QUANTE EUROPE
La costituzione dei
blocchi, nel 1945-47, portò a ridefinire ancora una volta il concetto di
Europa. Dal punto di vista geografico l'Europa si estende dall'Atlantico agli
Urali: ma è una delimitazione fondata sul sottinteso dell'esistenza entro
quest'area di un'omogeneità culturale, almeno al livello degli
intellettuali e delle classi dominanti. L'inclusione della Russia in Europa
è stata però a lungo controversa, venendole ricorrentemente
attribuiti tratti «asiatici», prodotto del suo passato che
spiegherebbero la diversità e, soprattutto, i limiti (da un punto di
vista occidentale) del suo sviluppo storico. La rivoluzione d'Ottobre, o meglio
la sua mancata estensione al di fuori della Russia, e la costruzione del
socialismo in un solo Paese, determinò una prima frattura, isolando
l'Urss in un'esperienza singolare e altra rispetto al resto dell'Europa: anche
se quest'immagine si fondava sulla originalità del regime politico,
mentre il fatto che il Paese si industrializzasse a tappe forzate poneva semmai
le premesse per la sua omologazione ai Paesi economicamente più avanzati.
La «guerra fredda» e la divisione in blocchi produssero una seconda
frattura, questa ancor più grave perché troncò i forti e
molteplici legami economici e culturali tra i Paesi dell'Est e quelli
dell'Europa occidentale, principalmente la Germania e la Francia; e viceversa
accorpò piuttosto artificialmente Paesi a lungo ostili l'uno all'altro,
come l'Ungheria alla Romania, o questa alla Bulgaria.
Nei riguardi
dell'Europa la «guerra fredda» segnò il lancio dell'ideologia
dell'atlantismo, che insisteva sulla comunanza di radici storiche e politiche e
sull'identità culturale tra Europa occidentale e Nord America
anglosassone, cioè tra le due sponde dell'Atlantico settentrionale.
Esplicitamente o implicitamente, l'Europa veniva ristretta alla sua sola parte
occidentale e i confini dell'Occidente furono posti lungo la linea, dal Baltico
all'Adriatico, corrispondente alla «cortina di ferro» evocata da
Churchill nel discorso di Fulton. Al di là della quale si stendeva un
insieme di Paesi sbrigativamente assimilati sulla base della comunanza di regime
politico, ma di fatto assai diversi l'uno dall'altro, e complessivamente diversi
dalla stessa Unione Sovietica. La propaganda ostile e quella favorevole al
modello sovietico hanno contribuito a tenere a lungo disinformata l'opinione
pubblica dell'Europa occidentale, sostanzialmente abituatasi alla realtà
dell'esistenza di due Europe. La sorpresa, alla fine degli anni Ottanta, per gli
avvenimenti di quei Paesi, anche da parte di molti presunti esperti, si spiega
con il prevalere delle propagande sulle analisi spregiudicate.
La
contrapposizione di modelli politici ed economici aveva perciò l'effetto
di confondere la reale fisionomia del continente e i risultati di una storia
plurisecolare. Né, del resto, gli stessi statisti dell'Europa occidentale
concordavano sull'effettiva consistenza di quell'entità - l'Europa - cui
si inorgoglivano di appartenere. L'Inghilterra, per esempio, era certo Europa:
ma Churchill aveva ammonito de Gaulle che, dovendo scegliere fra Paesi europei e
Stati Uniti, l'Inghilterra avrebbe sempre scelto questi ultimi, essendo per lo
statista britannico la solidarietà atlantica fra i popoli di lingua
inglese più importante della solidarietà europea occidentale. E
all'atlantismo del leader conservatore faceva riscontro un'inclinazione
isolazionista e insulare tra i suoi oppositori laburisti. Per la verità,
Churchill nell'immediato dopoguerra propose un generico progetto di federazione
europea, sottintendendo però sempre che essa avrebbe dovuto marciare di
conserva con gli Stati Uniti. Quanto a de Gaulle, trasse sin dall'immediato
dopoguerra la conclusione che l'Inghilterra era una sorta di «cavallo di
Troia americano in Europa»: e coerentemente si sforzò di tenerla
fuori dalle organizzazioni costituite dai Paesi del continente. Per gli statisti
Tedeschi occidentali e Francesi e per i loro vicini del Benelux (l'unione
doganale di Belgio, Olanda e Lussemburgo nata nel 1948 e successivamente
sviluppata in unione economica e di frontiere) l'Europa occidentale era, in
sostanza, il blocco dei loro Paesi, corredato di una appendice meridionale,
l'Italia, dove l'europeismo dei dirigenti politici al Governo era guardato con
diffidenza dalle opposizioni: un'appendice meridionale, del resto, che i
più ricchi Paesi del Nord guardavano con non poca sufficienza.
Per
gli statisti democristiani, e più esattamente cattolici, che negli anni
Cinquanta erano al Governo in Germania occidentale, Italia e Benelux e
partecipavano alle coalizioni della Quarta repubblica francese, l'Europa era
delimitata da un fossato profondo ad Est, ma anche da un altro, impalpabile
confine a Nord, verso l'area scandinava. Quest'area, i cui scambi commerciali
erano in buona parte rivolti verso la Gran Bretagna o, nel caso della Finlandia,
verso l'Urss, diversamente vincolata dalle alleanze militari (Danimarca e
Norvegia appartenevano alla Nato, mentre la Svezia era neutrale, e la Finlandia
non solo neutrale ma disarmata) era caratterizzata da uno sviluppo capitalistico
temperato dai principi del Welfare State (= «Stato del benessere»)
messi in atto da governi socialdemocratici al potere sin dall'anteguerra.
