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ITINERARI - PAROLE E IMMAGINI - LE LETTERATURE EUROPEE - IL XIX SECOLO

DAGLI EROI AGLI UOMINI COMUNI: GRANDE REALISMO E GUSTO BIEDERMAIER

Nessuno dei narratori vittoriani, nonostante la posizione critica, si distaccò mai completamente dal sistema di vita e di valori di quella borghesia diventata protagonista sia della vita economica e politica, sia della letteratura. Non a caso le trame dei principali romanzi finirono per essere incentrate su quelli che per un pubblico borghese erano gli eventi cruciali dell'esistenza: ascesa o perdita di posizione sociale, guadagno o perdita di ricchezze, maturazione e crescita individuale. Lontano dalle tensioni emotive e dal protagonismo eroico dei romantici, lo scrittore borghese sembrò ritirarsi nell'intimità ad osservare il pacifico e sedentario sviluppo di una cultura piccolo-borghese in una specie di «epopea del quotidiano» in cui, in mancanza di grandi eroi ed eroine, le cose più semplici, i particolari più insignificanti, acquistavano straordinaria importanza.

... Era una stanzetta bassa, nella parte antica della casa, scura per via delle legature cupe dei libri che rivestivano le pareti; eppure sembrava molto allegra quella mattina mentre Arthur s'avvicinava alla finestra aperta.
Ché il sole mattutino colpiva di sbieco il gran globo di vetro che conteneva i pesci rossi, posato su una colonnina di scagliola dinanzi alla tavola apparecchiata per lo scapolo e accanto alla tavola c'era un gruppo che avrebbe reso incantevole qualunque stanza.
Nella poltrona coperta di damasco cremisi sedeva Mr. Irwine, con quella raggiante freschezza che egli sempre aveva appena finita la toletta mattutina; la sua bella mano bianca e grassoccia scherzava sul bruno dorso ricciuto di Giunone, e accanto alla coda di Giunone, che si dimenava con calmo piacere matronale, i due cuccioli bruni si voltolavano l'uno addosso all'altro, rugando in un estatico duetto... Sul tavolo, accanto al gomito di Mr. Irwine, era posato il primo volume dell'Eschilo del Foulis, che Arthur conosceva bene di vista; e la caffettiera d'argento, che Carroll stava portando, diffondeva un vapore fragrante che completava le delizie d'una colazione di scapolo...

Di George Eliot si definisce quel gusto biedermeier destinato a caratterizzare molta produzione narrativa dell'Ottocento, atteggiamento nei confronti della realtà che rifugge da ogni tendenza al meraviglioso, al rivoluzionario, da ogni esaltazione della passione, e che si fissa in un realismo descrittivo sostenuto nei casi migliori da una profonda presa di coscienza della vanità dei grandi ideali e dalla forza dell'azione e del carattere morale individuale.
Soprattutto con George Eliot e Thomas Hardy la letteratura inglese dette dunque il suo più interessante contributo alla grande fioritura del realismo europeo. Mentre in Inghilterra tale tendenza a rappresentare la realtà esterna con attendibilità e concretezza si innestò nella più consistente tradizione del romanzo sociale e di costume, in altri Paesi europei il realismo costituì uno straordinario momento di crescita e innovazione letteraria.
La grande novità introdotta dal realismo non fu soltanto nella scelta di nuovi soggetti narrativi (si è già detto della crisi dell'eroe e del ripiegamento degli autori su temi meno eclatanti, come, ad esempio, la descrizione di centri urbani e rurali colpiti dalle trasformazioni economiche e sociali della prima metà del secolo), ma soprattutto nella scelta di un metodo di analisi di questa realtà, modellato su quello delle scienze naturali.
Alle origini della letteratura realista stanno in Francia soprattutto le opere di Balzac, Stendhal, Flaubert. Dalla Francia questa tendenza letteraria si allargò a quasi tutti i Paesi europei e innestandosi nelle diverse realtà e tradizioni letterarie diede vita a una ricca e varia produzione da quella di Kleist e Theodor Fontane (1819-1898) in Germania, al teatro di Johan August Strindberg (1849-1912) e Ibsen in Scandinavia, al romanzo di Ippolito Nievo (1831-1861) in Italia. Ma fu soprattutto in Russia che la lezione dei realisti francesi si sviluppò influenzando profondamente l'intera cultura e la vita politica attraverso le opere di Tolstoj, Dostoevskij, Ivan Aleksandrovic Goncarov (1812-1891) e Maksim Gorkij (1868-1936).
Nonostante molti contemporanei lo criticassero e non capissero la grandezza delle sue opere, autori come Émile Zola (1840-1902), Guy de Maupassant (1850-1893), Joris-Karl Huysmans (1848-1907) riconobbero immediatamente in Flaubert il loro maestro. L'oggettività e il rigore stilistico che caratterizzava la sua opera ben si adattava al naturalismo, la nuova tendenza letteraria e artistica sviluppatasi negli ultimi anni del secolo dalla combinazione delle tesi realiste con i principi del positivismo. Nato da una sorta di irrigidimento del realismo, il naturalismo accentuò la sua distanza dallo spiritualismo e dall'ottimismo della cultura romantica e sottolineò piuttosto il cieco determinismo che lega l'uomo alle condizioni sociali e ambientali, considerate come inevitabili cause di sopraffazione e abbrutimento. Determinismo e pessimismo, indubbiamente influenzati anche dagli accesi dibattiti sui recenti sviluppi del pensiero scientifico, soprattutto quelli relativi al darwinismo (e quindi ai concetti di evoluzione, progresso, ma anche degenerazione), finivano per tradursi in un totale affrancamento dai principi estetici della letteratura aristocratica e sfociavano in una programmatica e polemica equiparazione di "bello" e "brutto", soggetti "alti" e soggetti "bassi" (secondo i fratelli Goncourt il romanzo doveva essere centrato sulle classi subalterne - soprattutto piccola borghesia e proletariato - che erano sempre rimaste escluse dalla grande letteratura, arrivando a privilegiare l'analisi delle forme di deterioramento non solo della struttura sociale, ma anche di quella fisica (frequenti i riferimenti al male e alle malattie). All'arte il naturalismo chiedeva l'assoluta e completa imparzialità della fotografia (nata in quegli stessi anni), l'oggettività e il rigore documentario.
La Francia fu ancora una volta il Paese da cui il movimento prese il via e al quale appartennero i più significativi esponenti di questa corrente: Zola, che ne fu il principale teorico e il più famoso romanziere, Maupassant, Huysmans, i Goncourt.

