LA PESCA
La pesca è
la forma più diretta di sfruttamento degli ecosistemi acquatici da parte
dell'uomo. Le nostre relazioni con queste sorgenti di alimento, benché
coinvolgano di anno in anno sempre più grandi quantità di energia,
sono però ancora estremamente primitive. L'uomo infatti si comporta nei
confronti degli ecosistemi acquatici come un enorme carnivoro predatore delle
altre popolazioni: un carnivoro che distrugge intere popolazioni senza altro
controllo che la richiesta del mercato.
Il prodotto del mare può
essere raccolto anche in grandi quantità sulla riva stessa del mare. La
pesca tuttavia si esercita specialmente in mare aperto; non a caso il problema
della pesca si lega strettamente a quello delle imbarcazioni necessarie. Da
quando l'uomo va alla pesca egli deve disporre di mezzi di trasporto adatti.
È l'imbarcazione che determina la possibilità di accesso a certi
tipi di pesca, la qualità e il numero delle prede. La possibilità
di disporre di imbarcazioni sempre più capaci, maneggevoli, rapide e di
attrezzature per la conservazione del pesce, ha fatto passare la pesca da
attività personale o familiare e quindi artigiana, ad impresa
industriale. Più la pesca è praticata da bastimenti potenti, da
equipaggi numerosi ed addestrati, più i suoi costi sono elevati e
maggiori sono gli investimenti richiesti: più alti naturalmente sono
anche i profitti.
Le barche a remi o a vela, che ancora vediamo sulle
nostre coste, e quelle a motore non superiori a 20 m di lunghezza e a 10
tonnellate di portata sono imbarcazioni destinate all'artigianato familiare o
alla piccola impresa.
Pescare o cacciare in mare non è un semplice
problema di attrezzature come reti, barche ecc. È solo la profonda
conoscenza della preda che si intende cacciare e pescare, del suo ambiente, dei
periodi più adatti alla pesca che permette di riuscire
nell'intento.
Non tutte le civiltà e gli aggregati sociali hanno
dimostrato una uguale attitudine a vivere in simbiosi col mare. Pochissime sono
riuscite ad assicurarsi una evoluzione continua capace di accrescere la
conoscenza del mare e quindi la capacità di sfruttarlo. Così, ad
esempio, sulle coste dell'Africa nera dal Senegal al Congo è
sviluppatissima la pesca da parte degli indigeni; egualmente i pescatori malesi
spaziano nel golfo del Bengala a quello del Siam fino all'Insulindia e alle
Filippine. Ma queste civiltà, che hanno colonizzato migliaia di
chilometri di costa, sono da secoli statiche. In possesso di tecniche
eccezionali per abilità e intelligenza, esse non hanno mai affrontato
l'alto mare e son rimaste collegate alla loro terra o comunque ad un ambiente
biologico e fisico simile a quello da dove erano partiti.
Circa un secolo
fa quasi tutti erano convinti, compresi molti scienziati, che le risorse del
mare e degli ecosistemi acquatici fossero inesauribili. Ma allora non si era
ancora organizzata la pesca con sistemi industriali, con vere e proprie flotte
di pescherecci dotati di grandi periodi di autonomia, che dai primi decenni del
nostro secolo hanno sistematicamente «saccheggiato» le popolazioni di
pesci commestibili. Oggi tutti sanno che diminuiscono le riserve di pesce nei
mari: l'intenso sfruttamento delle risorse dovuto ai metodi di pesca industriale
non permette la ricostituzione delle biomasse che vengono continuamente
sottratte.
Lasciato a se stesso, l'ecosistema tenderebbe irresistibilmente
a ricostruire le sue riserve animali e vegetali. Che la causa sia proprio la
continua attività delle flotte di pescherecci è stato dimostrato
dall'aumento del prodotto pescato che si è verificato dopo i forzati
periodi di riposo delle due guerre mondiali.
L'intensità della pesca
non dovrebbe superare determinati limiti sia nei mari e tanto più nei
laghi e stagni; dovrebbero esistere controlli come accade per la caccia e lo
sfruttamento dei campi coltivati. Invece la quantità di pesce pescato
aumenta di anno in anno: nel 1948 si erano pescate meno di 20 milioni di
tonnellate, nel 1965 si erano superati i 50 milioni di tonnellate e nel 1988 i
100 milioni di tonnellate.
Gli ecosistemi acquatici, comparati con quelli
terrestri, sono produttori di proteine molto più efficienti. E
soprattutto tale produzione è estremamente più rapida. Molti
scienziati guardano a questa sorgente come ad una possibile soluzione dei
problemi alimentari posti dall'accrescimento vertiginoso della popolazione
umana. Tecniche più raffinate che non quelle della semplice cattura
casuale del pesce erano già state messe a punto nell'Europa medioevale e
nell'antico Oriente. Laghi e stagni artificiali (gore di mulini nel Medio Evo
europeo o risaie nell'antico Oriente) venivano già sfruttati per una
sorta di piscicoltura che coinvolgeva anche un controllo dell'ambiente
acquatico. Una volta formato il bacino artificiale ed insediatosi l'ecosistema,
ci si attende che la sua produttività aumenti col passare del tempo.
Quando l'ecosistema è invecchiato, tale produttività scende
rapidamente, allora si svuota lo stagno e si inizia una nuova successione di
stadi giovani, produttivi. Una specie di «rotazione» come quella
applicata in agricoltura.
Le moderne tecniche di acquacoltura, sfruttando
anche l'enorme fecondità delle popolazioni di pesci, potrebbero dare
elevatissime rese: uno stagno di 100 are di superficie in un anno può
produrre sino a 4-5 q di pesce commestibile.
L'importanza data
all'acquacoltura oggi è comunque confermata dalla presenza di piani
di sviluppo e di incentivazione messe a punto dalla FAO.
LA PESCA DEL TONNO
I tonni hanno un grande valore commerciale
perché le loro carni sono assai pregiate, in particolare quelle della
parte addominale note col nome di ventresca. La carne di questo pesce viene
consumata fresca, salata o sott'olio. Quest'ultima utilizzazione è
più frequente e dà vita ad un'importante industria per
l'inscatolamento.
La cattura dei tonni può avvenire con ami o con
trappole fisse caratteristiche chiamate tonnare. Una tonnara è formata da
una serie di compartimenti comunicanti, ma all'occorrenza chiudibili, che
terminano nella "camera della morte", un vano che ha anche il fondo formato da
rete. La tonnara è ancorata al fondo ed è collegata a terra con
una rete trasversale lunga circa 1 km. Questo attrezzo collocato nei punti di
passaggio dei tonni, li obbliga ad entrare nei diversi scomparti e ad introdursi
nella camera della morte; quando qui si è raccolto un buon numero di
pesci viene sollevato il fondo finché i tonni non affiorano. Allora ha
inizio la mattanza, cioè l'arpionamento degli animali che vengono tratti
sulle imbarcazioni.
LA PESCA DEL PESCESPADA
Il pescespada è un grosso sgombroide
(come il tonno) che può raggiungere la lunghezza di 4 m e il peso di 3
quintali. Possiede una caratteristica mascella superiore prolungata che
assomiglia ad una lama rigida e robusta, che giustifica il nome attribuito a
questo pesce. È un veloce nuotatore; si avvicina alle coste verso la
primavera per la riproduzione.
Le carni del pescespada sono assai
apprezzate e consumate fresche. La pesca si pratica con barche di particolare
struttura che hanno un altissimo albero su cui sta di vedetta un pescatore e una
stretta e lunga passerella a prua. Quando il pesce viene avvistato
l'imbarcazione lo segue finché il fiociniere collocato sulla cima della
passerella non lo colpisce con una fiocina apposita, la draffiniera. Questo
strumento ha alette apribili come il rampone, ma è più
maneggevole; è munito di sagola. La pesca si può praticare anche
con la lenza.
In Italia la pesca al pescespada è comune lungo le
coste calabresi e siciliane dello stretto di Messina.
L'ISOLA DI PASQUA
L'isola di Pasqua è un'isola del
Pacifico meridionale, a oriente dell'arcipelago polinesiano, ma distante da
questo e solitaria.
La vita dei suoi abitanti, oggi quasi completamente
estinti, era perciò molto legata all'ambiente marino che li circondava.
Sulla superficie dell'isola, di origine vulcanica, non cresceva un solo albero.
Vi si trovavano solo arbusti dai quali era possibile ricavare statuette, spiedi
per la caccia e asce, ma che non erano adatti per costruire manufatti di grandi
dimensioni. Qualche grosso tronco poteva arrivare solo trasportato dalle
correnti marine e naturalmente era una grande fortuna per chi riusciva ad
impossessarsene. Ma questi casi non erano molto comuni e così il legno
era considerato un materiale prezioso; se ne consumava il minimo indispensabile
e quello che avanzava veniva usato per ornamenti e tavolette da scolpire con
disegni. A causa della scarsità del legno le imbarcazioni oltre che
piccole erano anche piuttosto fragili e ciò costituiva una grave
limitazione per la pesca.
I primi colonizzatori dell'isola furono i
Polinesiani, abilissimi navigatori che vi giunsero nella loro continua
espansione verso oriente; benché abituati a costruire lunghe canoe, una
volta sbarcati a Rapanui (isola di Pasqua) dovettero accontentarsi di
imbarcazioni molto più piccole e rozze proprio per la mancanza del
materiale.
I navigatori europei che videro la civiltà dell'isola nel
periodo del suo splendore raccontarono che le canoe erano formate da tante
tavolette di legno cucite insieme. Perfino le pagaie dovevano essere costruite
in due pezzi per mancanza di legni abbastanza lunghi. Questo fatto spiega in
parte perché presso gli abitanti dell'isola la pesca non avesse
quell'importanza che aveva invece presso gli altri Polinesiani.
Nonostante
tutto la pesca costituiva sempre la principale attività degli uomini nel
periodo estivo; che questo fosse un momento molto importante è
testimoniato dal fatto che quasi tutta la mitologia dell'isola di Pasqua parla
di viaggi per mare ed è costituita da leggende e racconti che hanno come
protagonisti i pescatori. Un'altra testimonianza delle abitudini di pesca
è rimasta anche nelle numerose raffigurazioni di pesci scolpite nella
roccia.
La pesca del tonno era praticata al largo, mentre dagli scogli si
pescavano con ami di pietra o di osso numerose specie di cui le acque intorno
all'isola erano ricche. Dovevano essere praticate anche forme di pesca
collettive; si spiega così la presenza di grandi reti in fibra di gelso e
la conoscenza delle tecniche necessarie per la costruzione di canestri. Per
manovrare questi strumenti occorrevano senza dubbio gruppi numerosi di
individui.
Una notevole importanza aveva la raccolta di crostacei e di
molluschi; questa attività era svolta prevalentemente dalle donne e dai
bambini che non temevano di avventurarsi sulle scogliere anche di notte per
catturare i pesci abbagliandoli con le luci delle torce. Un altro alimento
tratto dal mare era costituito dalla carne delle testuggini che nuotano al largo
dell'isola. Così gli indigeni, nuotando dietro di esse, potevano
spingerle verso le reti.
Ma nessun popolo, per quanto viva a contatto del
mare, può sostentarsi solo coi prodotti della pesca. Nell'economia degli
abitanti dell'isola anche la coltivazione di giardini e orti era fondamentale.
