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STORIA MODERNA - IL DOMINIO SPAGNOLO IN ITALIA

IL TRATTATO DI CATEAU CAMBRÉSIS

Il trattato di Cateau Cambrésis, nel 1559, come abbiamo visto, sancì il predominio spagnolo sull'Italia, un predominio destinato a durare fino al 1713, anno in cui venne stipulata la pace di Utrecht, che, come avremo occasione di analizzare, pose fine alla guerra di successione spagnola.
Il trattato di Cateau Cambrésis non ufficializzò comunque un dominio assoluto della Spagna sull'Italia. Molti Stati infatti poterono conservare la propria indipendenza o semi-indipendenza; anche se l'influenza del governo spagnolo rese quasi esclusivamente teorica la distinzione tra Stati indipendenti e Stati dominanti. Comunque, pur considerando le realtà storiche del momento, esaminiamo l'assetto dell'Italia nella seconda metà del XVI secolo. Gli stati indipendenti erano: il Ducato di Savoia, comprendente il territorio dal Sesia alle Alpi e al di là di queste la Savoia francese; la Repubblica di Venezia, comprendente il territorio posto tra l'Adda e il mare Adriatico, la Dalmazia e le isole di Cipro e Candia (Creta); Genova, che estendeva il proprio dominio sulla Corsica e sulla Liguria; il Marchesato di Monferrato e il Ducato di Mantova, appartenenti ai Gonzaga; il Ducato di Parma e Piacenza, sotto i Farnese; il Ducato di Modena, Ferrara e Reggio, sotto gli Estensi; la Toscana, sotto la sovranità dei Medici, fatta eccezione per la piccola Repubblica di Lucca; lo Stato Pontificio. Mentre i domìni spagnoli in Italia comprendevano il Ducato di Milano, lo Stato dei Presidi in Toscana e i regni di Napoli, Sicilia e Sardegna. Ciascuno dei domini spagnoli in Italia era retto da un proprio governo e Milano, con i suoi centomila abitanti e le sue industrie, costituiva il fulcro della potenza spagnola in Europa: infatti le consentiva di dominare gli alleati italiani, di inviare facilmente truppe verso i Paesi Bassi e la Francia e di controllare il Ducato di Savoia e la Repubblica di Venezia, ancora potente ma estremamente soggetta alla minaccia turca.
Quindi il dominio spagnolo in Italia, che comprendeva i due terzi della penisola di fatto influenzò la vita culturale e politica del Paese.
Indubbiamente con la Pace di Cateau Cambrésis e la conseguente eliminazione delle forze francesi dall'Italia, si andava incontro ad un periodo storico assolutamente pacifico, che non poteva essere turbato neppure dai contrasti religiosi. Infatti il protestantesimo, pur essendo presente, non si trasformò mai in un vero movimento di massa, come abbiamo visto accadere in altri Stati europei.
Con la conquista della pace sembrerebbe lecito parlare di un periodo positivo per il popolo italiano, tale lo si dovrebbe considerare se non si dovesse tener conto del prezzo pagato, individuabile in un crollo economico e culturale dell'intera penisola. Gli stessi storici dell'epoca misero a confronto l'Italia del XVI secolo, Paese tra i più progrediti d'Europa, con l'Italia del Seicento, ormai soggetta totalmente al dominio spagnolo e descritta come un'area arretrata e depressa, priva di qualsiasi stimolo culturale e soggetta a qualsiasi decisione maturata al di là delle Alpi.
In realtà, se la crisi culturale è ampiamente addebitabile alla politica repressiva spagnola e clericale, al tracollo economico contribuì certamente anche la modificazione in atto nell'economia occidentale, che tendeva sempre più verso l'Atlantico, trascurando così i tradizionali traffici nel Mediterraneo. In un contesto del genere è ovvio che l'Italia fu uno dei primi Paesi ad essere danneggiati. La dominazione spagnola non fece quindi altro che dare il «colpo di grazia» con una serie di onerosissime imposte e un reclutamento massiccio di uomini per il sostentamento e la crescita di numerosi reparti militari; uomini che evidentemente venivano sottratti alla vita commerciale e produttiva. Basti pensare che a Milano le fabbriche di lavorazione della lana, intorno alla metà del XVI secolo erano circa 70, mentre alla fine del XVII erano ridotte a cinque; la popolazione, nello stesso periodo, passò da 300.000 a circa 100.000 unità. Questo tipo di fenomeni, macroscopici nel Milanese, erano comunque ormai comuni su tutto il territorio italiano.
Quello spagnolo fu quindi un periodo di pace che l'Italia pagò a caro prezzo.
Cartina: L'Italia dopo la pace di Cateau-Cambrésis

