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ITINERARI - IL MONDO ATTUALE - STORIA - ECLISSI POLITICA E RIPRESA ECONOMICA IN EUROPA

QUANTE EUROPE


La costituzione dei blocchi, nel 1945-47, portò a ridefinire ancora una volta il concetto di Europa. Dal punto di vista geografico l'Europa si estende dall'Atlantico agli Urali: ma è una delimitazione fondata sul sottinteso dell'esistenza entro quest'area di un'omogeneità culturale, almeno al livello degli intellettuali e delle classi dominanti. L'inclusione della Russia in Europa è stata però a lungo controversa, venendole ricorrentemente attribuiti tratti «asiatici», prodotto del suo passato che spiegherebbero la diversità e, soprattutto, i limiti (da un punto di vista occidentale) del suo sviluppo storico. La rivoluzione d'Ottobre, o meglio la sua mancata estensione al di fuori della Russia, e la costruzione del socialismo in un solo Paese, determinò una prima frattura, isolando l'Urss in un'esperienza singolare e altra rispetto al resto dell'Europa: anche se quest'immagine si fondava sulla originalità del regime politico, mentre il fatto che il Paese si industrializzasse a tappe forzate poneva semmai le premesse per la sua omologazione ai Paesi economicamente più avanzati. La «guerra fredda» e la divisione in blocchi produssero una seconda frattura, questa ancor più grave perché troncò i forti e molteplici legami economici e culturali tra i Paesi dell'Est e quelli dell'Europa occidentale, principalmente la Germania e la Francia; e viceversa accorpò piuttosto artificialmente Paesi a lungo ostili l'uno all'altro, come l'Ungheria alla Romania, o questa alla Bulgaria.
Nei riguardi dell'Europa la «guerra fredda» segnò il lancio dell'ideologia dell'atlantismo, che insisteva sulla comunanza di radici storiche e politiche e sull'identità culturale tra Europa occidentale e Nord America anglosassone, cioè tra le due sponde dell'Atlantico settentrionale. Esplicitamente o implicitamente, l'Europa veniva ristretta alla sua sola parte occidentale e i confini dell'Occidente furono posti lungo la linea, dal Baltico all'Adriatico, corrispondente alla «cortina di ferro» evocata da Churchill nel discorso di Fulton. Al di là della quale si stendeva un insieme di Paesi sbrigativamente assimilati sulla base della comunanza di regime politico, ma di fatto assai diversi l'uno dall'altro, e complessivamente diversi dalla stessa Unione Sovietica. La propaganda ostile e quella favorevole al modello sovietico hanno contribuito a tenere a lungo disinformata l'opinione pubblica dell'Europa occidentale, sostanzialmente abituatasi alla realtà dell'esistenza di due Europe. La sorpresa, alla fine degli anni Ottanta, per gli avvenimenti di quei Paesi, anche da parte di molti presunti esperti, si spiega con il prevalere delle propagande sulle analisi spregiudicate.
La contrapposizione di modelli politici ed economici aveva perciò l'effetto di confondere la reale fisionomia del continente e i risultati di una storia plurisecolare. Né, del resto, gli stessi statisti dell'Europa occidentale concordavano sull'effettiva consistenza di quell'entità - l'Europa - cui si inorgoglivano di appartenere. L'Inghilterra, per esempio, era certo Europa: ma Churchill aveva ammonito de Gaulle che, dovendo scegliere fra Paesi europei e Stati Uniti, l'Inghilterra avrebbe sempre scelto questi ultimi, essendo per lo statista britannico la solidarietà atlantica fra i popoli di lingua inglese più importante della solidarietà europea occidentale. E all'atlantismo del leader conservatore faceva riscontro un'inclinazione isolazionista e insulare tra i suoi oppositori laburisti. Per la verità, Churchill nell'immediato dopoguerra propose un generico progetto di federazione europea, sottintendendo però sempre che essa avrebbe dovuto marciare di conserva con gli Stati Uniti. Quanto a de Gaulle, trasse sin dall'immediato dopoguerra la conclusione che l'Inghilterra era una sorta di «cavallo di Troia americano in Europa»: e coerentemente si sforzò di tenerla fuori dalle organizzazioni costituite dai Paesi del continente. Per gli statisti Tedeschi occidentali e Francesi e per i loro vicini del Benelux (l'unione doganale di Belgio, Olanda e Lussemburgo nata nel 1948 e successivamente sviluppata in unione economica e di frontiere) l'Europa occidentale era, in sostanza, il blocco dei loro Paesi, corredato di una appendice meridionale, l'Italia, dove l'europeismo dei dirigenti politici al Governo era guardato con diffidenza dalle opposizioni: un'appendice meridionale, del resto, che i più ricchi Paesi del Nord guardavano con non poca sufficienza.
Per gli statisti democristiani, e più esattamente cattolici, che negli anni Cinquanta erano al Governo in Germania occidentale, Italia e Benelux e partecipavano alle coalizioni della Quarta repubblica francese, l'Europa era delimitata da un fossato profondo ad Est, ma anche da un altro, impalpabile confine a Nord, verso l'area scandinava. Quest'area, i cui scambi commerciali erano in buona parte rivolti verso la Gran Bretagna o, nel caso della Finlandia, verso l'Urss, diversamente vincolata dalle alleanze militari (Danimarca e Norvegia appartenevano alla Nato, mentre la Svezia era neutrale, e la Finlandia non solo neutrale ma disarmata) era caratterizzata da uno sviluppo capitalistico temperato dai principi del Welfare State (= «Stato del benessere») messi in atto da governi socialdemocratici al potere sin dall'anteguerra. Nell'area scandinava era in corso un esperimento non assimilabile del tutto a quello delle ricostruzioni capitalistiche dell'Europa occidentale e nemmeno a quello delle collettivizzazioni dell'Est. Era, a suo modo, un modello, guardato però con diffidenza dai liberisti conservatori e considerato comunque insufficiente dai fautori del modello sovietico. In quei Paesi era anche più avanzato che in altre parti del continente un processo di laicizzazione e liberalizzazione dei costumi che dagli anni Sessanta in poi si era gradualmente esteso al resto del continente, ma che sino agli anni Sessanta aveva suscitato le riserve dell'opinione pubblica conservatrice, soprattutto cattolica, meno informata sulle realizzazioni del Welfare State, che non sulla permissività sessuale di alcuni Paesi scandinavi, e tutto sommato compiaciuta di ricordare le percentuali dei suicidi e degli alcolizzati in Svezia (non troppo diverse, si è scoperto in seguito, da quelle di altri Paesi europei, dell'Ovest e dell'Est). D'altra parte, gli stessi abitanti di questa Europa nordica tendevano a sviluppare un'attitudine isolazionista e a difendere l'identità delle loro realizzazioni. Mentre l'entrata nella Cee della Danimarca ha avuto tempi piuttosto rapidi (1973) il cammino delle altre democrazie nordiche è stato più lento, ma comunque anche questi Stati, che appartengono alla cosiddetta periferia dell'Europa, hanno avvertito la necessità di inserirsi nella Comunità europea. La Svezia chiese l'ammissione nel 1991 (approvata da referendum popolare alla fine del 1994), la Finlandia e la Norvegia nel 1992. Nel 1995 Le prime due, insieme all'Austria, entrarono a far parte dell'Unione Europea, mentre un referendum nazionale respinse nuovamente l'ingresso della Norvegia.
