a un fine; ovvero categorico, quando invece la ragione comanda un'azione fine a se stessa.
• Gramm. - Uno dei modi del verbo; serve ad indicare comando.
 

Imperfetto.

Non condotto a perfezione. ║ Difettoso; mancante in qualche parte; incompleto.
• Gramm. - Modo i.: tempo del modo indicativo e congiuntivo del verbo, indicante azione continuativa o usuale del passato.
 

Indicativo.

Che indica.
• Ling. - Modo i.: modo del verbo che esprime fatti certi e reali o considerati tali. ║ Aggettivi i.: aggettivi non qualificativi: possessivi, dimostrativi, indefiniti, interrogativi. • Telecom. - I. di chiamata di una stazione radioelettrica è il segnale corrispondente al nominativo della stazione. ║ In telefonia, i. distrettuale: gruppo di cifre che nella numerazione telefonica interurbana contraddistingue un determinato distretto telefonico.
 

Infinito.

Che non ha principio né fine.
• Mat. - Concetto fondamentale che compare, sotto varie forme, in molti rami della matematica. Si indica con il simbolo ∞. Nella geometria proiettiva, elemento all'i. è sinonimo di elemento improprio. Nell'analisi matematica, un i. è una quantità reale o complessa, variabile e tendente all'i., nel senso complesso, cioè avente modulo che tende all'i. Nel campo reale possono presentarsi in particolare i casi di tendenza a + ∞ od a -∞. Si dice anche di funzioni che in un punto a hanno per limite l'i. Siano f(x) e g(x) due i. per x → a, cioè sia file:///G:\PICT\I\INDUZION42.png e supponiamo che esista il limite del loro rapporto. Si possono allora presentare i tre casi seguenti: file:///G:\PICT\I\INDUZION43.png. Nel primo caso si dice che f(x) è un i. di ordine inferiore rispetto a g(x); nel secondo caso, si dice che f(x) e g(x) sono due i. dello stesso ordine; nell'ultimo caso, si dice che f(x) è un i. di ordine superiore rispetto a g(x). Si dirà infine che f(x) e g(x) non sono confrontabili se il limite del loro rapporto non esiste. Nella teoria degli insiemi si definisce insieme i. quell'insieme equipotente (cioè tale che i suoi elementi si possono mettere in corrispondenza biunivoca) con una sua parte propria.
• Gramm. - Modo i. del verbo: quello che ne esprime genericamente l'idea, senza determinazione di persona e di tempo. Ha spesso il valore di sostantivo (il buon volere: la buona volontà).
• Filos. - Il concetto di i. fu distinto da Aristotele in due significati diversi: metafisicamente, come ciò che si può percorrere e matematicamente come ciò che si può percorrere ma non interamente. Il primo significato assunse poi, ad opera di Plotino e della Scolastica, un valore teologico come modo di essere di Dio. La distinzione cartesiana tra i. ed indefinito dove solo Dio è i., ripropone la distinzione tra il significato teologico e quello matematico. Con Hegel questa distinzione, affermata nei termini di cattivo i. (l'i. matematico) e vero i., viene risolta assegnando al secondo il carattere puramente empirico, e cioè come forza per la quale la ragione abita il mondo e lo domina.
 

Intransitivo.

Gramm. - verbo la cui azione non passa oltre il soggetto che la compie, ma si esaurisce nell'agente stesso e non richiede un complemento oggetto o diretto. Per quest'ultima ragione il verbo i. non può esser fatto passivo. Alcuni verbi i. possono divenire transitivi e allora prendono per complemento oggetto una parola ricavata dalla stessa radice del verbo (oggetto interno). Alcuni verbi transitivi assumono valore i. quando siano usati in senso assoluto, cioè senza complemento oggetto.
 

Ipotètico.

Che costituisce o si fonda sopra un'ipotesi.
• Filos. - Giudizio i.: ogni giudizio del tipo se A è, B è, oppure se A è B, C è D. ║ Sillogismo i.: ogni sillogismo che sia comunque composto, totalmente o parzialmente, di giudizi i. ║ Imperativo i.: nella terminologia di Kant, proposizione che esprime un comando condizionato, ossia consiglia un'azione come mezzo per conseguire un fine.
• Gramm. - Periodo i.: periodo formato di due proposizioni in stretta correlazione fra loro (anche per l'uso dei modi e tempi del verbo), di cui una (protasi) esprime la condizione necessaria per l'avverarsi del fatto espresso dall'altra (apodosi). La protasi è normalmente introdotta dalla congiunzione se. ║ Nella sintassi latina, e per analogia in quella italiana, si distinguono tre tipi di periodo i.: il tipo della realtà, quando l'ipotesi è un fatto reale e la conseguenza è affermata come sicura; il tipo della possibilità, quando si pone per condizione un fatto possibile, cioè che può effettivamente verificarsi; il tipo dell'irrealtà, quando si ammette, per pura supposizione, un fatto irreale.
 

Modale.

Di modo, che esprime il modo. • Gramm. - Proposizione m.: subordinata che indica la maniera in cui avviene ciò che è espresso nella proposizione reggente. ║ Attrazione m.: fenomeno linguistico per cui una subordinata strettamente connessa, dal punto di vista logico, a una proposizione reggente che abbia il verbo al congiuntivo viene a sua volta attratta al modo congiuntivo. ║ Particelle m.: particelle che si uniscono alle forme verbali per precisarne il valore come azione possibile, eventuale, desiderabile.
• Mat. - Logica m.: studio delle relazioni di inferenza caratteristiche delle proposizioni che esprimono contingenza, possibilità, necessità.
• Mus. - Notazione m.: struttura intervallare che scandisce con regolarità una melodia all'interno di un sistema musicale

Modo.