IL MALGOVERNO SPAGNOLO IN ITALIA

Come abbiamo già notato in più occasioni, le pessime tradizioni in campo culturale ed economico dell'assolutismo monarchico spagnolo hanno sempre portato gravi conseguenze anche in tutti i Paesi conquistati, senza eccezioni nemmeno per l'Italia.
I possedimenti spagnoli in Italia erano governati da un Supremo Consiglio d'Italia che aveva sede a Madrid. Mentre dalla capitale arrivavano le direttive generali, l'amministrazione concreta e quotidiana era affidata a un Governatore nel ducato di Milano, e a tre Viceré, rispettivamente in Sardegna, in Sicilia e nel Napoletano da cui dipendeva anche lo Stato dei Presìdi.
Il potere di tali organismi era tuttavia limitato da ulteriori strutture amministrative; in particolare, da un Senato nel Milanese e da delle sorte di parlamenti feudali, denominati Statamenti in Sardegna e Bracci in Sicilia e nel Napoletano. Proprio contro questi ultimi organismi amministrativi, che invece di difendere gli interessi del popolo si prodigavano solo a favore della nobiltà e del clero, si ebbero i maggiori tumulti popolari, tra i quali ricordiamo quelli di Napoli e Palermo del 1647, entrambi duramente repressi dalla milizia spagnola.
I due tumulti citati e i molti altri che travagliarono l'Italia di quel periodo, nacquero sempre dalla ribellione del popolo all'ingordigia di una classe dominante occupata solamente ad accumulare denaro sfruttando l'arma fiscale. In questo senso riteniamo sia sufficiente un solo esempio per far capire la portata del malaugurato fenomeno: la rivolta del popolo napoletano, di cui fu protagonista il celebre Tommaso Aniello detto Masaniello, venne provocata da una tassa del Viceré sulla frutta fresca, un alimento fondamentale per una popolazione economicamente disastrata.

LA CRISI CULTURALE E L'INQUISIZIONE

Il dominio spagnolo in Italia e il conseguente isolamento politico in cui cadde la penisola si tradussero sul piano culturale in una vera e propria decadenza.
A ciò contribuirono non poco i rigori dell'Inquisizione, che inferse un colpo mortale alla libertà di ricerca in Italia. Alla fine del Cinquecento, rimaneva ancora un primato italiano nell'ambito della filosofia «naturale» antiaristotelica, di cui furono massimi rappresentanti Bernardino Telesio, Giordano Bruno e Tommaso Campanella.
L'ex frate domenicano Giordano Bruno cadde nelle mani dell'Inquisizione romana nel 1592 e, dopo un lungo periodo di detenzione e un logorante processo, fu bruciato vivo in Campo dei Fiori, il 17 febbraio del 1600.
Campanella, anch'egli frate domenicano, riuscì a sottrarsi al rogo, ma fu più volte imprigionato subendo una serie di processi per motivi politici e religiosi; fu infine rinchiuso in carcere nel 1599, e vi rimase per ben 27 anni. Le persecuzioni dell'Inquisizione non risparmiarono neppure il grande Galileo Galilei, le cui controversie con il Sant'Uffizio ebbero inizio nel 1615, in seguito alla condanna ecclesiastica del sistema copernicano. L'anno seguente, sebbene ammonito dall'autorevole teologo gesuita e cardinale Roberto Bellarmino, continuò comunque la propria opera di ricerca scientifica tra molte difficoltà sino al 1632, anno della pubblicazione del Dialogo sui massimi sistemi del mondo. Seguì un processo a Roma: il 2 giugno del 1633, Galileo dovette pronunciare una solenne abiura che non gli risparmiò la condanna alla prigione perpetua, commutata poi nel confino ad Arcetri, dove ordinò le sue lunghe ricerche sul moto e pubblicò nel 1638 l'ultima delle sue grandi opere: Discorsi intorno a due nuove scienze.
Galileo Galilei