Ad un altro estremo, nella penisola iberica, Spagna e Portogallo presentavano ai margini del «mondo libero» due regimi autoritari, reazionari e clericali. E se il Portogallo di Salazar si era procurato delle benemerenze presso i vincitori concedendo prontamente agli alleati basi navali durante la guerra, nella Spagna di Franco, residuo dell'avanzata fascista degli anni Trenta, il regime aveva qualche motivo di temere per la propria sopravvivenza. Ma la logica della «guerra fredda» fece presto apprezzare il suo dichiarato anticomunismo. Era anche quella Europa (anzi, tra gli ideologi del franchismo permanevano gli echi di una retorica reazionaria degli anni Venti-Trenta, europeista perché nel contempo antisovietica e antiamericana); ed era un Occidente imbarazzante, perché smentiva i principi di libertà sui quali l'ideologia atlantica fondava le sue rivendicazioni di superiorità. I contatti fra l'Europa «vera» e quella sua appendice erano nondimeno concretamente rappresentati dal flusso via via crescente di emigrati iberici verso le fabbriche di Francia, Germania e Benelux e dal flusso opposto di capitali dall'Europa prospera nella penisola iberica.
Nel 1986 Spagna e Portogallo entrarono a pieno titolo nella Comunità Europea.
Infine, era occidente la Grecia? Sotto la retorica sull'Ellade e sulla civiltà ellenica come culla della civiltà occidentale, stava la realtà di un Paese povero, dominato da una oligarchia di latifondisti, armatori e borghesia mercantile e retto formalmente da un sistema parlamentare pesantemente condizionato dalla monarchia e dall'esercito. Ciò nonostante nel 1981 anche la Grecia poté entrare nella Comunità europea.
Tuttavia, nel giro di trent'anni, un nucleo centrale di Paesi finì coll'attrarre via via i Paesi ai margini, sino a ricomporre in gran parte il quadro dell'Europa di prima dei conflitti mondiali, dove per le élite non esistevano quasi frontiere e una comune cultura circolava, per le minoranze privilegiate, tra le capitali delle grandi potenze.
Nel 1997 altri dodici Paese chiesero di poter entrare a far parte dell'Unione. Durante un vertice tenutosi a Lussemburgo venne accolta la richiesta di esame di 11 Stati candidati (Cipro, Estonia, Polonia, Repubblica Ceca, Slovenia, Ungheria, Bulgaria, Lettonia, Lituania, Romania e Slovacchia), mentre fu respinta quella della Turchia per la difficile situazione politica e sociale interna, soprattutto riguardo alla violazione dei diritti umani.

ORGANIZZAZIONE POLITICA E ORGANIZZAZIONE ECONOMICA


La fine della guerra portò il rilancio delle idee «europeiste» elaborate negli anni Venti e Trenta negli ambienti intellettuali di orientamento liberale. Se i due conflitti mondiali erano stati in primo luogo guerre civili europee, alimentate dai contrapposti nazionalismi, la prospettiva di un avvenire pacifico dipendeva dal superamento di questi. La ricerca di intese economiche e politiche tra gli Stati dell'Europa occidentale venne promossa negli anni Cinquanta dai leader democristiani (il francese Schuman, il tedesco Adenauer, l'italiano De Gasperi) e trovò il sostegno dei partiti liberaldemocratici (per esempio, in Francia, i radicali di Pierre Mendès France). La realizzazione del programma europeista comportava la stipulazione di accordi non solo commerciali e doganali, ma anche politici e in prospettiva militari tra Stati appena reduci da una guerra sanguinosa e divisi da rivalità antiche. L'integrazione militare (Ced = «Comunità Europea di Difesa») proposta nel 1954 fallì per l'opposizione della Francia: nell'occasione la destra nazionalista e la sinistra comunista si trovarono concordi nell'opposizione, contro i partiti di centro favorevoli. Nei confronti del processo di integrazione dell'Europa occidentale la convergenza di destre e sinistre non è stata infrequente. In Inghilterra, sin da quando venne avanzata la richiesta (non accolta per il veto di de Gaulle) di adesione alla Comunità Economica Europea, i laburisti, e soprattutto la sinistra, furono contrari, al pari di alcuni esponenti della destra conservatrice. Solo dopo un decennio di propaganda filoeuropeista, e sulla scia del declino dell'economia inglese e dell'allentamento dei legami nel Commonwealth, l'opinione pubblica britannica si spostò su posizioni favorevoli alla Cee in misura tale da dare la maggioranza agli europeisti nell'apposito referendum.
La cooperazione economica venne realizzata per gradi, dapprima nel settore specifico dell'industria siderurgica ed estrattiva (Ceca = «Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio», 1951) e più tardi attraverso la formazione di una Comunità economica europea (Cee) e di una Comunità europea per l'energia atomica (Euratom), istituite con i trattati di Roma del 1957. Sei Paesi (Francia, Germania Occidentale, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo) si impegnavano a costituire progressivamente un Mercato Comune Europeo (Mec) dei prodotti agricoli, riducendo e poi abolendo i dazi, controllando la produzione e i prezzi e stabilendo compensi per i coltivatori. Gli organi direttivi di Ceca, Euratom e Mec vennero unificati nel 1966, sicché la Cee risultò strutturata su un Consiglio (formato da ministri degli Stati membri), una Commissione (formata da esperti) e un Parlamento (con sede a Strasburgo e formato inizialmente da deputati nominati dai Parlamenti nazionali e dal 1979 eletto ogni cinque anni a suffragio diretto dai cittadini dei Paesi membri).