Aspetto, forma in cui ci si presenta, apparenza esteriore; maniera. ║ Comportamento, atteggiamento che si ha nei confronti degli altri. ║ Usanza, abitudine. ║ Metodo, mezzo per raggiungere uno scopo, sistema, espediente. ║ Possibilità, occasione, opportunità. ║ Misura, regola, limite.
• Dir. - Onere al quale il destinatario di una donazione o di una liberalità altrui deve sottostare per volontà della persona dalla quale riceve il beneficio.
• Filos. - Determinazione non essenziale che può caratterizzare una data sostanza nella sua natura o nel suo divenire. In questo senso il termine fu usato soprattutto nella Scolastica e acquistò poi il massimo interesse nella scuola cartesiana e in Spinoza, il quale chiama m., o modificazioni, tutte le particolari forme in cui si presenta l'unica infinita sostanza in entrambi i suoi due (ma non esclusivi) attributi dell'estensione e del pensiero. ║ M. del sillogismo: nella logica aristotelica, e poi nella tradizione latina e medioevale, i quattro tipi sillogistici che, all'interno di una determinata figura, si potevano ottenere a seconda che ciascuna delle premesse fosse affermativa o negativa, universale o particolare (essere possibile, non essere possibile, essere necessaria, non essere necessaria).
• Fis. - Ciascuno dei possibili stati di un sistema dinamico (soprattutto in riferimento a sistemi oscillanti) e la soluzione delle equazioni particolari che lo descrivono.
• Gramm. - Categoria del verbo che indica come il soggetto sente l'azione: certa e reale (indicativo), probabile ed eventuale (congiuntivo), realizzabile a certe condizioni (condizionale), espressa in forma di comando (imperativo). ║ Avverbi di m.: avverbi che indicano come viene compiuta l'azione (ad esempio, facilmente). ║ Complemento di m.: complemento che indica il m. in cui viene compiuta l'azione espressa dal verbo (ad esempio, con difficoltà).
• Mineral. - Percentuale, rispetto al volume, in cui ciascuno dei minerali che la costituiscono è presente in una roccia.
• Mus. - Sequenza di toni e semitoni disposti secondo un ordine prestabilito e formanti una serie di suoni successivi, che rimane identica per ogni ottava. Poiché toni e semitoni possono essere disposti nella scala in diverse maniere, essi danno origine a molti m., ciascuno con delle caratteristiche e un colore particolare: la musica greco-romana ne comprendeva sette, il canto liturgico della Chiesa cattolica ne conosce otto, la musica tonale ne adotta due, il maggiore (terza maggiore) e il minore (terza minore). ║ Termine con cui, nella teoria medievale della misura della durata delle note, si indicavano i valori della maxima e della longa e i segni di misura ad essi corrispondenti.
 

Morfologìa.

Studio sistematico delle forme.
● Biol. - Studio e descrizione delle forme degli esseri viventi, nella loro struttura interna (anatomia o m. interna) e nel loro aspetto esterno (m. esterna). Talora si comprendono nella m., che rappresenta il settore più antico delle scienze biologiche, anche la citologia, l'istologia, l'embriologia, la teratologia, in realtà sue branche e derivazioni. La m. prevede numerose specializzazioni: la m. descrittiva, che opera descrizioni analitiche della struttura degli organismi; la m. comparata, che ha lo scopo di rilevare affinità e differenze fra le strutture degli organismi viventi; la m. sperimentale, che studia in particolare lo sviluppo e la definizione delle forme di un organismo.
● Bot. - M. vegetale: disciplina che studia la forma esterna e le posizioni delle parti e degli organi delle piante, stabilendo affinità e differenze tra specie diverse, utili anche ai fini di una collocazione sistematica. La m. vegetale contribuisce, inoltre, alla comprensione della struttura e dei fenomeni di accrescimento e di riproduzione degli organismi vegetali.
● Geogr. fis. - Studio delle forme della superficie terrestre, dei loro caratteri, della loro distribuzione e origine.
● Ling. - Disciplina che studia la forma, la struttura e le componenti delle parole e la loro suddivisione in classi diverse (aggettivo, verbo, avverbio, ecc.). Ogni parola può essere divisa in più parti o morfemi, la prima delle quali (radice o morfema lessicale) è immutabile ed esprime il significato fondamentale della parola, mentre l'ultima (desinenza o morfema grammaticale) subisce diverse modificazioni a seconda della funzione svolta all'interno della frase (soggetto, complemento, ecc.). La terminologia usata dal linguista A. Martinet indica con il termine monema entrambe le parti di una parola, tanto quella invariabile (detta anche lessema) quanto quella variabile. Il monema costituisce l'unità minima e fondamentale di significato; esso non è però sempre facilmente identificabile, poiché a rendere difficoltosa l'analisi delle componenti di un vocabolo possono intervenire fattori diversi, quali mutamenti all'interno della radice, plurali irregolari, ecc. Le lingue possono essere distinte, a seconda dei procedimenti morfologici che le caratterizzano, in tre gruppi principali. Le lingue flessive (come quelle indoeuropee) indicano le diverse funzioni grammaticali tramite affissi uniti alle radici e possiedono più forme per indicare il numero (singolare e plurale), il genere e il caso; le lingue agglutinanti (il turco) sono composte da parole in cui i monemi si pongono separatamente l'uno dopo l'altro; le lingue isolanti (il cinese) prevedono monemi separati. Nel primo gruppo di lingue, la flessione può riguardare diverse classi di parole: si distinguono perciò la flessione verbale (che avviene mediante una serie di desinenze in paradigmi detti coniugazioni), nominale e pronominale (entrambe in paradigmi detti declinazioni). La m. si occupa anche della formazione delle parole: i processi fondamentali che portano alla creazione di nuovi termini sono due, la composizione (tramite lessemi autonomi già dotati di significato) e la derivazione (mediante affissi).
 

Nominale.

(dal latino nominalis, der. di nomen: nome). Gramm. - Del nome. ║ Declinazione n.: è relativa alla categoria del nome, quale sostantivo o aggettivo. ║ Predicato n.: è costituito da un nome e da una copula, o un verbo copulativo. ║ Forme n. del verbo: quelle che possono essere sostantivate. ║ Appello n.: è effettuato chiamando per nome e cognome ciascuna persona.
● Econ. - Corso n.: prezzo attribuito ai titoli in assenza di contrattazioni che ne determinino il prezzo corrente. ║ Interesse n.: interesse effettivamente corrisposto. ║ Prezzo n.: prezzo corrente, diverso da quello di mercato. ║ Valore n.: valore attribuito al capitale di una società all'atto della sua costituzione; valore dato ai titoli a reddito fisso. ║ Valore n. di una moneta: quello indicato su di essa, indipendentemente dal suo potere d'acquisto.
● Fis. - Termine attribuito ad alcune grandezze fisiche per distinguerle da altre che hanno lo stesso nome, ma che sono fisicamente differenti.
 

Oggettivo.

Che concerne l'oggetto, è in relazione con l'oggetto o ha carattere di oggetto. ║ Con accezione opposta a soggettivo, ciò che ha consistenza in se stesso, indipendentemente dal fatto di essere conosciuto da un soggetto. ║ Che si fonda sull'oggetto, su fatti ed elementi concreti, su un'esperienza diretta. ║ Secondo l'uso più diffuso, ciò che si basa su una valutazione della realtà dei fatti, prescindendo da idee o da tendenze personali. ║ Ciò che ha valore generale e non limitato ad un singolo o ad alcuni. In questa accezione è affine ad universale.
● Filos. - Attributo della realtà extramentale. Per la Scolastica è l'attributo del reale in quanto pensato, cioè rappresentato dal pensiero mediante categorie mentali e perciò "frapposto" tra il soggetto pensante e la realtà che sussiste indipendentemente dal pensiero (V. OGGETTO). Per Kant, o. è ciò che non deriva dalle determinazioni empiriche del soggetto ma è frutto di una sintesi gnoseologica universale e necessaria e, perciò, reale.
● Ling. - Proposizione o.: in italiano, proposizione subordinata che, nella struttura logica del periodo e in relazione al predicato della proposizione principale, ha funzione corrispondente a quella del complemento oggetto all'interno della singola frase. Le proposizioni o. possono avere forma esplicita (in tal caso sono introdotte dalla congiunzione che e hanno il verbo espresso in un modo finito; per esempio: spero che tu venga) o forma implicita (in tal caso hanno il verbo espresso all'infinito semplice o retto dalla preposizione di oppure a; per esempio: spero di vederti). In latino le o. sono proposizioni dirette e appartengono alla categoria delle infinitive, essendo espresse con l'infinito del verbo ed il soggetto nel caso accusativo. ║ Genitivo o.: determinazione sintattica che esprime un rapporto, tra il genitivo e il sostantivo che lo regge, tale per cui il primo funge da ideale complemento oggetto delle azioni o sentimenti impliciti nel secondo.
● Med. - Sintomi o.: sono quelli rilevabili dal medico, mediante una visita clinica o esami di laboratorio, e si distinguono dai soggettivi, cioè i sintomi che il paziente dichiara di avvertire.
 

