Filosofo fiammingo. La sua biografia
è piuttosto incerta: studiò a Parigi, ma non è sicuro che
abbia avuto come maestro Alberto Magno, dal momento che quest'ultimo
lasciò la città nel 1248. Nel 1264 cominciò a insegnare
presso la facoltà delle Arti di Parigi, imponendosi, con le sue lezioni,
come caposcuola dell'Averroismo latino o radicale, corrente che gli storiografi
inseriscono a pieno titolo nella Scolastica medioevale.
S. di B.,
cioè, sulla base dell'intermediazione dei commentari del grande filosofo
arabo Averroè, perseguiva una totale aderenza al sistema aristotelico,
liberandolo da forzature e adattamenti che miravano a conciliarlo con
l'ortodossia cristiana. Contro le posizioni degli averroisti si schierarono
prima Bonaventura e poi Tommaso: nel 1270, infine, le tesi averroiste furono
condannate dall'arcivescovo di Parigi. Ciò nonostante,
S. di B.
continuò a perorare la causa dell'interpretazione letterale
dell'Aristotelismo, fino a che la sua permanenza come docente a Parigi divenne
insostenibile. Nel 1276 si recò personalmente a Orvieto, dove risiedeva
la corte pontificia, per conferire col papa: qui ricevette una censura
dottrinale, cui si adeguò ritrattando le sue tesi, e una condanna alla
prigionia. Durante l'internamento fu ucciso dal suo segretario che, secondo la
tradizione, era impazzito. ║
L'opera filosofica: sebbene
averroista,
S. di B. si potrebbe meglio definire come aristotelico puro,
in quanto le sue opere non hanno pretese di originalità speculativa, ma
piuttosto di un'esposizione fedele della dottrina di Aristotele, depurata dagli
adattamenti e dalle falsificazioni operate dagli scolastici allo scopo di
rendere coerente con il dogma cristiano il pensiero del grande filosofo greco.
S. di B. era ben conscio del conflitto, anche interiore, che conseguiva
al fatto di assumere come propria filosofia l'Aristotelismo puro, negando
contemporaneamente la possibilità di ridurlo a una filosofia cristiana.
Egli cercò di superare l'
impasse tra la sua fede e la sua scelta
filosofica, affermando che le verità di fede sono superiori a quelle
colte dalla ragione e che dunque i due ambiti non possono essere tra loro in
conflitto, se tale gerarchia è riconosciuta. Filosofia e religione sono
autonome e indagano con strumenti propri e diversi due diverse sfere di
conoscenza. Tra i suoi commenti, molti dei quali redatti nella forma tipicamente
scolastica delle
quaestiones, ricordiamo:
Quaestiones
logicales,
Quaestiones naturales,
Quaestiones de anima
intellectiva,
De aeternitate mundi,
De intellectu,
De anima
intellectiva,
Liber de felicitate. In essi erano contenute le
proposizioni da più parti condannate: 1) Dio - in quanto primo motore -
è sì causa finale delle cose ma non può esserne la causa
efficiente; ne consegue che la creazione non è frutto della libera
volontà divina, necessitata dal Suo essere sempre in atto. 2) Non solo la
divinità ma anche il mondo e le specie animali e vegetali, compresa
quella umana, sono eterni, cioè non hanno inizio né fine in quanto
soggetti al ciclo dell'eterno ritorno; secondo tale concezione ciclica del
tempo, al termine di ogni periodo ne inizia un altro e ogni cosa si verifica di
nuovo (avvenimenti, culture, opinioni, leggi, religioni: lo stesso Cristianesimo
sarebbe già comparso più volte). 3) La provvidenza di Dio,
intimamente connessa alla prescienza, non esiste, in quanto un avvenimento
conosciuto in precedenza diventa necessario e in tal modo non potrebbero
esistere eventi contingenti, per il principio di non contraddizione (un evento
non può essere insieme necessario e contingente). 4) L'intelletto agente
consiste di un'unica sostanza eterna. L'anima, cioè, non avrebbe
carattere individuale e l'unione tra essa e il corpo degli esseri razionali
è di carattere accidentale e non essenziale; tale unione si
verificherebbe in occasione di ogni atto conoscitivo (
in unum opus
conveniunt). Questa proposizione, in particolare, negando esistenza e
immortalità dell'anima individuale, inficia l'intera escatologia
cristiana che proprio nella sopravvivenza individuale dell'anima ha la sua
condizione necessaria. Inoltre, affermando l'esistenza solo di un'anima generale
e unica per tutto il genere umano, veniva confutata anche la dottrina
creazionista, secondo la quale Dio personalmente infonde in ogni essere umano,
prima della sua nascita, l'anima immortale con un atto creatore. L'eterodossia
di questi articoli è tanto lampante che è difficile pensare che un
uomo di fede come
S. vi aderisse personalmente: è più
credibile invece l'ipotesi che
S. di tali dottrine volesse essere solo
l'esegeta e l'espositore, senza volere per esse rinnegare alcunché della
propria religione. Di questo parere doveva essere anche Dante se, nella
Divina Commedia (
Paradiso, X, 133-138), esaltò la personale
ortodossia di
S. per bocca dell'anima beata di Tommaso, che in vita era
stato strenuo oppositore della sua filosofia (1235 - Orvieto 1282).