«Europa dei sei», fu definita in modo neutro la Comunità, che si imperniava su un asse franco-tedesco, buon tutore degli interessi industriali della Germania e di quelli agricoli francesi. Con enfasi retorica, i promotori si sbilanciarono a chiamarla «Europa di Carlomagno», perché corrispondeva pressappoco all'antico impero carolingio. Per la sinistra fu, almeno all'inizio, «Europa dei banchieri»: e ovunque (dalla Francia alla Gran Bretagna e alla Danimarca) la sinistra radicale ha manifestato sino all'ultimo diffidenza per un organismo sovranazionale, dunque difficilmente controllabile dai Parlamenti nazionali, la sola sede dove una sinistra radicale poteva riuscire a far sentire la propria voce. Dall'Europa dei sei la Gran Bretagna rimase esclusa inizialmente per indecisione propria (del resto il leader conservatore MacMillan pensava di entrare nel Mec per riconquistare alla Gran Bretagna nell'ambito continentale il ruolo politico perso con lo smembramento dell'impero) e poi, dal veto di de Gaulle nel 1963, sino al 1973, per l'opposizione della Francia. L'entrata in vigore dei trattati di Roma precedette infatti di poco il ritorno al potere in Francia di de Gaulle (1958). Diffidente verso le organizzazioni sovranazionali, teorizzatore dell'«Europa delle patrie» come salvaguardia delle singole identità nazionali, attento agli interessi della Francia, de Gaulle rallentò l'allargamento della Cee. De Gaulle, che fondava parte del suo prestigio interno su una politica estera assai dinamica e condita di gesti di insofferenza verso l'egemonia statunitense, amava parlare di un'Europa estesa non solo geograficamente dall'Atlantico agli Urali.
Tra i due tronconi d'Europa divisi dalla «guerra fredda» i rapporti, difficili sul piano della politica e gravati dal problema tedesco, della divisione cioè della Germania in due Stati, non riconosciuta dalla Germania federale ma simbolicamente ribadita nel 1961 dalla costruzione del muro di Berlino, si strinsero anzitutto sul terreno degli scambi commerciali, per iniziativa dei singoli Governi. In particolare, una svolta decisiva fu rappresentata dall'avvento al governo, nel 1969, del Partito socialdemocratico nella Germania occidentale. Il nuovo leader Willy Brandt inaugurò una politica (denominata Ostpolitik, cioè politica nei confronti dei Paesi dell'Est) di ristabilimento di buone relazioni con la Germania orientale (propriamente, Repubblica Democratica Tedesca), e con la Polonia, con la quale restava aperto il problema del riconoscimento delle frontiere del 1945, che avevano sottratto alla Germania i territori oltre i fiumi Oder e Neisse. In cambio del riconoscimento dello status quo e dei confini esistenti, la Germania occidentale stabiliva relazioni economiche con l'altra Germania, e chiedeva misure che favorissero il ricongiungimento delle famiglie divise tra i due Stati, permessi di espatrio e la possibilità di visite dall'altra parte della frontiera. L'Ostpolitik fu aspramente avversata, all'inizio, dai conservatori tedeschi e dagli Usa durante la presidenza Nixon, sia come possibile fattore di indebolimento dell'Alleanza atlantica, sia come iniziativa autonoma di un alleato europeo nei confronti del blocco dell'Est; ma fu proseguita per tutti gli anni Settanta dai Governi di coalizione tra i socialdemocratici e i liberali. Di fatto, le conseguenze economiche dell'Ostpolitik furono di stabilire una complementarità tra le economie tedesco occidentale e tedesco orientale; quelle propagandistiche furono di far risaltare il diverso tenore di vita tra le due Germanie, minando la credibilità del regime della Repubblica Democratica Tedesca.
Sempre sul terreno economico è poi avvenuta la dilatazione effettiva della nozione di Europa, parallela alla perdita di valore della nozione di Occidente. Negli anni Settanta la Cee si è allargata a Nord, includendo Irlanda, Danimarca e Gran Bretagna (1973), a Sud includendo la Grecia (1981), la Spagna e il Portogallo (1986). Successivamente (1995) le porte si aprirono anche per Svezia, Finlandia e Austria.
La Cee è stata a lungo una compagnia di soci litigiosi, alcuni dei quali (specie la Gran Bretagna durante la leadership conservatrice di Margaret Thatcher, dal 1979 al 1990) poco interessati a potenziare effettivamente il parlamento europeo e le prospettive di effettiva unificazione economica che finalmente ebbe inizio nel 1991 e 1992, rispettivamente con la stipulazione e la firma del trattato di Maastricht sull'Unione europea che fissava l'unità di valuta europea (l'ECU) quale base per la creazione di una futura moneta comune europea, l'euro. Nella stessa occasione della firma del trattato (7 febbraio 1992) la Cee cambiò denominazione divenendo Unione europea. Alcune nazioni (Danimarca, Gran Bretagna) si mostrarono da subito riluttanti al progetto di un'unità monetaria comune che facesse capo a una Banca centrale (la Banca centrale europea, appunto) e decisero di rimanere fuori da ogni accordo in questo senso (la Grecia invece fu costretta a rimanere in disparte da problemi economici interni, riuscendo ad entrare solo nel gennaio 2001). Nel giugno 1998, durante una riunione dei rappresentanti dei 15 Stati membri dell'Unione Europea, si decise di stabilire il 1999 come data ufficiale di nascita della nuova moneta e di fissare per il 1° gennaio 2002 il giorno dell'entrata in vigore dell'euro in sostituzione delle divise monetarie nazionali dei vari Paesi aderenti alla cosiddetta Eurolandia: le modalità e i tempi di sostituzione sarebbe variati, comunque, da Paese a Paese con un periodo più o meno lungo di convivenza tra vecchia e nuova moneta.