Nell'area scandinava era in corso un esperimento non assimilabile del tutto a
quello delle ricostruzioni capitalistiche dell'Europa occidentale e nemmeno a
quello delle collettivizzazioni dell'Est. Era, a suo modo, un modello, guardato
però con diffidenza dai liberisti conservatori e considerato comunque
insufficiente dai fautori del modello sovietico. In quei Paesi era anche
più avanzato che in altre parti del continente un processo di
laicizzazione e liberalizzazione dei costumi che dagli anni Sessanta in poi si
era gradualmente esteso al resto del continente, ma che sino agli anni Sessanta
aveva suscitato le riserve dell'opinione pubblica conservatrice, soprattutto
cattolica, meno informata sulle realizzazioni del Welfare State, che non sulla
permissività sessuale di alcuni Paesi scandinavi, e tutto sommato
compiaciuta di ricordare le percentuali dei suicidi e degli alcolizzati in
Svezia (non troppo diverse, si è scoperto in seguito, da quelle di altri
Paesi europei, dell'Ovest e dell'Est). D'altra parte, gli stessi abitanti di
questa Europa nordica tendevano a sviluppare un'attitudine isolazionista e a
difendere l'identità delle loro realizzazioni. Mentre l'entrata nella Cee
della Danimarca ha avuto tempi piuttosto rapidi (1973) il cammino delle altre
democrazie nordiche è stato più lento, ma comunque anche questi
Stati, che appartengono alla cosiddetta periferia dell'Europa, hanno avvertito
la necessità di inserirsi nella Comunità europea. La Svezia chiese
l'ammissione nel 1991 (approvata da referendum popolare alla fine del 1994), la
Finlandia e la Norvegia nel 1992. Nel 1995 Le prime due, insieme all'Austria,
entrarono a far parte dell'Unione Europea, mentre un referendum nazionale
respinse nuovamente l'ingresso della Norvegia.
Ad un altro estremo, nella
penisola iberica, Spagna e Portogallo presentavano ai margini del «mondo
libero» due regimi autoritari, reazionari e clericali. E se il Portogallo
di Salazar si era procurato delle benemerenze presso i vincitori concedendo
prontamente agli alleati basi navali durante la guerra, nella Spagna di Franco,
residuo dell'avanzata fascista degli anni Trenta, il regime aveva qualche motivo
di temere per la propria sopravvivenza. Ma la logica della «guerra
fredda» fece presto apprezzare il suo dichiarato anticomunismo. Era anche
quella Europa (anzi, tra gli ideologi del franchismo permanevano gli echi di una
retorica reazionaria degli anni Venti-Trenta, europeista perché nel
contempo antisovietica e antiamericana); ed era un Occidente imbarazzante,
perché smentiva i principi di libertà sui quali l'ideologia
atlantica fondava le sue rivendicazioni di superiorità. I contatti fra
l'Europa «vera» e quella sua appendice erano nondimeno concretamente
rappresentati dal flusso via via crescente di emigrati iberici verso le
fabbriche di Francia, Germania e Benelux e dal flusso opposto di capitali
dall'Europa prospera nella penisola iberica.
Nel 1986 Spagna e Portogallo
entrarono a pieno titolo nella Comunità Europea.
Infine, era
occidente la Grecia? Sotto la retorica sull'Ellade e sulla civiltà
ellenica come culla della civiltà occidentale, stava la realtà di
un Paese povero, dominato da una oligarchia di latifondisti, armatori e
borghesia mercantile e retto formalmente da un sistema parlamentare pesantemente
condizionato dalla monarchia e dall'esercito. Ciò nonostante nel 1981
anche la Grecia poté entrare nella Comunità
europea.
Tuttavia, nel giro di trent'anni, un nucleo centrale di Paesi
finì coll'attrarre via via i Paesi ai margini, sino a ricomporre in gran
parte il quadro dell'Europa di prima dei conflitti mondiali, dove per le
élite non esistevano quasi frontiere e una comune cultura circolava, per
le minoranze privilegiate, tra le capitali delle grandi potenze.
Nel 1997
altri dodici Paese chiesero di poter entrare a far parte dell'Unione. Durante un
vertice tenutosi a Lussemburgo venne accolta la richiesta di esame di 11 Stati
candidati (Cipro, Estonia, Polonia, Repubblica Ceca, Slovenia, Ungheria,
Bulgaria, Lettonia, Lituania, Romania e Slovacchia), mentre fu respinta quella
della Turchia per la difficile situazione politica e sociale interna,
soprattutto riguardo alla violazione dei diritti umani.
ORGANIZZAZIONE POLITICA E ORGANIZZAZIONE ECONOMICA
La fine della guerra portò il
rilancio delle idee «europeiste» elaborate negli anni Venti e Trenta
negli ambienti intellettuali di orientamento liberale. Se i due conflitti
mondiali erano stati in primo luogo guerre civili europee, alimentate dai
contrapposti nazionalismi, la prospettiva di un avvenire pacifico dipendeva dal
superamento di questi. La ricerca di intese economiche e politiche tra gli Stati
dell'Europa occidentale venne promossa negli anni Cinquanta dai leader
democristiani (il francese Schuman, il tedesco Adenauer, l'italiano De Gasperi)
e trovò il sostegno dei partiti liberaldemocratici (per esempio, in
Francia, i radicali di Pierre Mendès France). La realizzazione del
programma europeista comportava la stipulazione di accordi non solo commerciali
e doganali, ma anche politici e in prospettiva militari tra Stati appena reduci
da una guerra sanguinosa e divisi da rivalità antiche. L'integrazione
militare (Ced = «Comunità Europea di Difesa») proposta nel 1954
fallì per l'opposizione della Francia: nell'occasione la destra
nazionalista e la sinistra comunista si trovarono concordi nell'opposizione,
contro i partiti di centro favorevoli. Nei confronti del processo di
integrazione dell'Europa occidentale la convergenza di destre e sinistre non
è stata infrequente. In Inghilterra, sin da quando venne avanzata la
richiesta (non accolta per il veto di de Gaulle) di adesione alla
Comunità Economica Europea, i laburisti, e soprattutto la sinistra,
furono contrari, al pari di alcuni esponenti della destra conservatrice. Solo
dopo un decennio di propaganda filoeuropeista, e sulla scia del declino
dell'economia inglese e dell'allentamento dei legami nel Commonwealth,
l'opinione pubblica britannica si spostò su posizioni favorevoli alla Cee
in misura tale da dare la maggioranza agli europeisti nell'apposito
referendum.
La cooperazione economica venne realizzata per gradi, dapprima
nel settore specifico dell'industria siderurgica ed estrattiva (Ceca =
«Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio», 1951) e
più tardi attraverso la formazione di una Comunità economica
europea (Cee) e di una Comunità europea per l'energia atomica (Euratom),
istituite con i trattati di Roma del 1957. Sei Paesi (Francia, Germania
Occidentale, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo) si impegnavano a
costituire progressivamente un Mercato Comune Europeo (Mec) dei prodotti
agricoli, riducendo e poi abolendo i dazi, controllando la produzione e i prezzi
e stabilendo compensi per i coltivatori. Gli organi direttivi di Ceca, Euratom e
Mec vennero unificati nel 1966, sicché la Cee risultò strutturata
su un Consiglio (formato da ministri degli Stati membri), una Commissione
(formata da esperti) e un Parlamento (con sede a Strasburgo e formato
inizialmente da deputati nominati dai Parlamenti nazionali e dal 1979 eletto
ogni cinque anni a suffragio diretto dai cittadini dei Paesi
membri).
