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ITINERARI - SPAZIO E TEMPO - LO STUDIO DEL PASSATO

INTRODUZIONE

La scienza del passato è la storia. Ma tutto ciò che accade, accade in qualche tempo, e appena accade entra nel passato. La storia, allora (verrebbe di pensare) è la scienza di ogni cosa esistita ed esistente, la scienza di tutto.
In un certo senso è proprio così, ma solo in un certo senso. Se studiamo qualcosa in quanto evento accaduto nel tempo e ci sforziamo di capire che cosa precisamente sia successo, e quando esattamente, e così facendo cerchiamo di individuare gli aspetti peculiari che rendono quell'evento diverso da qualsiasi altro, allora sicuramente stiamo facendo della storia. Questo, però, non è il solo modo di studiare la realtà.
Altre scienze sono meno (o non sono affatto) interessate alla peculiarità degli eventi che studiano e, invece delle differenze, puntano a cogliere le somiglianze tra le cose, e cioè a ricondurre eventi diversi entro categorie o regole generali. Queste scienze non ignorano affatto la dimensione temporale delle cose, ma il tempo di cui si occupano è quello scandito dall'orologio, sempre uguale, uniforme in ogni direzione. Per queste scienze, infatti, la distinzione tra il prima e il dopo, che è fondamentale per la storia, o la frattura tra passato e futuro, che ci appare così evidente (e talvolta così drammatica) quando la riferiamo alla nostra esistenza o all'esistenza del mondo in cui viviamo, non hanno praticamente rilevanza: la gravitazione universale non viene né prima né dopo di niente, non appartiene né al passato né al futuro, ma al «sempre», che è un tempo senza differenze e senza qualità.
Occorre precisare subito che queste scienze «non storiche» non vanno identificate con le scienze naturali, o per lo meno non con tutte. In verità, molte scienze naturali hanno un'impostazione schiettamente storica, sono cioè interessate alla ricostruzione del passato come sequenza di eventi individuali e irripetibili. Senonché, non tutte le scienze che hanno un'impostazione storica si chiamano «storia», poiché l'uso, che è quello che in definitiva decide del significato delle parole, non lo consente. Per capire perché non lo consente bisogna ripercorrere brevemente la storia della parola «storia» (il bisticcio di parole qui è inevitabile).
Storia viene dal latino historia, che è l'equivalente del greco historia, legato a histor. Hìstor, in cui sopravvive la radice indoeuropea weid - o wid -, che è la stessa di vedere, indica il testimone oculare, «colui che sa perché ha visto». Historia sta dunque a indicare il sapere che è frutto di ricerca (e non di rivelazione, come sarebbe il sapere religioso) e specialmente il sapere ottenuto viaggiando, e cioè acquisito non semplicemente per sentito dire, ma per esperienza personale. Historia, insomma, vuol dire cognizione diretta, indagine, scienza. Vuol dire anche esposizione delle cose che si sono investigate, narrazione dei fatti di cui si è stati testimoni, storia.
Può sembrare strano che un termine che richiama l'idea del «vedere con i propri occhi» abbia finito con il designare una disciplina che ha come suo oggetto il passato, ossia qualcosa di cui, per definizione, non si può avere esperienza diretta. La cosa però non è più tanto strana se si pensa alla storia come all'arte di interrogare i testimoni oculari, all'arte cioè di interpretare i resti, i segni, i documenti che sono testimonianze del passato e che ne mantengono vivo il ricordo. La storia, allora, si potrebbe definire (in modo del tutto corretto) proprio come scienza delle testimonianze.
Il termine italiano «storia» ha conservato i vecchi significati delle corrispondenti parole greca e latina, ma ne ha acquistati di nuovi. Né il greco historia, né il latino historia, ad esempio, stavano a indicare «l'insieme dei fatti accaduti nel passato» (o, più semplicemente, «il passato»), che è invece uno dei significati più frequenti di «storia». è appunto questo il significato che la parola assume in espressioni come: «Nella storia della nostra città non è mai avvenuto un fatto del genere», oppure: «Non sono solo i grandi personaggi che determinano il corso della storia». In espressioni come: «Preferisco la matematica alla storia», oppure: «La storia non serve a niente», il termine «storia» torna invece a indicare la disciplina che studia il passato.
Occorre osservare che mentre la storia come sinonimo di passato si riferisce a qualsiasi realtà, naturale o umana, la storia come studio del passato si riferisce esclusivamente al passato dell'uomo. Si può dire infatti «storia della Terra» per indicare l'insieme delle vicende attraversate nel corso del tempo dal nostro pianeta, o «storia della vita» per indicare le vicende dell'evoluzione delle specie, e si possono adoperare le stesse espressioni per indicare la narrazione di tali vicende (per esempio nella frase: «Il primo volume di questa enciclopedia è una breve storia della Terra e della vita sulla Terra»); ma le discipline che studiano la storia della Terra e la storia della vita sono rispettivamente la geologia e la biologia, non la storia. è in questo senso che si è detto che non tutte le discipline storiche si chiamano «storia»: la consuetudine ha riservato il nome «storia» (nel senso di scienza del passato) alla disciplina che studia soltanto il passato dell'uomo.
Il fatto che la stessa parola designi il passato e lo studio del passato è talvolta causa di confusione. I Latini adoperavano due espressioni distinte, indicando il passato (dell'uomo) con res gestae (i fatti, e cioè le cose fatte, le imprese compiute dagli uomini) e lo studio e la narrazione del passato con historia rerum gestarum. L'italiano, comunque, ha anche un'altra parola per indicare la scienza che studia il passato dell'uomo (l'historia rerum gestarum dei Latini): «storiografia», che però è meno usata di storia, ed ha un significato in parte diverso. Storiografia è infatti l'arte di scrivere la storia, ossia l'insieme delle tecniche necessarie allo storico per indagare il passato dell'uomo e per esporre nel modo più opportuno i risultati delle sue ricerche. Storiografia è anche il complesso delle opere scritte dagli storici. La storia della storiografia è lo studio (e la narrazione) dello sforzo compiuto dagli storici per conoscere il passato dell'uomo. La differenza tra storia e storiografia si rileva facilmente: se diciamo «la storia italiana» intendiamo sicuramente (e soltanto) il passato dell'Italia, ossia l'insieme delle vicende che hanno interessato l'Italia; se diciamo invece «la storiografia italiana» indichiamo sicuramente (e soltanto) l'attività presente e passata degli storici italiani oppure l'insieme delle loro opere.

LE TESTIMONIANZE DEL PASSATO

Si è detto che del passato, per definizione, non possiamo avere esperienza diretta e che possiamo conoscerlo solo attraverso testimonianze e documenti. Almeno in un caso, però, quel che vediamo non è un semplice documento, un resto o una traccia del passato, ma è il passato stesso, il passato (per così dire) «in carne e ossa»: il cielo stellato. La luce delle stelle, infatti, viene da molto lontano (nel tempo oltre che nello spazio), e noi vediamo le stelle come erano, non come sono, e forse molte di loro nel momento in cui le vediamo non esistono neppure più. Il cielo stellato è insomma come una grande esposizione di eventi passati; quando lo guardiamo siamo spettatori diretti di ciò che è stato, e per di più vediamo in contemporanea eventi che sono successi in tempi diversi.
Di norma, comunque, non è così: nessun egittologo ha la possibilità di incontrare il faraone Ramsete II, come nessuno storico del Risorgimento ha la possibilità di assistere allo sbarco dei Mille. L'immagine che possiamo avere del passato dell'uomo è una ricostruzione ipotetica, indiziaria, ottenuta ricomponendo pazientemente i frammenti che ne restano.
Il passato non si conserva da sé. Certo, ogni evento lascia delle tracce e i resti del passato si accumulano incessantemente intorno a noi. Ma, a parte che anche le tracce più profonde possono essere cancellate, esse diventano documenti (dal latino docere = «insegnare») solo nel momento in cui qualcuno le riconosce per tali (ossia ha voglia di imparare quel che esse possono insegnare). Le ossa dei dinosauri sono sparse per il mondo da milioni di anni, ma solo dall'inizio del secolo scorso si è cominciato a dar loro il significato di indizi di un'antichissima evoluzione delle forme animali e a studiarle come documenti di una storia della vita.
Le tracce del passato sono di molti tipi. Ci sono innanzi tutto i documenti materiali, che consistono in cose, come, ad esempio, fossili, manufatti, resti monumentali, ecc. Anche la composizione chimica di una pietra, la conformazione di un rilievo montuoso, o la disposizione degli strati rocciosi in un terreno sono testimonianze di eventi remoti, e quindi sono fonti per la ricostruzione di quegli eventi. Da quando, poi, esiste il genere umano, il passato non ha lasciato più soltanto tracce fisiche, ma anche mentali: si tratta delle immagini e delle emozioni che, prodotte da un qualsiasi evento e immagazzinate nella memoria dell'uomo, sono state trasmesse di generazione in generazione per iscritto o oralmente e sono giunte, più o meno profondamente alterate, sino a noi. I segni del passato non stanno dunque solo nelle cose, ma anche nel linguaggio, nelle credenze, nelle regole di comportamento, che in ogni gruppo umano riflettono una lunga esperienza collettiva. Non è facile risalire a questa esperienza partendo da una parola, da un'immagine o da una norma, ma non è più difficile che risalirvi a partire da documenti materiali, anch'essi soggetti ad alterazioni, manomissioni, perdite.
Alle tracce involontarie che ogni avvenimento lascia di sé nelle cose o nella mente degli uomini si aggiungono le testimonianze che gli uomini hanno prodotto intenzionalmente per ricordare e per farsi ricordare: iscrizioni, cronache, diari, fotografie, disegni, ecc. Se non possiamo assistere allo sbarco dei Mille, possiamo però consultare le memorie di chi c'era. Se non possiamo incontrare il faraone Ramsete II, possiamo però leggerci il poema che celebra le sue vittorie e che fu riprodotto a suo tempo, a perenne memoria, sulle pareti di più di un tempio.
Il bisogno di conservare il ricordo di ciò che avviene si esprime non solo nella produzione di monumenti (dal latino monere = «ricordare», oggetti di qualsiasi genere costruiti con la specifica funzione di ricordare persone o avvenimenti: tombe, statue, stele, monete, lapidi ecc.), ma anche nella raccolta e nella conservazione di documenti di vario tipo, scritti o no: una funzione a cui di solito presiedono apposite istituzioni come i musei (che raccolgono prevalentemente oggetti materiali), le biblioteche (che raccolgono libri, a stampa o manoscritti) e soprattutto gli archivi.
Ogni amministrazione pubblica o privata ha bisogno di conservare, nell'originale o in copia, i documenti scritti (corrispondenza, verbali di riunioni, libri contabili, contratti, ecc.) che essa ha prodotto o che le sono pervenuti o che comunque si riferiscono alla sua attività: ha bisogno, cioè, di un archivio.
Di solito si distingue l'archivio corrente, che raccoglie pratiche recenti o documenti la cui consultazione può rendersi necessaria nell'ordinaria attività dell'ufficio, dall'archivio «storico», in cui si conservano i documenti che riguardano pratiche definitivamente chiuse o attività ormai cessate.
Periodicamente ogni amministrazione deve fare una revisione delle carte conservate nell'archivio corrente per trasferire nell'archivio storico quelle che praticamente non servono più. Di solito non vengono trasferite tutte: quelle che si ritiene non abbiano alcun interesse «storico» si buttano via.