Willy Brandt


IL RECUPERO DELLE PERIFERIE: PENISOLA IBERICA E GRECIA


Benché fossero legate da relazioni economiche, e nel caso del Portogallo e della Grecia da patti militari (entrambi erano membri della Nato), al resto dell'Europa occidentale, penisola iberica e Grecia rappresentavano due appendici non solo geografiche del resto del continente. Sul piano politico, si trattava di regimi autoritari: dittature Portogallo e Spagna, democrazia parlamentare dominata dai conservatori la Grecia, dove nel 1967 un Governo di centro-sinistra presieduto da Georgios Papandreu fu abbattuto da un colpo di stato militare e sostituito da un regime dittatoriale, detto dei «colonnelli», che proscrisse, incarcerò e torturò gli oppositori politici. L'approdo dei tre Paesi alla democrazia parlamentare avvenne in modi assai diversi nel giro di due anni, fra il 1974 e il 1976. In Grecia, i militari in difficoltà di fronte all'opposizione interna e all'opinione pubblica internazionale furono travolti da una crisi internazionale. A Cipro, isola popolata da una maggioranza greca e una minoranza turca, il Governo locale si trovò di fronte alla rivolta della comunità turca, che chiese aiuto al Governo della madrepatria. Contemporaneamente, tra i Greci di Cipro agiva una corrente nazionalista favorevole alla riunificazione con la Grecia. Quando i Turchi inviarono un corpo di spedizione a presidiare la parte turca dell'isola, i «colonnelli» si resero conto di non poter rischiare una guerra con la Turchia e di non avere l'appoggio degli Usa. Di fronte alle proteste della popolazione abbandonarono il Governo. Il ritorno al regime parlamentare fu guidato da un anziano leader conservatore, Karamanlis; ma negli anni Ottanta il Paese venne governato dal partito Socialista guidato dal figlio di Giorgio Papandreu, Andrea. Primo ministro sino al 1989, questi sommò a una politica interna confusamente progressista un orientamento di politica estera ostentatamente antistatunitense, benché più a parole che non a fatti (i Greci rimproveravano agli Usa tanto l'appoggio al colpo di Stato e al regime dei colonnelli, quanto l'abbandono di fronte alla Turchia). L'uso spregiudicato del potere per costituire folte clientele elettorali e la disinvoltura nell'utilizzazione dell'apparato statale finirono però per coalizzare contro il partito di Papandreu comunisti e conservatori, e questi ultimi tornarono al Governo da soli nel 1989. Nel 1993, però, Papandreu ritornò al potere, ma morì tre anni dopo, sostituito da Kostas Simitis. Si mantennero invece i problemi con la Turchia (contro la quale c'era la rivendicazione del possesso di alcune isole dell'Egeo) e con la neonata Repubblica di Macedonia, anche in questo caso per problemi legati all'attribuzione di porzioni di territorio. Ciò nonostante, nel 2001 la Grecia riuscì ad entrare nel gruppo dei Paesi nei quali era prevista l'introduzione dell'euro.
In Portogallo il regime reazionario e clericale al potere sin dagli anni Venti sotto la guida di Salazar, e dopo la sua morte sotto quella di Marcelo Caetano, fu progressivamente minato dalla lunga guerra contro i movimenti indipendentisti delle colonie africane (Angola, Mozambico, Guinea Bissau): una guerra che i Portoghesi non potevano vincere e che, oltre ad assorbire gran parte delle risorse di un Paese povero, suscitò sempre più ostilità tra la popolazione e persino all'interno dell'esercito che la guidava. Il regime crollò per un colpo di Stato incruento attuato dai capi dell'esercito, con un programma progressista. Fu, nella primavera del 1974, la cosiddetta «rivoluzione dei garofani». Nella arretrata situazione sociale portoghese parve che i militari progressisti, alcuni dei quali, formatisi sul pensiero terzomondista e ostili ad una modernizzazione del Paese di tipo capitalista, immaginassero per il Portogallo un ruolo di ponte tra Europa e Terzo mondo e uno sviluppo autarchico di stampo cooperativistico o collettivistico. La apparente radicalità (almeno di prospettive) della rivoluzione portoghese, che le attirò attenzione e simpatie nella nuova sinistra europea, era in effetti un portato dell'arretratezza del Paese e dello scarto di coscienza politica esistente tra l'avanguardia (l'esercito) e la massa della popolazione. I militari tesero a conservare il potere, attribuendo un ruolo istituzionale al consiglio delle forze armate; ma procedettero ad epurarsi incruentemente, oscillando prima a sinistra (e i generali autori di facciata del colpo di stato vennero allontanati dal potere) e poi a destra, dopo un confronto polemico tra il partito Socialista (guidato da Mario Soares, su posizioni moderate) e l'estrema sinistra civile e militare. Nel 1976, con un altro colpo di Stato incruento, i reparti più politicizzati vennero sciolti, e gli ufficiali radicali del consiglio delle forze armate allontanati. Il governo venne restituito ai civili, anche se alla presidenza della Repubblica rimase per un mandato un militare; le elezioni segnalarono una reazione conservatrice, specie nelle zone del Paese, come il settentrione delle piccole e piccolissime proprietà agricole, poco avvantaggiate dai provvedimenti nazionalizzatori del Governo progressista. Nel 1983, però, Soares venne rieletto e iniziò una serie di riforme che portarono, tra l'altro, all'ingresso del Paese in Europa nel 1986, anno in cui lo stesso Soares venne eletto presidente della Repubblica: egli mantenne la carica fino al 1996, quando venne sostituito da Jorge Sampaio. Il Paese rimase a guida socialista fino al 2002, anno dello scavalcamento politico da parte del partito conservatore dei Socialdemocratici.