BIEDERMEIER

Nome tedesco di un personaggio caricaturale, letteralmente uguale a «buon fattore» e quindi «borghesuccio». Caratteristiche del personaggio erano l'adesione ad un'ideologia cauta in politica (progressista, ma non troppo) e una visione del mondo romantica ma anche attenta al realismo quotidiano. Il termine venne poi usato per designare la cultura tedesca tra il 1815 e il 1848, un po' come col termine vittoriano si indica la cultura inglese durante il regno della regina Vittoria.

QUALCHE NOME

GEORGE ELIOT

L'autrice più interessante e rappresentativa del realismo borghese è forse proprio George Eliot (1819-1880), straordinario esempio non solo di grande letteratura, ma anche di forza e coraggio femminile (il nome non deve trarre in inganno: si tratta di uno pseudonimo che cela in realtà una donna, Mary Ann Evans).
Cresciuta in un'Inghilterra rurale, appassionata fin da giovane di letteratura, influenzata dagli ideali evangelici del sacrificio e del dovere, era ancora molto giovane quando ebbe la possibilità di conoscere Charles e Caroline Bray, una coppia di intellettuali che la iniziarono alla filosofia moderna, soprattutto a quella di Auguste Comte. Cominciò così un intenso periodo di ribellioni e di maturazione personale che la portò nel 1842 all'agnosticismo. Dopo un periodo di intense letture, di traduzioni, di viaggi sul continente, diventò collaboratrice e poi direttrice di un'importante rivista culturale.
La fiducia e gli incoraggiamenti di George Henry Lewes, il compagno con il quale visse tutta la vita senza mai sposarsi, la spinsero a tentare, all'età di 38 anni, la carriera di scrittrice. Nei suoi romanzi più importanti, Adam Bede (1859), Il mulino sulla Floss (1860), Middlemarch (1871-72), Daniel Deronda (1874-76), seppe esprimere il gioco ambiguo delle interazioni tra passato e presente, vita privata e vita pubblica e il complesso tessuto sociale di un momento di transizione. Attenta alla realtà soprattutto a quella della provincia inglese a metà strada tra economia rurale e industrializzazione, la Eliot analizzò le dinamiche individuali sullo sfondo dello sviluppo sociale, sempre mantenendo una forte tensione morale per la quale è stata avvicinata a Tolstoj.

HONORÉ DE BALZAC

Nato in Francia da una famiglia della media borghesia, Balzac (1799-1850) arrivò tardi e dopo inizi difficili alla carriera letteraria. Lasciati gli studi giuridici tentò il successo con opere narrative di scarsa importanza; provò con il giornalismo, azzardò iniziative imprenditoriali che fallirono. Solo verso il 1829-30 riuscì ad affermarsi con un'opera di pungente critica del costume, La fisiologia del matrimonio, che segnò l'inizio della sua crescente popolarità.
Sempre in quegli anni Balzac concepì l'idea della Commedia Umana di un'opera cioè che collegasse tutti i suoi romanzi realizzando un gigantesco quadro storico-sociale, una sorta di grande affresco della società francese dalla rivoluzione del 1789 alla vigilia del 1848 e dunque ripercorresse le principali tappe dello sviluppo sociale, dalla decadenza dell'aristrocrazia fino all'ascesa della borghesia. Al progetto fu dato il titolo di Studi di costumi del XIX secolo arricchiti da Scene della vita politica, Scene della vita militare e Scene della vita di campagna. Venivano poi gli Studi filosofici e, alla sommità, gli Studi analitici che Balzac non fece in tempo a scrivere e che dovevano raccogliere le conclusioni filosofico-politiche di questa visione dell'uomo e della società.
In questa gigantesca opera di descrizione e analisi delle varietà di uomini prodotte dalla vita sociale, Balzac intendeva riprodurre in ambito letterario quello che il naturalista Buffon aveva fatto definendo e classificando le varie specie di animali. Da questa storia dal vivo dei costumi e dei modi di pensare e di agire di un'epoca, doveva scaturire nelle intenzioni dell'autore un invito alla moderazione e naturalezza di vita, presupposti per Balzac alla felicità e longevità dei popoli.
Con Balzac il romanzo non solo si afferma come il più importante mezzo espressivo della letteratura moderna, ma acquista anche una dimensione epica che lo rende capace di esprimere al di là delle singole vicende individuali il destino di un'epoca. La presenza di grandi forze collettive che attraverso gli individui operano e si manifestano è evidente nei modi in cui i singoli personaggi affrontano, reagiscono e si lasciano attraversare dalle contraddizioni di un sistema, quello liberale, in cui coesistono senza possibilità di soluzione, progresso e disumanizzazione, accumulazione e impoverimento. Il denaro è il grande protagonista di queste storie, forza concreta che trasforma il mondo, le ideologie e la morale, come in Eugenia Grandet (1833) e Papà Goriot (1834-35). Ma il denaro è anche la legge che governa la società borghese e che in ultima istanza, la condanna: lo slancio iniziale che aveva determinato la rapida decadenza di vecchie forme di vita e l'instaurarsi di nuovi valori, approda alla fine alla solitudine, alla prostituzione e alla morte.
Nella società tutto è inganno, inautenticità, illusione; la sfrenata corsa al denaro, la commercializzazione, le stesse energie umane si bloccano alla fine nell'impotenza, nella rinuncia, come nelle Illusioni perdute (1837-39), nel suicidio o restano impigliate nelle reti di un freddo carrierismo.