Paradigma.

(dal tardo latino paradigma). Modello, esempio.
• Gramm. - Modello di declinazione di un sostantivo o di coniugazione di un verbo fornito nei libri di testo; anche l'enunciazione delle forme fondamentali di un verbo, cioè presente, perfetto, participio passato, infinito, da cui derivano tutti gli altri tempi del verbo stesso (per esempio, il paradigma del verbo latino vincere è vinco-is, vixi, victum, vincere).
• Ling. - L'insieme degli elementi della frase che stanno in una reciproca relazione di sostituibilità, potendo alternarsi nello stesso contesto.
• Filos. - Nel linguaggio filosofico è talvolta usato come sinonimo di archetipo per designare i modelli eterni degli oggetti sensibili (per esempio in Platone). Nell'epistemologia contemporanea il termine è stato introdotto da Th. Kuhn, nel significato di insieme di pratiche, regole metodologiche, ipotesi e modelli esplicativi che orientano la ricerca scientifica in una data epoca.
 

Particìpio.

(dal latino participium, der. del greco metochikós: partecipante). Modo indefinito del verbo, che può assumere valore di aggettivo o di sostantivo, declinandosi per genere, numero e caso. Partecipa della natura del verbo, in quanto può distinguere il tempo e l'aspetto di un'azione. Nella lingua italiana, il p. presente è impiegato per lo più come sostantivo (comandante) o aggettivo (contenente), quello passato nelle costruzioni assolute (preparata la valigia, partì) e nella formazione dei tempi composti (avere fatto), quello futuro come aggettivo o sostantivo (nascituro).
 

Passivo.

(dal tardo latino passivus der. di passus, part. pass. di pati: patire, subire). Che subisce l'azione, in contrapposizione ad attivo. ║ Nel linguaggio comune, di individuo che dimostra mancanza di volontà, di spirito di iniziativa. ║ Resistenza p.: quella di chi si limita a non collaborare; anche sinonimo di opposizione non violenta a un'imposizione ritenuta ingiusta. ║ Fumo p.: quello che, pur non fumando, si aspira in presenza di fumatori.
• Econ. - Nel linguaggio amministrativo e contabile, il termine p. è utilizzato in varie espressioni (bilancio p., partite p., elementi p., ecc.) per indicare la mancanza di utili, in quanto le uscite superano le entrate. Usato come sostantivo, indica quella parte del bilancio dove si registrano debiti e oneri, ovvero gli elementi p. di un'azienda.
• Banca - Conto corrente p.: quello che presenta un saldo creditore per la banca. ║ Operazioni p.: operazioni con cui le banche si procurano capitali a credito. • Gramm. - Detto di forme verbali in cui il soggetto subisce l'azione: io sono amato. Il termine p. è usato anche come sostantivo: il p. del verbo amare.
• Psicol. - Soggetto riluttante a intraprendere una qualsiasi azione o che è incline a diventare dipendente da qualcun altro e a cercare relazioni in cui possa assumere un ruolo p.-ricettivo o p.-dipendente.
• Dir. - Di ciò che riguarda il soggetto p. di un rapporto giuridico obbligatorio: delegazione p.Soggetto p.: il titolare del dovere in un rapporto giuridico obbligatorio. • Elettrotecn. - Di elemento di un circuito in cui non siano presenti sorgenti di forza elettromotrice (rete p.) e, più in particolare, di elemento che non può immettere energia nel circuito (resistore).
• Telecom. - Terminale p.: elemento terminale di un collegamento che non ha bisogno di essere alimentato da una fonte di energia, perché riceve energia dall'altro terminale. • Chim. - Stato p.: stato di un metallo che ha subito il processo di passivazione.
 

Predicato.