In Spagna il regime del generalissimo Francisco Franco, al potere dopo la sanguinosa guerra civile del 1936-1939, per qualche anno tenuto al bando dalla comunità internazionale ma poi capace di avviare le basi dell'industrializzazione del Paese, preparò il proprio trapasso. Franco, che aveva conservato l'istituto monarchico, ma aveva impedito al pretendente al trono l'esercizio delle sue funzioni, predispose il ritorno del sovrano, Juan Carlos di Borbone. Il regime franchista aveva perseguito una politica centralizzatrice, che negava autonomia amministrativa e culturale alle regioni non castigliane della Spagna. In questo, rappresentava la riproposizione moderna di una tendenza alla supremazia del governo centrale e della Castiglia nell'ambito di un Paese dalle tradizioni autonomistiche e centrifughe assai antiche. I principali focolai di opposizione erano rappresentati dalla Catalogna, la regione più industrializzata del Paese, di lingua catalana e di tradizioni politiche progressiste, e dai Paesi baschi, una piccola regione in parte rurale e in parte sede della prima industria pesante spagnola (siderurgia, cantieristica). A differenza della Catalogna, i Paesi baschi avevano una tradizione politica conservatrice e cattolica. Tuttavia (o forse proprio per questo), mentre l'opposizione in Catalogna abbinava la rivendicazione autonomista alla lotta antifranchista, nei Paesi baschi l'accento venne posto soprattutto sulla rivendicazione nazionalistica. Il ricordo della guerra civile, terminata con spietate repressioni e con l'esilio di centinaia di migliaia di persone, e l'efficacia del regime repressivo, fecero sì che l'opposizione al franchismo restasse a lungo piuttosto debole. Pochi anni dopo la guerra civile furono fatti alcuni tentativi, falliti, di incursione armata nella Spagna settentrionale. Negli anni Sessanta alcuni clamorosi processi politici, terminati con condanne a morte, ricordarono all'opinione pubblica l'esistenza di un problema spagnolo. Ma il regime poteva contare su un innegabile successo nel porre (autoritariamente) le basi dello sviluppo economico del Paese. Morto Franco nel 1975, la direzione del Governo fu assunta dalle nuove leve del franchismo, mentre il nuovo sovrano iniziava ad assumere un ruolo di arbitrato nella politica del Paese, sullo sfondo di una nazione in effervescenza sociale (le agitazioni condotte da sindacati non di regime, in testa le comisiones obreras, si svilupparono rapidamente) e dove si ricostituivano i partiti di sinistra. Le sinistre spagnole (socialisti riunificati e sostenuti dalla socialdemocrazia tedesca, e comunisti disposti a una politica di solidarietà nazionale per uscire dalla proscrizione) accettarono un compromesso istituzionale, che sanciva il riconoscimento della struttura politica prevista da Franco in cambio di libere elezioni e del ritorno alla normale vita parlamentare. Questo compromesso («patto della Moncloa», dalla residenza dove venne stipulato) assicurò la pacifica transizione alla democrazia parlamentare. Le tentazioni dittatoriali di alcuni ambienti militari (manifestate clamorosamente da una goffa occupazione del parlamento e meno visibilmente da oscuri complotti degli alti gradi dell'esercito) vennero sventate. Nel 1982 le elezioni furono vinte dal partito Socialista, che governò il Paese, nella figura di Felipe González, fino al 1996, anno di ascesa al potere di José Marìa Aznar del Partito popolare. La centralizzazione franchista è stata rovesciata, costituendo 17 regioni (comunità autonome) e riconoscendo le rivendicazioni culturali degli autonomisti con l'ammissione del bilinguismo nelle regioni di lingua catalana, basca e galiziana. Il Governo socialista ha attuato una politica assai moderata, accettando l'ingresso del Paese nella Nato, perseguendo l'adesione alla Cee, e accompagnando un'accelerazione dello sviluppo economico con una accentuata liberalizzazione dei modi di vita e dei costumi, che ha fatto della Spagna il Paese europeo forse più profondamente e rapidamente mutato dell'ultimo trentennio. Un ulteriore successo, questa volta ottenuto dal Governo di Aznar, fu l'ingresso del Paese nel primo gruppo degli ammessi alla moneta unica europea. Insoluto è rimasto però il problema basco. L'autonomia non ha soddisfatto l'ala estrema del nazionalismo basco (l'organizzazione Eta), che ha proseguito una sanguinosa campagna di attentati contro la polizia e, successivamente, contro esponenti politici e giornalisti anche dopo la fine del regime franchista. La collaborazione tra i Governi spagnolo e francese (in Francia, dove esiste egualmente una minoranza basca, l'organizzazione nazionalistica aveva basi di appoggio) ha costretto l'Eta ad aprire trattative informali con il Governo (1987-88). Ma la soluzione della questione basca non sembra, nonostante tutto, vicina, visto che la rivendicazione dell'indipendenza divide gli stessi baschi, e d'altra parte la repressione poliziesca è, come sempre, inefficace contro un moto di indipendenza nazionale. Gli attentati continuarono per tutti gli anni Novanta, arrivando, nel 1997, all'omicidio di un consigliere comunale basco, Miguel Angel Blanco, appartenente al Partito popolare, delitto che scatenò un'ondata di manifestazioni popolari contro il terrorismo basco. Nel 1998 la firma di un cessate il fuoco su modello irlandese fece sperare nell'inizio del processo di pacificazione nazionale, ma l'intransigenza del Governo portò alla rottura della tregua e alla ripresa dell'attività terroristica.

UNA SOLA EUROPA?


Quando si parla di Europa come entità unitaria si pensa alla Ue e prima ancora alla Cee e alla sua esistenza da quando venne istituita con i trattati di Roma nel 1957.
La storia dell'Unione europea è certamente decisiva per le sorti di un'Europa unita, ma occorre ricordare che l'idea di Europa ha dovuto affermarsi con una certa difficoltà perché rappresentava di per sé più una definizione geografica che un organismo politico-economico.
Uscita dalla Seconda guerra mondiale stremata e divisa, l'Europa in quasi mezzo secolo ha saputo riconquistare una forza economica che ne ha fatto insieme con gli Usa l'area più prospera del mondo. Le resistenze da superare non erano poche né semplici: vi era innanzi tutto la tradizionale diffidenza dei vari Stati nei confronti dei vicini che annosi e faticosi conflitti e trattative per la definizione dei confini avevano finito per far considerare sempre e comunque come nemici. Vi erano storie diverse e spesso contrapposte, esigenze sociali, economiche spesso in opposizione.
Vi era in particolare una definizione di Europa che al massimo poteva abbracciare l'area centro-continentale, ma che sembrava escludere sia le regioni mediterranee, sia le nordiche, sia le periferie, prima di tutte quelle orientali dove, come si è già detto, era dubbio che la Russia potesse essere considerata Europa.
Nel secondo dopoguerra la formazione di due blocchi di potere contrapposti, Usa e Urss aveva nettamente spaccato l'Europa (la cortina di ferro di cui parava Churchill) contrapponendo l'Occidente all'Est. La collocazione dell'Europa tra le due superpotenze aveva tuttavia anche spinto gli Stati dell'Europa occidentale a prendere l'iniziativa per la costruzione di un polo capace di contrastare economicamente il peso dei due Imperi, statunitense e sovietico.