UN ARCHIVIO DI FAMIGLIA

Anche le famiglie hanno un archivio, grande o piccolo che sia, conservato magari in una scatola di latta o nel cassetto della credenza. Tutti infatti siamo tenuti a conservare certi documenti, come le ricevute dell'affitto, della luce, ecc., gli atti di proprietà dell'auto, della casa, ecc., o i diplomi di scuola, che in qualsiasi momento possiamo trovarci nella necessità di esibire (archivio corrente). In molte famiglie, poi, si conservano delle «vecchie carte», lettere, quaderni di appunti, diari, fotografie, che servono solo per ricordo (archivio storico). A volte tra queste carte ci sono dei pezzi curiosi: per esempio il quaderno dove la nonna segnava ogni giorno le spese della famiglia o dove appuntava le ricette di cucina. Un classico documento che si trova negli «archivi storici» delle famiglie è l'album del matrimonio, con le foto della cerimonia e magari qualche parola di augurio tracciata da amici e parenti.
Anche nelle famiglie ogni tanto si fa un po' di «ripulisti» nei cassetti. Il guaio in entrambi i casi è che non c'è alcun criterio per stabilire a priori che cosa merita di esser conservato e che cosa no, e spesso si finisce per buttare via il meglio.
Per esempio c'è un pregiudizio molto diffuso secondo il quale meriterebbero di esser conservati solo i documenti che riguardano personaggi famosi. Così, un autografo di Garibaldi, consistente magari solo nella sua firma, avrebbe un valore «storico», mentre il quaderno delle ricette della nonna non lo avrebbe. è vero tutto il contrario: la nonna sta nella storia né più né meno di Garibaldi e mentre la firma di Garibaldi (anche se può avere un certo valore commerciale per i collezionisti di cimeli) non aggiunge nulla alle nostre conoscenze, il quaderno della nonna può rivelarsi una miniera di notizie interessanti.

ARCHIVIO

La parola «archivio» (che deriva dal greco archéion = «Curia», ossia sede degli uffici pubblici e, per estensione, questi stessi uffici) indica sia una raccolta di atti pubblici o privati, sia l'edificio, il locale o il mobile che ospita la raccolta. Ma si chiama archivio, anche, l'ufficio o l'ente che cura la raccolta e la conservazione di tali documenti.
Gli archivi storici sono di diversi tipi a seconda dell'ente da cui hanno tratto origine. Una prima grande distinzione è quella tra archivi pubblici e archivi privati. In italia gli Archivi di Stato, che esistono in ogni capoluogo di provincia, conservano le carte della prefettura e degli uffici statali a base provinciale. Gli Archivi di Stato delle città che sono state capitali di uno degli antichi Stati italiani (Roma, Milano, Torino, Napoli, Firenze, ecc.) conservano, oltre alle carte della prefettura, quelle del vecchio Stato preunitario. A Roma, oltre all'Archivio di Stato provinciale, c'è l'Archivio Centrale dello Stato, che conserva i documenti dei vari Ministeri dall'unità d'Italia in poi. Tra gli archivi pubblici ci sono gli archivi storici dei Comuni, che purtroppo non sempre sono curati come meriterebbero dalle relative amministrazioni municipali. Di grandissimo interesse sono gli archivi ecclesiastici ossia gli archivi delle curie vescovili, degli ordini religiosi, delle parrocchie. Questi ultimi conservano tra l'altro i registri dei battesimi, dei matrimoni e delle morti che rappresentano la fonte principale per la ricostruzione delle vicende demografiche dalla fine del Cinquecento, quando (in applicazione delle disposizioni del Concilio di Trento) cominciarono ad essere compilati, all'Ottocento, quando cominciarono a funzionare i servizi anagrafici dello Stato. Ci sono infine gli archivi privati, di aziende o di famiglie. Per gli archivi ecclesiastici (specialmente parrocchiali) e per quelli privati esistono talvolta grossi problemi relativi sia alla conservazione del materiale, sia alla possibilità di consultarlo. Cosi, ad esempio, nonostante qualche progresso compiuto negli ultimi decenni, sono ancora poche le aziende che curano i propri archivi storici e ancor meno quelle che li aprono agli studiosi.

TESTIMONIANZE PARZIALI O FALSE

Dove c'è un'intenzione c'è uno scopo, e ogni documento intenzionale è un documento interessato. Qualche volta lo scopo del documento è dichiarato: è il caso dei monumenti, e in particolare delle iscrizioni celebrative o infamanti, volte a perpetuare la buona o la cattiva memoria di un personaggio o di un avvenimento. Altre volte bisogna scoprirlo, perché lo scopo per il quale un documento viene redatto è la prima e più importante informazione che dobbiamo procurarci per valutare l'attendibilità del documento stesso. è probabile infatti che nei documenti prodotti intenzionalmente l'interesse ottenebri in qualche misura l'obbiettività di chi ne è l'autore, ed è anche possibile che lo induca alla frode, ossia ad una consapevole falsificazione della realtà.
Non è affatto raro imbattersi in documenti falsi, in tutto o in parte, e spesso è assai difficile distinguerli dagli autentici. La difficoltà di riconoscere il falso è qualche volta dovuta all'abilità del falsario, ma più frequentemente al fatto che - in questo come in altri settori - la linea che divide il vero e il falso non è mai così netta come si vorrebbe. Cerchiamo di spiegarci con qualche esempio.
Il Medio Evo è un po' l'età d'elezione dei falsi storici, perché, in rapporto alla scarsa familiarità che la gente comune aveva con la scrittura, i documenti scritti erano dotati di grandissima autorità (e quindi assicuravano un forte vantaggio a chi poteva esibirli), ma, al tempo stesso, erano relativamente facili da falsificare. Proprio i falsi medioevali forniscono innumerevoli prove della relativa ambiguità del concetto di «falso»: ci sono documenti sicuramente falsi nella sostanza e ineccepibili nella forma, come, ad esempio, quelli che uno sleale funzionario della cancelleria pontificia costruì con tutti i crismi, e cioè mettendovi tutte le clausole, le firme e i sigilli richiesti; e ce ne sono di formalmente falsi, che però nella sostanza erano veri, come quelli fabbricati da certi buoni monaci che, avendo perso in un incendio gli originali dei titoli di proprietà di alcune terre da loro dipendenti, se li erano ricostruiti alla bell'e meglio, senza con questo voler ingannare nessuno.
Quando un documento risulta inattendibile non è detto che si tratti di un falso intenzionale o di una testimonianza partigiana. Spesso la deformazione della realtà o il suo fraintendimento sono una conseguenza del tutto involontaria del fatto che ognuno di noi osserva gli avvenimenti di cui è spettatore attraverso le lenti della propria cultura, delle proprie credenze, dei propri gusti: in questo senso un certo grado di «deformazione» c'è in ogni testimonianza. è compito dello storico «tarare» le testimonianze con cui ha a che fare tenendo conto della cultura, della mentalità, del temperamento dei loro autori.
A proposito delle deformazioni proprie di un certo ambiente culturale o di una determinata atmosfera spirituale, lo storico medievista Gabriele Pepe (1899-1971) ha riportato un divertente esempio.

... La superstizione medioevale contribuisce assai spesso a falsare i fatti: quando uno storico racconta che papa Leone III fu assalito dai nemici e poco mancò che non gli fossero tagliate le mani e cavati gli occhi, si può provare un senso di pena per la insanabile ferocia umana, ma non si avverte nulla di peculiare del Medio Evo. Lo stesso fatto può avvenire in ogni tempo. Ma quando il cronista contemporaneo pretende affermare che a Leone furono davvero strappati occhi e lingua, e che poi questi miracolosamente rinacquero, allora abbiamo il peculiare del Medio Evo...