(dal latino praedicatum, der. del greco kategoroúmenon: detto, asserito). Ciò che si predica, ovvero ciò che si afferma o nega intorno a una certa cosa che, grammaticalmente, funge da soggetto. ║ P. d'onore o p.: qualificazione onorifica, attribuita a personaggi eminenti, per concessione o consuetudine. Ai senatori delle Repubbliche di Venezia, Genova e Lucca era, anticamente, attribuito il p. di Eccellenza, usato anche per i grandi di Spagna e gli appartenenti a supremi ordini cavallereschi. In seguito questo p. fu esteso a tutti coloro che ricoprivano alte cariche civili o militari e ai cardinali; questi ultimi, a partire dal XVII sec., ebbero come p. proprio anche quello di Eminenza. P. dei sovrani inglesi è quello di Graziosissima maestà; Magnifico degli antichi nobili veneziani e genovesi e, attualmente, dei rettori d'università; Monsignore veniva attribuito agli alti prelati e, dal XVII sec., al Delfino francese; Serenissimo ai principi sovrani minori, ai principi di rami collaterali della famiglia regnante e ai dogi di Venezia e Genova. Per concessione della Santa Sede, ai sovrani di Austria-Ungheria, Spagna, Francia e Portogallo vennero rispettivamente attribuiti i p. di Apostolico, Cattolico, Cristianissimo, Fedelissimo. ║ P. nobiliare: nome, solitamente di luogo, che, preceduto dalla particella nobiliare (in italiano di), viene aggiunto al titolo nobiliare per specificarlo. Esso può seguire il titolo (Camillo Benso conte di Cavour) o semplicemente il nome (conte Camillo Benso di Cavour). ║ Essere in p. di...: essere fra coloro i quali hanno maggiore probabilità di ottenere una carica o un titolo.
• Filos. - L'analisi delle forme di enunciazione, condotta da Aristotele nell'Organon, portò il filosofo greco a individuare i due termini basilari dell'enunciazione: ciò rispetto a cui si enuncia e ciò che si enuncia. Aristotele chiamò il primo upokeímenon, tradotto dai Latini con subiectum, da cui il nostro "soggetto", e il secondo kategoroúmenon, in latino praedicatum da cui p., ovvero il prodotto dell'azione di enunciare. Nella logica aristotelica soggetto e p. vengono così ad assumere il ruolo di elementi fondamentali della proposizione, che già Platone aveva individuato nel nome (ónoma) e nel verbo (rema), intendendo con quest'ultimo, sia il p. verbale, sia quello nominale.
• Gramm. - Il p. come termine fondamentale della proposizione predicativa, esprime uno stato, una qualità o un'azione del soggetto. È detto verbale se nella proposizione appare un verbo predicativo, nominale se nella proposizione appare il verbo essere o un altro verbo copulativo; in quest'ultimo caso il p. è formato dalla copula (il verbo copulativo) e dalla qualità, nome o pronome unito al soggetto per mezzo della copula. In italiano, il p. verbale concorda in numero e persona con il soggetto. Nei tempi composti, nel caso in cui l'ausiliare sia essere, il participio concorda anche nel genere; se, invece, l'ausiliare è avere il participio non concorda con il soggetto, né nel genere né nel numero, ma con il complemento oggetto. Il p. nominale concorda con il soggetto nel genere e numero, se è aggettivo; qualora sia sostantivo può non concordare.
• Log. - Con il termine p. si intende un'espressione linguistica che designa una proprietà di oggetti (per esempio, rosso, piccolo, ecc.). Nei Principia mathematica, B. Russel, riprendendo le idee di G. Frege, sostenne che a un p. corrisponde una funzione a un solo argomento, ottenibile sostituendo il termine singolare con una variabile (proposizionale monadica). Questa funzione, equivalente a una proprietà o a una classe, è soddisfatta da oggetti del dominio della variabile e può avere come valori proposizioni o valori di verità. Al contrario della logica classica, di matrice aristotelica e basata sulla metafisica dell'inerenza, la logica matematica contemporanea permette di formare non solo enunciati nella forma soggetto-p., ma anche enunciati esprimenti relazioni fra individui cui corrispondono, nel linguaggio formale, funzioni diadiche o n-adiche. Si deve principalmente a Frege e Russel tale potenziamento dell'analisi logica degli enunciati, in quanto le loro teorie unificavano proprietà e relazioni nella nozione di funzione a n argomenti. Sulla base di tale equiparazione, un p. viene generalmente definito come simbolo per una proprietà. I termini formanti gli enunciati, oggetto di studio nel linguaggio formale predicativo, vengono classificati in p. e designatori per individui, detti anche termini. Nel simbolismo della logica formale si usano lettere minuscole per i termini e maiuscole per i p., con un segno di esponente per indicare il numero di individui cui il p. si applica. ║ Logica dei p.: sistema formale entro cui, una volta decise opportune regole di deduzione, vengono studiate le inferenze tra formule che si possono formare con p., costanti, variabili individuali, quantificatori e connettivi logici.
 

Presente.

Che si trova nello stesso luogo di chi parla o nel luogo di cui si parla o a cui ci si riferisce. ║ Fig. - P.!: espressione che costituisce la risposta a un appello. ║ Seguito dalla preposizione a: assistere a qualcosa prendendovi parte o trovarsi per caso sul luogo di un evento (i testimoni p. all'accaduto). ║ In costruzioni assolute, accompagnato da sostantivo o pronome, è sinonimo di alla presenza di: p. la madre. ║ Al plurale, con valore sostantivato, indica chi si trova in un luogo o prende parte a un fatto: prender nota dei p. ║ Fig. - Esclusi i p.: frase di cortesia con cui si escludono da una considerazione negativa gli astanti. ║ P. alle bandiere: durante il secondo conflitto mondiale, espressione riferita ai militari morti in guerra o dichiarati dispersi; ai familiari era riconosciuta un'indennità aggiuntiva, oltre alla pensione. ║ La p. lettera o semplicemente la p.: formula epistolare, impiegata soprattutto nel linguaggio commerciale e burocratico, per indicare la lettera che si sta scrivendo o che il destinatario sta leggendo: con la p., comunichiamo che... ║ Fig. - Che è ben impresso nell'animo: il suo sorriso è sempre p. nella mia mente. ║ Fig. - Aver p. qualcuno, qualche cosa: ricordare bene. ║ Fig. - Far p. qualcosa a qualcuno: proporre all'attenzione, far notare. ║ Fig. - Tener p. qualcosa o qualcuno: tenere conto di un fatto o di una persona nel formulare un giudizio o nel prendere una decisione. ║ Fig. - Essere p. a se stesso: avere sempre la perfetta padronanza delle proprie facoltà, essere consapevole dei propri pensieri, delle proprie azioni e reazioni. ║ Che fa parte del tempo attuale, in opposizione al tempo passato o al futuro: la p. generazione. ║ Come sostantivo, il tempo, l'epoca, il momento attuale e gli avvenimenti che lo accompagnano: i problemi del p. ║ Fig. - Al p.: attualmente.
• Gramm. e Ling. - Tempo p. o semplicemente p.: categoria verbale che indica il compiersi di un'azione o di un avvenimento nel momento stesso in cui si svolge la stessa comunicazione linguistica. Accanto alla connotazione temporale il p. può esprimere un valore d'aspetto, sottolineare cioè la qualità di non compiutezza dell'azione stessa. Tutte le lingue con flessione verbale esprimono il tempo p., che ha forme proprie in tutti i modi finiti del verbo. In quanto tema temporale costituisce, nelle lingue indoeuropee e nella maggior parte di quelle europee moderne, i tempi imperfetto, futuro e varie forme nominali, quali l'infinito, il participio presente, il gerundio, il gerundivo. ║ P. storico o p. narrativo: per scelta stilistica è talvolta utilizzato in testi narrativi ad esprimere un'azione perfettiva, momentanea o complessiva, conferendo maggior incisività al racconto. ║ P. atemporale: enuncia verità considerate sempre valide.
 

Riflessivo.

Concernente la riflessione: facoltà r. ║ Che impone una riflessione: pausa r. ║ Con riferimento a persona, che riflette, che ha l'abitudine di meditare su ciò che dice o fa. ║ Per estens. - Giudizioso, assennato.
• Gramm. - verbo r.: verbo transitivo che indica un'azione compiuta dal soggetto che si riflette sul soggetto stesso, rappresentato dalle particelle pronominali mi, ti, si, ci, vi: mi lavo. ║ Forma r. apparente: forma verbale presente quando le particelle nominali non rappresentano il complemento oggetto del verbo, ma quello di termine: mi (a me) preparo la colazione. ║ Forma r. reciproca: forma verbale che esprime l'azione che due o più soggetti si scambiano reciprocamente, diventando così ognuno l'oggetto dell'altro: si incontravano ogni giorno. ║ Pronomi r.: pronomi che svolgono il compito di riportare l'azione sul soggetto che la svolge. Sono sempre r. i pronomi e si (egli pensa a sé); sono r. solo in determinati contesti me, mi, te, ti, ecc. (mi è r. in mi lavo, ma non in mi sente).
• Mat. - Proprietà r.: proprietà fondamentale delle relazioni di equivalenza, per la quale in un insieme I di elementi a, b, c, ... vale, per un elemento generico, la relazione aa.
 

Sémplice.

