Metodologia scientifica secondo la quale ogni
oggetto di studio costituisce una struttura, vale a dire un insieme organico i
cui elementi assumono un valore in funzione delle loro relazioni tra di loro.
Anche se già verso la fine del XIX sec. comparvero teorie che si
proponevano di porre in evidenza il ruolo del tutto rispetto alle parti,
consapevoli teorie strutturalistiche cominciarono a diffondersi in Europa
occidentale e negli Stati Uniti d'America solo attorno al 1930 con la psicologia
della
Gestalt, con gli studi antropologici di F. Boas, R. Benedict ed E.
Sapir e, soprattutto, con la linguistica di F. de Saussure. In linea generale,
si distinguono tre tipi di
s.: uno
s. ontologico, sostenuto
soprattutto da C. Lévi-Strauss in antropologia e da R. Barthes in critica
letteraria, che proietta nella cosa le strutture oggetto della sua analisi; uno
s. storicizzante, che vede le strutture come un prodotto storicamente
determinato dell'agire umano; uno
s. metodologico, fatto proprio tra gli
altri da L. Althusser e da J. Piaget, che interpreta le strutture come un modo
pragmaticamente adeguato di presentare i fenomeni; uno
s. epistemologico,
che guarda alle strutture come a un orizzonte non trascendibile dell'esperire
umano. • Arch. - Tendenza a ricercare e a mettere in risalto l'espressione
formale delle strutture portanti. Il termine è stato utilizzato
soprattutto in riferimento alle opere di P.L. Nervi, R. Morandi, R. Maillart e
R.B. Fuller. • Biol. - Teoria in base alla quale i vari organi non sono
definibili di per sé soli, ma devono essere messi in relazione l'uno con
l'altro. • Dir. - Denominazione generica di varie teorie, quasi sempre
varianti del Normativismo, che contestano la possibilità di compiere
valutazioni di singole norme, preferendo ricondurle tutte all'unità
sistematica dell'ordinamento giuridico del quale sono parte. • Ling. -
Termine con cui si indicano le varie correnti che considerano la lingua come una
struttura unitaria. Anche se la prima apparizione del termine
struttura
risale alle
Tesi del Circolo di Praga del 1929, il concetto cui esso
rimanda era già esplicito nell'insegnamento di F. de Saussure; questi,
studiando i sistemi fonetici, mise in discussione l'idea sino ad allora
condivisa dell'esistenza di entità linguistiche in qualche modo naturali
per suggerire l'ipotesi che ogni sistema linguistico, in quanto composto da
oggetti concreti (suoni che danno vita alla
parole) e da sistemazioni
cognitive (fonemi che compongono la
langue), è in realtà il
frutto di una classificazione arbitraria. Un lingua, dunque, non è,
secondo de Saussure, una cosa, ma un principio di classificazione che gli
appartenenti a una singola comunità applicano a certi oggetti da un certo
punto di vista: compito della linguistica, allora, diviene quello di rendere
esplicita questa classificazione. Ciò deve avvenire utilizzando la
medesima lingua dei parlanti (ovvero le medesime strutture), avendo,
però, chiaro che quelle, a differenza di queste, sono in grado di
organizzarsi in un metalinguaggio e secondo un ordine caratterizzato da
semplicità e rigore teorico. Gli insegnamenti di de Saussure diedero vita
a tre indirizzi fondamentali: quello della scuola fonologica di Praga, quello
della glossematica danese e quello dei linguisti americani che fanno propri gli
insegnamenti di L. Bloomfield. Tratti caratteristici della scuola di Praga (i
cui massimi rappresentanti furono N.S. Trubeckoj e R. Jakobson) furono la tesi
di un'irriducibile alterità tra suono concreto e fonema; da essa consegue
l'idea che il fonema non possa essere completamente esaurito in una forma fonica
e la necessità di una distinzione tra fonologia e fonetica. I
glossematisti, invece, partendo dal presupposto che non esiste alcun valore
linguistico nella sostanza fonica e in quella mentale, concentrarono la loro
attenzione sulla funzionalità del sistema, finendo in questo modo per
definire gli elementi linguistici alla luce delle relazioni intercorrenti tra di
loro. Gli strutturalisti statunitensi, infine, assumendo una posizione per
alcuni versi vicina alla psicologia comportamentista, svilupparono una
metodologia che, prescindendo dai significati, fosse capace di analizzare le
possibilità combinatorie delle unità linguistiche. Nella seconda
metà del XX sec., la linguistica strutturale fu oggetto di un profondo
ripensamento dovuto anche alle critiche dei
generativisti e di N. Chomsky
in particolare; ciò condusse gli strutturalisti a una maggiore
duttilità e allo scambio interdisciplinare, i cui frutti più
evidenti furono la nascita di ambiti di studio ibridi ma non per questo meno
fecondi quali, ad esempio, la psicolinguistica o la sociolinguistica. •
Lett. - Teoria critica basata su una considerazione quasi esclusiva dell'aspetto
formale dell'opera in quanto insieme organico di elementi in rapporto funzionale
tra di loro.