La testimonianza perfettamente obbiettiva, una sorta di calco della realtà, non esiste. Ogni testimonianza è parziale, nel duplice significato della parola: è «di parte» (favorevole cioè a una delle parti in causa) ed è «limitata» (capace di cogliere solo una parte della realtà). Ciò non toglie che tutti i documenti, e perfino quelli volutamente e palesemente falsi, siano utilizzabili dallo storico, se non altro per stabilire che in un dato momento, da parte di determinate persone c'era un interesse a falsificare certi fatti. L'importante è usare i documenti in modo non ingenuo, sapendo con che cosa esattamente si ha a che fare: ed è dovere dello storico essere sospettoso, non fidarsi mai troppo delle proprie fonti.
Per stabilire il valore di un documento è buona regola cercare di ripercorrere la storia del documento stesso e domandarsi: come è venuto alla luce? chi se ne è servito per primo? a chi giovava? E poi occorre esaminarlo attentamente per vedere se per caso non sia in qualche parte contraddittorio: il diavolo, si dice, fa le pentole ma non i coperchi, e anche i falsi storici si scoprono spesso per le loro contraddizioni interne. Infine, bisogna frugare nella documentazione disponibile alla ricerca di eventuali testimonianze che lo contraddicano in tutto o in parte: solo il confronto di più fonti relative allo stesso evento ci permette di valutare con qualche sicurezza sia le fonti, sia l'evento.
Quel che vale per le singole testimonianze vale a maggior ragione per le raccolte documentarie, e in particolare per gli archivi storici. Ogni archivio, per grande e importante che sia, contiene solo una parte (e in genere una piccola parte) della documentazione originariamente prodotta dagli uffici, dalle famiglie o dalle persone di cui conserva le carte: come si è visto, è sempre il risultato di una selezione, di una scelta deliberata. Salvo errori o sviste (sempre possibili) da parte di chi ha curato la selezione, si conserva la documentazione solo di ciò che si vuole ricordare e far ricordare, mentre si distrugge quella relativa ad eventi di cui si ritiene inutile o non conveniente conservare la memoria. Una raccolta documentaria è insomma una tipica «testimonianza volontaria» e spesso ha un dichiarato valore celebrativo. Non è mai una fonte «oggettiva», «neutrale», «imparziale», «incontestabile» di informazioni. Anche qui per utilizzarla in modo non ingenuo è bene capire come si è formata, a quali scopi e con quali procedure. Bisogna insomma domandarsi: - Chi ha voluto che questi documenti fossero conservati? E perché proprio questi e non altri? -

IL CONSIGLIO D'EGITTO

Ambientato a Palermo negli anni tra il1782 e il 1795, il romanzo di Leonardo Sciascia Il Consiglio d 'Egitto, pubblicato nel 1963, narra dell'ideazione e della realizzazione di falsi documenti storici ad opera di don Giuseppe Vella, fracappellano dell'Ordine di Malta. Gli ultimi decenni del XVIII secolo, minuziosamente ricostruiti nel romanzo, vedono la diffusione in Sicilia dei principi del movimento riformatore illuministico, sostenuto dallo stesso Domenico Caracciolo, viceré di Sicilia dal 1871 e deciso oppositore del potere baronale sull'isola. Per la Corona, cioè per Ferdinando IV di Borbone e per sua moglie Maria Carolina di Austria, i baroni siciliani, legati a vastissime proprietà terriere, costituivano un vero intralcio, che il Caracciolo cercò di eludere attraverso una serie di provvedimenti volti a reintegrare le leggi feudali a svantaggio dei baroni stessi. In questo quadro si inserisce la vicenda della truffa: in occasione dell'inaspettato arrivo dell'ambasciatore del Marocco, il Vella viene chiamato a fare da interprete, in realtà conoscendo ben poco di arabo. Nel monastero di San Martino a Palermo, si mostra all'ospite in cerca di testimonianze arabe sull'isola, un codice, che l'Ambasciatore riconosce subito come

- Una vita del profeta Maometto - disse - niente di siciliano: una vita del profeta, ce ne sono tante.

Ma il Vella traduce:

- Sua eccellenza dice che si tratta di un prezioso codice: non ne esistono di simili nemmeno nei suoi paesi. Vi si racconta la conquista della Sicilia, i fatti della dominazione...-.

Nasce così Il Consiglio di Sicilia, «storia civile, e militare di tutto quel tempo, che la Sicilia a' Saracini soggiacque», opera di traduzione che procurerà al Vella una migliore considerazione sociale e presto un'abbazia. Ma è con Il Consiglio d'Egitto, «il romanzo, lo straordinario romanzo dei musulmani di Sicilia», che si rivela il vero potere della falsificazione, perché

... Il Caracciolo stava tentando di incenerire tutta la dottrina giuridica feudale, tutto quel complesso di dottrine che la cultura siciliana aveva in più secoli, ingegnosamente, con artificio, elaborato per i baroni, a difesa dei loro privilegi [...] Loro, baroni e giuristi, affermavano che re Ruggero e i suoi baroni erano stati, nella conquista della Sicilia, come soci di una impresa commerciale [...]; ebbene, don Giuseppe avrebbe tirato fuori un codice arabo in cui le cose della Sicilia normanna sarebbero apparse [...] in tutt'altro ordine: tutto alla Corona, e niente ai baroni...

Don Giuseppe quindi trova una valida ragione per la sua truffa, convinto com'è che

... Il lavoro dello storico è tutto un imbroglio, un'impostura: [...] c'era più merito ad inventarla, la storia, che a trascriverla da vecchie carte [...] - La storia non esiste [...] La storia! E mio padre? E vostro padre? E il gorgoglio delle loro viscere vuote? E la voce della loro fame? Credete che si sentirà nella storia? Che ci sarà uno storico che avrà orecchio talmente fino da sentirlo?»...

Il romanzo di Sciascia si conclude con il grande riscatto dell'abate Vella, sempre più vicino all'altro personaggio principale, il giovane idealista Francesco Paolo di Blasi che così interpreta il vero significato della truffa:

... Eh no, questo non è un volgarissimo crimine. Questo è uno di quei fatti che servono a definire una società, un momento storico. In realtà, se in Sicilia la cultura non fosse, più o meno coscientemente, impostura; se non fosse strumento in mano del potere baronale, e quindi finzione, continua finzione e falsificazione della realtà, della storia... Ebbene, io vi dico che l'avventura dell'abate Vella sarebbe stata impossibile... Dico di più: l'abate Vella non ha commesso un crimine, ha soltanto messo su la parodia di un crimine rovesciandone i termini... Di un crimine che in Sicilia si consuma da secoli...

L'ARTE DELLA MEMORIA

L'arte della memoria o mnemotecnica è stata largamente coltivata in Occidente. Secondo la tradizione, ne sarebbe stato inventore il poeta greco Simonide di Ceo (556-468 a.C.), che quando era ospite di un potente signore della Tessaglia, fu testimone di un terribile incidente, da cui scampò per miracolo: il tetto della sala in cui si stava svolgendo un banchetto crollò improvvisamente schiacciando tutti i convitati. I loro corpi erano talmente maciullati che i parenti non furono in grado di identificarli. Ma Simonide, che gli Dei avevano voluto risparmiare facendolo uscire dalla sala poco prima del crollo, ricordava il posto in cui ognuno era seduto e poté quindi indicare l'identità di ogni cadavere. Questo episodio gli avrebbe suggerito l'opportunità di collegare mentalmente ciò che si vuole ricordare ad una ordinata successione di oggetti o di luoghi, analoga alla disposizione dei convitati nella sala del banchetto.
Il sistema, fondato sulla memoria visiva, funzionava pressappoco in questo modo. Un oratore o un insegnante che intendesse pronunciare un discorso o una lezione senza ricorrere ad appunti scritti, ma senza timore di perdere il filo, doveva associare ogni idea o tema del discorso a un posto all'interno di una sala o di un edificio o di una città immaginaria: la disposizione dei particolari (mobili, arredi, ecc.) nella sala, delle sale nell'edificio e degli edifici nella città avrebbe rappresentato schematicamente la struttura del discorso, sicché, ripercorrendo con l'immaginazione quelle sequenze di luoghi sarebbe stato facile seguire nell'esposizione la necessaria concatenazione degli argomenti.

MEMORIA

L'italiano memoria viene dal latino memor (= «colui che ricorda»), equivalente al greco mnémon (da cui mnemonica = «arte della memoria»), che è un raddoppiamento della radice indoeuropea [s]mer che indica ricordo (ma anche preoccupazione, cruccio). La memoria è la capacità di far rinascere le esperienze passate, ossia la facoltà di acquisire cognizioni, conservarle, richiamarle, riconoscerle. La memoria è una funzione complessa; per descriverla è stata distinta in tre strutture di differente livello. Vi è una memoria delle sensazioni e dei movimenti, o memoria biologica, che è comune agli animali e agli uomini, e in cui ogni senso (il gusto, l'olfatto, la vista, l'udito, il tatto) possiede una sua memoria. è una funzione elementare, ma comporta una certa misura di riconoscimento dello stimolo, a cui risponde un'azione. Questa risposta, però, non implica un processo di pensiero: non è necessario pensare quando si tratta di aprire la bocca per farci entrare un cucchiaio di minestra. La memoria più altamente differenziata è la memoria sociale, quella cioè che è propria dell'uomo che vive in società. Quando un bambino racconta una favola a un suo amico, o quando racconta a scuola ciò che ha letto in un libro, si serve già della memoria sociale; il racconto implica infatti una logica e un ordine razionale, utilizza rappresentazioni collettive (ossia comuni ad altri esseri umani), ed è inseparabile dal riconoscimento del passato come tale. In particolari situazioni nelle quali i nostri legami con la vita sociale sono allentati, come nel sogno e nel delirio, possiamo rivivere avvenimenti passati senza riconoscerli come tali e considerandoli presenti. Questo tipo di memoria viene chiamata «autistica»: soggettiva e asociale, prende i suoi materiali dalla memoria senso-motoria e dalla memoria sociale. Analogamente a quest'ultima, è una ricostruzione dell'esperienza passata, che però non si basa sulle categorie logiche proprie della memoria sociale, ma sugli affetti, sui sentimenti, sull'emotività. Questi tre tipi di memoria, che coesistono e interferiscono l'uno con l'altro nella vita dell'adulto, compaiono grado a grado durante lo sviluppo dell'individuo. La memoria senso-motoria si manifesta nel neonato. Verso i tre anni il bambino ha una memoria prevalentemente autistica, perché non distingue ancora il reale dall'immaginario e il passato dal presente. Progressivamente la memoria autistica cede il posto, durante la veglia, alla memoria sociale per riapparire nel sogno. è stato osservato che si ricordano meglio le cose che si sono apprese meglio, vale a dire che i fattori che favoriscono l'apprendimento favoriscono anche il ricordo. Tra gli elementi che facilitano la memorizzazione dei dati il più importante è l'atteggiamento favorevole: è più facile ricordare le cose che riteniamo opportuno ricordare. C'è poi una tonalità emotiva della memoria, in virtù della quale si ricordano più facilmente gli elementi legati a esperienze piacevoli o spiacevoli, mentre si dimenticano più facilmente quelli legati a esperienze emotivamente neutre: negli adulti il ricordo più antico si colloca tra i 3 e i 5 anni di età ed è legato nel 95 per cento dei casi circa ad una colorazione emotiva, soprattutto di paura o di piacere. Infine, i materiali che si presentano organizzati in una struttura o in un sistema, e cioè in un qualcosa che ha per noi un significato, si ricordano più facilmente di materiali isolati, frammentari, che non sono in relazione con altro.