Composto di un solo elemento. ║ Facile da risolvere, comprensibile, per nulla complicato. ║ Privo di ornamenti esteriori, elegante ed essenziale. ║ Di persona il cui comportamento è fedele alla sua intima natura, schietto; in alcuni casi, tuttavia, il termine viene usato con un'inflessione negativa, a indicare persona estremamente ingenua. ║ Carta s.: non bollata. ║ Soldato s.: soldato privo di grado.
• Mat. - Condizione s.: condizione dipendente da parametri variabili con continuità e traducibile in una sola equazione di detti parametri. ║ Integrale s.: quello di una funzione a variabile singola; si contrappone all'integrale multiplo. ║ Curva s.: che non interseca se stessa. ║ Punto s.: data una curva che si sviluppi in un piano, punto tale che una generica retta passante per esso intersechi la curva in un solo punto. • Fon. - Consonante s.: non raddoppiata.
• Gramm. - Tempo s.: nella coniugazione verbale, tempo che si coniuga senza il verbo ausiliare.
• Bot. - Perianzio s.: perigonio con unico verticillo.
• Arald. - Pezza i cui bordi non siano stati modificati.
• Dir. - Bene s.: ogni bene che sia giuridicamente visto come un complesso unitario.
• Rel. - Beneficio ecclesiastico s.: quello che non comporta cura di anime. ║ Rito s.: nella liturgia cattolica fino al XVI sec., il grado base e più solenne; in seguito, grado riservato all'ufficio feriale e alla celebrazione di santi minori. Esso è stato soppresso dal Calendario romano generale.
 

Sintagma.

(dal greco sýntagma: composizione, ordinamento). Ling. - Termine introdotto da F. de Saussure per indicare la combinazione di due o più unità linguistiche dotata di valore sintattico compiuto. ║ S. nominale: s. costituito da un nome e dagli elementi che gravitano intorno ad esso (articoli, aggettivi, apposizioni, frasi relative, ecc.): un uomo elegante. ║ S. verbale: s. formato da un verbo e dagli elementi che hanno la funzione di completare la descrizione dello stato o dell'azione enunciata dal verbo stesso (avverbi, complementi). Per esempio la frase: l'erba del prato è cresciuta a dismisura è formata dal s. nominale l'erba del prato e dal s. verbale è cresciuta a dismisura. ║ S. cristallizzato: s. fissato stabilmente in una determinata forma nella lingua, usato automaticamente da chi scrive o parla: essere a metà dell'opera. Viene denominato anche stereotipo.
 

Soggettivo.

Relativo al soggetto. ║ Che deriva dal modo di sentire, pensare e giudicare proprio dell'individuo in quanto tale: la mia è un'opinione s.
• Gramm. - Proposizione s.: proposizione subordinata che funge da soggetto rispetto al verbo della proposizione reggente; può avere forma esplicita, e in tal caso è introdotta dalle congiunzioni che o come (che tu mi pensi così intensamente è bello), oppure forma implicita, con il verbo all'infinito (viaggiare è stimolante). ║ Genitivo s.: quello che esprime un rapporto di soggetto rispetto al sostantivo reggente; nella lingua italiana è detto anche complemento di specificazione soggettiva (l'amore del marito verso la moglie).
• Filos. - Che concerne il soggetto in quanto realtà pensante.
• Psicol. - Ciò che interessa un solo individuo cosciente, in contrapposizione a ciò che è condiviso da tutti gli individui. ║ Metodo s.: metodo di osservazione che si fonda sull'introspezione.
• Dir. - Detto in relazione a un bene o a un fine, rispetto al quale l'ordinamento giuridico riconosce particolari facoltà al titolare e impone obblighi agli altri soggetti e all'autorità affinché ne assicuri l'esercizio.
• Med. - Di sensazioni o stimoli che vengono avvertiti unicamente dall'individuo e non oggettivabili mediante l'esame clinico o altri mezzi strumentali.
 

Suppletivo.

(dal latino medioevale suppletivus, der. di supplere: supplire). Che costituisce un supplemento, che serve a integrare o sostituire.
• Bot. - Di gemma sovrapposta che spunta al di sopra o al di sotto della gemma principale; è sinonimo di sostitutivo.
• Dir. - Norme s. o integrative: norme applicate per ovviare a eventuali mancanze dei singoli nel determinare le proprie volontà. Nel caso della comunione dei beni, ad esempio, qualora manchino precise disposizioni degli interessati, la proprietà dei beni si intende condivisa in parti uguali. Pur rientrando tra le norme dispositive, le norme s. ne costituiscono un caso particolare, in quanto la loro funzione non è quella di derogare un regolamento esistente, ma di colmare lacune.
• Ling. - Temi s. o forme s.: temi e forme che, pur avendo etimi diversi tra loro, costituiscono insieme il paradigma di un verbo (definito, a sua volta, paradigma s. o eteroclito). Un esempio di tema s. è costituto dai due temi del verbo andare (tema di vado, vai, va, ecc.; tema di andiamo, andate, ecc.).
• Mil. - Truppe s.: unità combattenti in forza all'armata e al corpo d'armata, che svolgono un'azione integrativa rispetto a quella svolta dalle grandi unità dipendenti (tra le truppe s. rientrano, ad esempio, le unità del genio).
• Ord. scol. - Sessione s. d'esami: sessione supplementare organizzata a beneficio dei candidati che non abbiano potuto sostenere gli esami nel corso della sessione normale, per ragioni di salute o per altri gravi impedimenti. ║ Corsi s.: con funzione integrativa nei confronti di altri corsi.
 

Transitivo.

Gramm. - verbo t.: il verbo che esprime un'azione che passa, cioè transita, dal soggetto al complemento oggetto: amare, odiare, fare. Si contrappone a intransitivo (V.). Quando il verbo t. assume forma passiva, l'oggetto logico diventa formalmente il soggetto della frase.
• Filos. - Causa t.: determina un'azione che si esercita su un oggetto diverso dall'agente. L'espressione è stata usata a partire dalla filosofia scolastica in senso metafisico in contrapposizione a causa immanente (che rimane nel soggetto).
• Mat. - Proprietà t.: proprietà della relazione di uguaglianza per cui dalle ipotesi a = b e b = c si deduce, come conseguenza, che a = c. ║ Gruppo t.: gruppo costituito da corrispondenze biunivoche tra un insieme e se stesso tali che, presi due elementi x e y dell'insieme, esiste sempre nel gruppo una corrispondenza biunivoca che a x associa y.
 

Trapassato.

Gramm. - Nome di due tempi verbali che indicano un'azione avvenuta precedentemente rispetto a un'altra già passata. ║ T. prossimo: tempo formato dal participio passato del verbo cui si aggiunge l'imperfetto di quello ausiliare: aveva lavorato. ║ T. remoto: tempo composto dal participio passato del verbo con il passato remoto dell'ausiliare: ebbe lavorato.
 

Verbale.