Quando i Polinesiani arrivarono sull'isola di Pasqua, avevano molto
probabilmente con sé germogli dell'albero del pane e noci di cocco che
nei paesi di origine costituivano l'elemento essenziale dell'alimentazione. A
causa del clima più freddo però questi alberi non resistettero e
gli abitanti dell'isola di Pasqua dovettero accontentarsi di utilizzare i
vegetali che erano sopravvissuti alla traversata o che già esistevano
nell'isola: banani, tari, patate dolci, gelsi da carta, canna da
zucchero.
La coltivazione di queste piante era molto laboriosa
perché il terreno di origine vulcanica diventava molto fertile solo a
prezzo di continui lavori. Si dovevano togliere dal campo le pietre superflue,
rincalzare le zolle di terreno intorno ad ogni piantina per proteggerla dal
caldo e combattere contro il propagarsi continuo delle gramigne. Tutti questi
lavori erano fatti con il solo aiuto di un palo o di una pietra
acuminata.
Un grosso problema era dato dalla mancanza di acqua.
Poiché nell'isola non esistevano fiumi o ruscelli si era sempre in lotta
per impedire al sole di seccare i raccolti. Così si coprivano i campi con
un sottile strato di erba o si scavano solchi per trattenere le acque piovane.
Un altro metodo consisteva nel coltivare le piante più sensibili, come i
banani o i gelsi, in pozzi scavati vicino alla capanna o in cavità di
rocce ricche di detriti vegetali e quindi di humus.
Naturalmente la
mancanza di fiumi o ruscelli creava anche un grosso problema per
l'approvvigionamento idrico dei villaggi: esistevano nelle cavità
vulcaniche sulle montagne alcuni laghetti ma erano quasi inaccessibili. Per
questo gli abitanti preferivano utilizzare l'acqua piovana in recipienti di
zucca o quella delle sorgenti che sgorgavano in diversi punti della costa.
Queste acque però affioravano così vicino al mare da risultare
salmastre.
LA SCOPERTA DELL'ISOLA DI PASQUA
L'isola di Pasqua ebbe questo nome
perché fu avvistata per la prima volta da un navigatore europeo la
domenica di Pasqua del 1722. A quei tempi l'isola era abitata da una popolazione
di ceppo e di lingua polinesiana che probabilmente comprendeva 3 o 4 mila
individui. Gli antenati di questo popolo dovevano essere giunti sull'isola nel
corso del XII secolo e l'avevano chiamata Rapanui.
Dopo la scoperta altri
viaggiatori europei fecero sosta nell'isola introducendovi malattie che a poco a
poco decimarono gli indigeni; con le successive spedizioni dei mercanti di
schiavi, che prelevavano gli abitanti per portarli a lavorare nell'estrazione
del guano in Perù, la popolazione dell'isola scomparve. Cento
cinquant'anni dopo la scoperta europea non vi erano più che un centinaio
di indigeni. Gli attuali abitanti dell'isola non hanno più alcun legame
con la civiltà polinesiana.
LE STATUE DELL'ISOLA DI PASQUA
Per molto tempo le grandi statue di pietra
dell'isola di Pasqua costituirono un enigma perché sembrava impossibile
che potessero essere state scolpite e trasportate da indigeni che non avevano a
disposizione né attrezzi in ferro né sistemi adatti al trasporto.
La maggior parte delle statue è stata scolpita nel tufo, materiale facile
da lavorare, e poiché è stata ritrovata la cava dove venivano
preparate, è anche possibile rendersi conto dei vari momenti del lavoro.
Nella cava infatti vi sono ancora decine di statue incomplete: sembra anzi che
per qualche motivo i lavori siano stati interrotti improvvisamente.
Non si
sa quale potesse essere il significato di queste statue. Anche la disposizione
non era casuale dal momento che molte di esse erano state collocate lungo tutto
il perimetro dell'isola con il dorso rivolto verso il mare. Con il crollo della
cultura dell'isola il significato delle statue è andato
perduto.
Esplorazioni: il mistero delle grandi statue dell'isola di Pasqua
BALENE E CAPODOGLI
Le balene sono grossi mammiferi che si sono
adattati all'ambiente acquatico. Gli zoologi li classificano nell'ordine dei
cetacei. Questi a loro volta sono divisi in due gruppi: gli Odontoceti che sono
dotati di denti e i Misticeti che ne sono privi. Agli Odontoceti appartengono i
capodogli; ai misticeti appartengono le balene propriamente dette (balene
franche) e le balenottere. Comunemente con il termine di «balena» si
indicano indifferentemente gli uni e le altre. Le differenze tuttavia sono
notevoli.
Le balene sono animali socievoli che vivono prevalentemente nelle
regioni settentrionali dell'Antartico e del Pacifico da cui migrano
periodicamente, allo sciogliersi dei ghiacci. Questi mammiferi generano un solo
individuo per volta, solo raramente due, che allattano per circa sette mesi,
proiettando il latte direttamente in bocca ai balenotteri. Alla nascita un
balenottero misura circa 6 m e pesa 6 t. Poiché respirano aria questi
animali sono costretti ad emergere periodicamente (ogni 15, talvolta 30 minuti),
ed emettono in questa occasione un getto di aria calda e umida che a contatto
con l'aria fredda esterna assume l'aspetto di uno zampillo d'acqua. Le balene si
nutrono riempendo d'acqua l'enorme bocca ed espellendola attraverso i fanoni
(lamine ossee che pendono dal palato) che funzionano come un filtro e
trattengono piccoli pesci, molluschi, crostacei.
La balena franca,
nonostante la sua mole (può superare i venti metri di lunghezza e le
cento tonnellate di peso), è una bestia paurosa. È la balena
cacciata con maggior accanimento nei secoli passati: dalla fine dell'Ottocento
la specie è quasi estinta ed infatti oggi si cacciano in prevalenza le
balenottere.
Le balenottere hanno un corpo più snello, ma alcune
varietà (per esempio la balenottera azzurra, che è il più
grande di tutti gli animali) superano in lunghezza e in peso le balene franche;
le superano in ogni caso in combattività e coraggio. Proprio in forza
della loro maggiore pericolosità, la caccia alle balenottere si è
sviluppata in grande stile solo quando l'invenzione del cannone sparafiocine ha
consentito di attaccarle da una maggiore distanza e in condizioni di
sicurezza.
Il capodoglio è un grande cetaceo carnivoro; ha una
grande testa ottusa che si sporge notevolmente innanzi alla mandibola. Il getto
di vapore invece di essere diretto verso l'alto è proiettato in avanti.
Questo mammifero, lungo 13-25 m se maschio, 9-12 se femmina e pesante fino a 50
t, è provvisto di grossi denti (20-30 per ciascuna mandibola). È
privo di pinna dorsale, ma dotato di una fila di prominenze. Ha colore che varia
dal grigio-bluastro al nero, a volte più o meno chiaro sui fianchi e sul
ventre. Vive in gruppi di 15-20 individui. I capodogli sono ancora più
pericolosi delle balenottere: nel romanzo di Melville, Moby Dick, la terribile
Balena Bianca simbolo della violenza e del male, a cui la nave del capitano
Achab dà la caccia, è un capodoglio. A differenza delle balene e
delle balenottere, che preferiscono i mari freddi i capodogli frequentano
soprattutto; mari caldi e temperati ove abbondano i molluschi di cui si nutrono:
anche per questo la caccia al capodoglio ha assunto, nel Settecento e
nell'Ottocento, i caratteri di una caccia specializzata, distinta da quella alla
balena.
LA CACCIA ALLA BALENA
I disagi e i pericoli della caccia alla
balena sono sempre stati largamente compensati dal valore della preda. I
principali prodotti che si possono ottenere dalle balene franche e dalle
balenottere sono l'olio e i fanoni. L'olio era usato in passato soprattutto per
l'illuminazione; oggi viene impiegato principalmente nella fabbricazione del
sapone. I fanoni servono a fare stecche elastiche adatte a vari usi (ombrelli,
busti, ecc.). Per capire il valore di una balena basterà dire che dal
grasso di un solo esemplare si possono ricavare fino a trentamila litri di
olio.
I capodogli costituiscono una preda ancora più ricca. La
qualità del loro olio è nettamente migliore, e due prodotti, lo
spermaceti o bianco di balena e l'ambra grigia, sono forniti esclusivamente da
questi animali. Lo spermaceti è un grasso liquido contenuto in grandi
cavità della testa: un capodoglio può fornirne da 1 a 5
tonnellate. Un tempo era ricercatissimo per la fabbricazione di candele di lusso
ed oggi è impiegato principalmente nella fabbricazione di cosmetici e di
pomate. Preziosa è l'ambra grigia, una sostanza solida che si trova negli
intestini, tra gli escrementi e che sembra provenga dai resti dei molluschi
(polipi e seppie) di cui il capodoglio si nutre. L'ambra grigia ha la
proprietà di rendere persistenti gli odori ai quali viene mescolata,
sicché è largamente utilizzata nell'industria dei profumi. Ancora
oggi è una sostanza piuttosto rara, ma in certi periodi, nel passato, il
suo valore ha eguagliato o addirittura superato quello dell'oro.
In Europa
la caccia alla balena non pare che sia iniziata prima di sei o sette secoli fa.
In precedenza si utilizzavano soltanto i corpi di quegli animali che casualmente
venivano ad arenarsi sulla spiaggia. I primi a fare della caccia alla balena
un'attività organizzata furono i Baschi, un interessante popolo del
Sud-Ovest della Francia con una lingua ed una cultura completamente diverse da
quelle delle popolazioni vicine. All'inizio, nel golfo di Biscaglia erano
frequenti le balene franche (dette anche basche); con il passare del tempo fu
necessario spingersi più a Nord, verso la Groenlandia e il Mar Glaciale
Artico. Qui i Baschi incontrarono dei concorrenti: Olandesi e Inglesi avevano
imparato le tecniche della caccia e dalla fine del Cinquecento in poi si
sviluppò una feroce gara di supremazia tra le nazioni interessate.
Così, ai rischi propri della caccia si aggiunsero quelli della
rivalità reciproca: per alcuni decenni si succedettero senza interruzioni
scontri armati, atti di pirateria, vere e proprie imprese di guerra. Alla fine
gli Olandesi riuscirono a prevalere: verso il 1680 le duecento navi baleniere
dell'Olanda, che rappresentavano i due terzi di tutti i battelli europei
impegnati nella caccia alla balena, catturavano circa mille bestie ogni
anno.
Nel Settecento altri popoli si misero in gara: Tedeschi, Svedesi,
Russi. Ma i più intraprendenti tra i nuovi arrivati furono gli Americani
del Nord, in particolare i coloni della Nuova Inghilterra. Al largo della Nuova
Inghilterra, a quel tempo, le balene abbondavano e spesso i loro corpi venivano
gettati dal mare sulle coste. Non era dunque difficile che sorgessero in quelle
zone centri attrezzati per la caccia alla balena; tra tutti si affermò
Nantucket, una piccola città di pescatori situata in un'isola sabbiosa ad
oriente di Boston, dove non nasceva un filo d'erba, ma dove, - come scrisse
Melville - «l'uomo arava con le navi il mare come fosse un campo». La
flotta baleniera della Nuova Inghilterra crebbe rapidamente sino a contare, nel
1775, 350 bastimenti per lo più specializzati nella caccia al capodoglio.
Nel 1846 le navi baleniere erano salite a 780.