«Europa dei sei», fu definita in modo neutro la
Comunità, che si imperniava su un asse franco-tedesco, buon tutore degli
interessi industriali della Germania e di quelli agricoli francesi. Con enfasi
retorica, i promotori si sbilanciarono a chiamarla «Europa di
Carlomagno», perché corrispondeva pressappoco all'antico impero
carolingio. Per la sinistra fu, almeno all'inizio, «Europa dei
banchieri»: e ovunque (dalla Francia alla Gran Bretagna e alla Danimarca)
la sinistra radicale ha manifestato sino all'ultimo diffidenza per un organismo
sovranazionale, dunque difficilmente controllabile dai Parlamenti nazionali, la
sola sede dove una sinistra radicale poteva riuscire a far sentire la propria
voce. Dall'Europa dei sei la Gran Bretagna rimase esclusa inizialmente per
indecisione propria (del resto il leader conservatore MacMillan pensava di
entrare nel Mec per riconquistare alla Gran Bretagna nell'ambito continentale il
ruolo politico perso con lo smembramento dell'impero) e poi, dal veto di de
Gaulle nel 1963, sino al 1973, per l'opposizione della Francia. L'entrata in
vigore dei trattati di Roma precedette infatti di poco il ritorno al potere in
Francia di de Gaulle (1958). Diffidente verso le organizzazioni sovranazionali,
teorizzatore dell'«Europa delle patrie» come salvaguardia delle
singole identità nazionali, attento agli interessi della Francia, de
Gaulle rallentò l'allargamento della Cee. De Gaulle, che fondava parte
del suo prestigio interno su una politica estera assai dinamica e condita di
gesti di insofferenza verso l'egemonia statunitense, amava parlare di un'Europa
estesa non solo geograficamente dall'Atlantico agli Urali.
Tra i due
tronconi d'Europa divisi dalla «guerra fredda» i rapporti, difficili
sul piano della politica e gravati dal problema tedesco, della divisione
cioè della Germania in due Stati, non riconosciuta dalla Germania
federale ma simbolicamente ribadita nel 1961 dalla costruzione del muro di
Berlino, si strinsero anzitutto sul terreno degli scambi commerciali, per
iniziativa dei singoli Governi. In particolare, una svolta decisiva fu
rappresentata dall'avvento al governo, nel 1969, del Partito socialdemocratico
nella Germania occidentale. Il nuovo leader Willy Brandt inaugurò una
politica (denominata Ostpolitik, cioè politica nei confronti dei Paesi
dell'Est) di ristabilimento di buone relazioni con la Germania orientale
(propriamente, Repubblica Democratica Tedesca), e con la Polonia, con la quale
restava aperto il problema del riconoscimento delle frontiere del 1945, che
avevano sottratto alla Germania i territori oltre i fiumi Oder e Neisse. In
cambio del riconoscimento dello status quo e dei confini esistenti, la Germania
occidentale stabiliva relazioni economiche con l'altra Germania, e chiedeva
misure che favorissero il ricongiungimento delle famiglie divise tra i due
Stati, permessi di espatrio e la possibilità di visite dall'altra parte
della frontiera. L'Ostpolitik fu aspramente avversata, all'inizio, dai
conservatori tedeschi e dagli Usa durante la presidenza Nixon, sia come
possibile fattore di indebolimento dell'Alleanza atlantica, sia come iniziativa
autonoma di un alleato europeo nei confronti del blocco dell'Est; ma fu
proseguita per tutti gli anni Settanta dai Governi di coalizione tra i
socialdemocratici e i liberali. Di fatto, le conseguenze economiche
dell'Ostpolitik furono di stabilire una complementarità tra le economie
tedesco occidentale e tedesco orientale; quelle propagandistiche furono di far
risaltare il diverso tenore di vita tra le due Germanie, minando la
credibilità del regime della Repubblica Democratica Tedesca.
Sempre
sul terreno economico è poi avvenuta la dilatazione effettiva della
nozione di Europa, parallela alla perdita di valore della nozione di Occidente.
Negli anni Settanta la Cee si è allargata a Nord, includendo Irlanda,
Danimarca e Gran Bretagna (1973), a Sud includendo la Grecia (1981), la Spagna e
il Portogallo (1986). Successivamente (1995) le porte si aprirono anche per
Svezia, Finlandia e Austria.
La Cee è stata a lungo una compagnia di
soci litigiosi, alcuni dei quali (specie la Gran Bretagna durante la leadership
conservatrice di Margaret Thatcher, dal 1979 al 1990) poco interessati a
potenziare effettivamente il parlamento europeo e le prospettive di effettiva
unificazione economica che finalmente ebbe inizio nel 1991 e 1992,
rispettivamente con la stipulazione e la firma del trattato di Maastricht
sull'Unione europea che fissava l'unità di valuta europea (l'ECU) quale
base per la creazione di una futura moneta comune europea, l'euro. Nella stessa
occasione della firma del trattato (7 febbraio 1992) la Cee cambiò
denominazione divenendo Unione europea. Alcune nazioni (Danimarca, Gran
Bretagna) si mostrarono da subito riluttanti al progetto di un'unità
monetaria comune che facesse capo a una Banca centrale (la Banca centrale
europea, appunto) e decisero di rimanere fuori da ogni accordo in questo senso
(la Grecia invece fu costretta a rimanere in disparte da problemi economici
interni, riuscendo ad entrare solo nel gennaio 2001). Nel giugno 1998, durante
una riunione dei rappresentanti dei 15 Stati membri dell'Unione Europea, si
decise di stabilire il 1999 come data ufficiale di nascita della nuova moneta e
di fissare per il 1° gennaio 2002 il giorno dell'entrata in vigore
dell'euro in sostituzione delle divise monetarie nazionali dei vari Paesi
aderenti alla cosiddetta Eurolandia: le modalità e i tempi di
sostituzione sarebbe variati, comunque, da Paese a Paese con un periodo
più o meno lungo di convivenza tra vecchia e nuova moneta.