IL DUCATO SABAUDO

Occupato alternativamente da Francesi e Spagnoli durante gli anni della guerra, il Ducato Sabaudo cessò praticamente di esistere fino alla Pace di Cateau Cambrésis, quando i Francesi si impegnarono a lasciare il Piemonte, che sarebbe tornato ai Savoia.
Fu così che Emanuele Filiberto si trovò a dover gestire una situazione disperata in un Paese in condizioni disastrose.
Tuttavia, egli si dimostrò un regnante dotato di straordinaria intelligenza e preparazione. Infatti, negata la restaurazione delle autonomie locali e dei privilegi feudali, instaurò un livellamento generale dei sudditi, che da allora avrebbero dovuto essere soggetti solamente alla sua autorità. Riformò l'amministrazione del Paese, facendo lievitare le entrate del Ducato e abolì la vecchia struttura dell'esercito feudale, limitando l'impiego di truppe mercenarie, molto costose e poco fedeli. Si affidò invece ad un reclutamento parrocchiale per la formazione dell'esercito, nel senso che ogni parrocchia si impegnò a mantenere un gruppo di soldati in base alle proprie possibilità, costituendo così tanti reparti di frontiera strettamente integrati nella vita sociale del Ducato.
Nel 1563 Emanuele Filiberto trasferì la capitale da Chambéry a Torino e impose la lingua italiana, anziché quella francese, in tutti gli atti pubblici.
Purtroppo le conquiste ottenute da Emanuele Filiberto furono ben presto vanificate dal figlio Carlo Emanuele I, succedutogli nel 1580.
Già nel 1588, stimolato dalla crisi della Francia, Carlo Emanuele I occupò Saluzzo, unico territorio piemontese rimasto ai Francesi dopo la Pace di Cateau Cambrésis, e sconfinò in Provenza; mentre nel 1589, alla morte di Enrico III, pretese la corona di Francia in quanto cugino del monarca assassinato. Ma, allorché Enrico IV di Borbone salì sul trono di Francia, il duca di Savoia fu costretto a ridimensionare le sue ambizioni e a venire a patti col nuovo sovrano.
Questi riottenne i territori contesi da Carlo Emanuele I e solo nel 1601, con il Trattato di Lione, cedette definitivamente Saluzzo ai Piemontesi in cambio delle terre dei Savoia al di là del Rodano.
Dopo essersi accordato col re di Francia, Carlo Emanuele I impegnò le proprie truppe dal 1613 al 1617 in una assurda guerra contro gli Spagnoli per il dominio sul Monferrato, appartenuto fino ad allora ai Gonzaga di Mantova. Successivamente, con una seconda guerra per il Monferrato e con la guerra per la Valtellina, Carlo Emanuele I ridusse l'intero Ducato in condizioni disastrose, tanto che alla fine del Seicento esso non poté che svolgere un ruolo politico subalterno, soprattutto alla Francia.