Proprio intorno alla
metà dell'Ottocento tuttavia si aprì in America come in Europa un
lungo periodo di crisi nella caccia alla balena. Da un lato le stragi di cetacei
fatte nei secoli precedenti avevano reso più rare e difficili le prede;
dall'altro l'uso del petrolio e del gas nell'illuminazione aveva provocato un
sensibile ribasso dei prezzi dell'olio di balena. Per recuperare i profitti di
un tempo bisogna attendere l'introduzione di alcune importanti innovazioni
tecniche, come il cannone sparafiocine, che diminuirono e poi cancellarono del
tutto i tradizionali rischi della caccia. Con quelle innovazioni però
finì l'epoca eroica dei cacciatori di balene.
Con il cannone
sparafiocine la pesca alla balena diventò meno pericolosa e meno
faticosa. Era però ancora incerta perché non sempre si era sicuri
di incontrare e uccidere una balena. L'introduzione del radar e l'uso di aerei
di ricognizione agevolano ai nostri giorni la ricerca. Ora si fanno vere e
proprie spedizioni con una grossa nave officina su cui si trovano gli impianti
per la lavorazione delle materie fornite dalla balena e vicino alla quale
navigano le baleniere da caccia.
All'arpione esplosivo è stato
sostituito quello elettrico collegato con una fonte di elettricità;
appena questo penetra nel corpo dell'animale, scarica una corrente ad alta
tensione che lo fulmina. Si evita così la penosa e crudele agonia. Le
navi da caccia rimorchiano fino alle navi officina le balene uccise, legate con
un cavo per la coda e gonfiate d'aria perché il corpo non affondi. Uno
speciale piano inclinato permette di issare a bordo il mastodontico
animale.
Oggi le balene sono in via di estinzione. Prima si sono impoveriti
i mari del Nord e quindi tutti i cacciatori si sono rivolti ai mari antartici.
Anche qui ci fu un grande massacro di balene tanto che ad un certo punto gli
scienziati di tutti i paesi manifestarono la loro preoccupazione.
Dopo
lunghe discussioni e polemiche fu stabilito (Washington 1946) che la caccia
può essere praticata solo dal 15 dicembre al 1 aprile e soltanto in certi
mari stabiliti e che gli animali giovani, le balene gravide e i soggetti
più piccoli di una certa misura non possono essere cacciati. Ogni balena
catturata viene misurata da un ispettore che si trova a bordo della nave
officina. Se è inferiore alla misura c'è una grossa multa. Inoltre
è stabilito il numero massimo di animali che si possono cacciare ogni
anno per ciascuna specie. La Commissione baleniera internazionale (IWC) dal 1946
stabilisce la quota annuale di balene cacciabili e cerca di monitorare
costantemente l'uccisione dei grossi cetacei. Le specie protette
dall'IWC sono cinque: la balenottera azzurra, di cui rimangono solo un
migliaio di esemplari, la balena glaciale, la balena boreale, la balena australe
e la balenottera comune.
Ma il lavoro della Commissione è
continuamente ostacolato da quanti hanno interesse a continuare una caccia senza
limitazione alcuna, come il Giappone, la Norvegia e
l'Islanda.
Sfruttando la scappatoia giuridica della finalità
scientifica, per esempio, il Giappone continua a catturare ogni anno oltre 500
esemplari in più di quanti previsti dalla legge.
Una delle
motivazioni di fondo della carneficina giapponese risiede nel fatto che la carne
di balena è una prelibatezza per i palati nipponici e con essa vengono
preparati alcuni dei piatti più ricercati presentati dai costosi
ristoranti di Tokyo. La moratoria faticosamente rinnovata nel luglio 2000 a
Londra dalle nazioni aderenti all'IWC, che prevede la messa al bando
dell'uccisione dei cetacei per scopi commerciali, non sembra spaventare
troppo i cacciatori giapponesi e islandesi che continuano imperterriti a
cacciare i più grandi mammiferi della Terra per ricavarne carne e
grasso.
Numerose organizzazioni ecologiste cercano di arginare questo
disastro ambientale, dai pacifici attivisti di Greenpeace, che si limitano a
fare azioni di disturbo nei confronti delle baleniere “pirata”, agli
estremisti di “Sea Shepherd Conservation Society”, che attaccano le
imbarcazioni dei cacciatori di frodo arrivando a speronarle.
Nel frattempo,
il numero degli esemplari è in continua diminuzione e il rischio
più immediato è che le poche grandi balene sopravvissute al
massacro dell'ultimo secolo non riescano a trovare,
nell'immensità dell'oceano, un compagno con cui accoppiarsi
per poter perpetuare la specie.
Il salto di una balena
ANTICHE TECNICHE GIAPPONESI DI CACCIA ALLA BALENA
Gli Europei non sono stati i soli a
cacciare le balene. Questo genere di caccia è molto antico, per esempio,
in Giappone. Un testo giapponese della metà del Settecento così
descrive le tecniche allora in uso:
«I cacciatori di balene
costruiscono piccole case sulle cime delle colline, da cui le vedette scrutano
il mare. Quando viene scorto il soffio di vapore lanciato da una balena, si
dà l'allarme e le barche prendono il mare armate di arpioni. Le punte
degli arpioni hanno un lato più grande dell'altro. L'arpione è
lanciato in aria in modo che ricada verticalmente sul corpo della balena. Quando
è colpita, la balena sembra sorpresa e i suoi movimenti pieni
d'inquietudine fanno affondare sempre più profondamente l'arpione nella
carne. Di solito le barche sono sedici e ciascuna ha quattordici uomini. Il
fiociniere è a prua; un uomo a poppa manovra il remo di direzione; gli
altri dodici sono ai remi, sei per parte. Se l'arpione penetra bene, si issa una
specie di bandiera sulla barca capitana. La balena ferita nuota ancora per due o
tre chilometri, ma alla fine si stanca e torna a morire nel luogo stesso in cui
è stata colpita. Allora la si prende a traino per mezzo di una grossa
corda e con l'aiuto di un verricello collocato sulla spiaggia si tira in terra.
Qui la balena viene fatta a pezzi per ricavarne l'olio; anche la pelle
può essere venduta e i fanoni servono a diversi usi. Quando si cattura
una balena, ce n'è abbastanza per far felici i pescatori di sette
villaggi».
Pare che i giapponesi conoscessero anche un modo di
catturare le balene per mezzo di reti.
MELVILLE E MOBY DICK
Herman Melville (1819-1891), uno dei
più grandi scrittori nord-americani dell'Ottocento, prima di iniziare a
scrivere fu impiegato di banca, agricoltore, maestro di scuola. Ma le sue
esperienze più significative, dal ricordo delle quali dovevano nascere le
sue opere migliori, furono quelle di uomo di mare. Nel 1837 infatti, a diciotto
anni, era imbarcato come semplice mozzo su una nave diretta in Inghilterra. Dopo
un breve intervallo a terra, nel 1841 riprese la via del mare, a bordo, questa
volta, di una baleniera. Dieci anni più tardi Melville pubblicava il suo
capolavoro, Moby Dick, dedicato appunto al mondo dei cacciatori di
balene.
Da quest'opera è tratto il brano che qui pubblichiamo. I
personaggi che in esso compaiono sono: il capitano Achab, comandante della
baleniera Pequod di Nantucket; Stubb, secondo ufficiale e capo di una delle tre
lance da caccia del Poquod; Tashtego, un pellerossa, ramponiere della lancia di
Stubb.
«STUBB UCCIDE UNA BALENA»
Poco distante da noi,
a quaranta tese a sottovento, un capodoglio gigantesco andava rollando
nell'acqua come lo scafo capovolto di una fregata, col grande dorso lucido di un
bel colore scuro che scintillava come uno specchio ai raggi del sole. E mentre
fluttuava pigra nel mare, e di tanto in tanto sfiatava tranquilla il suo
zampillo di vapori, la balena somigliava a un solenne borghese che si fa una
pipata in un pomeriggio caldo.
Quella pipata, povera balena, fu l'ultima.
Come toccati dalla bacchetta di un mago, la nave sonnolenta e tutti quelli che
vi dormivano si svegliarono di soprassalto; da ogni parte più di una
ventina di voci lanciarono il grido ben noto, nell'attimo stesso in cui
giungevano dall'alto le urla delle vedette, mentre lento e regolare il gran
pesce sfiatava nell'aria il suo spruzzo di sale scintillante.
«Sciogli
le lance! Forza» gridò Achab. E obbedendo al suo stesso ordine,
sbatte la barra sottovento prima che il timoniere potesse mettere mano alle
caviglie.
Il grido improvviso dell'equipaggio doveva avere allarmato la
balena e, prima che le lance toccassero il pelo dell'acqua, con una svolta
maestosa essa nuotò via a sottovento, ma con tale tranquilla sicurezza e
increspando l'acqua così poco nel nuotare, che Achab pensò che
dopotutto la balena poteva non essersi accorta di niente e ordinò di non
usare i remi e di parlare solo sottovoce. Così, seduti sui bordi delle
lance come Indiani dell'Ontario, avanzammo a forza di pagaie, visto che la
bonaccia non ci permetteva di usare le vele silenziose. Ad un tratto, mentre
scivolavamo all'inseguimento, il mostro sventagliò verticalmente la coda
nell'aria, e andò giù come una torre
inghiottita.
«Laggiù, cosa!» si gridò, e subito
Stubb tirò fuori un fiammifero e si accese la pipa, perché ora
c'era un momento di riposo. Quando il tempo del tuffo fu passato, la balena
riemerse. Adesso era davanti alla barca di Stubb il fumatore e molto più
vicina ad essa che a tutte le altre barche: sicché Stubb contò
sull'onore della cattura. Era evidente, ormai, che la balena si era accorta
degli inseguitori. Non era più necessario procedere in silenzio. Gettammo
le pagaie e mettemmo rumorosamente in azione i remi. E continuando a tirare
dalla pipa, Stubb incitava con grida la sua ciurma all'assalto.
Nel pesce
si era prodotto, un gran mutamento. Cosciente del pericolo, correva «a
testa in fuori» e la testa emergeva obliqua dal pazzo rimescolio che
faceva.
«Forza, forza ragazzi! Senza fretta. Prendetevela con calma,
ma fate forza! Spingete come tuoni, mi spiego!» gridava Stubb sputacchiando
fumo. «Forza ora. Palata lunga e forte, Tashtego. Forza Tash, figlio mio,
forza bello, forza tutti! Ma freddi, freddi come tanti cocomeri, ecco! Calmi,
state calmi, solo spingete come la morte e come i diavoli dell'inferno! Fate
saltare i morti dalle fosse a testa in su, ragazzi! Nient'altro, forza!»
«Uhuu! Uahii!» strillava in risposta Tashtego, alzando al cielo
qualche suo antico grido di guerra mentre ogni rematore della lancia sforzata
sbalzava involontariamente in avanti col suo tremendo colpo di guida che
infieriva l'avido indiano.
Ai suoi urli selvaggi rispondevano urli
altrettanto selvaggi dalle altre lance. E così a forza di remi e di urli
le chiglie fendevano il mare.
Stubb, che era sempre in testa, continuava ad
incoraggiare i suoi uomini lanciando boccate di fumo. E quelli arrancavano, si
sforzavano come disperati; finché si udì il grido così
atteso: «In piedi, Tashtego! Daglielo!». E il rampone partì.
«Tutto indietro!». I rematori vogarono a ritroso mentre qualcosa
filò caldo e sibilante sui polsi di ciascuno. Era la magica lenza. Un
momento prima Stubb, svelto, le aveva dato due giri attorno al ceppo: e da
questo per il vorticare sempre più rapido, si levò un fumo azzurro
di canapa e si mescolò col fumo che usciva. dalla pipa. Prima di
raggiungere il ceppo e girarvi rapida attorno, la lenza passava a scorticapelle
tra le mani di Stubb, dalle quali nella confusione erano caduti i guanti di tela
imbottita che si usano in questi casi. Era come tenere per la lama la spada a
due tagli di un nemico, mentre quello si sforza intanto di strapparla alla
vostra presa.