GUSTAVE FLAUBERT

Se il mondo di Balzac è popolato di figure forti, quello di Flaubert (1821-1880) è il mondo dei deboli; nella sua opera L'educazione sentimentale (1843-45) viene descritto il fallimento morale e pratico di una generazione e, attraverso di essa, il fallimento di un'epoca (la sconfitta della Repubblica del 1848 ad opera del Secondo impero).
Sensibile e instabile, anche a causa di una grave malattia nervosa che lo afflisse per tutta la vita, Flaubert visse un momento storico denso di eventi (la rivoluzione del 1848, la guerra franco-prussiana del 1870, gli avvenimenti della Comune). E tuttavia del suo tempo egli non indagò i rapporti di forze che fanno la storia, quanto piuttosto l'impotenza, le frustrazioni, le passioni mai appagate che all'individuo da esse derivano. Avvertì traumaticamente la crisi della società borghese, la degradazione del conformismo, la caduta dei valori individuali e reagì isolandosi e annullandosi nel lavoro artistico e narrando freddamente storie anche mediocri ma reali e oggettive. è il caso di Madame Bovary (1851-56), il suo romanzo più grande (insieme con L'educazione sentimentale), storia di un tradimento e di un'insanabile frustrazione sentimentale e sociale. Esempio di quella rigorosa oggettività con cui egli riteneva che il romanziere dovesse trattare la sua materia (lo scrittore doveva rendersi impersonale, dimenticare se stesso), l'opera, ispirata ad un fatto di cronaca, costò a Flaubert una denuncia per oltraggio alla morale e alla religione. Ma lo scandalo favorì il successo anche se molti continuarono a condannare lo spietato realismo con cui era stata trattata la scabrosa vicenda.

L'EDUCAZIONE SENTIMENTALE

Con quest'opera Flaubert si confermò agli occhi delle nuove generazioni di artisti come il maestro da seguire e imitare, quello che aveva avuto il coraggio di rompere con la tradizione romantica e che allontanandosi dalla strada tracciata da Balzac, aveva indicato una nuova impostazione nella narrativa.
Filo conduttore del romanzo è la passione mai appagata di un giovane provinciale, Frédéric Moreau, per madame Arnoux; accanto a lui si muovono personaggi ugualmente destinati al fallimento delle loro aspirazioni e un contesto sociale reduce dalla sconfitta della rivoluzione del 1848. Alla personale disfatta del protagonista, incapace di amare e di affermarsi in una società governata dal denaro e dalla vanità, fa riscontro, narrata con perfetta oggettività, la sconfitta di una classe e di una generazione (ancora influenzata dai miti del Romanticismo) che aveva creduto nella rivoluzione e che ora sperimentava insieme alla Restaurazione la propria impotente emarginazione sociale.

IL VERISMO ITALIANO

Diretta derivazione del naturalismo francese fu il verismo italiano sviluppatosi negli anni 1870-90. Anche in questo caso veniva ribadito il principio dell'impersonalità (secondo il quale, come diceva Verga, l'opera doveva sembrare «essersi fatta da sé, aver maturato ed essere sorta spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto con il suo autore...») ma, diversamente dalla produzione francese, venivano soprattutto evidenziati i problemi relativi alle realtà regionali più lontane e separate. In un'Italia che solo da pochi anni aveva raggiunto l'unità nazionale e che già viveva i problemi sociali connessi alla crescita economica determinata dal recente sviluppo industriale, il verismo rappresentò, in un certo senso, la risposta alla crisi che seguì l'unità, il tentativo di dar voce alle tante parti d'Italia che continuavano ad essere ignorate. Mentre il teatro verista affrontava soprattutto l'analisi delle crisi e dei contrasti all'interno della famiglia borghese, la narrativa si dedicava, in modo particolare, alle varie realtà regionali, esplorate con interesse antropologico e analizzate come documenti di verità non ancora compromessi dalla falsità del mondo borghese.
Tra i numerosi autori del verismo italiano, Luigi Capuana (1839-1915), Federico De Roberto (1861-1927), Matilde Serao (1856-1927), Renato Fucini (1843-1921), Grazia Deledda (1871-1936), Salvatore Di Giacomo (1860-1934), il più celebre resta Giovanni Verga.