(dal tardo latino verbalis, der. di verbum: parola). Di parole, formato da parole: comunicazione v., attuata con mezzi linguistici, in contrapposizione a comunicazione non v., attuata con altri mezzi. ║ Eseguito a voce: disposizioni v.
• Gramm. - Del verbo, relativo alla categoria del verbo. ║ Forma v.: le varie forme che assume la coniugazione di un verbo. ║ Voce v.: lo stesso che voce del verbo (V. verbo). ║ Flessione v.: la coniugazione, cioè l'insieme delle forme di un verbo, formato da un tema (tema v., radice v.), che indica un'azione, e da una desinenza (desinenza v.), che indica il tempo e il modo dell'azione, la persona soggetto dell'azione e il numero (singolare, plurale). ║ Predicato v.: V. PREDICATO. ║ Frase v.: frase contenente un predicato v., contrapposta a frase nominale. ║ Aggettivo v.: nella grammatica scolastica greca, categoria nominale che comprende due forme aggettivali delle quali una corrisponde per etimologia e significato al participio passato passivo latino in -tus e l'altra al gerundivo latino. ║ Nome v.: nella lingua latina, designazione complessiva dei nomina actionis, agentis, e rei actae, cioè dei nomi d'azione, d'agente e del fatto compiuto.
• Dir. - Processo v.: il documento dove, in forma sintetica ma compiuta, sono descritti fatti e riportate dichiarazioni, che restano così attestati con presunzione di veridicità: v. di un interrogatorio.
• Contab. - V. di cassa: documento che attesta la situazione di cassa in un dato momento o i movimenti di cassa in un dato periodo.
• Mar. - V. di perdita: documento compilato dal comandante di una nave per rilevare e motivare la perdita o il deterioramento di beni in dotazione alla nave stessa.
• Sport - V. di gara: documento redatto alla fine di ogni competizione, da trasmettersi alle autorità sportive competenti.
 

 

 

Figure retoriche

Sicuramente ti sarà capitato di definire un tuo amico velocissimo “un fulmine”, oppure di dire, di una persona che ci vede poco, che è “cieca come una talpa”. Stai usando due figure retoriche.

Le figure retoriche sono un procedimento stilistico che permette di esprimere un’idea, un concetto, un’emozione o un oggetto in maniera diversa da come questa idea, concetto, emozione o oggetto sarebbe espresso nella lingua quotidiana. Ecco quali sono le figure retoriche più comuni e frequenti.

LA SIMILITUDINE

La similitudine è la figura retorica con la quale si confronta qualcosa a qualcos’altro usando avverbi o locuzioni avverbiali di paragone (“come”, “così... come”, “simile a”). A volte il secondo termine di paragone è introdotto da verbi quali “sembra”, “pare”, “somiglia”. Quando dici “Giorgio è furbo come una volpe”, oppure “Maria sembra uno spaventapasseri”, stai usando una similitudine.

In poesia, un esempio di similitudine sono alcuni versi di Giuseppe Ungaretti, tratti da Natale, nei quali il poeta paragona se stesso a un oggetto: “Lasciatemi così / come una / cosa posata / in un angolo / e dimenticata”. In questi versi tratti dalla poesia In Carnia, invece, Giosue Carducci paragona una montagna a un tappeto verde: “Un tappeto di smeraldo / sotto al cielo, il monte par”.

LA METAFORA

La metafora è una sorta di similitudine abbreviata, cioè una similitudine senza l’elemento connettivo (l’avverbio o le locuzioni avverbiali “come”, “così... come”, “simile a”; il verbo “sembra”, “pare”, “somiglia a”). Questo significa che, anziché paragonare una cosa a un’altra, la si descrive come se fosse davvero l’altra cosa. Quando dici “Giovanni è un fulmine” per indicare che è molto veloce, oppure “Giulia è una volpe” per sottolinearne la furbizia, stai usando una metafora.

In questi versi tratti dalla Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, le spade sono paragonate a lampi, tuoni e fulmini. È un esempio di uso poetico della metafora: “Lampo nel fiammeggiar, nel romor tuono, / fulmini nel ferir le spade sono”.

LA METONIMIA E LA SINEDDOCHE

La metonimia (termine che deriva dal greco e significa scambio di nome) è una figura retorica che consiste nel trasferire un significato da una parola a un’altra che abbia un rapporto di contiguità con la prima. Si può usare:

– il contenuto per il contenente: ad esempio, si può dire “passami l’acqua” intendendo dire “passami la bottiglia dell’acqua”;

– l’autore per l’opera: ad esempio, si può dire “sto leggendo Calvino”, intendendo “sto leggendo un romanzo di Calvino”;

– il luogo per le persone che vi si trovano: ad esempio, si può dire “il Quirinale non ha rilasciato dichiarazioni”, intendendo che “il Presidente della Repubblica non ha rilasciato dichiarazioni”.

In questo verso, tratto da Il passero solitario di Giacomo Leopardi, trovi un esempio di uso della metonimia: “Tutta vestita a festa / la gioventù del loco / lascia le case, e per le vie si spande”. Il poeta usa il termine astratto (“la gioventù”) per indicare il concreto (“i giovani”).

La sineddoche è una figura retorica simile alla metonimia. Consiste nel trasferire un significato da una parola a un’altra che abbia un rapporto di quantità con la prima. In genere si usa la parte per indicare il tutto: ad esempio si può dire “vedo una vela all’orizzonte” per indicare che si vede una nave all’orizzonte.

L’ASSONANZA

L’assonanza è una forma di rima imperfetta. Essa si produce quando due o più versi successivi terminano con parole che hanno vocali uguali, ma consonanti diverse, anche se spesso di suono simile. Esempi di assonanza sono 'amore/morte', 'fame/pane'.

Un esempio di assonanza in poesia è offerto da questi versi di Eugenio Montale, tratti da La casa dei doganieri: “Ripullula il frangente / ancora sulla balza che scoscende…”.

L’ALLITTERAZIONE

Quando all’inizio o all’interno di due o più parole vicine vengono ripetuti gli stessi suoni (lettere o sillabe) si ha la figura retorica chiamata allitterazione.

Un esempio di allitterazione è il seguente verso tratto dal Canzoniere di Francesco Petrarca: “di me medesmo meco mi vergogno”.

L’ONOMATOPEA

Quando imitiamo un suono naturale per mezzo di un segno linguistico usiamo una figura retorica chiamata onomatopea. Ad esempio, il “tic-tac” dell’orologio è una onomatopea, perché richiama il ticchettìo delle lancette.

Un bell’esempio di onomatopea si trova in questi versi tratti da L’onda di Gabriele d’Annunzio: “Sciacqua, sciaborda, / scroscia, schiocca, schianta, / romba, ride, canta...”. In essi le sillabe “scia” e “schi” rievocano il rumore dell’onda che si frange contro uno scoglio.

Ideogrammi

Supponi di dover uscire all’improvviso e di voler lasciare un messaggio alla mamma per avvisarla. Che cosa fai? Ovviamente prendi carta e penna e scrivi, ad esempio: “sono andato a casa di Paolo in bicicletta”. In questo caso ti sei servito della scrittura alfabetica o fonetica, che rappresenta i suoni delle parole. Ma potresti anche fare un disegno, e ritrarre te stesso mentre ti dirigi in bicicletta a casa del tuo amico. Così facendo, al posto del suono delle parole avresti rappresentato direttamente gli oggetti, le idee e le azioni che esse indicano: avresti cioè usato gli ideogrammi.