IL GRANDUCATO DI TOSCANA

Dopo l'intervento di Carlo V nel 1530 e il conseguente scioglimento della Repubblica di Firenze, il potere ritornò nelle mani dei Medici, a cui l'imperatore concesse il titolo di duchi.
Ma la Toscana trovò un suo pur modesto assetto solo sotto Cosimo I de' Medici, che integrò territorialmente i possedimenti già esistenti e organizzò il Granducato secondo i principi dettati dall'assolutismo tipico di quel periodo.
Il processo di unificazione della Toscana si concretizzò nel 1555 con la conquista di Siena, città che costituiva un pericolo per i piani egemonici di Cosimo I; anche in questa occasione fu fondamentale l'aiuto delle truppe imperiali. Nel 1569 Cosimo I de' Medici ottenne dal papa il titolo di granduca, grazie alla sua avveduta politica religiosa.
Gli sforzi di Cosimo I non si indirizzarono comunque solo all'unificazione e all'instaurazione dell'egemonia della propria famiglia sulla regione, ma mirarono anche a stimolare l'economia toscana, bonificando i terreni paludosi della Maremma e ripristinando le strutture del porto di Livorno.
Tuttavia, il granduca non poté frenare la costante diminuzione dell'importanza finanziaria internazionale di Firenze, causata, tra l'altro, dalla crisi dei porti di Napoli e Roma, dai cattivi rapporti con Genova e dal protezionismo veneziano nei confronti della Toscana.
In sostanza anche il Granducato di Toscana non seppe evitare la crisi economica che in quel periodo travagliava tutta l'Italia; una crisi che portava sempre di più all'esportazione di materie prime e all'importazione di lavorati, contrariamente a quanto era accaduto nei secoli precedenti.
Unica eccezione fu costituita dal porto di Livorno che, grazie al commercio inglese e olandese, ebbe occasione di prosperare grazie al costante aumento dei traffici.

LA REPUBBLICA VENEZIANA

La Repubblica di Venezia era praticamente l'unico Stato italiano che, nella seconda metà del Cinquecento, conservasse la propria indipendenza. Proprio in questo periodo iniziarono, tuttavia, a manifestarsi i primi sintomi della decadenza. Il fenomeno era legato, in primo luogo, al declino del Mediterraneo come via dei traffici mondiali e, in secondo luogo all'avanzata dei Turchi in oriente che minacciavano le sue basi, rendendone precari i commerci. All'inizio del secolo XVII, Venezia fu al centro di una controversia che portò alla più grave crisi mai registrata dal cattolicesimo in Italia. Caratteristica della repubblica lagunare era sempre stata la rivendicazione della giurisdizione dello Stato sul clero, soggetto alle leggi e ai tribunali civili per tutto ciò che non era di competenza strettamente ecclesiastica. Ciò aveva naturalmente provocato anche in passato frequenti contrasti con la Curia romana, ma questa protestò vigorosamente quando, nel 1605, la Repubblica veneta rinnovò due leggi tendenti a frenare la «manomorta» ecclesiastica, cioè il diritto della Chiesa alla proprietà, diritto riconosciuto già con l'Editto di Milano nel 313. Tali leggi prevedevano severe pene per quanti avessero fondato chiese, chiostri, ospedali, ecc. senza il permesso del Senato e sanzioni altrettanto pesanti per il passaggio di beni immobili a istituzioni ecclesiastiche. Nel frattempo era stato eletto papa il romano Camillo Borghese, con il nome di Paolo V, che, dopo essere riuscito a imporre le pretese della Santa Sede agli Stati italiani più piccoli, lanciò la scomunica e l'interdetto contro la Repubblica di Venezia, anche per le pressioni esercitate dalla Spagna, tradizionalmente ostile a Venezia. La Repubblica marinara reagì nominando doge Leonardo Donato, il quale decretò l'espulsione dei gesuiti, ritenuti gli agenti più pericolosi del papa, valendosi delle brillanti motivazioni dottrinali di Paolo Sarpi, considerato a Roma un simpatizzante del Protestantesimo. Di fronte alla minaccia di un intervento armato spagnolo, Venezia accettò una soluzione di compromesso con la mediazione della Francia, riuscendo comunque a sottrarsi a ogni ingerenza clericale e successivamente, a fronteggiare un nuovo attacco spagnolo, volto a distruggere la sua indipendenza politica.