GIOVANNI VERGA

Per il giovane Verga (1840-1922), nato da una famiglia siciliana di origini nobiliari e tradizioni liberali, ed educato alla scuola di don Antonio Abate, letterato e patriota, politica e letteratura furono, secondo i modi cari alla tradizione romantico-risorgimentale, le passioni dominanti destinate a determinare le prime scelte di vita. Ancora giovane si impegnò nella duplice attività di scrittore di romanzi storici e patriottici e di giornalista politico, quasi a voler realizzare concretamente quell'integrazione fra impegno artistico e passione politica considerata essenziale all'interno di un più vasto programma culturale e politico tendente a sottolineare la funzione dello scrittore come guida spirituale del popolo. Ma nel clima prosaico dell'Italia postunitaria Verga sperimentò la delusione dei suoi entusiasmi politici e l'inadeguatezza di quella mitologia romantico-passionale che condizionava il suo rapporto con la realtà.
Abbandonati gli studi di legge scelse allora di dedicarsi completamente alla letteratura. Si recò a Firenze, allora capitale d'Italia, dove subì le prime influenze letterarie e scrisse Storia di una capinera (1871) e da lì si trasferì poi a Milano dove rimase, seppure con diverse interruzioni dal 1872 al 1893. In questa città Verga frequentò gli ambienti artistici legati alla Scapigliatura ed entrò in contatto con la cultura e la narrativa europea: lesse Flaubert, Balzac, Zola e studiò la filosofia positivistica. La crisi dei valori romantico-risorgimentali su cui si era formato, lo spinsero a maturare elementi di critica sociale antiborghese improntata ad un forte pessimismo e moralismo sia contro «l'Italia parlamentare e industriale» che egli odiava, sia, soprattutto, contro il nuovo sviluppo capitalistico responsabile della crisi e dell'emarginazione della figura sociale dell'artista e dell'intellettuale. Se in questo atteggiamento influiva indubbiamente il punto di vista del borghese proprietario terriero che, arroccato su posizioni conservatrici, vedeva con ostilità il processo di industrializzazione e modernizzazione, è anche vero che proprio dall'insieme di questi ed altri elementi (non ultimo, la presenza a Milano di Capuana) maturò l'avvicinamento di Verga al verismo. Già nel 1874 con la novella Nedda, la prima di genere rusticano e di ambiente siciliano, lo scrittore aveva mutato ambiente e tema rispetto alle storie scritte sino ad allora ma è solo con la raccolta di novelle Vita dei campi (1879) e con il romanzo I Malavoglia (1881) che l'adesione alle tesi veriste si espresse nella sua forma più completa.
Il ritorno alla Sicilia e l'interesse per gli ambienti più umili, contrapposti al mondo frivolo e corrotto della società borghese e cittadina, testimoniano la speranza che Verga nutriva di poter ritrovare almeno nella società arcaico-rurale quei valori ideali improponibili nella società industriale. La malinconia e la pietà con cui l'autore si rivolgeva a quella realtà mostrava però quanto radicata fosse la sua consapevolezza della ineluttabilità del mondo dell'interesse e dell'alienazione. Ed infatti, dopo I Malavoglia, la sua visione del mondo divenne sempre più cupa, totalmente pessimistica, atea e antispiritualistica; sempre più si sarebbe dimostrato convinto di quanto negli istinti e nella brama della «roba» risiedano le motivazioni di qualunque azione umana.
Fedele per tutta la vita al metodo realistico, Verga si propose di studiare le fisionomie dei vari strati sociali, dai più umili ai più elevati secondo un piano («ciclo dei Vinti») che prevedeva cinque romanzi, di questi solo due, I Malavoglia e Mastro Don Gesualdo, furono completati. L'impietosa demistificazione delle ideologie ottimistiche e progressiste della borghesia italiana post unitaria, spiegano lo scarso successo che Verga ebbe presso un pubblico allora incline ad ammirare autori come Fogazzaro e D'Annunzio; per lui la notorietà fu legata soprattutto ad un'opera giovanile come Storia di una capinera e al trionfo teatrale della Cavalleria rusticana (1884) che dette inizio al teatro verista.
Dal 1893 si ritirò definitivamente a Catania chiudendosi in un amaro scetticismo e in un completo isolamento.
Giovanni Verga


I MALAVOGLIA

I Toscano, soprannominati «Malavoglia», sono pescatori di Aci Trezza, un piccolo Paese della Sicilia. Possiedono una casa e una barca, la Provvidenza, ma, per guadagnare qualcosa in più, tentano di vendere altrove un carico di lupini comprato da Padron 'Ntoni, il vecchio padre di Bastianazzo. Ma la barca, carica di lupini, fa naufragio: il carico si perde e Bastianazzo muore. Per pagare il debito devono vendere la casa. La sfortuna però non abbandona la famiglia: muoiono anche uno dei figli di Bastianazzo e sua moglie Maruzza; un altro figlio, 'Ntoni, comincia a bere e finisce in galera; la sorella Lia si perde. Quando il vecchio nonno muore, la famiglia si smembra definitivamente e il giovane 'Ntoni decide di partire e andarsene lontano.