Willy Brandt
IL RECUPERO DELLE PERIFERIE: PENISOLA IBERICA E GRECIA
Benché fossero legate da relazioni
economiche, e nel caso del Portogallo e della Grecia da patti militari (entrambi
erano membri della Nato), al resto dell'Europa occidentale, penisola iberica e
Grecia rappresentavano due appendici non solo geografiche del resto del
continente. Sul piano politico, si trattava di regimi autoritari: dittature
Portogallo e Spagna, democrazia parlamentare dominata dai conservatori la
Grecia, dove nel 1967 un Governo di centro-sinistra presieduto da Georgios
Papandreu fu abbattuto da un colpo di stato militare e sostituito da un regime
dittatoriale, detto dei «colonnelli», che proscrisse, incarcerò
e torturò gli oppositori politici. L'approdo dei tre Paesi alla
democrazia parlamentare avvenne in modi assai diversi nel giro di due anni, fra
il 1974 e il 1976. In Grecia, i militari in difficoltà di fronte
all'opposizione interna e all'opinione pubblica internazionale furono travolti
da una crisi internazionale. A Cipro, isola popolata da una maggioranza greca e
una minoranza turca, il Governo locale si trovò di fronte alla rivolta
della comunità turca, che chiese aiuto al Governo della madrepatria.
Contemporaneamente, tra i Greci di Cipro agiva una corrente nazionalista
favorevole alla riunificazione con la Grecia. Quando i Turchi inviarono un corpo
di spedizione a presidiare la parte turca dell'isola, i «colonnelli»
si resero conto di non poter rischiare una guerra con la Turchia e di non avere
l'appoggio degli Usa. Di fronte alle proteste della popolazione abbandonarono il
Governo. Il ritorno al regime parlamentare fu guidato da un anziano leader
conservatore, Karamanlis; ma negli anni Ottanta il Paese venne governato dal
partito Socialista guidato dal figlio di Giorgio Papandreu, Andrea. Primo
ministro sino al 1989, questi sommò a una politica interna confusamente
progressista un orientamento di politica estera ostentatamente antistatunitense,
benché più a parole che non a fatti (i Greci rimproveravano agli
Usa tanto l'appoggio al colpo di Stato e al regime dei colonnelli, quanto
l'abbandono di fronte alla Turchia). L'uso spregiudicato del potere per
costituire folte clientele elettorali e la disinvoltura nell'utilizzazione
dell'apparato statale finirono però per coalizzare contro il partito di
Papandreu comunisti e conservatori, e questi ultimi tornarono al Governo da soli
nel 1989. Nel 1993, però, Papandreu ritornò al potere, ma
morì tre anni dopo, sostituito da Kostas Simitis. Si mantennero invece i
problemi con la Turchia (contro la quale c'era la rivendicazione del possesso di
alcune isole dell'Egeo) e con la neonata Repubblica di Macedonia, anche in
questo caso per problemi legati all'attribuzione di porzioni di territorio.
Ciò nonostante, nel 2001 la Grecia riuscì ad entrare nel gruppo
dei Paesi nei quali era prevista l'introduzione dell'euro.
In Portogallo il
regime reazionario e clericale al potere sin dagli anni Venti sotto la guida di
Salazar, e dopo la sua morte sotto quella di Marcelo Caetano, fu
progressivamente minato dalla lunga guerra contro i movimenti indipendentisti
delle colonie africane (Angola, Mozambico, Guinea Bissau): una guerra che i
Portoghesi non potevano vincere e che, oltre ad assorbire gran parte delle
risorse di un Paese povero, suscitò sempre più ostilità tra
la popolazione e persino all'interno dell'esercito che la guidava. Il regime
crollò per un colpo di Stato incruento attuato dai capi dell'esercito,
con un programma progressista. Fu, nella primavera del 1974, la cosiddetta
«rivoluzione dei garofani». Nella arretrata situazione sociale
portoghese parve che i militari progressisti, alcuni dei quali, formatisi sul
pensiero terzomondista e ostili ad una modernizzazione del Paese di tipo
capitalista, immaginassero per il Portogallo un ruolo di ponte tra Europa e
Terzo mondo e uno sviluppo autarchico di stampo cooperativistico o
collettivistico. La apparente radicalità (almeno di prospettive) della
rivoluzione portoghese, che le attirò attenzione e simpatie nella nuova
sinistra europea, era in effetti un portato dell'arretratezza del Paese e dello
scarto di coscienza politica esistente tra l'avanguardia (l'esercito) e la massa
della popolazione. I militari tesero a conservare il potere, attribuendo un
ruolo istituzionale al consiglio delle forze armate; ma procedettero ad epurarsi
incruentemente, oscillando prima a sinistra (e i generali autori di facciata del
colpo di stato vennero allontanati dal potere) e poi a destra, dopo un confronto
polemico tra il partito Socialista (guidato da Mario Soares, su posizioni
moderate) e l'estrema sinistra civile e militare. Nel 1976, con un altro colpo
di Stato incruento, i reparti più politicizzati vennero sciolti, e gli
ufficiali radicali del consiglio delle forze armate allontanati. Il governo
venne restituito ai civili, anche se alla presidenza della Repubblica rimase per
un mandato un militare; le elezioni segnalarono una reazione conservatrice,
specie nelle zone del Paese, come il settentrione delle piccole e piccolissime
proprietà agricole, poco avvantaggiate dai provvedimenti nazionalizzatori
del Governo progressista. Nel 1983, però, Soares venne rieletto e
iniziò una serie di riforme che portarono, tra l'altro, all'ingresso del
Paese in Europa nel 1986, anno in cui lo stesso Soares venne eletto presidente
della Repubblica: egli mantenne la carica fino al 1996, quando venne sostituito
da Jorge Sampaio. Il Paese rimase a guida socialista fino al 2002, anno dello
scavalcamento politico da parte del partito conservatore dei
Socialdemocratici.
In Spagna il regime del generalissimo Francisco Franco,
al potere dopo la sanguinosa guerra civile del 1936-1939, per qualche anno
tenuto al bando dalla comunità internazionale ma poi capace di avviare le
basi dell'industrializzazione del Paese, preparò il proprio trapasso.