«Bagna la lenza! Bagna la lenza!» gridò
Stubb al rematore seduto accanto al castello. L'uomo afferrò il berretto
e cominciò a riempirlo di acqua di mare. Si diedero altri giri alla
lenza, che cominciò a tenere. E ora la barca volava in mezzo all'acqua
ribollente, come un pescecane tutto pinne. Stubb e Tashtego si scambiarono i
posti, da prua a poppa: un'operazione da non riuscire a tenersi in piedi in
mezzo a tante scosse e tanta agitazione. Dalle vibrazioni della lenza che
scorreva lungo tutto il filo della lancia, e dal fatto che era divenuta
più tesa di una corda d'arpa, si sarebbe detto che il legno avesse due
chiglie: una che tagliava il mare e l'altra l'aria, mentre la barca sfrigolava
simultaneamente tagliando i due elementi contrari.
Così volavano,
ciascuno aggrappato al banco con tutta la sua forza per evitare di essere
scaraventato nella schiuma; e l'alta figura di Tashtego si piegava quasi in due
sul remo di governo, per abbassare il proprio centro di gravità. Parve
loro di attraversare interi Atlantici e Pacifici, finché la balena
rallentò un poco la fuga.
«Ricupera! Ricupera!»
gridò Stubb al prodiere, e volando la prua verso la balena, tutti
cominciarono a spingere verso di essa mentre ancora la barca ne veniva
rimorchiata. E appena le furono a fianco Stubb piantò fermo il ginocchio
di prua e cominciò a vibrare colpi su colpi alla bestiaccia in fuga. Ai
suoi comandi la lancia ora rinculava fuori portata delle orribili contorsioni
della balena ora si faceva sotto per colpire di nuovo.
Adesso fiotti rossi
grondavano dai fianchi dell'animale come ruscelli da un colle. Il suo corpo
tormentato non si voltava più nell'acqua ma nel sangue, che gorgogliava e
ribolliva per centinaia di metri nella scia. Il sole basso, che danzava su
questo stagno vermiglio nel mare, ne gettava i riflessi su ogni faccia e
ciascuno vedeva l'altro avvampato come un pellirossa. E nel frattempo getti di
fumo bianco uscivano nell'agonia dallo sfiatatoio della balena, e violenti
sbuffi di fumo dalla pipa dell'eccitato capobarca: ad ogni colpo Stubb
ricuperava per mezzo della lenza la sua lancia e la ricacciava nel corpo della
balena.
«Ala! Ala!» gridò ora al prodiere, mentre la
balena esausta diminuiva la furia. «Ala! Sotto!» e la barca si
affiancò al pesce. Sporgendosi tutto dalla prua, Stubb cominciò
allora ad agitare la lunga lancia aguzza nella carne della vittima, pian piano,
con cura, come se cercasse un orologio d'oro inghiottito dalla balena e temesse
di romperlo prima di riuscire ad agganciarlo.
Quell'orologio d'oro che
cercava era la vita profonda del pesce.
E improvvisamente la toccò:
perché scattando dal suo torpore in indescrivibili convulsioni, il mostro
si agitò terribilmente nel suo sangue si rotolò come un pazzo in
una schiuma torbida e ribollente e la barca fu di colpo pericolosamente
ricacciata all'indietro, e faticò molto a liberarsi, alla cieca, da quel
crepuscolo frenetico e ad uscire nell'aria calda del giorno.
E ora
indebolendosi le convulsioni, ancora una volta vedemmo la balena che si agitava
da fianco a fianco, dilatando e contraendo spasmodicamente lo sfiatatoio, col
respiro secco e crepitante dell'agonia. Alla fine fiotti di sangue rosso e
grumoso, come feccia purpurea di vino rosso, schizzarono nell'aria e ricadendo
sgocciolarono in mare lungo i suoi fianchi immobili. Il cuore le era
scoppiato.
«È morta, signor Stubb», disse
Daggoo.
«Sì. Tutte e due le pipe si sono spente» e
cavandosi dalla bocca la sua, Stubb sparse le ceneri fredde sull'acqua, e per un
momento stette a guardare pensieroso il gran cadavere che aveva
fatto.
L'UOMO AGRICOLTORE
Le comunità umane si potrebbero
classificare, per quanto riguarda i loro rapporti con l'ambiente naturale, in
base al tipo prevalente di economia che nel corso della loro storia ha permesso
il sostentamento alimentare.
Una delle più antiche e profonde
trasformazioni degli ambienti naturali è quella attuata dalle popolazioni
dedite all'agricoltura ed alla pastorizia. Da un punto ecologico un gruppo di
agricoltori può essere considerato come una comunità eterotrofa
dedita alla continua manipolazione del territorio in cui è insediato con
l'obiettivo di ottenere la più alta produzione possibile da quei
particolari ecosistemi che possono essere considerati i campi coltivati.
Sottoposto a questo trattamento, di generazione in generazione il territorio
viene così a configurarsi come «campagna» o per essere
più precisi, come «paesaggio agricolo», una specie di ambiente
naturale secondario, che necessita della continua presenza e del costante lavoro
dell'agricoltore per essere conservato.
Nella formazione di un paesaggio
agrario sono coinvolti moltissimi fattori oltre quelli ecologici. La presenza
dell'uomo è decisiva e quindi risultano molto importanti proprio quei
fattori legati alla sua cultura, alla sua società, al numero dei
componenti la comunità rurale, alle sue abitudini.
L'uomo, in quei
particolari ecosistemi che sono i campi coltivati, è il più
importante consumatore dell'energia primaria prodotta sotto il suo controllo
dalla vegetazione. Tale energia deve essere restituita in qualche maniera
all'ambiente che l'ha prodotta, pena lo squilibrio e la scomparsa
dell'ecosistema instaurato. L'agricoltore è quindi costretto, con il suo
lavoro e con particolari accorgimenti (tecniche agricole), a mantenere
costantemente le colture in uno stadio di superproduzione: può, per
esempio aumentare la fertilità del terreno concimandolo, falciando e
potando in maniera da mantenere sempre giovane e produttiva quella piccola
porzione della natura primaria che ha preso sotto il suo controllo.
Seguendo tali esigenze fondamentali, diversi
tipi di società rurali in diversi ambienti geografici hanno prodotto una
grandissima varietà di paesaggi agrari sovrapponendoli agli ecosistemi
primari e spesso sostituendoli completamente dall'avvento della Rivoluzione
Neolitica ai giorni nostri. È accaduto poi spesso nel corso della storia
che ad un tipo di paesaggio agrario predominante in una regione se ne siano
sovrapposti per diverse cause altri. Risulta così una classificazione
piuttosto complessa di questi particolari ambienti.
L'AGRICOLTURA IN EUROPA
In tutti i diversi tipi di paesaggio
agrario che si ritrovano nel Vecchio Continente si possono riscontrare alcuni
tratti fondamentali comuni che permettono di raggrupparli assieme nonostante le
notevoli diversità ambientali e geografiche che presenta l'Europa.
A
partire dai primi gruppi di agricoltori neolitici, giunti in Europa attorno al
IV millennio avanti Cristo, già si riscontrano aspetti fondamentali che
si sono in parte conservati sino ai giorni nostri. Nel caso dell'agricoltura
europea un tratto caratteristico è dato dalla cerealicoltura associata
all'allevamento del bestiame e accompagnata dalla coltura di piante tessili e di
qualche verdura.
La civiltà greco romana diffuse alberi da frutta di
origine orientale e la vite. Sino al XVIII secolo, in cui si ebbe un incremento
notevole della popolazione da nutrire, le tecniche agrarie rimasero ferme ai
sistemi di coltivazione che si erano perfezionati durante il Medioevo (sistema
della rotazione in tre campi, ad esempio). Tra il XVIII e il XIX secolo divenne
comune in tutta Europa la soppressione del riposo annuale dei campi coltivati a
cereali, grazie all'introduzione di specie come la patata e la barbabietola e al
perfezionamento delle pratiche artificiali. Nel secolo scorso l'agricoltura
europea poteva essere considerata una forma migliorata delle coltivazioni
antiche, che riusciva bene o male a nutrire una popolazione che aveva raggiunto
attorno al 1850 la più alta densità mai registrata.
Alla fine
del secolo scorso e con i primi anni del nuovo secolo si assiste ad una
trasformazione profonda sia dei sistemi di coltivazione sia soprattutto del
paesaggio agrario: le tradizionali culture diversificate erano sufficienti a
nutrire la piccola comunità rurale che dedicava tutto il suo lavoro alla
conduzione della terra, ma non erano più in grado di far fronte alla
crescente richiesta delle città in espansione sotto la spinta della
Rivoluzione Industriale. Così mentre cominciavano a diminuire rapidamente
coloro che si dedicavano al lavoro nei campi, l'agricoltore europeo si
specializzò nella produzione del vino, dell'olio, delle piante tessili,
dei fiori ecc. rispondendo di volta in volta alle richieste che provenivano
dalle città e cercando di adattare questa specializzazione alle
condizioni umane e naturali delle diverse regioni.
Oggi in Europa è
largamente diffusa la meccanizzazione del lavoro agricolo e, pur con le
differenze dovute alla specializzazione le tecniche fondamentali, i sistemi di
coltivazione si sono piuttosto uniformati. Tuttora molto variato è invece
l'aspetto del paesaggio vero e proprio: nel centro e Nord dell'Europa ritroviamo
un paesaggio di campi aperti (champagne in francese, openfield in inglese), nudi
non cintati, campi coltivati che si presentano enormemente lunghi rispetto alla
larghezza, con assenza o quasi di alberi; gli insediamenti della comunità
rurale sono raggruppati in grandi borghi.
Lungo le coste atlantiche sino alla Scandinavia e alla
Finlandia si ritrova il paesaggio agrario cosiddetto a campi chiusi (bocage o
enclos in francese, Heckenlandschaft in tedesco). Ciascuna proprietà in
questo tipo di paesaggio è rigorosamente delimitata, cintata da difese e
barriere, i campi hanno una forma quadrata e le abitazioni dei coltivatori
appaiono disperse, distribuite su tutto il territorio oppure raggruppate in
piccoli centri di poche famiglie. Sono spesso presenti resti di primitivi
ecosistemi forestali, che appaiono ritagliati e suddivisi. A questo paesaggio
rurale, che si spinge al massimo con le sue vette sino ai 400-600 m sul livello
del mare, segue la prateria adibita al pascolo comune, se la regione è
montana.
Il mondo agrario mediterraneo presenta il terzo grande tipo di
paesaggio in Europa. In realtà non si può parlare di un unico tipo
di paesaggio esteso su tutte le coste mediterranee; alle diversità
geografiche e storiche, che sono numerosissime, corrisponde una
«discontinuità» anche nel paesaggio agrario.
Nel mondo
mediterraneo un'agricoltura del tipo che si è sviluppato nel centro e
Nord dell'Europa non sarebbe possibile per i caratteri geografici stessi di
questa regione.
Ancor più generalmente le possibilità
agricole del mondo mediterraneo sono estremamente contrastate dalla forma del
territorio e dalla secchezza del clima. L'arboricoltura è diffusa (olivo,
vite, alberi da frutta) e, dove l'agricoltore è riuscito a organizzare un
qualche sistema di irrigazione, queste zone aride sono capaci d'una produzione
notevole.