Il processo di formazione della Comunità, fortemente voluto da personaggi che restano tra i padri dell'Europa unita, come i francesi Robert Schuman e Jean Monnet, gli italiani Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, cominciò a concretizzarsi agli inizi degli anni Cinquanta con la Ceca (Comunità europea del carbone e dell'acciaio, 1951). Nel 1957 i trattati di Roma tra Belgio, Francia, Repubblica federale di Germania, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi (Europa dei Sei) istituirono la Cee e diedero vita all'Euratom, la Comunità europea per l'energia atomica.
Nel 1973 l'Europa a Sei divenne l'Europa a Nove con l'adesione della Danimarca, dell'Irlanda e del Regno Unito. In quest'ultimo Stato le resistenze nazionalistiche e conservatrici verso la Cee si erano ridotte: a rappresentarle era stato soprattutto il leader conservatore inglese Margaret Thatcher che aveva rovesciato così l'orientamento tradizionale della politica inglese che vedeva i conservatori europeisti e i laburisti antieuropei.
Nel 1979 per la prima volta i cittadini dei nove Stati membri della Comunità elessero a suffragio universale i loro rappresentanti al Parlamento europeo.
Nel 1981 la Grecia divenne il decimo Stato membro della Comunità e nel 1986 aderirono anche Spagna e Portogallo portando a dodici il numero complessivo degli Stati della Cee.
Tenace è stata la diffidenza delle sinistre radicali di altri Paesi, che fino a quando si è mantenuto il blocco sovietico, hanno più o meno consapevolmente sostenuto l'ideale del socialismo in un solo Paese e quello dello sviluppo autarchico; queste forze politiche ovviamente si erano mostrate assai caute nei confronti del processo di integrazione europea.
Motivi di diffidenza verso la Comunità erano nutriti anche dalle democrazie nordiche che temevano di vedere compromessa la loro situazione di benessere in un'Europa dove le differenze economiche e sociali erano ancora molto forti. Anche in questi Stati tuttavia si era fatta strada la convinzione di non poter restare fuori da un organismo che rappresentava ormai uno dei principali poli economici mondiali. Gli avvenimenti dell'Est europeo con la disgregazione dell'Urss e il crollo dei regimi comunisti aveva accelerato la spinta all'adesione.
Frattanto la Comunità economica europea aveva compiuto altri passi: nel 1990 uno storico vertice europeo a Roma tra i dodici capi di Stato o di Governo aveva inaugurato le Conferenze intergovernative destinate a trasformare l'attuale mercato comune in Unione economica e monetaria e in Unione politica. L'anno dopo i dodici concordarono a Maastricht, in Olanda, i testi del nuovo Trattato sull'Unione europea. Nel 1992, sempre a Maastricht venne firmato il trattato che liberalizzava la circolazione di merci, capitali e servizi a partire dal 1993 e che trasformava la Comunità economica europea in Unione europea.
Nel 1995 entrarono nell'Unione Finlandia, Svezia e Austria, mentre vennero ammessi nella "lista d'attesa'' Cipro, Estonia, Polonia, Repubblica Ceca, Slovenia, Ungheria (destinati ad entrare per primi) oltre a Bulgaria, Lettonia, Lituania, Romania e Slovacchia. Sempre nel 1995 vi fu l'entrata in vigore del Trattato di Schengen (redatto dieci anni prima e firmato nel 1990) con il quale si creava un'area di libero scambio di merci e persone sul territorio europeo, allargata anche ad alcuni Paesi non membri quali la Norvegia o l'Islanda ed escludente invece Gran Bretagna e Irlanda)
La Comunità intrattiene rapporti con quasi tutti gli Stati del mondo e ha stipulato accordi di associazione e di libero scambio con i Paesi europei che hanno chiesto l'ammissione e con molti Paesi mediterranei, oltre che accordi commerciali con Paesi dell'America e dell'Asia.
Da un punto di vista istituzionale l'Unione europea è articolata in diversi organi.
Il Parlamento europeo, dove sono eletti a suffragio universale i rappresentanti di ogni Stato membro, ha il compito di elaborare le leggi comunitarie ed esercitare il controllo politico sulle decisioni dell'Unione.
La Commissione europea, composta da 20 commissari che, in piena indipendenza dai rispettivi Governi nazionali, ha potere di iniziativa e di esecuzione: propone le leggi comunitarie, vigila sul rispetto dei trattati.
Il Consiglio dei ministri, composto dai ministri rappresentanti dei diversi Stati membri, adotta le leggi comunitarie proposte dalla Commissione.
Il Consiglio europeo, formato dai capi di Stato o di Governo, dai ministri degli Esteri, dal Presidente della Commissione europea e da un suo membro, definisce i grandi orientamenti politici comunitari.
La Corte di Giustizia, composta da 15 giudici e da 6 avvocati generali, assistita da un Tribunale di primo grado, assicura l'interpretazione del diritto comunitario e dirime le controversie tra Stati e singoli cittadini e Unione.
La Corte dei Conti, composta da 15 membri, controlla la gestione delle finanze.
La Banca centrale europea, attiva dal 1° luglio 1998, è l'organismo bancario a cui fanno riferimento i Paesi membri dell'Unione Monetaria Europea. Oltre a occuparsi di questioni politiche monetarie, ha il compito di emettere le monete in euro.

DAL GRANDE MERCATO ALL'UNIONE EUROPEA


La Comunità europea si proponeva inizialmente di integrare fra loro le economie dei Paesi membri per dar vita ad un Mercato Comune Europeo. Nel corso degli anni Sessanta la Comunità raggiunse due importanti obiettivi: l'unione doganale e l'unione agricola. Con la prima le merci potevano circolare liberamente da un Paese membro all'altro, senza che i loro movimenti fossero colpiti da dazi alle frontiere; inoltre verso i Paesi esterni alla Comunità venivano adottati dazi comuni. Con l'unione agricola si sostituiva alle politiche nazionali nel campo dell'agricoltura un'unica politica europea, basata sull'esistenza di prezzi comuni per il grano, il latte, ecc.