LA TRADIZIONE ORALE

Oggi le tecniche di registrazione magnetica e fotografica permettono di fissare il ricordo di ciò che accade attraverso immagini e suoni colti nel momento stesso della loro produzione. Per millenni il supporto più efficace della memoria è stata invece la scrittura. E prima della scrittura non c'era che la tradizione orale, fondata su quel labile strumento che è la memoria individuale.
In verità la tradizione orale è più efficiente di quanto non paia alla prima. In fondo le migliaia di versi dell'Iliade e dell'Odissea sono state tramandate a memoria per secoli (anche se probabilmente attraverso innumerevoli rifacimenti) prima di essere fissate per iscritto e la stessa cosa è accaduta per altre grandi opere dell'antichità, dalla Bibbia ai grandi poemi epici indiani. In molte parti del mondo esistono ancora culture che ignorano la scrittura e affidano alla memoria di persone a ciò specificamente deputate (poeti, sacerdoti, cronisti e cantastorie) il compito di ricordare le genealogie dei capi, dei re o degli Dei o di cantarne le gesta.
Questi depositari della memoria collettiva si aiutano con diversi espedienti. Spesso il racconto del passato ha la forma di poema o di canzone e il ritmo o la melodia che accompagnano la narrazione possono soccorrere la memoria. C'è chi recita le genealogie degli antenati seguendo le tacche incise su un bastone, e chi invece usa come promemoria i nodi di una corda o i grani di un rosario. Nell'isola di Pasqua sono state ritrovate tavolette su cui sono incisi simboli e segni geometrici. Si è pensato a una specie di scrittura e se ne è cercata inutilmente la chiave, ma anche in questo caso probabilmente si tratta di promemoria, in cui i segni corrispondono alle strofe o ai punti salienti di un poema.
Anche dove la scrittura e le altre tecniche di registrazione sono conosciute e generalizzate la tradizione orale continua ad operare. Aneddoti, leggende, proverbi, barzellette, canzoni, fiabe, preghiere e dicerie di ogni genere si tramandano da una generazione all'altra appunto per questa via, passando cioè di bocca in bocca. Allo stesso modo, almeno in gran parte, si trasmettevano, prima dell'avvento del lavoro standardizzato (ma in una certa misura si trasmettono ancora) le pratiche di lavoro: quelle registrate nei manuali di formazione professionale non rappresentano che una minima parte del patrimonio di conoscenze che circolava tra operai e contadini. Negli ambienti popolari che, almeno nel passato, avevano minore familiarità con la scrittura, la tradizione orale è stata particolarmente attiva; essa però non ha mai cessato di operare anche nelle classi colte.
Da molti decenni etnologi, antropologi culturali e studiosi di folclore (dall'inglese folk = «popolo» e lore = «dottrina», «sapere»: studiosi delle tradizioni popolari) trascrivono e registrano le espressioni della cultura popolare, sicché si può dire che anche in questo settore la tradizione orale ha lasciato posto ad altre (e più efficienti) forme di conservazione. La cosa però vale soltanto (e in parte) per la conservazione, giacché la trasmissione resta prevalentemente orale: le favole, grazie a dio, i bambini se le fanno sempre raccontare dalla nonna, non le vanno a cercare nelle raccolte degli studiosi di folclore.

STORIA E ARCHEOLOGIA

«Storia», si è detto, sta a indicare il passato. Più precisamente sta a indicare il passato dell'uomo. Ma in senso ancora più stretto indica soltanto quella parte del passato dell'uomo, di cui l'uomo stesso ci ha tramandato notizia, e cioè quel periodo relativamente breve (alcune migliaia di anni) che va dall'adozione di qualche sistema di scrittura (o di registrazione) ai giorni nostri. I milioni di anni che intercorrono tra la comparsa delle prime specie umane e la produzione dei primi documenti scritti costituiscono propriamente l'ambito della preistoria.
Il termine «preistoria» risale alla metà del secolo scorso. Apparentemente è un non-senso, perché suggerisce l'idea di un tempo che viene prima della storia, ossia prima del tempo stesso. In verità, ancora nel primo Ottocento, quel che si sapeva sul passato del genere umano derivava pressoché per intero da testimonianze scritte, a cominciare dalla Bibbia, uno dei testi più antichi della tradizione occidentale. Sulla base del racconto biblico non si riusciva a contare più di quattro o cinquemila anni tra la creazione del mondo e la nascita di Cristo, e si contavano appena sei giorni tra l'inizio della creazione del mondo e la comparsa dell'uomo. Solo gradualmente ci si rese conto che il mondo e il genere umano erano molto più antichi.
Fu appunto l'accumularsi, nel primo Ottocento, di prove schiaccianti intorno all'antichità del genere umano che suggerì l'opportunità di designare con un nome nuovo il periodo più remoto e ancora inesplorato della storia, quello della storia non scritta. Sarebbe forse stato meglio chiamarlo in qualche altro modo, anziché preistoria, ma questa è davvero una questione solo di parole: ad evitare equivoci è sufficiente stabilire una volta per tutte che la preistoria, a dispetto del nome, fa parte a pieno titolo della storia dell'uomo.
L'opportunità di distinguere anche nel nome preistoria e storia deriva tra l'altro dalla diversità degli strumenti e delle metodologie richieste per lo studio dell'una e dell'altra. La documentazione scritta, fonte principale, anche se non unica, per la ricostruzione della storia in senso stretto, richiede una buona preparazione nel campo della filologia, della paleografia, della diplomatica. La sola documentazione esistente sulla preistoria è costituita invece da resti materiali, fossili e manufatti, alla cui interpretazione devono cooperare le discipline più diverse, dalla geologia, alla chimica, alla biologia, ecc.
La disciplina che tradizionalmente studiava questo tipo di fonti era l'archeologia. Il termine (dal greco archaìos = «antico») significa alla lettera scienza delle civiltà antiche, e richiama in qualche modo le origini di questa disciplina, strettamente legate, dal Rinascimento in poi, alla riscoperta dell'arte classica, al fenomeno del collezionismo ed al commercio degli oggetti d'arte antichi. Il ritrovamento di questi oggetti era spesso fortuito e per moltissimo tempo la ricerca e lo scavo dei reperti è stato condotto senza un preciso metodo.
Anche se nata dallo studio degli oggetti dell'arte classica l'archeologia non è legata a nessuna epoca o civiltà particolare: c'è un'archeologia preistorica, che è comunemente chiamata in Italia paletnologia (dal greco palaiòs = «antico» e éthnos = «popolo»), e c'è un'archeologia che sotto denominazioni diverse (industriale, rurale, ecc.) studia i resti materiali di epoche a noi vicinissime. Ci sono poi tante specializzazioni quante sono le culture studiate: l'egittologia, l'assiriologia, l'etruscologia, l'archeologia precolombiana (che studia le culture indigene dell'America prima dell'arrivo degli Europei), ecc. L'archeologia non è neppure legata ad un particolare tipo di manufatto, per esempio all'opera d'arte. Esiste, naturalmente, un'archeologia che si occupa in maniera specifica della produzione artistica delle epoche passate. Ma l'oggetto dell'archeologia è tutto l'insieme della documentazione materiale relativa alla presenza dell'uomo. I documenti a cui viene spontaneo pensare per primi sono i suoi manufatti: strumenti, arredi, monili e, naturalmente, monumenti e opere d'arte. Ma non meno importanti sono quegli elementi materiali (rifiuti, resti di animali e di piante, ceneri, i suoi stessi avanzi corporei: ossa, pelle, escrementi, ecc.), che nei giacimenti archeologici si trovano associati ai suoi manufatti e dai quali ricaviamo quasi tutto quel che sappiamo circa il suo aspetto fisico, l'ambiente in cui viveva (flora, fauna, clima, ecc.), le sue condizioni di vita (consuetudini alimentari e abitative, malattie, ecc.).

PROSPEZIONI ARCHEOLOGICHE

Nella ricerca dei siti archeologici non si va più a caso. Le tecniche oggi disponibili consentono agli archeologi di esplorare il terreno in lungo e in largo prima di scavare. Gli scavi si fanno «a colpo sicuro» là dove è stato individuato un giacimento interessante.
Le principali tecniche di prospezione sono:
a) la prospezione aerea; le foto aeree sono in grado di evidenziare le irregolarità del terreno e della vegetazione; alcune caratteristiche macchie bianche denotano l'esistenza di formazioni archeologiche;
b) la prospezione geofisica, che comprende tecniche diverse, quali l'esame di piccole scosse sismiche, la rilevazione delle anomalie magnetiche del terreno, ecc.;
c) i sondaggi fotografici, usati per le cavità sotterranee (caverne, tombe e simili): individuato il giacimento, si pratica un foro e vi si introduce una sonda opportunamente attrezzata per fotografare l'interno. Si ottiene così un'immagine, che da un lato permette di valutare l'opportunità di procedere o meno a una campagna di scavo, e dall'altro serve a documentare lo stato del giacimento prima della sua eventuale manomissione.
Schema semplificato di sonda fotografica