IL REALISMO IMPERFETTO DI MELVILLE

Nel 1851 veniva pubblicato in America un romanzo intitolato Moby Dick. Pur essendo un'opera straordinaria, restò a lungo incompresa e il suo autore, Herman Melville (1819-1891), non riuscì a trarne né successo né fama. Scrisse ancora altre opere ma poi, deluso e depresso, rinunciò del tutto alla letteratura, si impiegò alla dogana di New York e morì sconosciuto nel 1891. Moby Dick è un racconto d'avventure che narra il viaggio della baleniera Pequod a caccia della terribile balena bianca, ma nello stesso tempo è anche una specie di ricerca filosofica che si interroga sull'ambiguità del reale, sugli innumerevoli significati simbolici delle azioni umane, sulla difficoltà di scindere il bene e il male. Proprio del male e dell'assurdità del mondo la balena bianca è il potente simbolo; contro di lei, la lotta ostinata e inutile del capitano Achab rappresenta il delirante fanatismo di chi riduce la complessità della realtà a mania individuale, trascinando gli altri con sé nella sua rovina.
Moby Dick è dunque un romanzo che pur partendo da una storia narrata con ricchezza di particolari realistici (Melville sapeva come era la vita nelle baleniere perché da giovane vi aveva lavorato), trascende questo primo livello di narrazione per diventare grande ritratto simbolico dell'uomo e delle sue debolezze, epopea del mondo americano e dei suoi miti. Per questa sua complessità e ricchezza resta uno dei più grandi romanzi che siano mai stati scritti.

MOBY DICK

Moby Dick è una balena astuta e feroce, temuta e odiata da tutti i balenieri che le danno la caccia e che in lei vedono l'incarnazione del diavolo stesso. La odia particolarmente il capitano del Pequod, Achab, al quale la balena ha stroncato una gamba. Achab giura vendetta e avverte i suoi uomini che da quel momento in poi il Pequod non mirerà ad altra preda che all'inafferrabile balena bianca. L'inseguimento è lungo, ma alla fine Moby Dick viene avvistata e arpionata. La sua potenza è però così grande da trascinare in una folle corsa le lance della baleniera e da annientarne l'equipaggio; anche Achab morirà crocifisso sul suo dorso dalle corde degli arpioni. L'unico sopravvissuto sarà il marinaio Ishmael, dal quale la vicenda si immagina raccontata.

IL REALISMO RUSSO

Anche in Russia, la seconda metà dell'Ottocento coincise con lo sviluppo di un realismo narrativo nato dalla combinazione di complessi fermenti intellettuali e sociali, influssi stranieri (Balzac) e tradizioni letterarie locali. La nuova attenzione per i fenomeni sociali è testimoniata nell'opera di Puskin, Turgenev e Goncarov, il cui romanzo Oblomov (1859) descrive con grande ironia e sensibilità il tramonto di una classe, la piccola nobiltà, rimasta troppo lontana dai tempi nuovi. Ma furono soprattutto due autori, Dostoevskij e Tolstoj, a definire la grande tradizione del realismo russo.

FEDOR DOSTOEVSKIJ

Inizialmente influenzato da Gogol e da scrittori europei come Balzac e Dickens, Dostoevskij (1821-1881) giunse, sotto l'impulso di una profonda crisi religiosa e di una forte tendenza all'introspezione, a risultati che sembrano allontanarsi dalla iniziale matrice realista e che stanno alla base del moderno romanzo psicologico e di idee. Proprio per la straordinaria profondità delle sue riflessioni religiose e politiche, il suo nome viene avvicinato a quello di filosofi come Kierkegaard e Nietzsche con i quali condivise la meditazione, spesso polemica, sempre sofferta, sui grandi problemi del suo tempo e le pessimistiche previsioni sul futuro. Di natura decisamente moderna fu la sua religiosità, antidogmatica e aperta alla sofferenza del dubbio. A questo proposito scriveva di sé, nel 1854:

... sono un figlio del secolo, figlio dell'incredulità e del dubbio finora e (lo so) fino alla tomba. Quali terribili tormenti mi è costata e adesso mi costa questa brama di credere che è tanto più forte nell'anima mia quanto più numerose in me le ragioni contrarie!...

Nei protagonisti dei suoi romanzi (i più importanti dei quali sono Delitto e castigo, L'idiota, I demoni e I fratelli Karamazov) rappresentò lo sdoppiamento dell'essere e dei valori, l'instabilità della ragione, il senso di smarrimento e di vuoto che scaturiva dal passaggio dal vecchio al nuovo mondo. Da qui derivava la natura introspettiva e psicologica delle situazioni narrate, chiuse entro i confini di una breve esistenza di vita ma anche aperte, nei loro significati, a comprendere il lungo corso della storia umana.