Negli anni Settanta i disordini monetari e le crisi che colpirono l'economia internazionale impedirono l'approfondimento dell'integrazione economica fra i Paesi comunitari, e la Comunità non si dimostrò in grado di reagire con efficacia alle difficoltà esterne ed interne, entrando in una situazione di progressiva paralisi. La responsabilità di questo stato di cose risiedeva soprattutto nella mancanza di democrazia che caratterizzava le istituzioni comuni. Le decisioni venivano assunte dagli Stati all'interno del Consiglio dei ministri europei ed eseguite poi da un organo tecnico, la Commissione, senza alcun controllo da parte del Parlamento europeo, che non aveva il potere di fare le leggi ed aveva una scarsa legittimazione democratica, in quanto non veniva eletto, ma nominato dai singoli Paesi.
La reazione alla situazione di crisi in cui versava la Comunità avvenne solo alla fine degli anni Settanta. Nel 1979 si giunse nel contempo alla elezione diretta del Parlamento europeo e al varo del Sistema Monetario Europeo (Sme). Entrambi i fattori erano destinati ad operare il rilancio della Comunità nel giro di qualche anno. Il Sistema monetario europeo impose una disciplina economica comune ai Paesi membri ed ebbe per effetto di assicurare la relativa omogeneità dei risultati delle economie dei diversi Paesi, creando così le condizioni di fatto per il completamento del mercato comune. In effetti, i governanti europei si erano resi conto nel frattempo che gli obiettivi del Trattato di Roma, che stava alla base della nascita della Comunità Economica Europea (Cee), non erano stati in larga misura raggiunti: le merci non erano più colpite da dazi nei trasferimenti da un Paese membro all'altro, ma venivano ancora ostacolate da molte barriere, e soprattutto non veniva garantita la libera circolazione dei fattori produttivi: il lavoro, specie quello qualificato, e i capitali (in questo caso i movimenti finanziari all'interno della Comunità).
Tuttavia questa situazione insoddisfacente, che penalizzava anche i Paesi europei nella competizione mondiale con gli Stati Uniti e con il Giappone, non si sarebbe tradotta in una premessa per il rilancio della Cee se non fosse stato presente il fattore politico. Il Parlamento eletto a suffragio universale si sentì legittimato a chiedere una riforma della Comunità in senso democratico. Nel 1984, grazie all'iniziativa di Altiero Spinelli, fondatore del Movimento Federalista Europeo, il Parlamento votò un progetto di trattato per l'Unione Europea e lo presentò ai Governi perché lo accettassero. Con l'Unione Europea la Commissione della Comunità si sarebbe trasformata in un governo dell'Unione, responsabile politicamente di fronte al Parlamento europeo, al quale sarebbero stati attribuiti anche poteri legislativi. Sarebbe venuto meno in tal modo il cosiddetto «deficit democratico»: il fatto che nel corso del processo di integrazione i Parlamenti nazionali perdessero il controllo su competenze trasferite a livello europeo, ma sulle quali il Parlamento di Strasburgo non aveva modo di intervenire, perché privo di poteri.
I Governi respinsero tuttavia il progetto di Unione Europea, accontentandosi inizialmente di introdurre alcune modifiche nel Trattato di Roma, per tener conto delle nuove politiche europee nel frattempo maturate: ad esempio la politica regionale e quella della salvaguardia dell'ambiente a livello europeo. Le modifiche vennero raccolte nell'«Atto unico» del 1986, denominato in tal modo per mettere in luce il carattere unitario delle nuove competenze attribuite alla Comunità. L'«Atto unico» indicava anche l'obiettivo del grande mercato, ovvero il completamento del mercato interno europeo entro la fine del 1992.
Le barriere che i 12 Paesi europei si proponevano di abbattere entro quella data riguardavano gli ostacoli fisici (i controlli alle frontiere interne in occasione del passaggio delle persone e delle merci), gli ostacoli fiscali (soprattutto l'imposta sul valore aggiunto, applicata in base ad aliquote differenti da Paese a Paese) e gli ostacoli di natura tecnica (l'esistenza di regolamentazioni nazionali diverse, spesso strumento di protezione del mercato nazionale dalla concorrenza degli altri Paesi).
Nel 1991, nella città olandese di Maastricht, venne redatto un accordo che prevedeva la creazione di una Banca centrale europea destinata a gestire, nel tempo, la prevista moneta unica - l'euro -, divisa dell'Unione monetaria europea. In quell'occasione la Cee cambiò la sua denominazione in Unione europea.
Nel 1999 l'euro venne ufficialmente introdotto e nel 2002 divenne la moneta ufficiale di 12 Paesi.

EUROPEISMO


Un'appassionata domanda di Europa, di identità europea, di civiltà europea ha animato e accompagnato il movimento di liberazione che nel 1989 ha travolto i regimi totalitari instaurati dai partiti Comunisti sostenuti dall'Unione Sovietica nei Paesi dell'Europa centrale e orientale. E una immediata risposta di solidarietà europea è venuta dai popoli - e anche, chi più chi meno, dalle forze politiche e dai Governi - dell'Europa occidentale. Quel grido da Oriente e quella risposta da Occidente avevano un suono che ci ha ricordato quello del colpo di cannone sparato due secoli prima a Valmy dai rivoluzionari francesi, che fece dire a Goethe che da quel momento aveva inizio una nuova epoca nella storia del mondo.
Forse il 1989 può segnare l'inizio di una nuova epoca per quell'idea e quel progetto, che si usa designare con la parola «europeismo». Qual è la sua origine, la sua storia, la sua prospettiva?
Il grande storico Federico Chabod si domandava, all'inizio della sua Storia dell'idea d'Europa (pubblicata dall'editore Laterza nel 1961 e poi molte volte ristampata), quali potessero essere «i criteri di valutazione politico-culturale-morale» per definire l'Europa e dava questa risposta (che può considerarsi l'inesauribile motivazione ideale dell'europeismo): «criterio fondamentale di differenziazione è quello della libertà politica, ellenica, contrapposta alla tirannide asiatica; e la libertà significa partecipazione di tutti alla vita pubblica (onde si hanno cittadini e non sudditi) e vivere secondo le leggi, non secondo l'arbitrio di un despota».