LO STATO PONTIFICIO

Indubbiamente il momento più importante vissuto dallo Stato Pontificio nei secoli XVI e XVII fu il Concilio di Trento, che comunque non impedì ai pontefici dell'epoca di proseguire la politica di espansione territoriale, già iniziata da Alessandro VI e Giulio II. Anzi, nella prospettiva di un accentramento del potere sempre maggiore, lo Stato Pontificio non solo conquistò i ducati di Urbino, Castro e Ronciglione e la città di Ferrara, ma ridusse drasticamente i privilegi e le autonomie locali.
Un atteggiamento che evidentemente non fu ben accolto dalla nobiltà, che dovette rinunciare alle sue pretese soprattutto per non incorrere nelle ire di papa Sisto V, che già aveva ordinato l'esecuzione di molti nobili romani.
Sisto V, infine, oltre a dare un nuovo volto architettonico a Roma, combatté contro il brigantaggio, ben presto drasticamente eliminato.
A livello internazionale, nonostante lo stretto collegamento con la Spagna, lo Stato Pontificio cercò sempre di sviluppare una politica estera indipendente e neutrale. In questo senso possiamo citare ad esempio Clemente VIII, che riconobbe Enrico IV come re di Francia, anche se solo dopo la conversione di quest'ultimo al cattolicesimo.

LA REPUBBLICA DI GENOVA

Grazie alla grande abilità delle grandi famiglie della finanza genovese (i Grimaldi, gli Spìnola, i Doria e i Centurione), la Repubblica di Genova, dal 1550 al 1650, visse un secolo di benessere e prosperità.
Legatasi alla Spagna già dal 1528, la Repubblica di Genova poté approfittare della grave crisi economica prodottasi sotto il regno di Filippo II: i banchieri genovesi coprivano infatti i debiti contratti dalla Spagna su quasi tutti i mercati europei, in cambio di un congruo rimborso con l'argento proveniente dalle colonie spagnole nelle Americhe.
Tuttavia gli ottimi affari che i banchieri genovesi riuscirono a concludere con la Spagna, ma anche con tutte le altre realtà economiche del momento, non portarono ad un rafforzamento della repubblica; infatti il potere conquistato dalle grandi famiglie le portò di fatto a dominare la città, provocando così una situazione politica tanto instabile da sfiorare più volte la guerra civile. Una situazione quindi estremamente difficile, che sempre meno poteva essere mascherata da una prosperità economica che si faceva ogni giorno più fittizia.

IL DUCATO DI MILANO

La politica adottata dai sovrani spagnoli di difesa ad oltranza del cattolicesimo, ma tesa a limitare l'influenza del papato nella Chiesa spagnola, non mancò di creare scontri e tensioni. In Italia fu soprattutto a Milano che i rapporti tra autorità civili e religiose andarono facendosi sempre più tempestosi, come conseguenza della controffensiva lanciata dalla Chiesa, rinvigorita dal Concilio di Trento. Il principale animatore di questo moto di rinnovamento fu Carlo Borromeo, il giovane nipote di papa Pio IV, nominato vescovo di Milano nel 1566, quando aveva solo ventotto anni.
Egli istituì un tribunale, sull'esempio dell'Inquisizione spagnola: chi trasgrediva alle sue ordinanze spirituali veniva rinchiuso nelle prigioni dell'arcivescovado. Dapprima questi provvedimenti riguardarono esclusivamente il clero, ma successivamente si allargarono al laicato e ciò comportò un inevitabile scontro con i tribunali civili. Il Borromeo arrivò anzi a sfidare lo stesso potere regio, promulgando una bolla con cui vietava alle autorità civili di imporre nuove tasse ai sudditi. Il governatore spagnolo, duca di Alburquerque, fece arrestare i funzionari dell'arcivescovo e ne fece occupare i possedimenti dalle sue truppe. Il cardinale rispose con l'anatema e l'interdetto e il governatore dovette ricorrere al papa per ottenere l'assoluzione.
Morto Carlo, la controversia politico-religiosa fu ripresa da Federico Borromeo, cugino del precedente, cardinale dal 1670.

PICCOLO LESSICO

ASSOLUTISMO MONARCHICO

La caratteristica fondamentale di un regime assolutistico è che i poteri legislativo (fare leggi), esecutivo (farle rispettare) e giudiziario (punire chi le vìola), sono interamente nelle mani di una sola persona, un sovrano, che rimane absolutus, cioè sciolto, slegato da ogni possibilità di controllo e di condizionamento da parte di altri organismi. Monarchie assolute furono, per esempio, quelle di Filippo II in Spagna e Luigi XIV in Francia; mentre in Inghilterra, i tentativi di imporre una monarchia assoluta naufragarono sistematicamente a causa della tradizionale grande importanza del Parlamento nella vita politica e sociale del Paese.