La scrittura ideografica è molto più antica di quella fonetica, ed è usata ancora oggi dai cinesi e dai giapponesi. Anche intorno a te, però, puoi vedere un tipo di comunicazione ideografica molto diffusa e importante: i cartelli stradali!

I PITTOGRAMMI E LA SCRITTURA GEROGLIFICA

Lo stadio più antico della scrittura ideografica è costituito dai pittogrammi, cioè dai disegni degli oggetti concreti.

Un tipo di scrittura che si serviva dei pittogrammi era la scrittura geroglifica, la più antica usata dagli egizi. Il sistema geroglifico si sviluppò intorno al 3000 a.C. e restò in uso presso gli egizi fino al V secolo d.C. Date le sue caratteristiche pittoriche, gli egizi usavano la scrittura geroglifica anche con funzione decorativa, ad esempio nelle tombe dei faraoni. I disegni in uso presso gli egizi erano circa 3.000, e raffiguravano, tra le altre cose, animali, uomini e attrezzi. Questa scrittura, oltre a esprimere un’idea, aveva un corrispondente “sonoro”.

Tra i popoli che svilupparono una scrittura di tipo geroglifico vi furono anche i maya, gli antichi abitanti del Messico e dell’America centrale.

I pittogrammi, però, hanno il limite di poter rappresentare solo gli oggetti: non possono fissare con chiarezza un pensiero, un sentimento o un’emozione. Ad esempio, non è possibile disegnare concetti astratti come il tempo e la felicità.

DAI PITTOGRAMMI AGLI IDEOGRAMMI

Gradualmente, attraverso diverse fasi, la scrittura evolse dai semplici pittogrammi verso forme di espressione più universali.

La prima tappa fu il passaggio dal pittogramma all’ideogramma, grazie al quale è possibile esprimere anche le idee. I segni della scrittura ideografica sono anzitutto più stilizzati: una linea sinuosa può indicare l’acqua, un cerchio il Sole. Inoltre, il segno non indica più un unico oggetto, ma tutto l’universo di cose e idee che gli ruota attorno. Ad esempio, il disegno di un piede può indicare il piede stesso, ma anche l’azione dell’alzarsi in piedi, di camminare e così via. Presso gli egiziani, il disegno della pianta di una casa con accanto dei piedi indicava il verbo “uscire”.

DAGLI IDEOGRAMMI AI FONOGRAMMI

Un’ulteriore evoluzione nell’uso dell’ideogramma avvenne quando il segno non si limitò più a indicare soltanto i concetti correlati, ma il suono della parola. Ad esempio, per scrivere il nome del faraone Nar-mr, gli egizi accostavano due disegni: il primo raffigurante un pesce siluro, il cui nome in egiziano è “nar”, e il secondo raffigurante uno scalpello, “mr”. In questo modo, il segno non rimandava più agli oggetti, ma al suono con il quale se ne pronunciavano i nomi. I segni di questo tipo sono chiamati fonogrammi: essi rappresentano soltanto i suoni, e non hanno alcuna relazione con la parola che compongono.

LA SCRITTURA CINESE

In Cina l’uso degli ideogrammi risale al XIV secolo a.C. In origine, anche la scrittura cinese era pittografica, basata cioè sulla rappresentazione pittorica degli oggetti. Evolse poi verso l’uso degli ideogrammi: a ciascun segno viene attribuito un valore concettuale di base, e attraverso la combinazione di diversi caratteri è possibile rappresentare efficacemente anche le idee astratte. Oggi il numero di ideogrammi in uso presso i cinesi ammonta a oltre 47.000. Quelli di uso comune sono circa 5.000, ma un cinese di media cultura deve saperne riconoscere almeno 30.000!

Un problema rappresentato da questo tipo di scrittura è dato dalle possibili confusioni nell’interpretazione dei simboli grafici. Anche per questo motivo, in Cina la calligrafia è molto importante ed è considerata una forma d’arte al pari della pittura.

Poesia

Una poesia è un componimento, lungo o breve, in versi. Esistono due tipi principali di componimento poetico: il poema narrativo e il poema lirico.

Il poema narrativo è un poema che racconta una storia ed è di solito piuttosto lungo. Ne sono esempio i poemi epici, le ballate e i poemi allegorici. poemi epici, ballate.

Il poema lirico è un poema più breve che ruota attorno a un pensiero o a un’emozione molto intensi. La poesia lirica comprende un’estrema varietà di versi poetici, inclusi le canzoni, le odi, gli inni, i sonetti e persino le ninne-nanne.

IL POEMA EPICO

Il più antico tipo di poema è una forma di poesia narrativa chiamata epica. I poemi epici hanno come tema le avventure di dei ed eroi, e inizialmente erano tramandati oralmente. Gli aedi nell’antica Grecia e i bardi presso i popoli celtici recitavano i poemi epici come forma di intrattenimento per il pubblico, e li trasmettevano ad altri aedi o bardi, che vi introducevano cambiamenti o aggiunte. I poemi epici furono trascritti solo a partire dal Medioevo, e grazie a queste trascrizioni sono giunti fino a noi.

Tra i poemi epici ricordiamo l’Epopea di Gilgamesh, un lungo poema sumero che risale al 2000 a.C. circa, l’Iliade e l’Odissea nell’antica Grecia, l’Eneide tra le opere in lingua latina, il Mahabharata e il Ramayana in India, la Chanson de Roland in Francia, Beowulf nella cultura anglosassone, il Canto dei Nibelunghi in Germania e Edda in Islanda.

IL POEMA ALLEGORICO: LA DIVINA COMMEDIA

Il poema allegorico è un racconto immaginario, attraverso il quale il poeta vuole dare insegnamenti e precetti morali. Il poema allegorico per eccellenza della letteratura italiana e mondiale è la Divina Commedia di Dante Alighieri.

In questo lungo poema, scritto all’inizio del Trecento, Dante immagina di compiere un viaggio nel mondo dell’oltretomba, dall’Inferno al Paradiso passando per il Prgatorio. Nelle intenzioni dell’autore, l’opera avrebbe dovuto insegnare all’umanità la via da percorrere per liberarsi dal peccato. La Commedia conobbe una fortuna enorme sin dalla sua prima apparizione, e fu subito molto apprezzata, tanto che Giovanni Boccaccio, già nel Trecento, le attribuì l’appellativo di divina con cui ancora oggi ci riferiamo a essa. I versi con cui si apre la Divina Commedia sono tra i più celebri della nostra letteratura:

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!

LA BALLATA

Un’altra forma di poema narrativo, che nacque in Francia nel tardo Medioevo e si diffuse in tutta Europa, è la ballata. La sua struttura metrica comprende un ritornello (o ripresa), che espone in breve il motivo conduttore e si ripete fra una stanza e l’altra, e un numero variabile di strofe o stanze.