LA CONCEZIONE BIBLICA NELLA STORIA

Nella Bibbia la parola «storia» non c'è. Ma la Bibbia è a suo modo un libro di storia. Forse, anzi, è il più importante libro di storia della tradizione occidentale.
Qui, però, l'espressione «libro di storia» non sta a indicare né un'opera intesa a ricostruire scientificamente il passato, né una raccolta ragionata di testimonianze storiche. In questo senso i primi libri di storia della tradizione occidentale dobbiamo cercarli, come quasi tutto quello che riguarda la nostra cultura scientifica, nella Grecia classica.
Ma se la Bibbia non contiene né indagini scientificamente fondate (che non interessavano minimamente i suoi autori) né testimonianze storiche attendibili (perché quelle che nella Bibbia possono essere considerate «testimonianze» sono segnate da una esperienza religiosa tanto intensa da sopraffare qualunque dato storico), la sua ispirazione centrale ha a che fare appunto con la storia: è una sorta di grande favola che ha per protagonista l'umanità. La visione della storia che esce da questo fantastico racconto ha influenzato profondamente e durevolmente la cultura occidentale.
Secondo il racconto biblico, nel paradiso terrestre la prima coppia umana era ammessa alla presenza di Dio. Dopo il peccato originale, però, Adamo ed Eva e i loro discendenti sono stati cacciati lontano: da quel momento Dio è nascosto agli occhi degli uomini. Perché gli uomini possano conoscerlo Dio deve rivelarsi. Egli però non comunica mai verità o dottrine astratte e non svela mai il mistero della sua essenza: in questo senso si tiene sempre nascosto. Dio si rivela invece con i fatti, e cioè intervenendo nella storia. I diretti protagonisti della storia sono senza dubbio gli uomini, ma in mezzo a loro e per loro mezzo opera Dio. Storia umana e rivelazione divina sono in effetti la stessa cosa.
Per operare nel mondo Dio ha uno strumento d'elezione: il popolo ebraico, con il quale ha stretto un patto di alleanza. Perché proprio il popolo ebraico? è una domanda senza risposta giacché i motivi delle scelte di Dio sono sempre misteriosi. La sola cosa certa è che la scelta non è stata determinata dai meriti del popolo ebraico: il popolo ebraico è solo un piccolo, rozzo popolo «dal collo duro» (come dice la Bibbia). La scelta di Dio è un atto di grazia, ossia è avvenuta non perché Dio fosse tenuto a farla, ma perché così gli è piaciuto di fare.
Il patto che Dio ha stretto con il popolo ebraico consiste da un lato nella promessa di Dio al suo popolo di soccorrerlo nelle necessità e di condurlo alla salvezza, e dall'altro nella promessa del popolo a Dio di mantenerglisi fedele e obbediente. Il peccato (anche quello di Adamo ed Eva) è in sostanza disobbedienza e ribellione verso Dio. Questo peccato si rinnova continuamente nella storia del popolo ebraico, che, si potrebbe dire, è tutta intessuta di ribellioni individuali o collettive contro Dio e di espiazioni individuali o collettive del peccato. Dio, infatti, punisce inesorabilmente ogni violazione del patto: non è soltanto un Dio consolatore e salvatore, ma anche un Dio vendicatore e, all'occorrenza, sterminatore.
La denuncia del peccato e l'annunzio del castigo divino è il contenuto fondamentale del messaggio dei profeti (dal greco prophétes = «indovino», «interprete di oracoli», legato a pròphemi, composto di pro- = «avanti», e di phemi = «parlo», «annuncio», «rendo manifesto»). I contemporanei li consideravano ispirati da Dio ed essi stessi affermavano di parlare in nome di Dio. Con i loro ammonimenti i profeti tendevano a richiamare il popolo ebraico al confronto con Dio: lo spirito di ribellione sarebbe stato punito con terribili sventure, catastrofi naturali o rivolgimenti politici. Ma il messaggio dei profeti non si avvaleva solo di denunce e di minacce: nelle più gravi crisi del popolo ebraico, quando tutto sembrava perduto, i profeti rammentavano che nonostante la ribellione, al di là della punizione, Dio conservava fede all'antico patto, e avrebbe salvato i superstiti del suo popolo. Insomma il messaggio dei profeti era anche, sempre, un messaggio di speranza.
La profezia del castigo e quella della salvezza erano dirette di solito al solo popolo ebraico. Ma gradualmente si formò la convinzione che la storia del popolo ebraico coinvolgesse i destini di tutta l'umanità e che l'intero universo si stesse avvicinando ad una catastrofe finale, dopo la quale si sarebbe instaurato sulla Terra il Regno di Dio. Così, la storia dell'umanità (di tutta l'umanità e non del solo popolo ebraico) veniva a configurarsi come il faticoso processo di risalita del genere umano dagli abissi del peccato e attraverso le catastrofi dell'espiazione, verso la salvezza finale.

LA CONCEZIONE NEOTESTAMENTARIA DELLA STORIA: IL REGNO DI DIO

La concezione cristiana della storia si riallaccia a quella ebraica ma vi introduce importanti novità. Per i cristiani, come per gli ebrei, la storia è storia della rivelazione di Dio e della salvezza dell'uomo; ma per i cristiani il momento culminante della storia è la venuta di Gesù in Terra e particolarmente la sua morte sulla croce. Il sacrificio di Gesù è infatti per i cristiani il prezzo pagato per il riscatto dei peccati dell'uomo: se il peccato rappresenta la rottura del patto di alleanza tra Dio e uomo e instaura tra uomo e Dio uno stato di inimicizia, la morte di Gesù è il prezzo della loro riconciliazione. Per i cristiani, dunque, la venuta di Gesù in Terra divide nettamente la storia dell'uomo in due tronconi: prima di Cristo è l'età del peccato e dell'inimicizia; dopo Cristo è l'età del perdono, della riconciliazione, della grazia.
La nuova età inaugurata dalla venuta di Cristo non è ancora il Regno di Dio atteso dagli ebrei; ne è però l'annuncio, l'anticipazione. L'instaurazione del Regno di Dio avverrà alla fine dei tempi, quando i morti risusciteranno e saranno giudicati per le loro azioni. Ma la risurrezione di Gesù è già un'anticipazione della vittoria finale della vita sulla morte, è una sorta di caparra che conferma la promessa della resurrezione finale di tutti gli uomini.
Gesù è un secondo Adamo nel senso che è il primogenito di un'umanità rinnovata; ma mentre Adamo ha portato agli uomini la morte, Gesù ha portato la vita. Dice San Paolo:

... Come per mezzo di un uomo è venuta la morte, così per mezzo di un uomo è venuta la risurrezione dei morti. Poiché come tutti muoiono in Adamo, così tutti saranno vivificati in Cristo...

La morte e la risurrezione di Gesù hanno segnato una vittoria decisiva delle forze del bene sulle forze del male, della vita sulla morte. Ma le conseguenze di questa vittoria non sono ancora manifeste; la certezza stessa della vittoria è ancora per il cristiano un atto di fede; la redenzione dell'umanità (ossia la sua liberazione dalla schiavitù del peccato) è ancora soltanto una promessa, che attende un adempimento al termine della storia. La storia è destinata dunque ad avere una fine: Cristo tornerà e la promessa sarà adempiuta, con la risurrezione dei morti, con il giudizio finale, con l'affermazione piena e definitiva del Regno di Dio.
Creazione, Venuta di Cristo, Ritorno di Cristo: questi sono i termini entro i quali scorre la storia dell'uomo. Come si vede, non si tratta di uno scorrere qualsiasi, ma di uno scorrere da un punto ad un altro secondo una direzione ben precisa: ogni epoca storica è una tappa di un itinerario prestabilito. L'umanità è spinta avanti dalla provvidenza di Dio, la storia è una marcia di avvicinamento al Regno di Dio.
Il pianto della Madonna


IL TEMPO DELLA FINE

Dove va il mondo? Quale sarà la sorte dell'uomo? Spesso gli uomini hanno preteso di conoscere la sorte ultima del mondo, il destino finale dell'umanità. «Escatologia» (dal greco éscatos = «ultimo») è appunto la dottrina delle cose ultime e finali. Non si tratta di conoscenze o di previsioni «scientifiche», ma di visioni profetiche, di immaginazioni dettate dall'entusiasmo religioso (e perciò spesso ritenute rivelazioni divine), nelle quali possiamo trovare espressi nel modo più suggestivo i significati che le diverse culture e le diverse civiltà hanno attribuito alla vita e alla storia dell'uomo.
La tradizione ebraico-cristiana è forse la più ricca di temi escatologici: come si è visto, la storia del genere umano appare indirizzata e guidata dalla volontà di Dio e la meta verso la quale gli uomini sono sospinti è la vittoria del bene sul male, della vita sulla morte. Questa vittoria è la piena rivelazione di Dio. Dio non si rivela per quello che è, ma per quello che fa. Perciò la sua rivelazione è innanzi tutto il trionfo della sua giustizia, l'instaurazione del suo Regno.
In un certo senso Dio regna già sul mondo; Dio, anzi, è il Signore per eccellenza:

Il Signore regna, tremino i popoli!
[...]
Il Signore è grande in Gerusalemme
ed eccelso sui popoli tutti.
(Salmo 98, 1-2)

Ma il mondo attuale non risponde interamente al disegno della creazione, il male serpeggia nel mondo. L'ordine della creazione dev'essere ristabilito, una Nuova Creazione appare necessaria. In questo senso il Regno di Dio non è una realtà attuale, ma futura; è la realtà che concluderà la storia umana. Il male che serpeggia nel mondo chiama la morte e la distruzione come effetti del giudizio divino. Il diluvio universale, la distruzione di Sodoma e Gomorra, la deportazione degli Ebrei a Babilonia sono altrettanti giudizi di Dio. Ma un nuovo, definitivo giudizio verrà alla fine dei tempi e non colpirà più questo o quel popolo, questa o quella terra, ma tutta la Terra, tutta l'umanità:

... Il Signore devasterà la Terra e la spoglierà,
desolerà la sua faccia, disperderà i suoi abitanti. [...] La Terra è colma della corruzione dei suoi abitanti, perché essi hanno trasgredito le leggi, manomesso il diritto, infranto il patto eterno. Per questo la maledizione divorerà la Terra. (Isaia 24, 1; 24, 5-6)

Dio risparmierà i giusti,

... ma ai suoi nemici farà sentire il suo sdegno. Perché, ecco, il Signore verrà nel fuoco, e saranno come un turbine i suoi carri, per ripagare i nemici col furore della sua indignazione e colla vendetta d'un fuoco che avvampa. (Isaia 66, 15)

I morti allora risusciteranno e saranno giudicati secondo i loro meriti:

... E quei molti che riposano nella polvere della terra si risveglieranno, alcuni per la vita eterna, altri per l'eterna perdizione. (Daniele 12, 2)