La montagna e le brevi pianure contrastano drammaticamente:
l'agricoltore ha saputo con pazienza ritagliare le pendici delle colline in
terrazze conquistando terreno coltivo alla montagna altrimenti destinata al
pascolo di poveri greggi di ovini e di caprini. È una lunga storia con
fasi alterne: ora l'agricoltore saliva alla montagna ora il pastore
riconquistava lo spazio prima perduto. Queste vicende si possono leggere nel
paesaggio estremamente vario delle regioni mediterranee: campi piccoli e grandi
di forme irregolari e regolari, ora cintati da interminabili muretti di pietra,
ora aperti.
Forse l'aspetto più tipico della coltivazione di questa
regione europea così diversa e frammentata è data dal paesaggio
delle «ville» in Italia e delle huertas in Spagna. In esse la cultura
intensiva è praticata all'estremo limite (coltura promiscua) e pur
essendo un tipo di paesaggio agrario estremamente limitato nello spazio è
in grado di soddisfare i bisogni di una famiglia che può vivere
coltivando solo 30-40 are di terreno. Si utilizzano praticamente due piani di
uno stesso appezzamento: gli alberi sopra ed ai loro piedi gli ortaggi e le
colture erbacee.
I paesaggi agrari in Europa
L'AGRICOLTURA AI TROPICI
Le comunità agricole delle regioni
tropicali hanno dovuto affrontare un problema di base estremamente grave:
l'estrema fragilità del terreno agrario rispetto a quello della regione
europea. Nella fascia tropicale, dove sono insediati ecosistemi tra i più
produttivi della biosfera, la vita delle comunità agricole è
estremamente stentata proprio a causa delle condizioni del substrato. Le piogge,
se si hanno, sono sempre a carattere torrenziale e concentrate in una stagione
più o meno lunga.
Questo dilavamento e le alte temperature
impediscono la formazione di humus sfruttabile da un punto di vista agricolo.
D'altra parte dove prevale il clima arido secco la coltivazione è
possibile solo se esiste una qualche forma di irrigazione. Questa deve
però essere molto controllata.
Nonostante queste difficoltà
ambientali, le comunità umane sono riuscite nel corso dei secoli a
modificare parzialmente o a sostituire completamente gli ecosistemi originari
creando dei paesaggi agrari estremamente diversi.
L'agricoltura itinerante
ancora domina gran parte dell'Africa Nera.
Ad essa sono dovute importanti
modificazioni dell'ambiente forestale primario che ha dato origine a un tipo di
paesaggio agrario pochissimo differenziato: i territori in cui viene praticata
l'agricoltura itinerante sono poco organizzati dal lavoro delle popolazioni
locali che d'altra parte non formano vere e proprie comunità
rurali.
Poiché non si pratica alcuna forma di allevamento del
bestiame, gli agricoltori itineranti non sono in grado di reintegrare la
già bassa fertilità dei terreni che strappano alla foresta
tropicale. Dopo cicli assai brevi di sfruttamento (dopo circa due o tre anni al
massimo) sono costretti ad abbandonare il territorio dove, nei casi più
fortunati, si riforma la foresta tropicale diradata dai coltivatori. Negli
appezzamenti, molto irregolari perché ricavati col fuoco, si pratica la
coltivazione della manioca, una cultura che mantiene un aspetto semiforestale, o
del sorgo o del miglio quando la coltura è fatta ai margini della
savana.
È un tipo di agricoltura che richiede grandissimi spazi e
popolazioni agricole assai poco dense. Un villaggio di coltivatori itineranti
richiede una media di 300 ettari di terreno per sopravvivere. Di questi poi la
coltivazione vera e propria è ridotta a circa 25 ettari mentre sul resto
del territorio si pratica l'antichissima economia di raccolta.
Nell'Africa
Nera normalmente le società rurali ignorano l'allevamento del bestiame ma
quando, per ragioni storiche, taluni gruppi etnici vengono in contatto con
popolazioni pastorali, come ad esempio nell'Africa Orientale, si può
sviluppare una sorta di agricoltura sedentaria. Lo stesso accade nel Centro e
nel Sud America dove dopo l'introduzione di bovini da parte degli Spagnoli le
popolazioni che prima praticavano l'agricoltura itinerante sono divenute
sedentarie. Con il concime animale disponevano infatti di un potente mezzo per
reintegrare la fertilità degli appezzamenti coltivati. Prende forma
allora un vero e proprio paesaggio agrario minuziosamente organizzato, coi suoi
percorsi ed i suoi campi dai confini definiti. Viene sempre sfruttata
però una vasta zona, in maniera concentrica, con il sistema itinerante
(per raggio di 5-6 Km).
Molto importanti in questo tipo di paesaggio
divengono i pozzi per le irrigazioni. Spesso ciascun gruppo familiare coltiva
nei pressi delle abitazioni orti o giardini che concima con i rifiuti
giornalieri, perché i preziosi escrementi animali sono riservati ai campi
coltivati a miglio o ad altri grani che sono alla base dell'alimentazione. In
molte montagne africane, nel Camerum ad esempio e nel Madagascar, alcune
società rurali che praticano l'agricoltura sedentaria hanno organizzato
il loro territorio secondo un paesaggio che ricorda molto quello del bocage
europeo; esso si presenta come uno scacchiere abbastanza regolare di campi
cintati.
L'allevamento del bestiame e la coltivazione dei campi sono
condotti sullo stesso territorio in parti diverse e separate dai recinti.
Ciascun agricoltore è anche allevatore e non dipende dalla
collettività per la provenienza del letame come accade nel primo caso.
Inoltre le abitazioni dei coltivatori sono disperse su tutto il territorio,
mentre nel primo caso descritto si aveva un tipo di insediamento a villaggio
abbastanza concentrato. Sembra quasi ripetersi lo schema europeo dei campi
aperti e dei campi chiusi.
Nei paesi tropicali l'agricoltura irrigata
permette di nutrire una popolazione rurale estremamente densa. Mentre
nell'agricoltura sedentaria africana e sud-americana di tipo secco ha grande
importanza la concimazione, nell'agricoltura irrigata diffusa in tutto il Sud e
l'Est dell'Asia il ruolo principale è assunto dalla disponibilità
d'acqua. L'acqua è indispensabile per permettere la crescita di piante
acquatiche alimentari, come nella risicoltura, che avendo la caratteristica di
un ecosistema palustre è estremamente produttiva. Nelle regioni
più aride l'acqua serve per prolungare e accrescere il periodo vegetativo
delle colture evitando che l'avvento della stagione secca interrompa il ciclo
del normale sviluppo delle piante.
Questa differenza sostanziale nell'uso
dell'irrigazione crea due tipi di paesaggio agrario diversi. La civiltà
del riso ha creato il singolare, minuzioso paesaggio agrario sulle piane o le
zone con basse colline fratturando in due settori netti il territorio delle
regioni tra l'India e la Corea: le alture, montagne o colline dove si trovano
indisturbati gli ecosistemi forestali originari, disabitati e pochissimo
frequentati dall'uomo, e le pianure dove il paesaggio naturale è
scomparso per lasciare luogo alla piana risicola ed ai suoi complicati sistemi
di canalizzazione e di raccolta delle acque dovuti al lavoro incessante di una
popolazione rurale che è la più densa del mondo (da 600 a 1500
abitanti per chilometro quadrato).
Nel caso delle risaie asiatiche
l'unità di insediamento umano è il tipico villaggio accentrato,
circondato da una cortina d'alberi; ogni abitazione è provvista di un
giardino cintato dove sono coltivati agrumi (aranci, pompelmi). A parte questa
poca vegetazione la risaia è l'unico aspetto di questo paesaggio agrario;
mancano completamente pascoli o boschi e d'altronde il bestiame è usato
assai poco per il lavoro in risaia. Il valore alimentare di una coltura
così condotta è altissimo: un ettaro di risaia produce 7 milioni e
mezzo di calorie. Lo stesso territorio sfruttato a pascolo e trasformato in
latte non ne produrrebbe che mezzo milione.
Infine il paesaggio agrario
determinato dai sistemi di irrigazione nelle zone tropicali con meno di 500 mm
all'anno di pioggia è localizzato ai piedi di zone montagnose ed è
noto anche col nome di paesaggio dell'oasi. Lo si ritrova nelle regioni
asiatiche occidentali, più aride, ma si spinge anche nelle zone steppiche
e desertiche del Sahara africano. In realtà esistono vari tipi di
paesaggio d'oasi, ma questo insediamento rurale presenta una caratteristica
comune a tutti: una zona coltivata ristretta e la necessità di rendere
l'irrigazione (e quindi la disponibilità d'acqua) continua durante tutto
l'anno. La scarsità dello spazio coltivabile obbliga il coltivatore a
sovrapporre le colture, sfruttando in tal modo l'ombra prodotta da quelle di
tipo arboreo per coltivare ai loro piedi orzo, fagioli, cipolle e qualche altra
verdura poco esigente.
GLI EQUILIBRI AMBIENTALI
Alla conclusione del lungo processo
evolutivo dell'ominazione apparve sulla Terra un organismo che, a differenza di
tutti gli altri esseri viventi, fu sempre più in grado di adattare
l'ambiente circostante al proprio patrimonio genetico. L'uomo da quando
riuscì a creare le prime forme di cultura che gli permisero di accumulare
le esperienze e le scoperte tecnologiche e di trasmetterle alle generazioni
successive per mezzo dell'educazione, divenne il più numeroso tra i
mammiferi. Egli si diffuse su tutta la biosfera integrandosi ai diversi tipi di
ecosistemi, sfruttando ora l'una ora l'altra possibilità che l'ambiente
naturale offriva.
L'umanità che viveva di raccolta e di caccia non
possedeva strumenti capaci di alterare gli equilibri dei grandi cicli biologici,
geologici e chimici che collegano tutte le parti di un ecosistema. Le
comunità umane agivano all'interno di ciascun ecosistema in cui erano
insediate (bosco, prateria, palude, lago, ecc.) con gli stessi meccanismi propri
delle altre comunità eterotrofe. Poi, già durante la preistoria,
gli uomini hanno rapidamente imparato a spostare a loro favore i flussi di
energie e di scambi che si operano negli ecosistemi. Il taglio delle piante,
l'incendio (cioè l'uso controllato del fattore ambientale fuoco), il
pascolo delle greggi cioè il controllo e la selezione su determinate
specie di consumatori primari (il che ha importanti riflessi anche sui vegetali
dell'ecosistema), i vari tipi di agricoltura, la pesca, la caccia hanno
certamente modificato nel passato l'ambiente naturale primitivo.
Fino a
quando l'uomo è intervenuto sui diversi ecosistemi solo con lo scopo di
soddisfare i bisogni del proprio gruppo, poco numeroso, che viveva in diretto
contatto con la natura, l'equilibrio generale dell'ambiente era rispettato. A
volte insufficienze tecniche hanno provocato squilibri ambientali irreversibili
come la cattiva irrigazione dell'antica Arabia Felice, trasformata in un
ambiente steppico e desertico. Ma è soprattutto negli ultimi secoli che
le società umane sono diventate pericolose predatrici della natura e
l'importanza dell'uomo come fattore ambientale ha superato quella dei fattori
geografici. Così, ad esempio le popolazioni dei Paesi Bassi sono riuscite
nel corso della loro storia medioevale ma soprattutto moderna a coltivare aree
occupate in un primo tempo da ecosistemi marini; la coltivazione in serre
permette di ottenere oggi su scala industriale prodotti orticoli al di fuori
delle influenze stagionali.