Franco, che aveva conservato l'istituto monarchico, ma aveva impedito al
pretendente al trono l'esercizio delle sue funzioni, predispose il ritorno del
sovrano, Juan Carlos di Borbone. Il regime franchista aveva perseguito una
politica centralizzatrice, che negava autonomia amministrativa e culturale alle
regioni non castigliane della Spagna. In questo, rappresentava la riproposizione
moderna di una tendenza alla supremazia del governo centrale e della Castiglia
nell'ambito di un Paese dalle tradizioni autonomistiche e centrifughe assai
antiche. I principali focolai di opposizione erano rappresentati dalla
Catalogna, la regione più industrializzata del Paese, di lingua catalana
e di tradizioni politiche progressiste, e dai Paesi baschi, una piccola regione
in parte rurale e in parte sede della prima industria pesante spagnola
(siderurgia, cantieristica). A differenza della Catalogna, i Paesi baschi
avevano una tradizione politica conservatrice e cattolica. Tuttavia (o forse
proprio per questo), mentre l'opposizione in Catalogna abbinava la
rivendicazione autonomista alla lotta antifranchista, nei Paesi baschi l'accento
venne posto soprattutto sulla rivendicazione nazionalistica. Il ricordo della
guerra civile, terminata con spietate repressioni e con l'esilio di centinaia di
migliaia di persone, e l'efficacia del regime repressivo, fecero sì che
l'opposizione al franchismo restasse a lungo piuttosto debole. Pochi anni dopo
la guerra civile furono fatti alcuni tentativi, falliti, di incursione armata
nella Spagna settentrionale. Negli anni Sessanta alcuni clamorosi processi
politici, terminati con condanne a morte, ricordarono all'opinione pubblica
l'esistenza di un problema spagnolo. Ma il regime poteva contare su un
innegabile successo nel porre (autoritariamente) le basi dello sviluppo
economico del Paese. Morto Franco nel 1975, la direzione del Governo fu assunta
dalle nuove leve del franchismo, mentre il nuovo sovrano iniziava ad assumere un
ruolo di arbitrato nella politica del Paese, sullo sfondo di una nazione in
effervescenza sociale (le agitazioni condotte da sindacati non di regime, in
testa le comisiones obreras, si svilupparono rapidamente) e dove si
ricostituivano i partiti di sinistra. Le sinistre spagnole (socialisti
riunificati e sostenuti dalla socialdemocrazia tedesca, e comunisti disposti a
una politica di solidarietà nazionale per uscire dalla proscrizione)
accettarono un compromesso istituzionale, che sanciva il riconoscimento della
struttura politica prevista da Franco in cambio di libere elezioni e del ritorno
alla normale vita parlamentare. Questo compromesso («patto della
Moncloa», dalla residenza dove venne stipulato) assicurò la pacifica
transizione alla democrazia parlamentare. Le tentazioni dittatoriali di alcuni
ambienti militari (manifestate clamorosamente da una goffa occupazione del
parlamento e meno visibilmente da oscuri complotti degli alti gradi
dell'esercito) vennero sventate. Nel 1982 le elezioni furono vinte dal partito
Socialista, che governò il Paese, nella figura di Felipe González,
fino al 1996, anno di ascesa al potere di José Marìa Aznar del
Partito popolare. La centralizzazione franchista è stata rovesciata,
costituendo 17 regioni (comunità autonome) e riconoscendo le
rivendicazioni culturali degli autonomisti con l'ammissione del bilinguismo
nelle regioni di lingua catalana, basca e galiziana. Il Governo socialista ha
attuato una politica assai moderata, accettando l'ingresso del Paese nella Nato,
perseguendo l'adesione alla Cee, e accompagnando un'accelerazione dello sviluppo
economico con una accentuata liberalizzazione dei modi di vita e dei costumi,
che ha fatto della Spagna il Paese europeo forse più profondamente e
rapidamente mutato dell'ultimo trentennio. Un ulteriore successo, questa volta
ottenuto dal Governo di Aznar, fu l'ingresso del Paese nel primo gruppo degli
ammessi alla moneta unica europea. Insoluto è rimasto però il
problema basco. L'autonomia non ha soddisfatto l'ala estrema del nazionalismo
basco (l'organizzazione Eta), che ha proseguito una sanguinosa campagna di
attentati contro la polizia e, successivamente, contro esponenti politici e
giornalisti anche dopo la fine del regime franchista. La collaborazione tra i
Governi spagnolo e francese (in Francia, dove esiste egualmente una minoranza
basca, l'organizzazione nazionalistica aveva basi di appoggio) ha costretto
l'Eta ad aprire trattative informali con il Governo (1987-88). Ma la soluzione
della questione basca non sembra, nonostante tutto, vicina, visto che la
rivendicazione dell'indipendenza divide gli stessi baschi, e d'altra parte la
repressione poliziesca è, come sempre, inefficace contro un moto di
indipendenza nazionale. Gli attentati continuarono per tutti gli anni Novanta,
arrivando, nel 1997, all'omicidio di un consigliere comunale basco, Miguel Angel
Blanco, appartenente al Partito popolare, delitto che scatenò un'ondata
di manifestazioni popolari contro il terrorismo basco. Nel 1998 la firma di un
cessate il fuoco su modello irlandese fece sperare nell'inizio del processo di
pacificazione nazionale, ma l'intransigenza del Governo portò alla
rottura della tregua e alla ripresa dell'attività terroristica.
UNA SOLA EUROPA?
Quando si parla di Europa come entità
unitaria si pensa alla Ue e prima ancora alla Cee e alla sua esistenza da quando
venne istituita con i trattati di Roma nel 1957.
La storia dell'Unione
europea è certamente decisiva per le sorti di un'Europa unita, ma occorre
ricordare che l'idea di Europa ha dovuto affermarsi con una certa
difficoltà perché rappresentava di per sé più una
definizione geografica che un organismo politico-economico.
Uscita dalla
Seconda guerra mondiale stremata e divisa, l'Europa in quasi mezzo secolo ha
saputo riconquistare una forza economica che ne ha fatto insieme con gli Usa
l'area più prospera del mondo. Le resistenze da superare non erano poche
né semplici: vi era innanzi tutto la tradizionale diffidenza dei vari
Stati nei confronti dei vicini che annosi e faticosi conflitti e trattative per
la definizione dei confini avevano finito per far considerare sempre e comunque
come nemici. Vi erano storie diverse e spesso contrapposte, esigenze sociali,
economiche spesso in opposizione.
Vi era in particolare una definizione di
Europa che al massimo poteva abbracciare l'area centro-continentale, ma che
sembrava escludere sia le regioni mediterranee, sia le nordiche, sia le
periferie, prima di tutte quelle orientali dove, come si è già
detto, era dubbio che la Russia potesse essere considerata Europa.
Nel
secondo dopoguerra la formazione di due blocchi di potere contrapposti, Usa e
Urss aveva nettamente spaccato l'Europa (la cortina di ferro di cui parava
Churchill) contrapponendo l'Occidente all'Est. La collocazione dell'Europa tra
le due superpotenze aveva tuttavia anche spinto gli Stati dell'Europa
occidentale a prendere l'iniziativa per la costruzione di un polo capace di
contrastare economicamente il peso dei due Imperi, statunitense e
sovietico.