è il momento della Nuova Creazione; per coloro che saranno salvati inizia una beatitudine eterna che neppure il ricordo delle tribolazioni passate potrà turbare:

... Ecco, io creo nuovi cieli e nuove terre; e le cose di prima non vi torneranno più alla memoria. Godrete e gioirete eternamente di quelle cose che io creo, perché io creo una Gerusalemme gaudiosa. (Isaia 65, 17-18)

Spesso nell'Antico Testamento l'avvento del Regno di Dio è preannunciato come opera di un inviato di Dio, il Messia. «Messia» (la parola significa unto del Signore, ossia consacrato) è il titolo attribuito ai re d'Israele. Il Messia incaricato di portare a compimento l'opera di salvazione è dunque il sovrano degli ultimi tempi, il re del tempo della fine. La sua prerogativa essenziale è quella di essere giudice giusto, esecutore d'una giustizia non estrinseca, formale ed astratta, ma capace di penetrare nei cuori. Il suo compito è di restaurare l'ordine antico della creazione, che è un ordine di pace e di mansuetudine tra tutti gli esseri, un ordine dove è bandita la paura:

... E il lupo dimorerà con l'agnello
e il leopardo s'accovaccerà col capretto
e il vitello e il leone e la pecora staranno assieme
e un piccolo fanciullo li condurrà.
(Isaia 11, 6)

Altre volte però nell'Antico Testamento questa missione di salvezza appare affidata a un Servo del Signore, che non si ammanterà della maestà dei re e della potenza dei giudici, ma che anzi per la sua umiltà sfuggirà all'attenzione dei più. Volontariamente egli si sottometterà a gravi sofferenze accollandosi tutte le colpe degli uomini e queste sofferenze offrirà a Dio come riscatto dei peccati dell'umanità, come prezzo per la sua riconciliazione con gli uomini:

... Non ha bellezza alcuna né splendore, noi l'abbiamo visto e non aveva alcuna apparenza che attirasse i nostri sguardi. Abbietto, l'ultimo degli uomini, l'uomo dei dolori [...]: così abbietto che non ne abbiamo fatto alcun conto. Ma in verità egli si è caricato delle nostre infermità e si è addossati i nostri dolori: e noi l'abbiamo trattato come un lebbroso, un segnato da Dio, e l'abbiamo umiliato. Ma egli è stato trafitto per le nostre iniquità, è stato maltrattato per le nostre colpe: il castigo per la nostra rappacificazione è stato addossato a lui e noi siamo risanati in virtù delle sue piaghe. [...] è stato sacrificato perché lo ha voluto e non ha aperto bocca. (Isaia 53, 3-5; 53, 7)

Gli Ebrei erano portati a individuare nel Messia il liberatore del loro popolo e a dare un concreto significato politico (oltre che religioso) al suo futuro Governo. I Cristiani invece, davano alla sua missione un significato esclusivamente religioso e soprattutto sottolineavano come l'opera salvifica di Gesù riguardasse tutti i popoli della Terra e non solo il popolo ebraico. In più, i Cristiani unificarono nella figura di Gesù Cristo sia l'immagine trionfante del Messia, sia l'immagine dell'umile Servo del Signore che riscatta col suo sacrificio i peccati dell'umanità. In quanto Messia e Servo del Signore Gesù viene in Terra ad annunciare ed a preparare il Regno di Dio (Vangelo in greco significa appunto «annuncio»). La sua morte (il suo sacrificio) e la sua risurrezione costituiscono una vittoria decisiva sul male in quanto sono la promessa, il pegno, la caparra che garantiscono la riconciliazione di Dio con gli uomini.
Il Regno di Dio però è ancora di là da venire. Tra la promessa e il suo adempimento, tra la vittoria potenziale di Cristo (la sua morte e risurrezione) e il suo trionfo definitivo corre tutta un'età storica; che è anche l'ultima età della storia: essa si chiuderà con il Ritorno di Cristo, che segnerà la risurrezione dei morti, il giudizio finale, l'affermazione manifesta e definitiva del Regno di Dio. Il Vangelo di Marco racconta che Pietro, Giacomo e Giovanni avevano chiesto a Gesù quando sarebbero successe tutte queste cose e quale sarebbe stato il segno del loro accadere. Gesù aveva risposto:

... Badate che nessuno vi seduca. Molti verranno in mio nome dicendo: «Sono io» e ne sedurranno parecchi. Quando poi sentirete guerre e rumori di guerre, non temete: è necessario che queste cose avvengano, ma non sarà ancora la fine. Perché si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno; vi saranno terremoti in vari luoghi e carestie. Ma sarà solo il principio della prova. [...] In quei giorni, dopo quella tribolazione, s'oscurerà il sole e la luna non darà più la sua luce e cadranno le stelle del cielo e le forze del cielo si sommuoveranno. Allora si vedrà il Figliuolo dell'uomo venire sulle nuvole con gran potenza e gloria. [...] Quanto poi al giorno e all'ora nessuno li sa, né gli angeli del cielo, né il Figliuolo dell'uomo ma il Padre soltanto. State in guardia, vigilate e pregate perché non sapete quando sarà il tempo (Marco 13, 5-8; 24-26; 32-33)

I primi cristiani ritenevano imminente il ritorno di Cristo e quindi la fine del mondo che l'avrebbe preceduto. Il senso di questa imminenza pervade quasi tutti gli scritti che costituiscono il Nuovo Testamento e serviva a sottolineare l'urgenza che ogni uomo facesse la sua scelta tra bene e male. «Il tempo è compiuto, il Regno di Dio è vicino», dice il Vangelo di Marco; «è l'ultima ora», dice il Vangelo di Giovanni. La più famosa visione cristiana della fine del mondo, l'Apocalisse di Giovanni («Apocalissi» in greco significa rivelazione) lo ribadisce proprio all'inizio e alla fine:

... Beato chi legge e chi ascolta le parole di questa profezia e osserva ciò che c'è scritto in essa. Il tempo infatti è vicino. [...] Colui che attesta queste cose dice: - Sì, io vengo presto! - Amen! Vieni, Signore Gesù! (Apocalisse 1, 3; 22, 20)

Col tempo, il fatto che questa attesa non si fosse realizzata ha fatto diminuire sensibilmente l'attenzione per il momento della fine e ha rivalutato l'importanza dell'età attuale che sembra capace di durare oltre ogni previsione. Ma in fondo, che il ritorno di Gesù sia vicino o lontano conta poco. L'epoca attuale, che è iniziata con la prima venuta di Cristo e che terminerà con la sua seconda venuta, è pur sempre per il cristiano, l'ultima età del mondo, il tempo della fine, l'anticipazione del Regno di Dio.

BOSSUET E IL DISEGNO DIVINO

Il francese Jacques-Bénigne Bossuet, un alto prelato cattolico della seconda metà del Seicento, ha riassunto nel Discorso sulla storia universale (1681) la concezione cristiana della storia. La storia, secondo lui, è la realizzazione di un disegno divino; per questo il piccolo popolo ebraico, che è il popolo eletto da Dio, è il centro verso cui gravita la storia di tutta l'umanità prima della venuta di Cristo. I grandi imperi dell'antichità, secondo lui, sono vissuti in funzione del popolo ebraico:

... Dio si è servito degli Assiri e dei Babilonesi per castigare questo popolo; s'è servito dei Persiani per ristabilirlo; di Alessandro e dei suoi successori per proteggerlo; d'Antioco e dei suoi successori per metterlo alla prova: s'è servito dei Romani per difendere la sua libertà contro i re di Siria che non pensavano che a distruggerlo. E quando gli Ebrei hanno misconosciuto Dio e l'hanno crocifisso, questi stessi Romani hanno prestato senza saperlo le proprie mani alla vendetta divina e hanno sterminato questo popolo ingrato.

Ma l'evento centrale di tutta la storia è, naturalmente, la venuta di Cristo e la predicazione del Vangelo. Il popolo di Dio non è più ormai il popolo ebraico, ma la folla dei credenti in Cristo. L'impero romano non ha fatto che preparare la nascita di questo nuovo popolo di Dio.

... Dio aveva deciso di raccogliere da tutte le Nazioni il popolo nuovo, ha riunito in primo luogo le terre e i mari sotto un solo impero. Le relazioni tra tanti popoli diversi, un tempo stranieri gli uni agli altri e poi riuniti sotto la dominazione romana è stato uno dei più potenti mezzi di cui la Provvidenza s'è servita per aprire la strada all'Evangelo. Se lo stesso impero romano ha perseguitato per trecento anni questo nuovo popolo che nasceva da ogni parte nel cerchio dei suoi confini, questa persecuzione ha rafforzato la Chiesa e ne ha fatto risplendere la gloria, la fede, la pazienza. Infine l'impero romano ha ceduto e avendo trovato qualcosa di più invincibile di lui, ha accolto pacificamente nel suo seno quella stessa Chiesa a cui aveva fatto una lunga e crudele guerra. Gli imperatori hanno messo il loro potere al servizio della Chiesa e Roma è diventata la capitale dell'impero spirituale che Gesù Cristo ha voluto estendere sulla Terra.

Se l'impero romano era diventato cristiano, non tutti i Romani erano disposti ad accettare la nuova religione. Dio allora aveva abbandonato Roma nelle mani dei Barbari:

... Roma è presa tre o quattro volte, depredata, saccheggiata, distrutta. La spada dei Barbari perdona solo ai cristiani. Un'altra Roma tutta cristiana sorge dalle ceneri della prima ed è soltanto dopo l'inondazione dei Barbari che si completa la vittoria di Gesù Cristo sugli dei romani, che sono ormai non soltanto distrutti, ma dimenticati... Liberata per mezzo di questi disastri dai resti dell'idolatria, Roma non sussiste più che in virtù del cristianesimo, ch'ella annuncia a tutto l'universo.
Così tutti i grandi imperi che abbiamo visto sulla Terra hanno concorso con diversi mezzi al bene della religione e alla gloria di Dio come Dio stesso aveva annunciato per mezzo dei suoi profeti.