A questo punto è avvenuta la frattura
tra le società umane con tecnologia avanzata e la natura. Nella storia
naturale del Vecchio Continente questa crisi biologica ha il suo inizio tra il
XV ed il XVI secolo. La popolazione delle città rinascimentali europee,
aumentata di numero, ma soprattutto concentrata in maniera innaturale rispetto
alle fonti di sostentamento, si è gettata all'assalto delle riserve
naturali in gran parte ancora intatte. Grazie ai mezzi tecnici a disposizione,
alla diversa mentalità di queste popolazioni urbane e mercantili si
passò dalla modificazione lenta, graduale, rispettosa delle fondamentali
leggi ecologiche, alla conquista rapida, brutale, di rapina dello spazio
naturale.
Questo processo distruttivo ha raggiunto il culmine con l'avvento
della Rivoluzione Industriale. Si è calcolato, ad esempio, che da duemila
anni a questa parte si sono estinte sul nostro pianeta cento specie di uccelli e
oltre cento specie di mammiferi. Di tutte queste ben il 70 per cento sono
scomparse nel secolo scorso a causa delle attività
umane.
ANIMALI CHE SCOMPAIONO
La caccia rappresenta una forma di
sterminio diretto che avviene soprattutto per il desiderio di guadagno e la
passione di uccidere. Gli animali vengono cacciati e spesso uccisi per la carne
come nel caso del bisonte, della foca, della colomba migratrice; per le uova,
come nel caso dell'albatros e delle procellarie, dello storione dal quale si
ricava il caviale; per la pelle, le pellicce, le penne e le piume come nel caso
della lontra, della foca, dello struzzo. Altri animali vengono uccisi per
ricavarne souvenir, cioè oggetti ricordo: in Africa si vendono lampade,
stuzzicadenti soprammobili e manici d'ombrello d'avorio, cestini per la carta
ottenuti dalle zampe di elefanti, scacciamosche fatti di code di gnu,
portachiavi con piccoli corni dei dik-dik, ecc.
Il desiderio di avere un
trofeo di caccia e la passione di uccidere hanno ridotto a pochi esemplari
specie un tempo numerose. Il leone indiano o asiatico ad esempio è stato
quasi completamente distrutto dai colonizzatori inglesi che volevano portare in
patria almeno una sua pelle; oggi il leone indiano è ridotto a pochi
esemplari. In altri casi intere specie sono state distrutte perché l'uomo
le riteneva pericolose per gli animali domestici e d'allevamento o perché
pensava che trasmettessero malattie.
Si ha sterminio indiretto quando una
specie animale scompare perché l'uomo ha prodotto delle variazioni
nell'ambiente naturale. Ciò è tanto più dannoso in quanto
difficilmente questi mutamenti possono essere controllati o annullati. Il danno
viene subito da tutti gli esseri viventi in quel territorio e quindi anche
dall'uomo.
La distribuzione della vegetazione spontanea, la diffusione di
sostanze antiparassitarie e di insetticidi, il prosciugamento delle paludi,
l'inquinamento delle acque e dell'atmosfera, la deviazione di corsi d'acqua e la
costruzione di dighe e sbarramenti, l'irradiazione radioattiva sono tutte cause
della distruzione, già avvenuta o attualmente in corso, di numerose
specie di animali. Gli animali, infatti, subiscono i danni provocati
all'ecosistema in cui vivono, e spesso la modificazione del suolo o dell'acqua o
delle piante o di qualsiasi altra parte dell'ecosistema porta anche alla
distruzione di un intero ambiente animale.
Di solito si proteggono le specie che si stanno estinguendo
istituendo zone di ripopolamento e predisponendo forme di aiuto come depositi di
cibo, sorgenti d'acqua, tane per la prole, nidi artificiali, boschetti,
ecc.
Ma il problema è di proteggere non tanto le singole specie
quanto gli interi ecosistemi.
Occorre soprattutto impedire che le
attività umane possano distruggere o apportare modifiche irreversibili
agli ambienti naturali.
Tra le specie in via di estinzione nel mondo
ricordiamo: gli elefanti africano e indiano, i rinoceronti bianco, nero, di
Sumatra, di Giava e indiano; alcune specie di tartarughe; l'orangotango;
il gorilla; il panda gigante; lo scimpanzé; l'orso bruno; la tigre;
la balena;l'aquila di mare.
L'UOMO E L'AMBIENTE
Oggi l'uomo ha raggiunto uno stadio di
controllo tecnico dell'ambiente naturale elevatissimo. È il padrone
assoluto con diritto di vita e di morte su gli altri viventi del pianeta; questo
suo potere spesso non è usato in maniera razionale e raramente è
bilanciato da un'adeguata politica di difesa della natura.
La
rapidità dell'evoluzione tecnologica ha diffuso un'idea completamente
errata della natura. Si crede che l'umanità sia finalmente libera dagli
antichissimi legami che aveva con il mondo vivente che l'ha circondata sin dalla
sua apparizione sul nostro pianeta e si dimentica che le comunità umane
continuano a dipendere, come un milione di anni fa, dalla produzione primaria
degli ecosistemi e cioè dalla fotosintesi clorofilliana.
Un
ecosistema è il risultato di un insieme dinamico di infiniti equilibri;
l'uomo a poco a poco ha imparato a conoscerli, ma non sempre li sfrutta
rispettandoli. Spesso la civiltà tecnologica sembra aver acutizzato i
processi di rapina e di distruzione dell'ambiente naturale. Questa distruzione
non è più diretta, come ai tempi delle grandi colonizzazioni,
quando si modificavano interi ecosistemi per sottrarre materie prime pregiate o
si impiantavano colture senza tener conto degli equilibri tra le diverse specie;
ancora oggi tuttavia si compiono gravi alterazioni sullo spazio naturale.
Produzione di sostanze pericolose e inquinanti, speculazione edilizia,
distruzione dolosa di boschi, creazione di quantità enormi di rifiuti che
non si riescono o non si possono distruggere mettono in continuo pericolo la
sopravvivenza delle specie e gli equilibri degli ecosistemi. Al massimo della
sua potenza tecnologica l'umanità commette gravissimi errori proprio di
ordine tecnico: fatti come l'inquinamento degli ambienti naturali sono
tollerati, spesso giustificati dall'interesse immediato e dal profitto.
Dal
punto di vista legale, si è cercato, sia in ambito nazionale sia
internazionale, di controllare e migliorare la situazione ambientale, con
delibere e provvedimenti amministrativi e giuridici mirati. A livello
internazionale, nel 1997, il cosiddetto Protocollo di Kyoto sull'ambiente
– e in particolare sui danni provocati dal cosiddetto “effetto
serra'' – ha stabilito una serie di limitazioni e di direttive
da tradurre, a livello nazionale, in misure attuative, ma ha trovato la
volontà contraria di Paesi quali gli Stati Uniti che, nel 2001, si sono
rifiutati di ratificarlo, rendendo difficile il percorso della difesa
ambientale.
Cause e conseguenze del progressivo intensificarsi dell'effetto serra
Il buco dell'ozono
Il surriscaldamento della Terra
IL PROTOCOLLO DI KYOTO
Il Protocollo di Kyoto è un
documento redatto e approvato nel corso della Convenzione Quadro sui Cambiamenti
climatici tenutasi in Giappone nel 1997. Nel Protocollo sono indicati per tutti
i Paesi gli impegni di riduzione e di limitazione quantificata delle emissioni
di gas serra (anidride carbonica, gas metano, protossido di azoto, esafloruro di
zolfo, idrofluorocarburi e perfluorocarburi). Con più precisione le Parti
dovranno, individualmente o congiuntamente, assicurare che le emissioni globali
siano ridotte di almeno il 5% rispetto ai livelli del 1990 nel periodo di
adempimento 2008-2012. Per il raggiungimento di questi obiettivi, i Paesi
possono servirsi di diversi strumenti che intervengono sui livelli di emissioni
di gas a livello locale-nazionale oppure transnazionale. Il Protocollo di Kyoto
entrerà in vigore solo nel momento in cui "verrà ratificato,
accettato, approvato o che vi abbiano aderito non meno di 55 Parti responsabili
per almeno il 55% delle emissioni di biossido di carbonio (emissioni
quantificate in base ai dati relativi al 1990)."
AVVELENAMENTO DA DDT
Un esempio che si presenta molto bene a
dimostrare come l'uomo sia in grado di turbare indirettamente un equilibrio
biologico è rappresentato dall'uso indiscriminato degli insetticidi
sintetici durante gli ultimi quarant'anni. I danni delle prime irrorazioni di
DDT non apparvero immediatamente; anzi gli effetti dell'insetticida furono
accolti con soddisfazione: gli animali nocivi venivano uccisi e con essi pochi
altri. Gli effetti terribili furono quelli ritardati: l'insetticida, anche se
sparso a dosi misurate, giudicate non nocive per le forme di vita superiori,
provocava una rottura gravissima degli equilibri biologici in un tempo
successivo, anche ad anni di distanza perché nei vari paesaggi si
concentrava in dosi pericolose. Accadeva cioè che la dose inizialmente
non pericolosa per gli animali superiori finiva per diventare mortale man mano
che l'animale mangiava cibi contenenti DDT che non potendo essere eliminato si
accumulava negli organi. La concentrazione progressiva delle sostanze pericolose
lungo le catene alimentari degli ecosistemi è stata messa in evidenza
anche per gli inquinamenti provenienti dall'impiego pacifico o meno dell'energia
nucleare. Nonostante le minime dosi in cui tali sostanze sono disperse nelle
acque e sul terreno, i viventi ne incorporano concentrazioni 20.000-30.000 volte
superiori a quelle presenti negli ambienti esterni. Quando accadde l'incidente
alla centrale atomica di Cernobyl in Ucraina nell'aprile del 1986, le particelle
radioattive, trasportate dai venti ricaddero soprattutto per opera della pioggia
su molti paesi dell'Europa tra cui l'Italia. Per qualche mese la popolazione
visse sotto l'incubo della radioattività: il consumo di latte venne
vietato ai bambini, fu proibita la vendita di verdura fresca a foglia larga, la
popolazione fu invitata a lavare accuratamente i vegetali commestibili. Fu
riscontrata un'elevata radioattività negli organismi di animali erbivori
domestici e selvatici tanto che in molti casi fu necessario procedere alla loro
eliminazione come per interi branchi di renne in Finlandia.
UN CASO ESEMPLARE
Nel 1949 si provvide alla disinfestazione
delle larve di zanzara nell'ecosistema lacustre californiano di Clear Lake
cospargendo del DDT in misura di una parte su 70 milioni, quindi estremamente
diluito.
Passando dal mezzo liquido al plancton che lo assume con il
nutrimento, l'insetticida si concentrò nelle dosi di 5 parti per milione:
una concentrazione già molto elevata ma non ancora pericolosa per gli
animali.
Nei successivi anelli della catena trofica il DDT si
concentrò sempre più: nei pesci vegetariani si concentrò
sino a 40-1000 parti su un milione; nei pesci carnivori che predavano queste
popolazioni già avvelenate si concentrò ulteriormente sino a 2500
parti su di un milione. Gli anatidi (anatre e altri uccelli) carnivori che
predavano questa popolazione subirono così una elevatissima
mortalità per avvelenamento da DDT.
L'INQUINAMENTO DELLE ACQUE
Il termine inquinamento di per sé
è piuttosto vago, indica genericamente l'introduzione nell'ambiente da
parte dell'uomo di sostanze potenzialmente dannose (generalmente rifiuti).