Il processo di formazione della Comunità, fortemente
voluto da personaggi che restano tra i padri dell'Europa unita, come i francesi
Robert Schuman e Jean Monnet, gli italiani Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi,
cominciò a concretizzarsi agli inizi degli anni Cinquanta con la Ceca
(Comunità europea del carbone e dell'acciaio, 1951). Nel 1957 i trattati
di Roma tra Belgio, Francia, Repubblica federale di Germania, Italia,
Lussemburgo, Paesi Bassi (Europa dei Sei) istituirono la Cee e diedero vita
all'Euratom, la Comunità europea per l'energia atomica.
Nel 1973
l'Europa a Sei divenne l'Europa a Nove con l'adesione della Danimarca,
dell'Irlanda e del Regno Unito. In quest'ultimo Stato le resistenze
nazionalistiche e conservatrici verso la Cee si erano ridotte: a rappresentarle
era stato soprattutto il leader conservatore inglese Margaret Thatcher che aveva
rovesciato così l'orientamento tradizionale della politica inglese che
vedeva i conservatori europeisti e i laburisti antieuropei.
Nel 1979 per la
prima volta i cittadini dei nove Stati membri della Comunità elessero a
suffragio universale i loro rappresentanti al Parlamento europeo.
Nel 1981
la Grecia divenne il decimo Stato membro della Comunità e nel 1986
aderirono anche Spagna e Portogallo portando a dodici il numero complessivo
degli Stati della Cee.
Tenace è stata la diffidenza delle sinistre
radicali di altri Paesi, che fino a quando si è mantenuto il blocco
sovietico, hanno più o meno consapevolmente sostenuto l'ideale del
socialismo in un solo Paese e quello dello sviluppo autarchico; queste forze
politiche ovviamente si erano mostrate assai caute nei confronti del processo di
integrazione europea.
Motivi di diffidenza verso la Comunità erano
nutriti anche dalle democrazie nordiche che temevano di vedere compromessa la
loro situazione di benessere in un'Europa dove le differenze economiche e
sociali erano ancora molto forti. Anche in questi Stati tuttavia si era fatta
strada la convinzione di non poter restare fuori da un organismo che
rappresentava ormai uno dei principali poli economici mondiali. Gli avvenimenti
dell'Est europeo con la disgregazione dell'Urss e il crollo dei regimi comunisti
aveva accelerato la spinta all'adesione.
Frattanto la Comunità
economica europea aveva compiuto altri passi: nel 1990 uno storico vertice
europeo a Roma tra i dodici capi di Stato o di Governo aveva inaugurato le
Conferenze intergovernative destinate a trasformare l'attuale mercato comune in
Unione economica e monetaria e in Unione politica. L'anno dopo i dodici
concordarono a Maastricht, in Olanda, i testi del nuovo Trattato sull'Unione
europea. Nel 1992, sempre a Maastricht venne firmato il trattato che
liberalizzava la circolazione di merci, capitali e servizi a partire dal 1993 e
che trasformava la Comunità economica europea in Unione europea.
Nel
1995 entrarono nell'Unione Finlandia, Svezia e Austria, mentre vennero ammessi
nella "lista d'attesa'' Cipro, Estonia, Polonia, Repubblica Ceca, Slovenia,
Ungheria (destinati ad entrare per primi) oltre a Bulgaria, Lettonia, Lituania,
Romania e Slovacchia. Sempre nel 1995 vi fu l'entrata in vigore del Trattato di
Schengen (redatto dieci anni prima e firmato nel 1990) con il quale si creava
un'area di libero scambio di merci e persone sul territorio europeo, allargata
anche ad alcuni Paesi non membri quali la Norvegia o l'Islanda ed escludente
invece Gran Bretagna e Irlanda)
La Comunità intrattiene rapporti con
quasi tutti gli Stati del mondo e ha stipulato accordi di associazione e di
libero scambio con i Paesi europei che hanno chiesto l'ammissione e con molti
Paesi mediterranei, oltre che accordi commerciali con Paesi dell'America e
dell'Asia.
Da un punto di vista istituzionale l'Unione europea è
articolata in diversi organi.
Il Parlamento europeo, dove sono eletti a
suffragio universale i rappresentanti di ogni Stato membro, ha il compito di
elaborare le leggi comunitarie ed esercitare il controllo politico sulle
decisioni dell'Unione.
La Commissione europea, composta da 20 commissari
che, in piena indipendenza dai rispettivi Governi nazionali, ha potere di
iniziativa e di esecuzione: propone le leggi comunitarie, vigila sul rispetto
dei trattati.
Il Consiglio dei ministri, composto dai ministri
rappresentanti dei diversi Stati membri, adotta le leggi comunitarie proposte
dalla Commissione.
Il Consiglio europeo, formato dai capi di Stato o di
Governo, dai ministri degli Esteri, dal Presidente della Commissione europea e
da un suo membro, definisce i grandi orientamenti politici comunitari.
La
Corte di Giustizia, composta da 15 giudici e da 6 avvocati generali, assistita
da un Tribunale di primo grado, assicura l'interpretazione del diritto
comunitario e dirime le controversie tra Stati e singoli cittadini e
Unione.
La Corte dei Conti, composta da 15 membri, controlla la gestione
delle finanze.
La Banca centrale europea, attiva dal 1° luglio 1998,
è l'organismo bancario a cui fanno riferimento i Paesi membri dell'Unione
Monetaria Europea. Oltre a occuparsi di questioni politiche monetarie, ha il
compito di emettere le monete in euro.
DAL GRANDE MERCATO ALL'UNIONE EUROPEA
La Comunità europea si proponeva
inizialmente di integrare fra loro le economie dei Paesi membri per dar vita ad
un Mercato Comune Europeo. Nel corso degli anni Sessanta la Comunità
raggiunse due importanti obiettivi: l'unione doganale e l'unione agricola. Con
la prima le merci potevano circolare liberamente da un Paese membro all'altro,
senza che i loro movimenti fossero colpiti da dazi alle frontiere; inoltre verso
i Paesi esterni alla Comunità venivano adottati dazi comuni. Con l'unione
agricola si sostituiva alle politiche nazionali nel campo dell'agricoltura
un'unica politica europea, basata sull'esistenza di prezzi comuni per il grano,
il latte, ecc.