LEV TOLSTOJ

Diversamente da Dostoevskij che tese ad interiorizzare e vivere in prima persona le contraddizioni della realtà, Tolstoj (1828-1910) si concentrò sull'analisi dei rapporti individuo-società realizzando un vasto affresco della società russa del suo tempo rappresentata nelle forme di un grande racconto epico e filosofico.
Il suo monumentale romanzo, Guerra e pace (1863-69) analizza, sullo sfondo degli avvenimenti storici che vanno dal 1805 al 1813, la crescita individuale e l'evoluzione sociale di personaggi appartenenti all'alta nobiltà moscovita e pietroburghese. Centrato sul conflittuale rapporto tra vita istintiva e autocoscienza, il romanzo pone in primo piano la difficoltà di vivere secondo il corso naturale delle cose, la difficoltà cioè di vivere secondo coscienza operando per il bene di se stessi e contemporaneamente per il miglioramento della società.
Convinto che il vero progresso si raggiunge con l'autoperfezionamento morale degli individui, Tolstoj rifiutò la violenza rivoluzionaria e nonostante il problema dei rapporti di proprietà e dello sfruttamento dei contadini fosse uno dei temi che attraversa tutta la sua opera, non si soffermò sui meccanismi del processo capitalistico e sulle nuove figure sociali emergenti (borghesia, proletariato industriale, ecc.) ma restò ancorato ad una rappresentazione della nobiltà, sua classe di origine. Ciò non limitò la portata della sua lezione morale, che accresciuta dall'esempio della sua vita, costantemente impegnata nella difesa e nell'aiuto ai poveri e agli emarginati, contribuì a fare di lui un mito non solo letterario.

GUERRA E PACE

Il romanzo si apre con un quadro dell'alta società moscovita alla vigilia della guerra contro Napoleone, nel 1805. Dalla folla elegante e mondana emergono i ritratti di alcuni personaggi inquieti e vivaci: Pierre Bezuchov, goffo e sensibile, appena tornato dall'estero dove il padre, il principe Bezuchov, lo ha mandato ad istruirsi; il suo amico, il principe Andrej Bolkonskij, sarcastico e orgoglioso, già pentito del suo recente matrimonio con Lisa; i ragazzi Rostov, Nikolaj, Petja e, tra di loro, soprattutto la vivace Natasa. Arriva la guerra e Andrej si arruola cercando di dimenticare le sue vicende personali nel turbine del conflitto; Pierre, rimasto a Mosca, divenuto ricco dopo la morte del padre, viene raggirato dal principe Vasilij Kuragin che gli fa sposare la figlia Hélène, bellissima, sciocca e corrotta. Alle infedeltà della moglie, Pierre reagisce sfidando in duello il rivale e separandosi dalla moglie. Aderisce alla massoneria e ad un progetto di emancipazione dei servi. Andrej, tornato dal fronte e rimasto vedovo, si innamora di Natasa che accetta di sposarlo, ma le nozze vengono rimandate a causa dell'opposizione del padre di Andrej, il principe Bolkonskij. Offesa da questo ritardo, Natasa, durante l'assenza di Andrej, si lascia sedurre da Anatole, lo sciocco fratello di Hélène e accetta il progetto, che poi fallirà, di un suo rapimento. Intanto Andrej, gravemente ferito a Borodino, ritrova accanto a sé nell'infermeria il giovane Anatole, al quale è stata amputata una gamba e dimentica il rancore che nutriva per lui e per Natasa, che pentita e innamorata, lo assisterà fino al momento della sua morte.
A Mosca, Pierre, che medita di uccidere Napoleone, viene fatto prigioniero dai Francesi; tornato alla fine della guerra, rivede Natasa che egli segretamente aveva sempre amato e si risposa con lei. Nikolaj, fratello di Natasa si sposa invece con Marja, dolce e timida sorella del principe Andrej.
Nell'epilogo le nuove famiglie sono mostrate molti anni dopo, nel 1820: fanno anche la loro apparizione, quasi a testimoniare la continuità della vita, i loro giovani figli.

L'ESTETA E IL DANDY

In Francia, negli anni attorno al 1860, due erano le tendenze di fondo che caratterizzavano la produzione letteraria: una in direzione del realismo e della rappresentazione oggettiva (a questa tendenza si riallacceranno anche i tentativi di ritorno alla classicità degli autori «parnassiani») e un'altra, più direttamente collegata all'individualismo romantico (e destinata a sfociare in seguito nel simbolismo), interessata invece all'approfondimento dell'interiorità, all'essenza, più che all'apparenza, della realtà. Proprio a quest'ultima tendenza, incontrastata dominatrice della produzione poetica, va collegato lo sviluppo di tutta la poesia moderna che da essa derivò, non solo la straordinaria ricchezza di innovazioni stilistiche, ma anche un nuovo modo di definire la funzione della poesia e del poeta all'interno dell'esperienza della modernità.
Al rifiuto del culto del dato oggettivo, al gusto per il non definito, per le sfumature, per la dissolvenza del reale in immagini sempre più imprecise che caratterizzava la poesia di Paul Verlaine (1844-1896) si accompagnava, nei versi di Jean-Nicolas-Arthur Rimbaud (1854-1891), la ricerca di un mondo nuovo, nascosto, da scoprire attraverso il sogno e la visione. Nel suo poema Il battello ebbro (1871), un battello rimasto senza marinai resta in balia delle acque di un grande fiume dell'America e, portato alla deriva, arriva al mare. Questo lungo viaggio, ricco di strani e meravigliosi spettacoli, si configura chiaramente come un percorso iniziatico oltre i limiti del reale e dell'esperienza ordinaria, evidente riferimento al tentativo di penetrazione all'interno di una dimensione ignota in cui anche il poeta, divenuto ora veggente, si cimenta.
Nella famosa Lettera del veggente (1871), fondamentale per capire anche tanta poesia posteriore, Rimbaud teorizzava questa nuova funzione del poeta:

... Il Poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato deragliamento di tutti i sensi. Tutte le forme d'amore, di sofferenze, di pazzie; egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non conservarne che la quintessenza, Ineffabile tortura nella quale egli ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale egli diventa il grande infermo, il grande criminale, il grande maledetto - e il sommo Sapiente! - Egli giunge infatti all'«ignoto!». Poiché ha coltivato la sua anima, già ricca, più di qualsiasi altro! Egli giunge all'ignoto, e quand'anche, smarrito, finisse col perdere l'intelligenza delle proprie visioni, le avrà pur viste! [...] Dunque il poeta è veramente un ladro di fuoco. Ha l'incarico dell'umanità, degli «animali» addirittura; dovrà far sentire, palpare, ascoltare le sue invenzioni; se ciò che riporta di «laggiù» ha forma, egli dà forma, se è informe, egli dà l'informe. Trovare una lingua [...] Questa lingua sarà dell'anima per l'anima, riassumerà tutto: profumi, suoni, colori; pensiero che uncina il pensiero e che tira. Il poeta definirebbe la quantità di ignoto che nel suo tempo si desta nell'anima universale [...].

Ma, non meno della precedente produzione lirica violentemente polemica e rivoluzionaria, anche questa poetica dell'ignoto e del mistero nasceva dalla ribellione nei confronti del conformismo e della mediocrità borghese, dal rifiuto di un mondo odiato e deriso in opposizione al quale l'artista rivendicava l'estraneità e autenticità delle sue esperienze. Sintomo dunque di una sempre più profonda e consapevole inconciliabilità del poeta con la società borghese, ritenuta responsabile di aver svilito il prodotto artistico a semplice merce e di aver privato l'artista della sua autorevolezza (della sua «aureola», dirà Baudelaire). Non più integrabile nel corpo sociale, il poeta tornava allora a preferire una calcolata trasgressione, un comportamento deviante e fuori dalla norma che ne definisse l'eccentrica individualità contro l'appiattimento e l'oblio nella massa. Isolato in una sorta di reazione etico-estetica contro le forme della pianificazione moderna (gas e vapore, strade ferrate, ma anche tirannia della pubblica opinione e potere della stampa), l'artista si ritraeva disgustato, coltivando nel privato la propria eccezionalità e dedicandosi esclusivamente all'arte e al bello. Ne diventava esemplare rappresentazione il dandy, figura di intellettuale raffinato ed eccentrico, esponente convinto di una cultura dell'apparenza, impegnato nell'ostentazione intellettuale della sua diversità. In questo senso il «dandismo», fenomeno culturale tipico della fine del secolo, estremizzava l'emarginazione dell'artista producendosi in un deliberato allontanamento dalla norma ed esprimendosi in un nuovo linguaggio: quello del corpo, dell'abbigliamento, degli accessori.
Nel secolo del mercato, della fruizione di massa e dell'uniformità, il dandismo rappresentava il culto di una diversità (Barbey d'Aurevilly odiava i treni che, secondo lui avrebbero livellato e appiattito l'intelletto così come livellavano e appiattivano il paesaggio) per ottenere la quale il dandy non esitava a usare come oggetto anche il proprio corpo.
Profonde connessioni legarono questo fenomeno a movimenti artistici e letterari dell'epoca come il simbolismo, l'estetismo e il decadentismo che rivelarono l'influenza di questo modello non solo nella delineazione dei protagonisti delle opere principali del periodo, ma anche nel modo in cui gli artisti stessi costruirono e imposero la loro immagine.
A partire da Baudelaire, la schiera di raffinati cultori dell'arte e della bellezza si accrebbe di nomi celebri: dai francesi Rimbaud e Huysmans, autore di un romanzo - A ritroso (1884) - considerato il repertorio più completo di motivi decadenti, all'inglese Oscar Wilde (1854-1900), autore di Il ritratto di Dorian Gray (1891), e di un'opera teatrale, Salomé (1893), fino allo straordinario disegnatore Aubrey Beardsley.

CHARLES BAUDELAIRE

A Parigi, città natale, Baudelaire (1821-1867) visse quasi tutta la sua vita se si eccettua il periodo che trascorse facendo un viaggio in Oriente. Continuamente assillato da difficoltà economiche, ebbe un'esistenza difficile - caratterizzata da una continua alternanza di disordini e aspirazioni ideali - per sopportare la quale si abituò a far ricorso all'hascisc e all'oppio. Tradusse i Racconti straordinari e Le avventure di Cordon Pym di Edgar Allan Poe, che egli ammirò come maestro di stile e di idee e, nel 1857, pubblicò la raccolta di liriche I fiori del male, riconosciuto capolavoro della poesia moderna, per il quale fu accusato di pubblicazione oscena. Nel 1864, sempre più malandato in salute e oppresso dai debiti si recò in Belgio dove visse in miseria due anni. Morì a 46 anni a Parigi dopo un grave attacco di paralisi.
La condizione del poeta per Baudelaire è quella di un «esiliato», di un «angelo caduto», estraneo al mondo in cui vive; come l'albatro catturato:

il Poeta... avvezzo alla tempesta
... ma esiliato
sulla terra, fra scherni, camminare
non può per le sue ali di gigante.