Queste possono essere suddivise in due tipi fondamentali: quelle che portano un
aumento del volume e della concentrazione di sostanze già esistenti negli
ecosistemi naturali e quelle costituite da veleni e da sostanze sintetiche che
normalmente non sono presenti in natura.
Nel primo caso sono preesistenti
nell'ambiente organismi e comunità già adatte che possono
utilizzare e decomporre il materiale immesso. Così le acque delle
fognature che contengono materiali organici, cioè rifiuti biodegradabili
(trasformabili ad opera di microorganismi), non costituiscono un grave problema
sino a che gli ecosistemi che le ricevono (laghi, fiumi stagni) non ne sono
sovraccarichi.
Nel caso di veleni invece, come insetticidi, erbicidi ed
altre sostanze chimiche derivate dall'industria può capitare che non
esistano organismi capaci di utilizzarli o di degradarli; così queste
sostanze si accumulano e si concentrano contaminando l'ambiente naturale in
maniera irreversibile.
Le acque correnti in natura contengono generalmente
in soluzione materiali inquinanti organici ed inorganici, che però tranne
in rari casi sono presenti in deboli concentrazioni e quindi non costituiscono
un pericolo. Accade però che industrie e città riversino le loro
acque inquinate nei corsi d'acqua, cosicché la concentrazione delle
sostanze disciolte aumenta considerevolmente. I danni derivanti da ciò
sono notevoli e spesso portano alla rottura delle catene trofiche degli
ecosistemi acquatici, con conseguente scomparsa della flora e della fauna
naturale.
L'inquinamento prodotto da sostanze organiche non tossiche, come
gli scarichi domestici, è il meno grave, poiché è soggetto
ad autoepurazione. Questo processo viene attuato in due fasi: una anaerobica, ed
una aerobica. La prima avviene al di fuori della presenza della luce e
dell'ossigeno atmosferico ad opera di batteri, funghi ed alghe microscopiche.
Questi organismi se si trovano in un giusto rapporto con la massa dei liquami
provenienti dalle fogne, portano alla formazione oltre che di anidride
carbonica, di metano, idrogeno solforato ed ammoniaca che sono prodotti gassosi
nocivi. Su questi avviene la fermentazione aerobica ad opera di batteri
ossidanti che convertono tutte le sostanze precedenti in anidride carbonica,
ossigeno e nitrati, sostanze utili agli ecosistemi. Se questo ciclo di
autoepurazione non ha avuto modo di effettuarsi completamente perché i
rifiuti erano troppo concentrati nell'acqua, o perché le comunità
batteriche erano scarse o avvelenate, anche gli scarichi domestici diventano
nocivi agli ecosistemi in quanto ricchi di quelle sostanze tossiche prodotte
nella prima fase della fermentazione.
Molto più gravi ed
irreversibili sono i danni provocati da sostanze di per sé tossiche per
gli organismi viventi, come acidi e basi forti scaricati dalle industrie
metallurgiche che provocano variazioni sensibili del fosforo degli ecosistemi
acquatici. Altre volte i veleni sono costituiti da sali come il cloruro di
calcio presente nelle acque di scarico delle cartiere o dai sali di cromo
scaricati dalle industrie di pellami. Talora i danni sono provocati da scarichi
e rifiuti delle industrie; questi anche se non contengono sostanze tossiche,
come accade per esempio con i residui di fibre sintetiche che non sono velenose
per gli organismi viventi, non essendo biodegradabili si accumulano sul fondo e
impediscono lo sviluppo della fauna saprofita o intorbidano le acque. Il
passaggio della luce viene limitato e conseguentemente si arresta la fotosintesi
delle piante acquatiche. Poiché non esistono organismi capaci di
aggredire e demolire queste sostanze, è evidente che l'inquinamento delle
acque tende ad aumentare col tempo.
Un'alterazione simile si verifica negli
ecosistemi acquatici che ricevano acque di scarico perfettamente depurate, ma ad
alte temperature. Si parla in questo caso di inquinamento termico; un aumento di
soli 10° C della temperatura delle acque provoca un raddoppiamento della
velocità dei processi metabolici con un grave dispendio di energie e
affaticamento (stress energetico) per le popolazioni acquatiche.
Tra i casi
più eclatanti di avvelenamento delle acque ricordiamo quello relativo ai
fiumi Tisza e Szamos, affluenti del Danubio, nei quali, nel febbraio 2000, si
riversarono massicce quantità di cianuro proveniente da una miniera
aurifera di Oradea, in Romania.
Un corso d'acqua inquinato dalla schiuma dei detersivi
LO SMOG
Le modificazioni più o meno profonde
che le attività umane causano nella composizione dell'atmosfera sono
spesso indicate con il nome complessivo di smog, termine che proviene dalla
fusione di due parole inglesi smoke = «fumo» e fog =
«nebbia». È quell'aspetto particolare che assume l'inquinamento
atmosferico nelle città industriali delle zone con clima freddo, dove
appunto il fumo delle attività industriali si mescola con la
nebbia.
Lo scarico incontrollato di sostanze gassose o liquide finemente
polverizzate (gli aerosoli) e le polveri solide, producono una vera e propria
cappa di atmosfera velenosa per molte specie e assai pericolosa anche per
l'uomo. Nell'ottobre del 1948 nei pressi di Pittsburgh negli Usa, una densa nube
di smog sostò per qualche tempo sulle abitazioni. Le conseguenze di
questo ristagno di atmosfera furono disastrose: quasi la metà dei 12.000
abitanti ebbe disturbi più o meno gravi al cuore e all'apparato
respiratorio. A Londra, nel 1952, una nube velenosa uccise in una settimana
quasi 4000 persone. Questi terribili episodi sono stati i primi campanelli
d'allarme circa il deterioramento prodotto sulla nostra specie dall'aria che si
respira nelle città industriali.
Mille automobili immettono
quotidianamente nell'aria che respiriamo una media di 3,2 t del pericolosissimo
ossido di carbonio, mentre il limite tollerabile per la sicurezza della nostra
specie è di sole cinquanta parti su un milione. Questo scarico è
continuamente diluito dallo spostamento delle masse d'aria, ma è sempre
presente il rischio che si formi, per motivi meteorologici, una cappa al di
sopra di località ristrette e mal ventilate dove il gas intrappolato
può concentrarsi e produrre anche la morte per soffocamento. L'ossido di
carbonio si combina in maniera molto più rapida dell'ossigeno con
l'emoglobina dei globuli rossi del sangue e forma con essa un legame stabile
sottraendola per sempre alla sua funzione di trasportare l'ossigeno
dall'ambiente esterno ai vari tessuti. Le prime ad essere colpite sono in questo
caso le cellule del sistema nervoso che per assenza di ossigeno muoiono in
brevissimo tempo.
Auto alimentate ad idrogenoOltre ai danni diretti che i gas tossici determinano
nelle popolazioni animali e vegetali, c'è anche da considerare il
cosiddetto "effetto serra". Con questa espressione si indica il fenomeno per cui
l'atmosfera carica di pulviscolo si comporta come il vetro di una serra non
permettendo al calore rifratto della superficie terrestre di disperdersi. Ne
risulta un aumento costante della temperatura che potrebbe causare gravi
conseguenze, favorendo ad esempio lo scioglimento dei ghiacci polari. Variazioni
anche modeste di temperatura hanno in passato prodotto forti modificazioni degli
ambienti naturali.
Il continuo aumento della popolazione mondiale, il
progressivo deterioramento degli ambienti primari provocato dall'intenso
sfruttamento, il cattivo uso delle terre coltivabili e la loro ripartizione
sperequata, l'ignoranza ed il disinteresse per la conservazione delle residue
risorse naturali rendono questo problema attuale e non facilmente risolvibile.
In particolare occorre tener presente che l'inquinamento dell'aria è solo
uno degli aspetti del più vasto problema dell'inquinamento. Questo non si
affronta né si può risolvere con misure che mirano al salvataggio
di una determinata specie o di un limitato ambiente. Occorre ripensare al modo
con cui negli ultimi decenni si è organizzato il mondo industriale.
È finito il tempo di soccorrere la natura solo perché è
bella o è fonte di svago. Inutile preoccuparsi per la conservazione delle
singole specie perché ormai rare o economicamente importanti; inutile ed
estremamente rischioso perché una politica di questo tipo conduce a
squilibri biologici, favorendo innaturalmente una specie rispetto alle altre
presenti nel particolare ambiente naturale. Rischioso risulta soprattutto
affidarsi alla sopravvivenza di una sola varietà. Operazione che
evidentemente non è in grado di mantenere i delicati rapporti che legano
la catena trofica.
Verso questo programma di più ampio respiro si
stanno orientando ormai tutte le forze che negli ultimi anni hanno preso a cuore
il problema della conservazione delle risorse naturali; le Nazioni Unite ed
altri organismi internazionali a livello mondiale attraverso le organizzazioni
specializzate (Fao, Unesco, ecc.), il World Wildlife Found (Wwf), fondazione
mondiale per la salvaguardia della Natura.
Un caso tipico di inquinamento atmosferico
Un tipo del tutto particolare di smog è il
cosiddetto elettrosmog, o inquinamento elettromagnetico. Distinguibile in
elettrosmog in bassa frequenza (ELF), prodotto dai tralicci di elettrodotti, e
in elettrosmog in alta frequenza (EHF), prodotto da antenne, telefonini, radar e
ripetitori, è regolamentato da una serie di leggi e decreti che ne
limitano l'intensità, pericolosa per la salute (un disegno di legge
del 1999 stabiliva il livello di attenzione in 0,5 μtesla, mentre il
decreto Ronchi del 1998 fissava in 0,2 μtesla il limite di qualità
per i nuovi centri e per le aree dedicate all'infanzia). Nel 2000 il governo
inglese chiese all'epidemiologo R. Doll di effettuare uno studio approfondito
sui danni dell'inquinamento elettromagnetico e lo studioso rilevò
la possibile esistenza del legame fra tralicci dell'alta tensione e leucemia
infantile. In Italia, nel 2001, fece scalpore l'iniziativa presa da un
gruppo di abitanti di Cesano, un centro alle porte di Roma, che iniziarono una
dura lotta contro i trasmettitori di Radio Vaticana, posizionati in
prossimità delle loro abitazioni, riuscendo ad ottenere
dall'emittente vaticana l'abbassamento della potenza di emissione in
onda media dell'impianto di trasmissione in questione.
I PARCHI NAZIONALI
I parchi nazionali sono territori in cui si
cerca di conservare l'ambiente naturale con apposite leggi. Il primo parco
nazionale fu istituito nel 1872 negli Usa (parco di Yellowstone dove
sopravvivono esemplari di bisonte), ma fino ad epoca recente non si pensava che
occorresse proteggere e conservare una natura che pareva avere riserve
inesauribili. I parchi erano usati con l'intenzione di dare una protezione
completa su un'area dove non si dovevano compiere interventi di alcun tipo. A
poco a poco ci si rese conto che non era sufficiente preservare lo stato
naturale ma occorrevano un controllo e un intervento diretto nell'ambiente
seguendo i principi dei meccanismi studiati dall'ecologia.
In Italia il
primo parco nazionale ad essere istituito fu quello del Gran Paradiso nel 1922.
All'inizio del terzo millennio, il numero dei parchi nazionali è
salito a venti. Complessivamente, le zone protette coprono oltre un milione e
mezzo di ettari, pari al 5% circa del territorio nazionale.
I parchi
nazionali hanno lo scopo di preservare non solo la flora, ma anche la fauna.