PROTEZIONISMO

Si tratta di un insieme di norme che un governo vara in campo economico per limitare la concorrenza delle aziende estere e favorire la produzione interna. Mentre oggi le forme di protezionismo si limitano all'emanazione di norme riguardanti dazi doganali, premi all'esportazione o simili, nei secoli passati veniva esercitato addirittura con la proibizione di importare prodotti di determinati Paesi sui propri mercati.

PERSONAGGI CELEBRI

TOMMASO CAMPANELLA

(1568-1639). Fu uno dei maggiori filosofi del Rinascimento.
Nel 1599 fu accusato di aver organizzato una congiura contro i dominatori spagnoli e per questo fu arrestato e incarcerato.
Rimase nel carcere di Napoli per 27 anni, per essere poi liberato ed esiliato, nel 1633, in Francia, dove morì sei anni più tardi. Fondamentali, per lo sviluppo del pensiero filosofico italiano e mondiale, furono le sue opere, tra le quali citiamo: la Città del Sole e il De sensu rerum et magia.

EMANUELE FILIBERTO

(1528-1580). Soprannominato Testa di Ferro fu duca di Savoia dal 1533 al 1580. Al servizio di Carlo V sconfisse i Francesi a San Quintino nel 1557. Dopo aver riottenuto il suo ducato dopo la Pace di Cateau Cambrésis del 1559, ne curò la riorganizzazione amministrativa e finanziaria.

PAOLO SARPI

(1552-1623). Frate servita, veneziano di nascita, si dedicò intensamente a studi storici e scientifici. Procuratore generale dell'ordine e consultore dello Stato di Venezia, anticipò il giurisdizionalismo quando, nel 1606, sostenne il diritto della repubblica di perseguire i religiosi imputati di reati comuni, provocando l'interdetto su Venezia di Paolo V. Nel 1619 fu pubblicato a Londra quello che viene considerato il capolavoro del Sarpi: la Istoria del concilio Tridentino. In quest'opera l'autore dimostrò come il rafforzamento dell'autorità politica del papato avrebbe significato il definitivo allontanamento dagli ideali della chiesa primordiale.

PAOLO V

(1552-1621). Camillo Borghese (questo fu il suo nome) divenne papa con il nome di Paolo V nel 1604 dopo la morte di Leone XI. Sostenne un aspro conflitto giurisdizionale con Venezia, cui lanciò l'interdetto nel 1616. Durante la sua carica, incoraggiò le attività missionarie e fu assertore di un cattolicesimo intransigente. Pur continuando l'opera di riforma della Chiesa non fu immune dal nepotismo.

SISTO V

(1520-1590). Felice Peretti (questo fu il suo nome) fu eletto papa nel 1585. Attuò riforme finanziarie e migliorò l'economia, diede impulso alle opere pubbliche e represse il brigantaggio. Proseguì con grande impegno l'azione controriformistica dei suoi predecessori.

BERNARDINO TELESIO

(Cosenza 1509-1588). Filosofo insigne, fu l'iniziatore di un naturalismo che ebbe grande influenza sul pensiero del Rinascimento. Nella sua opera del 1586, De natura iuxta propria principia, egli riconduce l'origine di tutti i fenomeni ai due principi agenti (il caldo e il freddo) e con essi spiega la vita etica dell'uomo.

RIASSUNTO CRONOLOGICO

1555: Cosimo I conquista Siena, concretizzando l'impegno di riunificazione della Toscana.

1559: il Trattato di Cateau Cambrésis sancisce il predominio spagnolo sull'Italia.

1563: Emanuele Filiberto trasferisce la capitale del ducato sabaudo da Chambéry a Torino e impone l'uso della lingua italiana anziché di quella francese in tutti i documenti di diritto pubblico.

1566: Carlo Borromeo, nipote di Pio IV, viene nominato vescovo di Milano.

1601: Con il Trattato di Lione, Saluzzo passa in mano ai Piemontesi in cambio delle terre dei Savoia al di là del Rodano.