In sostanza Bossuet divide la storia dell'umanità in sette grandi età.
La prima si apre con la creazione del mondo, che Bossuet data al 4004 a.C. Il peccato di Adamo e di Eva trascina nella maledizione l'intero genere umano e le conseguenze non tardano a farsi sentire: Abele è ucciso da Caino e apre in tal modo la lunga schiera di coloro che sono perseguitati a causa della propria virtù. La Terra comincia a empirsi dei figli e dei nipoti di Adamo. Ma i costumi di questa gente peggiorano di giorno in giorno fino a che Dio decide di far piazza pulita con il Diluvio Universale, dal quale salva Noè e i suoi, i soli giusti della Terra.
La seconda età si apre con l'opera di ricostruzione di Noè. La Terra torna a popolarsi, ma gli uomini crescendo di numero crescono anche in presunzione e pensano di costruire un'enorme torre per dar la scalata al cielo. Dio interviene creando la confusione delle lingue, che impedisce agli uomini di collaborare e di proseguire nell'opera intrapresa. L'umanità si divide in popoli spesso ostili fra loro: nasce la guerra, nascono le leggi, nasce il potere statale.
La terza età è l'età dell'alleanza tra Dio e il suo popolo. Gli uomini infatti vanno dimenticando i loro doveri verso Dio, cominciano ad adorare false divinità, instaurano culti idolatrici. Di fronte a questo generale smarrimento Dio decide di separare dagli altri popoli un popolo di veri credenti. Stringe così un patto di alleanza con Abramo, che sarà il capostipite di questo popolo, gli Ebrei. Ad Abramo succede Isacco, a Isacco Giacobbe. Con Giuseppe gli Ebrei si trasferiscono in Egitto, dove vengono perseguitati fin quando Mosè non si mette alla loro testa e li guida fuori dell'Egitto.
Con l'esodo degli Ebrei dall'Egitto, si apre la quarta età, l'età della legge scritta. In precedenza infatti le leggi che governavano gli uomini erano semplicemente leggi consuetudinarie o leggi di natura. Ora invece Dio detta a Mosè il Decalogo, che è legge divina e fondamento d'ogni legge scritta e positiva. Fuori delle vicende del popolo ebraico un avvenimento notevole di quest'età è la distruzione di Troia.
La quinta età comincia col regno di Salomone che edifica il Tempio di Dio. Dopo un periodo di splendore, il popolo ebraico in conseguenza dei suoi peccati conosce la sconfitta, la schiavitù e l'esilio in Babilonia. è nel corso di questa età che viene fondata Roma.
La sesta età è quella che prepara l'avvento di Cristo. Il popolo ebraico è ristabilito nella sua terra e nel suo culto. I grandi imperi dell'antichità si succedono l'uno all'altro sinché l'impero romano si impone a tutti e unifica il mondo civilizzato ossia il Mediterraneo (Bousset non fa caso alle grandi civiltà sorte in altre aree, la cinese e l'indiana, che pure erano ormai ben conosciute in Europa).
La settima età si apre con la nascita di Gesù. è l'età della Chiesa, del nuovo popolo di Dio; è soprattutto l'ultima età del mondo. Dio, dice Bossuet a conclusione di questo suo schizzo di storia universale, dall'alto dei cieli tiene le redini di tutti i regni della Terra. Perciò nella storia non c'è né il caso, né la fortuna:

... Quello che per il nostro incerto giudizio è il caso, costituisce un preciso disegno per un giudizio più alto, e cioè per quel giudizio eterno che comprende in uno stesso ordine tutte le cause e tutti gli effetti. Ogni cosa concorre ad uno stesso fine; ed è proprio perché ci sfugge il disegno totale, che noi crediamo di trovare negli eventi particolari casualità e disordine.

LA MODERNA CONCEZIONE DELLA STORIA

La concezione della storia elaborata dalla moderna cultura occidentale presenta evidenti affinità, ma anche importanti differenze rispetto a quella ebraico-cristiana. Ciascuno può credere o non credere nell'esistenza di Dio, ma nessuno storico moderno (neppure un sincero credente) oserebbe parlare delle vicende storiche come di manifestazioni della volontà o della potenza divina: se lo facesse desterebbe soltanto ilarità.
In primo luogo, dunque, la moderna concezione della storia si distingue da quella ebraico-cristiana perché fa a meno dell'idea di Dio: protagonisti della storia sono gli uomini non gli Dei. In secondo luogo la moderna concezione della storia si differenzia da quella ebraico-cristiana perché rifiuta l'idea di un tempo ultimo, di una fine della storia. Ciò non significa che la moderna cultura occidentale creda nell'eternità del mondo. Al contrario, è altamente probabile che al termine d'una lunga evoluzione le condizioni del sistema solare cambino tanto da rendere impossibile la vita sul nostro pianeta; ma quello che la cultura moderna rifiuta è l'idea ebraico-cristiana che la fine del mondo abbia un significato soprannaturale (l'instaurazione del Regno di Dio) e un valore positivo (la vittoria definitiva del bene sul male). Secondo la concezione moderna della storia non c'è nulla di definitivo nella storia e il significato stesso delle parole «bene» e «male» varia con il variare delle culture. In terzo luogo la moderna concezione della storia si distingue dalla concezione cristiana in quanto non attribuisce nessun rilievo particolare alla venuta di Gesù: non ci sono nella storia momenti privilegiati.
L'influenza della tradizione ebraico-cristiana sulle moderne concezioni della storia si può ricondurre a un paio di grandi temi. Innanzi tutto, affermando che la storia è la realizzazione progressiva di un disegno divino, il pensiero ebraico-cristiano ha affermato che il mutamento incessante delle vicende umane non è una trasformazione caotica e priva di senso, ma un processo razionale (anche se di una razionalità non sempre facilmente comprensibile): è infatti il processo stesso della rivelazione di Dio. Quest'idea della razionalità della storia è sostanzialmente accettata dalla moderna cultura occidentale, anche se in un senso assai diverso: nel senso, cioè, che è sempre possibile capire attraverso l'attenta ricostruzione del passato le ragioni di certi avvenimenti, le cause di certe trasformazioni, la necessità di certe linee di sviluppo.
In secondo luogo la tradizione ebraico-cristiana parlando della storia come di una rivelazione progressiva di Dio, oppure (ma si tratta in sostanza della stessa cosa) come di una progressiva marcia di avvicinamento dell'umanità al Regno di Dio, ha suggerito l'idea che ogni epoca sia migliore, più ricca, più avanzata della precedente. Questa idea è stata in parte accolta dalla moderna cultura occidentale nel concetto di progresso. Naturalmente essa è stata spogliata d'ogni significato religioso. Per di più il progresso non è più inteso (almeno in generale) come qualcosa di fatale, una legge necessaria dello sviluppo storico, ma piuttosto come una semplice possibilità. Il regresso, in sostanza, è possibile tanto quanto il progresso e l'eventualità che le sorti future dell'umanità siano migliori delle attuali e delle passate resta affidata esclusivamente al buon senso e alla buona volontà di tutti noi.

LE ERE

Poiché per i cristiani l'evento centrale di tutta la storia umana è la venuta di Gesù, è del tutto naturale che la nascita di Gesù sia stata assunta da loro come punto di riferimento nel computo degli anni. Se si rappresenta il succedersi degli anni con una retta, il punto zero della retta stessa coincide con il momento della nascita di Gesù: a destra vengono segnati gli anni che seguono la nascita di Gesù e a sinistra quelli che la precedono:



Pare che gli antichi computisti cristiani che tentarono di determinare l'anno della nascita di Gesù siano incorsi in un errore.
L'avvenimento cadrebbe cioè da cinque a nove anni prima dell'inizio dell'era cristiana. La cosa naturalmente non ha molta importanza perché nessuno è in grado di dire con precisione quando Gesù sarebbe nato; perciò la data tradizionale è stata conservata, anche se sbagliata.
L'era cristiana è entrata in uso nel VI secolo d.C. e oggi è adottata anche in molti Paesi non cristiani: è una delle conseguenze del lungo dominio che l'Europa ha esercitato sul mondo. Prima dei cristiani, i Romani contavano gli anni a partire da quella che per loro era la data più importante, ossia la fondazione di Roma: anche su questa data c'erano incertezze ed è soltanto per convenzione ch'essa venne fissata all'anno che nell'era cristiana corrisponde al 753 a.C. Dopo i cristiani, anche i musulmani presero a contare gli anni dall'evento per loro più significativo, ossia dall'egira, la fuga di Maometto dalla Mecca che avvenne nell'anno 622 dell'era cristiana.
L'era di Roma, l'era cristiana e l'egira di Maometto sono solo alcuni dei modi di computare il tempo entrati in uso nel mondo mediterraneo; ve ne sono sempre stati altri, talvolta usati insieme a uno di questi tre. In certe regioni della penisola iberica e dell'Africa settentrionale, ad esempio, fu in uso per molto tempo la cosiddetta era di Spagna, che partiva dal 38 a.C., ossia dall'anno in cui, compiuta la conquista romana della Spagna, vi venne introdotto ufficialmente il calendario giuliano.
Un altro sistema di computo molto usato nel mondo ebraico-cristiano fu l'era del principio del mondo o della creazione. Il guaio di questo sistema era che la determinazione del momento esatto della creazione sulla base delle indicazioni fornite dalla Bibbia risultava assai difficile sicché le opinioni dei dotti erano in proposito divise. Comunque la data dell'inizio del mondo che ebbe maggior credito fu quella del 5509 a.C., adottata largamente nelle regioni orientali del Mediterraneo, nelle province dell'impero bizantino e in genere in tutte le terre in cui prevaleva la religione cristiano-ortodossa.
Anche in tempi recenti sono state proposte nuove ere, in sostituzione o a complemento delle ere tradizionali. All'epoca della Rivoluzione Francese, per esempio, s'introdusse un nuovo calendario e un nuovo sistema di computo degli anni, che partiva dal 22 settembre 1792, il giorno della proclamazione della Repubblica Francese. In Italia sotto il fascismo si introdusse l'era fascista, il cui inizio era fissato al 28 ottobre 1922, giorno della marcia su Roma; l'era fascista si usava insieme all'era cristiana e se ne indicavano gli anni con numeri romani.