Negli anni Settanta i disordini monetari e le crisi che
colpirono l'economia internazionale impedirono l'approfondimento
dell'integrazione economica fra i Paesi comunitari, e la Comunità non si
dimostrò in grado di reagire con efficacia alle difficoltà esterne
ed interne, entrando in una situazione di progressiva paralisi. La
responsabilità di questo stato di cose risiedeva soprattutto nella
mancanza di democrazia che caratterizzava le istituzioni comuni. Le decisioni
venivano assunte dagli Stati all'interno del Consiglio dei ministri europei ed
eseguite poi da un organo tecnico, la Commissione, senza alcun controllo da
parte del Parlamento europeo, che non aveva il potere di fare le leggi ed aveva
una scarsa legittimazione democratica, in quanto non veniva eletto, ma nominato
dai singoli Paesi.
La reazione alla situazione di crisi in cui versava la
Comunità avvenne solo alla fine degli anni Settanta. Nel 1979 si giunse
nel contempo alla elezione diretta del Parlamento europeo e al varo del Sistema
Monetario Europeo (Sme). Entrambi i fattori erano destinati ad operare il
rilancio della Comunità nel giro di qualche anno. Il Sistema monetario
europeo impose una disciplina economica comune ai Paesi membri ed ebbe per
effetto di assicurare la relativa omogeneità dei risultati delle economie
dei diversi Paesi, creando così le condizioni di fatto per il
completamento del mercato comune. In effetti, i governanti europei si erano resi
conto nel frattempo che gli obiettivi del Trattato di Roma, che stava alla base
della nascita della Comunità Economica Europea (Cee), non erano stati in
larga misura raggiunti: le merci non erano più colpite da dazi nei
trasferimenti da un Paese membro all'altro, ma venivano ancora ostacolate da
molte barriere, e soprattutto non veniva garantita la libera circolazione dei
fattori produttivi: il lavoro, specie quello qualificato, e i capitali (in
questo caso i movimenti finanziari all'interno della
Comunità).
Tuttavia questa situazione insoddisfacente, che
penalizzava anche i Paesi europei nella competizione mondiale con gli Stati
Uniti e con il Giappone, non si sarebbe tradotta in una premessa per il rilancio
della Cee se non fosse stato presente il fattore politico. Il Parlamento eletto
a suffragio universale si sentì legittimato a chiedere una riforma della
Comunità in senso democratico. Nel 1984, grazie all'iniziativa di Altiero
Spinelli, fondatore del Movimento Federalista Europeo, il Parlamento votò
un progetto di trattato per l'Unione Europea e lo presentò ai Governi
perché lo accettassero. Con l'Unione Europea la Commissione della
Comunità si sarebbe trasformata in un governo dell'Unione, responsabile
politicamente di fronte al Parlamento europeo, al quale sarebbero stati
attribuiti anche poteri legislativi. Sarebbe venuto meno in tal modo il
cosiddetto «deficit democratico»: il fatto che nel corso del processo
di integrazione i Parlamenti nazionali perdessero il controllo su competenze
trasferite a livello europeo, ma sulle quali il Parlamento di Strasburgo non
aveva modo di intervenire, perché privo di poteri.
I Governi
respinsero tuttavia il progetto di Unione Europea, accontentandosi inizialmente
di introdurre alcune modifiche nel Trattato di Roma, per tener conto delle nuove
politiche europee nel frattempo maturate: ad esempio la politica regionale e
quella della salvaguardia dell'ambiente a livello europeo. Le modifiche vennero
raccolte nell'«Atto unico» del 1986, denominato in tal modo per
mettere in luce il carattere unitario delle nuove competenze attribuite alla
Comunità. L'«Atto unico» indicava anche l'obiettivo del grande
mercato, ovvero il completamento del mercato interno europeo entro la fine del
1992.
Le barriere che i 12 Paesi europei si proponevano di abbattere entro
quella data riguardavano gli ostacoli fisici (i controlli alle frontiere interne
in occasione del passaggio delle persone e delle merci), gli ostacoli fiscali
(soprattutto l'imposta sul valore aggiunto, applicata in base ad aliquote
differenti da Paese a Paese) e gli ostacoli di natura tecnica (l'esistenza di
regolamentazioni nazionali diverse, spesso strumento di protezione del mercato
nazionale dalla concorrenza degli altri Paesi).
Nel 1991, nella
città olandese di Maastricht, venne redatto un accordo che prevedeva la
creazione di una Banca centrale europea destinata a gestire, nel tempo, la
prevista moneta unica - l'euro -, divisa dell'Unione monetaria europea. In
quell'occasione la Cee cambiò la sua denominazione in Unione
europea.
Nel 1999 l'euro venne ufficialmente introdotto e nel 2002 divenne
la moneta ufficiale di 12 Paesi.
EUROPEISMO
Un'appassionata domanda di Europa, di
identità europea, di civiltà europea ha animato e accompagnato il
movimento di liberazione che nel 1989 ha travolto i regimi totalitari instaurati
dai partiti Comunisti sostenuti dall'Unione Sovietica nei Paesi dell'Europa
centrale e orientale. E una immediata risposta di solidarietà europea
è venuta dai popoli - e anche, chi più chi meno, dalle forze
politiche e dai Governi - dell'Europa occidentale. Quel grido da Oriente e
quella risposta da Occidente avevano un suono che ci ha ricordato quello del
colpo di cannone sparato due secoli prima a Valmy dai rivoluzionari francesi,
che fece dire a Goethe che da quel momento aveva inizio una nuova epoca nella
storia del mondo.
Forse il 1989 può segnare l'inizio di una nuova
epoca per quell'idea e quel progetto, che si usa designare con la parola
«europeismo». Qual è la sua origine, la sua storia, la sua
prospettiva?
Il grande storico Federico Chabod si domandava, all'inizio
della sua Storia dell'idea d'Europa (pubblicata dall'editore Laterza nel 1961 e
poi molte volte ristampata), quali potessero essere «i criteri di
valutazione politico-culturale-morale» per definire l'Europa e dava questa
risposta (che può considerarsi l'inesauribile motivazione ideale
dell'europeismo): «criterio fondamentale di differenziazione è
quello della libertà politica, ellenica, contrapposta alla tirannide
asiatica; e la libertà significa partecipazione di tutti alla vita
pubblica (onde si hanno cittadini e non sudditi) e vivere secondo le leggi, non
secondo l'arbitrio di un despota».
