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Stilnovo). Scuola poetica italiana, attiva
in Toscana e particolarmente a Firenze nella seconda metà del Duecento e
nei primi decenni del Trecento. La definizione di scuola fu adottata dalla
critica moderna a partire da F. De Sanctis ed è legittimata dalle
testimonianze letterarie, in primo luogo di Dante. Da queste appare evidente che
i poeti stilnovisti avevano coscienza di costituire un gruppo, di condividere
cioè elementi filosofici e stilistici che li accomunavano tra loro e
insieme li distinguevano dalla precedente generazione di poeti, in particolare
da Guittone d'Arezzo, Iacopo da Lentini e dalla scuola siculo-toscana. La stessa
locuzione
dolce stil novo è di origine dantesca, tratta da un
passo del
Purgatorio (XXIV, 49-63) in cui si svolge il dialogo tra Dante
e Bonagiunta Orbicciani, quando il poeta fornisce spiegazioni sulle
caratteristiche della poesia sua e dei suoi compagni (
mio e degli altri miei
miglior). Sono numerosi i luoghi danteschi da cui si evince pienamente il
riferimento a una pluralità di poeti che condividono nuovi caratteri
stilistici e una nuova filosofia, in contrapposizione tanto artistica quanto
concettuale al filone siciliano. In un altro passo del
Purgatorio (XXVI,
97-99) Guido Guinizzelli viene definito come padre dei nuovi poeti; in alcuni
punti del
De vulgari eloquentia Dante discorre di un ristretto numero di
autori che hanno saputo elevare a livelli illustri la lingua volgare (
qui
dulcius subtiliusque poetati vulgariter sunt), stabilendo un canone minimo
che comprende, oltre allo stesso Dante, Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia e Lapo
Gianni (che alcuni critici ritengono però debba essere sostituito con
Lippo Pasci de' Bardi). Attualmente gli studiosi sono soliti aggiungere a questi
nomi quelli di Gianni degli Alfani e di Dino Frescobaldi (non nominati da Dante,
ma senza dubbio legati a Cavalcanti e a modelli ciniani) e degli epigoni
trecenteschi Matteo Frescobaldi, Sennuccio del Bene, Giovanni Quirini,
Niccolò dei Rossi. Elemento connettivo non trascurabile del gruppo
originario era la fitta trama di rapporti personali e artistici: ciascuno aveva
come primi lettori e ascoltatori gli altri amici e la reciproca influenza era
tanto forte e tempestiva da produrre assimilazioni di modi, formule e tematiche
di cui, per conseguenza, è arduo attribuire la paternità (problema
molto frequente, ad esempio, per Dante e Cino da Pistoia). Due sono i punti che
coagularono l'attività poetica stilnovista: da un lato l'adesione al
modello di Guinizzelli, dall'altro la polemica contro Guittone, cui i nuovi
artisti imputarono come colpe la spiccata municipalità e l'eccesso di
formalismo e artificiosità di lingua e lessico. Rispetto all'arte
guittoniana gli stilnovisti inaugurarono uno stile che, ripudiando
ambiguità, grovigli retorici e suoni duri e aspri, perseguisse la
dolcezza, un'esposizione piana e suadente, da raggiungere anche mediante
una semplice collocazione sintattica dei vocaboli. Questa poesia si
qualificò dunque come
nuova, in quanto si distaccava
coscientemente e deliberatamente dalla grande tradizione siculo-toscana che la
precedeva, e come
dolce, nella resa fonica, linguistica, lessicale e
artistica. È unanime il riconoscimento di Guinizzelli come iniziatore
dello
S., la cui canzone
Al cor gentil rempaira sempre Amore
svolse la funzione di una sorta di manifesto programmatico, esposizione di temi
peculiari della scuola. Infatti, dal punto di vista contenutistico, ciò
che distingueva gli stilnovisti dai loro predecessori non risiedeva tanto
nell'avere scelto come oggetto poetico l'Amore nella sua dimensione non
sensuale: anche siciliani e guittoniani avevano cantato un sentimento casto e
non edonista, strumento di elevazione spirituale, ma lo
S.
elaborò, partendo da tale concezione, una dottrina originale e peculiare,
per così dire filosofica. Una prima equazione, già presente
appunto in Guinizzelli, fu quella stabilita tra amore e virtù, o meglio
gentilezza: in una società dove si affermava la necessaria
discendenza della virtù dalla nobiltà, gli stilnovisti sostenevano
invece la reciprocità tra un cuore gentile e l'amore. Quest'ultimo
diventava così segno non solo della vera nobiltà d'animo (mentre
quella di nascita perdeva il suo valore se disgiunta da questa) ma anche di
un'ansia di miglioramento tutta interiore e spirituale. La sottomissione ad
Amore, dunque, non era più intesa come la sudditanza del poeta alla
domina feudale (come era stato per i trovatori provenzali prima e la
scuola siciliana poi), ma come devozione a una
donna angelicata, nel
senso tecnico del termine, che svolgeva cioè la funzione di intermediaria
tra il poeta e Dio, strumento di elevazione la cui efficacia prescindeva
assolutamente dalla presenza fisica dell'amata. Anzi, l'amore stilnovista
attinge il proprio fine di elevazione spirituale tanto più quanto
più accantona qualsiasi desiderio di appagamento terreno. Da questa
filosofia nacque sia la Beatrice della
Vita nova dantesca, sia la
Beatrice della
Divina Commedia. Particolarmente interessante la
divergenza speculativa che si venne a creare tra Dante e il suo sodale (il
"filosofo naturale") Guido Cavalcanti: mentre il primo trasse a
estrema conseguenza la concezione della donna angelo, trasponendola dal piano
metaforico a quello metafisico, il secondo (imbevuto di spirito averroistico)
vedeva nella potenza d'Amore una minaccia di disgregazione della
razionalità. L'affermazione di Dante "
I' mi son un che,
quando / Amor mi spira,
noto e a quel modo ch'e' ditta dentro vo
significando" (
Purgatorio XXVI, 52-54) non va dunque intesa nel
senso di una traduzione non mediata del sentimento in poesia: sarebbe questa
un'accezione di tipo romantico che nulla ha a che fare con la sensibilità
stilnovista. Cifra di quella poesia non fu il sentimentalismo ma l'
andar
filosofando: il poetare d'amore trascese il dato contingente ed esteriore,
aprendosi all'interiorità, alla riflessione generale sull'uomo, sulla sua
moralità e sul suo destino spirituale.
Dante Alighieri