Insieme a paesaggi suggestivi e unici, nei parchi nazionali si possono trovare
specie animali altrove scomparse o in via d'estinzione.
I parchi
nazionali, che dipendono direttamente dal Ministero dell'Ambiente,
integrano e completano la salvaguardia operata dai parchi regionali in quanto
gestiscono un territorio ampio e variegato, con una significativa presenza
umana. Oltre alla vigilanza sull'ambiente e alla pianificazione atta a
proteggere animali e piante, i parchi nazionali devono quindi assumere un
ulteriore compito, diventando strumento di collegamento e valorizzazione delle
realtà locali, che devono trovare, nella salvaguardia del territorio in
cui operano, l'elemento di coesione tra le culture locali e la risorsa chiave
del loro sviluppo.
Un ruolo importante nell'intervento statale di tutela
stanno assumendo i parchi marini, spesso formati da isole o interi arcipelaghi,
destinati a proteggere in modo integrato tratti di mare e di costa che
presentano componenti ambientali e paesaggistiche ad un tempo eccezionali e
caratteristiche del Mediterraneo.
L'ostilità che di solito i
progetti di parco incontrano tra gli agricoltori non può essere compresa
davvero se non si tiene presente anche l'esperienza dei contadini di un'epoca
più lontana.
Pensiamo al Medioevo: in Europa il villaggio ha come
orizzonte inquietante la foresta, così come nel mondo islamico
l'orizzonte, altrettanto inquietante, della civiltà è il
deserto.
La foresta rappresenta in Europa il deserto. I pericoli di questo
deserto sono rappresentati da un lato dalla presenza di animali come orsi e
soprattutto lupi, che negli inverni più rigidi arrivano ad attaccare
l'uomo anche in prossimità dei villaggi, e dall'altro dal fatto che il
bosco è il rifugio di ladroni, banditi e malfattori d'ogni sorta. Ma il
bosco è anche una quasi inesauribile risorsa di materiali (legname), di
combustibili (legna da ardere), di alimenti (la selvaggina e i frutti del
sottobosco); nei boschi si portano a pascolare i maiali. Con i banditi e i
ribelli i contadini possono avere anche ottime relazioni, ma la foresta è
un ambiente infido, che nell'immaginazione popolare rimane a lungo associata
alle tenebre, al pericolo di smarrirsi, alla minaccia di forze misteriose e di
esseri mostruosi.
Non per tutti, però, è così:
principi e signori, bene armati e scortati, si avventurano nelle foreste
più tenebrose per esercitare quella che è, oltre che la loro
passione preferita, uno dei loro più importanti privilegi economici: la
caccia. La selvaggina infatti è riservata a loro, e se i contadini ne
mangiano è perché l'hanno cacciata di frodo. Per dare spazio ai
loro privilegi di caccia, le classi dominanti non esitano a ricorrere
all'espulsione forzata dei contadini: per dare un habitat al cervo mettono a
ferro e fuoco i villaggi.
La caccia è insieme un'attività
economica (procura carne e pelli, difende le colture dai danni delle fiere), una
forma di addestramento alla guerra, un divertimento. L'uno o l'altro di questi
aspetti può di volta in volta prevalere.
In Europa, con l'incremento
della popolazione e con il rarefarsi della selvaggina, la caccia invertì
le sue funzioni: dalla difesa delle coltivazioni si passò alla difesa
della selvaggina; da attività utile si trasformò progressivamente
in attività ricreativa. La foresta, prima minacciosa e inquietante,
divenne così natura selvaggia che doveva essere difesa per collocarvi
l'esercizio della caccia come privilegio sociale; di conseguenza venne
organizzato lo spazio a fini di divertimento con divieti, riserve, ecc.: una
natura da difendere contro l'intrusione dell'uomo, di certi uomini.
E il
principio della riserva non mancò di essere giustificato, già in
antico, col bene di coloro stessi che venivano esclusi:
«Essendo la
caccia un servizio proprio a distogliere i contadini e gli artigiani dal loro
lavoro e i mercanti dal loro commercio - diceva un'ordinanza del re di Francia
del XVI secolo - è utile per il loro interesse e per l'interesse pubblico
di proibirla loro».
È qui che vanno cercate le premesse
ideologiche, neppure tanto lontane, dell'attuale politica dei parchi. Anche il
più grande parco nazionale italiano - quello del Gran Paradiso - ha la
sua origine nella Riserva Reale di caccia istituita da Vittorio Emanuele II nel
1856.
I parchi faunistici del Sudafrica
Parchi nazionali italiani
Ad oggi nel nostro Paese sono stati istituiti 21 parchi nazionali e 3 sono in attesa dei provvedimenti attuativi. Complessivamente coprono oltre un milione e mezzo di ettari, pari al 5 % circa del territorio nazionale.
I parchi nazionali sono costituiti da aree terrestri, fluviali, lacuali o marine che contengono uno o piů ecosistemi intatti o anche parzialmente alterati da interventi antropici, una o piů formazioni fisiche, geologiche, geomorfologiche, biologiche, di rilievo internazionale o nazionale per valori naturalistici, scientifici, estetici, culturali, educativi e ricreativi tali da richiedere l'intervento dello Stato ai fini della loro conservazione per le generazioni presenti e future.
Il parco nazionale integra e completa la salvaguardia operata dai parchi regionali occupandosi di territori alquanto vasti e coinvolgendo diverse decine di Comuni. Oltre alla pianificazione e alla vigilanza, il parco nazionale deve esaltare la sua missione di strumento di collegamento e valorizzazione delle realtŕ locali che devono trovare nella bellezza del territorio su cui abitano l'elemento di coesione, la risorsa chiave del loro sviluppo.
Un ruolo importante nell'intervento statale di tutela stanno assumendo i parchi marini, destinati a proteggere in modo integrato tratti di mare e di costa (spesso intere isole o arcipelaghi) che presentano componenti ambientali e paesaggistiche ad un tempo eccezionali e caratteristiche del Mediterraneo. Elenchiamo di seguito il 21
parchi nazionali presenti nel nostro Paese nel 2005:
Parco nazionale d'Abruzzo
Parco nazionale dell'Appennino Tosco-emiliano
Parco
nazionale dell'Arcipelago di La Maddalena
Parco nazionale
dell'Arcipelago Toscano
Parco nazionale dell'Asinara
Parco
nazionale dell'Aspromonte
Parco nazionale della Calabria
Parco
nazionale del Circeo
Parco nazionale del Cilento e Vallo di
Diano
Parco nazionale Dolomiti Bellunesi
Parco nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona,
Campigna
Parco nazionale del Gargano
Parco nazionale del Gennargentu e del Golfo di Orosei
Parco nazionale del Gran
Paradiso
Parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga
Parco
nazionale della Maiella
Parco nazionale dei Monti Sibillini
Parco
nazionale del Pollino
Parco nazionale dello Stelvio
Parco nazionale
della Val Grande
Parco nazionale del Vesuvio
Parchi nazionali in attesa dei provvedimenti attuativi
Parco Nazionale dell'Alta Murgia
Parco Nazionale della Val d'Agri e Lagonegrese
Parco Nazionale delle Cinque Terre
Parco Nazionale della Sila
Parchi regionali italiani
I parchi naturali regionali oltre ad aumentare sensibilmente la complessiva superficie di
territorio nazionale protetto, hanno dato l'avvio a una stagione di dibattito e di innovazione
concettuale sui temi della forma, del ruolo e della gestione delle aree protette.
I parchi si sono cosě proposti come terreno di sperimentazione ecologica permanente, dove si
riesca a definire un modello di gestione territoriale da estendere al resto del Paese.
Le aree protette regionali coprono oggi una superficie di piů di un milione di ettari.
NATURA E CULTURA
Occorre esser cauti nell'attribuire al
termine natura un significato sempre e comunque positivo, come è venuto
in uso da quando l'ecologia è diventata una scienza di moda. La natura in
sé rappresenta un ambiente inabitabile per l'uomo: è esattamente
l'opposto dell'immagine sdolcinata che una certa ideologia cara ai mass media ha
diffuso in questi ultimi anni.
La contrapposizione tra natura e cultura (o
società) tende sovente a collocare sul primo termine tutti i significati
positivi e sul secondo quelli spiacevoli e negativi. Da una parte ci sarebbe una
natura definita «vergine», «originaria»,
«primigenia»; dall'altra l'uomo con la sua storia e soprattutto con la
sua attività devastatrice.
Accettando questa contrapposizione il
paesaggio umanizzato, ossia costruito e modellato dall'uomo finisce con essere
definito «alterato», che è una connotazione negativa rispetto
all'età dell'oro della foresta primigenia.
I terreni coltivati, le
strade e i paesi, rappresenterebbero dunque l'ambiente naturale rovinato; al
contrario l'ambiente genuino sopravviverebbe nei residui della natura,
cioè nelle siepi, nei boschetti, ecc.
È una concezione falsa;
le siepi, i boschetti sono il prodotto dell'uomo: non costituiscono affatto i
frammenti di una natura originaria, relitti o reliquie naturali di un mitico e
lontanissimo passato, ma una creazione storica ben datata che ha richiesto
all'agricoltura le stesse cure e le stesse fatiche dei campi
coltivati.
Prendiamo quel tipo di paesaggio agrario, che è detto del
bocage e che è caratterizzato, appunto, dalla frequenza di boschetti e di
siepi arboree, che segnano i limiti dei campi. Ebbene, queste siepi, associate a
terrapieni e fossati, richiedevano cure costanti: si procedeva regolarmente a
tagliare il bosco (per ottenere legname da costruzione e legna da ardere),
l'erba e i cespugli (per la stalla); si doveva poi provvedere al periodico
espurgo dei fossi e alla ricostruzione degli argini e delle scarpate erose
dall'acqua. Il bocage, insomma, è un paesaggio giardino. La siepe
è così poco una formazione naturale, che richiede una coltura ad
alta intensità di lavoro; è una formazione vegetale inglobata nel
modo di produzione agricola.
Proprio qui, nell'alta intensità di
lavoro richiesta da questo tipo di paesaggio, stanno le ragioni della sua
attuale decadenza. Che cosa è accaduto infatti negli ultimi anni?
È accaduto che, mentre il legname perdeva valore e aumentava il costo del
lavoro necessario a curare le siepi, la loro manutenzione è stata
trascurata, le piante sono diventate selvatiche: i rami si sono allungati, i
cespugli e le erbe hanno invaso i campi, i fossi si sono riempiti, i terrapieni
si sono disgregati lentamente. La siepe, alterata dal suo mancato uso
produttivo, è diventata matura per il bulldozer. Altro che residui della
natura!
Si rischia spesso di confondere una campagna abbandonata per un
ambiente naturale incontaminato. È un errore alimentato da chi trova
conveniente sbarazzarsi dei contadini, che spesso sono gli unici o i principali
ostacoli al progetto di utilizzare il territorio per scopi esclusivamente o
prevalentemente turistici.
Alla stessa logica sembra ispirarsi talvolta
anche la proposta di generalizzazione dei parchi naturali; si dice di voler
proteggere la natura, mentre in realtà vietando (talvolta in modo
veramente dissennato) interventi anche minimi che potrebbero migliorare
sensibilmente le condizioni dei contadini che nell'ambiente vivono e lavorano,
si attua una delle forme con cui continua la loro secolare espropriazione, la
loro cacciata dalla terra. Si dimentica così che proprio a loro, al loro
lavoro, i cittadini devono la possibilità di fruire di un ambiente
ospitale: la campagna, un antico e complicato manufatto.