Le ballate erano in origine canzoni popolari che raccontavano storie d’amore e di avventure. In Italia la ballata fu un genere molto usato da Dante, dai poeti stilnovisti, da Petrarca e dai poeti umanisti. I versi che seguono sono tratti da una ballata del poeta rinascimentale Angelo Poliziano:

Ben venga maggio
e ’l gonfalon selvaggio!
Ben venga primavera
che vuol l’uom s’innamori;
e voi donzelle, a schiera
con li vostri amadori,
che di rose e di fiori
vi fate belle il maggio,
venite alla frescura
delli verdi arboscelli.

LA CANZONE

La canzone è una delle più importanti forme metriche della lirica italiana. Di origine provenzale, fu rielaborata dai poeti della scuola siciliana (intorno alla metà del Duecento) e perfezionata da Dante e Petrarca. La sua struttura tradizionale comprende un numero variabile di strofe o stanze (da due a nove), divise al loro interno in due parti: la prima è detta “fronte”, la seconda è detta “sirma”. L’ultima stanza (detta “commiato” o “congedo”) è spesso più breve e di struttura metrica varia.

Tra le canzoni più celebri della poesia italiana vi sono quelle scritte da Francesco Petrarca nel Trecento e da Giacomo Leopardi nell’Ottocento. Le canzoni di Leopardi sono molto più libere nei versi e nelle rime. Confronta questi versi tratti da Italia mia di Petrarca:

Italia mia, benché ’l parlar sia indarno
a le piaghe mortali
che nel bel corpo tuo sí spesse veggio,
piacemi almen che miei sospir’ sian quali
spera ’l Tevero et l’Arno,
e ’l Po, dove doglioso et grave or seggio.
Rettor del cielo, io cheggio
che la pietà che Ti condusse in terra
Ti volga al Tuo dilecto almo paese.
Vedi, Segnor cortese,
di che lievi cagion’ che crudel guerra;
e i cor’, che ’ndura et serra
Marte superbo et fero,
apri Tu, Padre, e ’ntenerisci et snoda;
ivi fa che ’l Tuo vero,
qual io mi sia, per la mia lingua s’oda.

con i seguenti versi tratti dall’Ultimo canto di Saffo di Leopardi:

Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
infinita beltà parte nessuna
alla misera Saffo i numi e l’empia
sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni
vile, o natura, e grave ospite addetta,
e dispregiata amante, alle vezzose
tue forme il core e le pupille invano
supplichevole intendo.

L’ODE E L’ELEGIA

Odi ed elegie sono tra le forme più antiche di poesia lirica. Entrambi i generi risalgono all’epoca classica e furono molto popolari sia tra i poeti greci sia tra quelli latini. In origine erano declamati con l’accompagnamento musicale della lira (ecco perché la poesia viene anche detta “lirica”).

Un’ode è un poema composto per celebrare una persona, un evento o una cosa. Ad esempio, nell’ode intitolata Il cinque maggio (di cui puoi leggere, di seguito, i primi versi) Alessandro Manzoni volle rendere omaggio a Napoleone Bonaparte:

Ei fu. Siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro,
così percossa, attonita
la terra al nunzio sta,
muta pensando all’ultima
ora dell’uom fatale;
né sa quando una simile
orma di pie’ mortale
la sua cruenta polvere
a calpestar verrà.

L’elegia è un tipo di poema che in origine fu concepito come lamento per la morte di qualcuno e che in seguito passò a trattare anche temi amorosi, politici e civili. Gli antichi poeti greci e latini composero anche versi brevi che venivano iscritti su tombe oppure statue e che furono chiamati epigrammi.

SONETTO

Un sonetto è una poesia lirica composta da 14 versi che seguono un preciso schema dal punto di vista della rima. I due più importanti tipi di sonetto sono quello italiano e quello inglese, detto anche “sonetto shakesperiano”.

Il sonetto italiano si sviluppò a partire dalle canzoni popolari del tardo Medioevo, che in origine erano accompagnate dal suono del mandolino o del liuto. In esso i versi sono disposti in due stanze chiamate quartine (cioè di quattro versi) e in altre due stanze chiamate terzine (cioè di tre versi). È una delle più importanti forme metriche della poesia italiana e fu usato da moltissimi poeti in epoche diverse. Nel Canzoniere di Francesco Petrarca, scritto nel Quattrocento, ben 317 componimenti su 366 sono sonetti. Nell’Ottocento un celebre autore di sonetti fu il poeta Ugo Foscolo, di cui puoi leggere Alla sera:

Forse perché della fatal quiete
tu sei l’imago a me sì cara vieni
o sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,

e quando dal nevoso aere inquiete
tenebre e lunghe all’universo meni
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.

Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme

delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.

Il sonetto inglese è composto di tre stanze di quattro versi ciascuna (ovvero tre quartine), più una coppia finale di versi che rimano tra di loro. È detto anche sonetto shakesperiano poiché il drammaturgo inglese William Shakespeare lo usò spesso nella composizione delle proprie poesie d’amore.

HAIKU

L’haiku è una forma di breve poema lirico che si sviluppò in Giappone a partire dal Cinquecento. Una poesia haiku è composta di tre versi sciolti, rispettivamente di cinque, sette e cinque sillabe. Questi poemi, composti con grande cura, mirano a evocare nella nostra mente un’immagine vivida e a suscitare un’emozione intensa. Ecco un haiku composto dal poeta e pittore giapponese Buson (1716-1784):

Sugli iris
lento planare
di un nibbio.

LIMERICK

Il limerick, assai diffuso nella cultura di lingua inglese, è un componimento poetico molto breve che ha lo scopo di divertire. Si compone sempre di cinque versi e la struttura della rima è facilmente riconoscibile. Ecco un esempio di limerick in italiano:

C’era un cane di Salerno
che odiava tanto l’inverno
ma un anno sfortunato
lui rimase congelato
quel freddoloso cane di Salerno.

POESIA MODERNA

Molti poeti moderni hanno dato grande importanza al modo in cui una poesia appare quando è stampata sulla pagina di un libro.

La disposizione grafica delle parole della poesia La Colombe Poignardée del poeta francese Guillaume Apollinaire ricorda una fontana. Nel poema “parolibero” Zang, Tumb Tumb l’italiano Filippo Tommaso Marinetti mette in atto (con la collaborazione del tipografo) le teorie espresse nel “Manifesto tecnico della letteratura futurista”: sintassi disarticolata, verbo all’infinito, uso dei segni matematici, utilizzo di caratteri diversi e di varia grandezza.

Nel verso con cui si apre un poema dell’americano e.e. cummings le lettere della parola grasshopper (in inglese, cavalletta) sono usate per riprodurre visivamente il continuo saltare avanti e indietro dell’insetto: “r-p-o-p-h-e-s-s-a-g-r”.

Traduzione in inglese
verbo = verb
maschile grammatica verb