Quanto sia valido e attuale questo
fondamento lo hanno mostrato appunto, gli eventi del 1989, quella domanda di
Europa gridata dai popoli che andavano liberandosi dalla tirannide. Europa non
come mercato ma come democrazia. Direi che in questo rapporto tra mercato e
democrazia, e soprattutto nella diversa intensità di progettazione e
d'impegno riguardo all'obiettivo del mercato comune e/o a quello della
comunità democratica si snoda, dalla metà di questo secolo, la
storia dell'europeismo.
All'origine non c'è, come obiettivo
prioritario, il mercato comune. Ma di fatto è con la sigla Mec (Mercato
Europeo Comune) che per molto tempo è stata identificata l'impresa
dell'unità europea intorno alla metà del secolo. Perché
tale divario tra ideale e reale?
L'ideale europeistico è scaturito,
come obiettivo politico, dalla riflessione sugli effetti catastrofici dei
nazionalismi che nella prima metà di questo secolo hanno fatto
dell'Europa il focolaio di due guerre mondiali. Proprio negli anni più
duri e oscuri della Seconda guerra mondiale, alcuni protagonisti della
resistenza al nazismo e al fascismo - tra i quali, pur nella estrema concisione
di questi cenni storici, non possono non essere ricordati Altiero Spinelli ed
Ernesto Rossi - lanciarono il Manifesto per l'Europa libera e unita, più
tardi chiamato Manifesto di Ventotene dal nome dell'isola di confino in cui fu
redatto nel 1941. Questo divenne l'atto di nascita del «federalismo
europeo», organizzatosi poi in movimento suscitatore e animatore di tutte
le successive iniziative europeistiche.
Il federalismo comportava un
trasferimento di sovranità dal livello degli stati nazionali al livello
di un'autorità europea sovranazionale di carattere, appunto, federale:
mirando agli «Stati Uniti d'Europa», a somiglianza dell'assetto
federale degli Stati Uniti d'America. Questo rimane ancor oggi l'obiettivo
finale del processo di unione politica dell'Europa, secondo il pensiero
federalista. Ma nell'immediato dopoguerra, e anche nei decenni successivi, gli
Stati nazionali europei si dimostrarono disposti (anche se spesso assai
riluttanti) a cedere qualche porzione di sovranità economica per
realizzare il mercato comune; mai a consentire attenuazioni di sovranità
politica in funzione di una prospettiva di unità politica di tipo
federalistico. L'egemonia delle due superpotenze a Est e a Ovest, la
contrapposizione dei due blocchi politico-militari (Alleanza Atlantica e Patto
di Varsavia), la spaccatura dell'Europa e l'insuperabile sbarramento eretto
dall'Est contro l'Ovest («muro di Berlino» e «cortina di
ferro») esasperavano i contrasti e le suscettibilità nazionali in
una situazione che imponeva rinunce di sovranità nazionali a favore della
superpotenza egemone nell'area del proprio sistema di alleanze.
L'altra
versione dell'europeismo - quella «confederalista» - non costituiva
un'alternativa bensì una rinuncia. Era stata prospettata dai due
più eminenti statisti europei, Winston Churchill e Charles de Gaulle.
Ciascuno a suo modo, e ciascuno attribuendo al proprio Paese un ruolo storico di
guida e perciò egemonico: che nessun altro Stato europeo era disposto ad
accettare.
Fu intrapreso allora - e con successo, come vedremo - il
tentativo che prese il nome di «funzionalista» in quanto mirava ad
aggirare l'ostacolo delle coriacee sovranità nazionali proponendo
specifiche amministrazioni sovranazionali in funzione di precisi, ben delimitati
e concreti interessi, di natura prevalentemente economica, per i quali una
comune gestione sovranazionale si presentava indiscutibilmente utile e
praticabile. Ideatore e artefice di tale metodo fu Jean Monnet, alto funzionario
francese (poi responsabile del Commissariat au Plan), che durante la guerra era
stato messo dagli Alleati a capo di una delle loro Agenzie
internazionali.
Va riconosciuto a quel metodo il merito di aver tratto
l'europeismo fuori dal vicolo cieco in cui era stato imbucato e di aver messo in
moto il processo di costruzione della Comunità europea: la prima, quella
del carbone e dell'acciaio, poi quella del mercato comune, la Comunità
Economica Europea (Cee), divenuta in seguito Unione europea segnando l'inizio di
un processo di unificazione monetaria che ha portato, nel 2002, all'assunzione
dell'euro quale moneta comune europea in 12 Paesi.
Conviene ricordare come
è avvenuto il decollo «funzionalista» di questa nuova epoca
dell'europeismo, a metà secolo. Esattamente il 9 maggio 1950 nel grande
salone dell'Orologio del Quai d'Orsay (il Ministero degli Esteri francese) il
ministro Robert Schuman rendeva pubblico il risultato dell'iniziativa intrapresa
da Jean Monnet: partendo dalla considerazione «funzionalista» della
convenienza di organizzare la produzione franco-tedesca di acciaio e carbone su
basi sovranazionali, il Governo francese proponeva di porre l'insieme di tale
produzione «sotto un'autorità internazionale aperta alla
partecipazione degli altri Paesi europei», e la prospettiva federalista era
chiaramente indicata in questi termini: «si realizzeranno le prime
fondamenta concrete di una federazione europea indispensabile per assicurare la
pace. [...] l'Europa dev'essere organizzata su basi federaliste [...]; una
unione franco-tedesca ne è elemento essenziale».
Meno di un
anno più tardi nasceva la prima Comunità europea, quella del
carbone e dell'acciaio (Ceca), col primo nucleo dei sei Paesi
«fondatori» (Francia, Repubblica Federale Tedesca, Italia, Belgio,
Olanda, Lussemburgo), con una «Alta Autorità» sovranazionale
(il cui primo presidente fu proprio Jean Monnet) e un embrione di Parlamento
europeo (la «Assemblea Comune»). Quattro anni dopo i ministri degli
Esteri di quei sei Paesi, riuniti nella Conferenza di Messina (1-2 giugno 1955),
decisero di proseguire l'opera di costruzione della comunità europea
iniziata con la Ceca. Il 25 marzo 1957 vennero firmati a Roma i trattati che
istituirono la Comunità Economica Europea (Cee) e la Comunità
europea dell'energia atomica (Euratom). Il metodo funzionalista dell'europeismo
diede i suoi frutti; la via era aperta - ma sarebbe stata lunga e ardua - a una
rinnovata iniziativa federalista per il completamento del mercato comune ma
soprattutto per la costruzione di una comunità europea democratica,
crogiuolo di culture e civiltà non più nazionalisticamente o
ideologicamente rivali ma solidali e pluralisticamente
complementari.