ERA DELLE OLIMPIADI

Fino alla fine del IV secolo d.C., quando furono aboliti dall'imperatore Teodosio, i giochi olimpici si svolgevano ogni quattro anni raccogliendo presso il santuario di Zeus in Olimpia atleti di tutte le regioni della Grecia. Secondo la tradizione le prime olimpiadi furono celebrate nel 776 a.C. L'era delle Olimpiadi, ossia il sistema di computare gli anni in base al numero dei quadrienni trascorsi dal 776, fu introdotto però solo nel III secolo a.C.

ERA DI DIOCLEZIANO

L'era di Diocleziano (detta anche dei martiri, a ricordo delle persecuzioni ordinate da quell'imperatore contro i cristiani) iniziava a contare gli anni dall'elezione di Diocleziano avvenuta il 29 agosto del 284 d.C.; era diffusa in Egitto e in alcuni Paesi d'Occidente. è ancora in uso presso i copti dell'Alto Egitto.

ERA DELL'INDIZIONE

Nel tardo impero romano l'indizione era un meccanismo fiscale mediante il quale ogni 15 anni venivano riviste le imposte. A partire dal 313 d.C., sotto l'imperatore Costantino, l'indizione servì a datare i documenti: gli anni di ogni periodo venivano indicati da 1 a 15 per poi ricominciare. Non era precisato a quale indizione si riferissero gli anni, per cui questa datazione crea notevoli problemi.

ERA BIZANTINA

Tra le ere del principio del mondo quella bizantina fu molto usata nel Medio Evo soprattutto nel mondo greco-ortodosso. Poneva l'origine del mondo nel 5508 a.C., sicché il primo anno dell'era cristiana corrispondeva al 5509. Rimase in vigore anche dopo la caduta dell'Impero d'Oriente e in Russia fu abolita solo nell'anno 1700, quando lo zar Pietro il Grande introdusse il calendario gregoriano.

ERA CRISTIANA

L'era cristiana venne proposta in sostituzione dell'era di Diocleziano da un dotto monaco romano, Dionigi il Piccolo, agli inizi del VI secolo. Fu lo stesso Dionigi che fissò la nascita di Cristo all'anno 753 dell'era di Roma ed anche se la datazione è sbagliata finì per essere universalmente accettata. L'era cristiana venne adottata nel secolo VII in Inghilterra, nell'VIII in Francia, nel IX in Germania, nel XIV in Spagna, nel XV in Grecia e in Portogallo.

EGIRA DI MAOMETTO

L'era musulmana inizia il computo degli anni dal 16 luglio del 622 d.C., giorno in cui Maometto con poche decine di seguaci fuggì dalla Mecca (egira significa appunto «fuga») per rifugiarsi a Medina, da dove, otto anni più tardi, divenuto ormai capo di una potente comunità politico-religiosa, sarebbe rientrato trionfante in patria. L'era dell'egira entrò in uso subito dopo la morte di Maometto, avvenuta nel 632. Il confronto con il nostro computo degli anni non è facile perché l'anno musulmano, che è puramente lunare (è fatto di dodici mesi alternativamente di 30 e 29 giorni), è più corto del nostro di una decina di giorni, sicché occorrono 33 anni musulmani per fare 32 dei nostri.

IL CAPODANNO

Il confronto tra ere diverse è complicato dal fatto che l'anno non inizia ovunque nello stesso giorno. L'anno olimpico, per esempio, iniziava il 1° luglio. Ciò vuol dire che il primo anno dell'era cristiana corrisponde al quarto anno della 194ª olimpiade per il semestre da gennaio a giugno, e al 1° anno della 195ª olimpiade per il semestre da luglio a dicembre. Nelle regioni dell'impero bizantino o di religione grecoortodossa l'anno cominciava dal 1° settembre, sia che si adoperasse l'era della creazione del mondo, sia che si adoperasse il computo dell'indizione.
Anche con la generale adozione dell'era cristiana restò in Europa una grande diversità di «stili» relativi all'inizio dell'anno. Lo stile moderno che pone il capodanno al 1° gennaio, è detto «della Circoncisione», dalla festa che la Chiesa celebra in quel giorno. In passato però erano assai più diffusi lo stile «della Natività» e quello «dell'Incarnazione».

STILE DELLA NATIVITÀ

L'anno inizia con il 25 dicembre, ossia con il giorno in cui, fin dal III secolo d.C., le Chiese cristiane celebrano la festa del Natale. Lo stile della Natività anticipa di sette giorni sullo stile moderno. Ciò significa che gli ultimi sette giorni di dicembre appartengono già al nuovo anno: così, per esempio, il 28 dicembre 1990 è, secondo lo stile della Natività, il 28 dicembre 1991.

STILE DELL'INCARNAZIONE

Usato per lungo tempo, e quasi altrettanto diffuso dello stile della Natività, faceva iniziare l'anno il 25 marzo, festa dell'Annunciazione (ossia del concepimento di Gesù). Esistono due modi diversi di computare gli anni secondo lo stile dell'Incarnazione. Il modo detto «pisano» (perché in uso a Pisa) anticipava correttamente di nove mesi (la durata di una gravidanza) rispetto allo stile della Natività. Il modo detto «fiorentino» differiva dal pisano di un anno esatto, perché contava gli anni dal 25 marzo successivo alla nascita di Gesù. Il modo pisano coincide con lo stile moderno dal 1° gennaio al 24 marzo, mentre bisogna aggiungere un anno al nostro computo tra il 25 marzo e il 31 dicembre. Il modo fiorentino coincide con il nostro dal 25 marzo al 31 dicembre, mentre bisogna togliere un anno al nostro computo tra il 1° gennaio e il 24 marzo.

STILE DELLA PASQUA

Lo stile della Pasqua, detto anche «francese» perché usato in Francia sino al XVI secolo, creava non poche difficoltà facendo iniziare l'anno da una festa mobile quale è, appunto, la Pasqua. Rispetto allo stile moderno ritardava di un periodo variante da due mesi e 22 giorni a tre mesi e 24 giorni.

REGNI E DINASTIE

Anche se la leggenda cinese è ricca di riferimenti cronologici ai tempi più lontani e i giapponesi hanno fissato ad una data precisa il momento in cui un discendente della Dea del Sole è sceso in terra per dare origine alla ininterrotta dinastia imperiale, cinesi e giapponesi non attribuiscono particolare importanza a nessuna data specifica della loro vicenda storica e perciò non contano gli anni a partire da un evento determinato.
Per orientarsi nelle successioni storiche l'elemento fondamentale è fornito da una istituzione tipica che si chiama Nien-hao in cinese e nengo in giapponese.
Questa espressione significa letteralmente «Numero, segno o nome di anno» e si traduce di solito come «titolo di regno». Quando un sovrano saliva al trono stabiliva l'inizio di una nuova era alla quale veniva dato un nome bene augurale scelto in base a complicate considerazioni astrologiche. è questo «titolo di regno» che costituisce la scansione di base della storia nei Paesi estremo-orientali. Il 1635, ad esempio, è in Cina il 4 anno Yung-hui dell'imperatore Kao-tsung dei T'ang e in Giappone il 1186 è il secondo anno Bunji dell'imperatore Gotoba.
Anticamente (il suo uso risale al 163 a.C. in Cina e al 645 in Giappone), il «titolo di regno» poteva variare anche molte volte durante il regno di un medesimo sovrano (vi sono dei «titoli di regno» che sono durati un solo anno, perché disgrazie collettive o personali avevano convinto il regnante che la scelta era stata scientificamente scorretta). Tuttavia in Cina, quando iniziò la dinastia Ming, nel 1368, il «titolo di regno» si identificò con la vita dei diversi imperatori, tanto che, in Occidente, si è soliti indicare gli imperatori delle ultime due dinastie (Ming e Ch'ing) con il «titolo di regno» piuttosto che con il loro nome o titolo personale. Una evoluzione analoga è avvenuta più tardi anche in Giappone dove nel 1868 «titolo di regno» e permanenza in trono di un sovrano si identificano (noi diciamo: l'imperatore Meiji, ma impropriamente. Meiji è in realtà il nengô dell'imperatore Mutsuhito). Oggi, la Cina ha abbandonato, o quasi, questa cronologia tradizionale; in Giappone, invece, essa sussiste al fianco di quella di importazione occidentale.
Al di sopra di questa articolazione minuta, ve ne è un'altra, che corrisponde grosso modo a quella delle nostre fasi storiche (come Rinascimento, Barocco e così via). Qui il ritmo è fornito dalle dinastie. La storiografia confuciana collegava i mutamenti di dinastia con la concezione del «Mandato del Cielo», una investitura divina che veniva perduta dai cattivi governanti.

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CRONOLOGIA CINESE
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  ¦    3000 a.C. ¦  HUANG-TI (IMPERATORE GIALLO)            ¦
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  ¦    2500 a.C. ¦  I TRE IMPERATORI SAGGI:                 ¦
  ¦              ¦  YAO                                     ¦
  ¦              ¦  SHUN                                    ¦
  ¦              ¦  YÜ                                      ¦
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  ¦     SEC. XXI ¦  DINASTIA HSIA                           ¦
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  ¦     SEC. XVI ¦  DINASTIA SHANG                          ¦
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  ¦ SECC. XII-XI ¦  DINASTIA CHOU                           ¦
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  ¦          770 ¦  PERIODO DELLE PRIMAVERE E DEGLI AUTUNNI ¦
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  ¦          440 ¦  PERIODO DEI REGNI COMBATTENTI           ¦
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  ¦          221 ¦  DINASTIA CH'IN                          ¦
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  ¦          200 ¦  DINASTIA HAN                            ¦
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  ¦     220 D.C. ¦  DINASTIE LOCALI                         ¦
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  ¦          580 ¦  DINASTIA T'ANG                          ¦
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  ¦          907 ¦  LE CINQUE DINASTIE                      ¦
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  ¦          960 ¦  DINASTIA SUNG                           ¦
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  ¦         1279 ¦  DINASTIA MONGOLA YÜAN                   ¦
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  ¦         1368 ¦  DINASTIA MING                           ¦
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  ¦         1644 ¦  DINASTIA CH'ING                         ¦
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  ¦         1911 ¦                                          ¦
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