Quanto sia valido e attuale questo fondamento lo hanno mostrato appunto, gli eventi del 1989, quella domanda di Europa gridata dai popoli che andavano liberandosi dalla tirannide. Europa non come mercato ma come democrazia. Direi che in questo rapporto tra mercato e democrazia, e soprattutto nella diversa intensità di progettazione e d'impegno riguardo all'obiettivo del mercato comune e/o a quello della comunità democratica si snoda, dalla metà di questo secolo, la storia dell'europeismo.
All'origine non c'è, come obiettivo prioritario, il mercato comune. Ma di fatto è con la sigla Mec (Mercato Europeo Comune) che per molto tempo è stata identificata l'impresa dell'unità europea intorno alla metà del secolo. Perché tale divario tra ideale e reale?
L'ideale europeistico è scaturito, come obiettivo politico, dalla riflessione sugli effetti catastrofici dei nazionalismi che nella prima metà di questo secolo hanno fatto dell'Europa il focolaio di due guerre mondiali. Proprio negli anni più duri e oscuri della Seconda guerra mondiale, alcuni protagonisti della resistenza al nazismo e al fascismo - tra i quali, pur nella estrema concisione di questi cenni storici, non possono non essere ricordati Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi - lanciarono il Manifesto per l'Europa libera e unita, più tardi chiamato Manifesto di Ventotene dal nome dell'isola di confino in cui fu redatto nel 1941. Questo divenne l'atto di nascita del «federalismo europeo», organizzatosi poi in movimento suscitatore e animatore di tutte le successive iniziative europeistiche.
Il federalismo comportava un trasferimento di sovranità dal livello degli stati nazionali al livello di un'autorità europea sovranazionale di carattere, appunto, federale: mirando agli «Stati Uniti d'Europa», a somiglianza dell'assetto federale degli Stati Uniti d'America. Questo rimane ancor oggi l'obiettivo finale del processo di unione politica dell'Europa, secondo il pensiero federalista. Ma nell'immediato dopoguerra, e anche nei decenni successivi, gli Stati nazionali europei si dimostrarono disposti (anche se spesso assai riluttanti) a cedere qualche porzione di sovranità economica per realizzare il mercato comune; mai a consentire attenuazioni di sovranità politica in funzione di una prospettiva di unità politica di tipo federalistico. L'egemonia delle due superpotenze a Est e a Ovest, la contrapposizione dei due blocchi politico-militari (Alleanza Atlantica e Patto di Varsavia), la spaccatura dell'Europa e l'insuperabile sbarramento eretto dall'Est contro l'Ovest («muro di Berlino» e «cortina di ferro») esasperavano i contrasti e le suscettibilità nazionali in una situazione che imponeva rinunce di sovranità nazionali a favore della superpotenza egemone nell'area del proprio sistema di alleanze.
L'altra versione dell'europeismo - quella «confederalista» - non costituiva un'alternativa bensì una rinuncia. Era stata prospettata dai due più eminenti statisti europei, Winston Churchill e Charles de Gaulle. Ciascuno a suo modo, e ciascuno attribuendo al proprio Paese un ruolo storico di guida e perciò egemonico: che nessun altro Stato europeo era disposto ad accettare.
Fu intrapreso allora - e con successo, come vedremo - il tentativo che prese il nome di «funzionalista» in quanto mirava ad aggirare l'ostacolo delle coriacee sovranità nazionali proponendo specifiche amministrazioni sovranazionali in funzione di precisi, ben delimitati e concreti interessi, di natura prevalentemente economica, per i quali una comune gestione sovranazionale si presentava indiscutibilmente utile e praticabile. Ideatore e artefice di tale metodo fu Jean Monnet, alto funzionario francese (poi responsabile del Commissariat au Plan), che durante la guerra era stato messo dagli Alleati a capo di una delle loro Agenzie internazionali.
Va riconosciuto a quel metodo il merito di aver tratto l'europeismo fuori dal vicolo cieco in cui era stato imbucato e di aver messo in moto il processo di costruzione della Comunità europea: la prima, quella del carbone e dell'acciaio, poi quella del mercato comune, la Comunità Economica Europea (Cee), divenuta in seguito Unione europea segnando l'inizio di un processo di unificazione monetaria che ha portato, nel 2002, all'assunzione dell'euro quale moneta comune europea in 12 Paesi.
Conviene ricordare come è avvenuto il decollo «funzionalista» di questa nuova epoca dell'europeismo, a metà secolo. Esattamente il 9 maggio 1950 nel grande salone dell'Orologio del Quai d'Orsay (il Ministero degli Esteri francese) il ministro Robert Schuman rendeva pubblico il risultato dell'iniziativa intrapresa da Jean Monnet: partendo dalla considerazione «funzionalista» della convenienza di organizzare la produzione franco-tedesca di acciaio e carbone su basi sovranazionali, il Governo francese proponeva di porre l'insieme di tale produzione «sotto un'autorità internazionale aperta alla partecipazione degli altri Paesi europei», e la prospettiva federalista era chiaramente indicata in questi termini: «si realizzeranno le prime fondamenta concrete di una federazione europea indispensabile per assicurare la pace. [...] l'Europa dev'essere organizzata su basi federaliste [...]; una unione franco-tedesca ne è elemento essenziale».
Meno di un anno più tardi nasceva la prima Comunità europea, quella del carbone e dell'acciaio (Ceca), col primo nucleo dei sei Paesi «fondatori» (Francia, Repubblica Federale Tedesca, Italia, Belgio, Olanda, Lussemburgo), con una «Alta Autorità» sovranazionale (il cui primo presidente fu proprio Jean Monnet) e un embrione di Parlamento europeo (la «Assemblea Comune»). Quattro anni dopo i ministri degli Esteri di quei sei Paesi, riuniti nella Conferenza di Messina (1-2 giugno 1955), decisero di proseguire l'opera di costruzione della comunità europea iniziata con la Ceca. Il 25 marzo 1957 vennero firmati a Roma i trattati che istituirono la Comunità Economica Europea (Cee) e la Comunità europea dell'energia atomica (Euratom). Il metodo funzionalista dell'europeismo diede i suoi frutti; la via era aperta - ma sarebbe stata lunga e ardua - a una rinnovata iniziativa federalista per il completamento del mercato comune ma soprattutto per la costruzione di una comunità europea democratica, crogiuolo di culture e civiltà non più nazionalisticamente o ideologicamente rivali ma solidali e pluralisticamente complementari.