Cosciente di questa diversità egli è vittima di cupe stanchezze fatte di noia e di disgusto o di effimeri tentativi di rivolta inevitabilmente segnati da frustrazioni e delusioni. La sua vita si consuma nell'alternanza di queste sensazioni, nella consapevolezza di perdite irrecuperabili (l'infanzia, la madre, la fede) e nella vana ricerca di una ideale integrità e pienezza di vita.
In questa disperata condizione di esilio, non resta che il sogno di nuovi paradisi o il viaggio lontano, «verso nuove albe», che possa sottrarre alla triste monotonia della quotidianità:

tuffarci in fondo all'abisso (Inferno o Cielo che importa?)
toccare il fondo dell'Ignoto per trovarvi il nuovo.

Con religiosa dedizione il poeta sceglie di affidarsi esclusivamente all'arte e alla bellezza per conoscere la realtà: rifiutando tutto ciò che è oggettivo si addentra ad esplorare le zone sconosciute della sensibilità, ne decifra i simboli e le misteriose corrispondenze.
La parola poetica sarà allora scelta più per la sua musicalità e la sua capacità di evocazione e suggestione che per la sua capacità di definire e classificare la realtà. Per Baudelaire il poeta deve diventare come «un perfetto alchimista» non solo in grado di penetrare oltre il muro delle apparenze, ma anche capace di dominare con il rigore espressivo del suo stile l'indistinta materia dei sogni.

PARNASSIANI

Il termine deriva dal titolo di una raccolta di versi, Il Parnaso contemporaneo (1866), che riuniva la produzione di un gruppo di poeti francesi accumunati da un identico intento: per reagire alla poesia romantica affermavano che l'artista doveva essere un cesellatore, un artefice raffinato della materia senza lasciarsene emotivamente coinvolgere.
Il fine dell'arte era dare una rappresentazione oggettiva e accurata, «in perfetti versi impassibili, di avvenimenti storici o di fenomeni naturali». Tra molti altri, parnassiani furono considerati anche Gautier, Baudelaire, Mallarmé, Verlaine e Villiers de l'Isle-Adam.

SIMBOLISMO

Nel 1886 nasceva ufficialmente questa nuova scuola poetica di cui Il pomeriggio di un fauno di Stéphane Mallarmé (1842-1898) è generalmente considerato il primo vero testo-base. Più che di una scuola si trattò in misura ancora maggiore di un modo particolare di intendere la poesia e in generale la letteratura come rigoroso esercizio spirituale e profonda esperienza interiore. Storicamente nacque come reazione al naturalismo e al parnassianesimo contro i quali elaborò una teoria completamente diversa della poesia e della funzione del poeta.
Unica legge riconosciuta alla base dell'esperienza simbolista, era quella dell'«analogia universale», intesa come bisogno di dilatare i confini dell'indagine artistica e di utilizzare nuovi strumenti espressivi, soprattutto la musica, nella cui fluidità e suggestione il discorso poetico poteva perdersi e dissolversi. Per i simbolisti il poeta non doveva più «raccontare», ma «decifrare» la realtà, il mondo apparente. La poesia più che alla realtà, si affidava così ai segni e ai simboli per svelare il mistero celato dietro l'apparenza. In questo processo di «decifrazione» e «traduzione» della realtà profonda, la poesia assumeva una funzione essenzialmente «rivelativa» e il poeta diventava una specie di sacerdote e profeta dell'invisibile votato alla bellezza, alla purezza e all'assoluto.
Baudelaire fu il precursore del simbolismo, ma molti furono i poeti coinvolti in questa esperienza o da essa influenzati. Oltre a Rimbaud e Valery, si pensi in Inghilterra a Hopkins e Swinburne, in Russia a Blok, in Germania a Rilke, in Italia a Pascoli, D'Annunzio, in Spagna a Jiménez e Machado.
Non va poi dimenticata la grande importanza del simbolismo in altri settori dell'attività estetica: musica, teatro, danza, pittura, fotografia scultura e persino architettura.

SCAPIGLIATURA

Movimento letterario e artistico degli anni 1860-70. Gli scapigliati, in genere giovani appartenenti alla borghesia dei centri industriali del Nord (specie Milano), assunsero atteggiamenti polemici e provocatori nei confronti del loro ambiente sociale. Contro la retorica patriottica e sentimentale e contro l'ipocrisia dei borghesi benpensanti proposero un modello di vita anarchica e dissipata e un modello di arte libera, realistica e aperta alla nuova cultura europea (specialmente Baudelaire). La loro protesta, ideologicamente fragile, si risolse piuttosto in un fatto di costume e più che altro servì ad esprimere il disagio delle nuove generazioni post risorgimentali nei confronti di una classe dirigente incapace di risolvere i gravissimi problemi sociali creati dall'unificazione e dall'industrializzazione. Gli esponenti più significativi del movimento furono Emilio Praga (1839-1875), di cui val la pena leggere il romanzo Memorie del presbiterio, Arrigo Boito (1842-1918), scrittore e musicista, autore di un noto poemetto, Re Orso e Iginio Ugo Tarchetti (1839-1869).

DEGENERAZIONE E DECADENZA

Nel 1859 era stato pubblicato L'origine della specie di Darwin, testo destinato ad influenzare profondamente non solo la scienza ma anche la cultura di tutto il secolo. Dai concetti di evoluzione e selezione naturale che Darwin per la prima volta proponeva all'interno di una teoria scientifica, il mondo borghese aveva afferrato l'idea stimolante della lotta, norma segreta e inevitabile delle fortune umane. L'ottimismo ufficiale della borghesia, accentuando la funzione di stimolo che l'ambiente opera sull'individuo, aveva così sottolineato l'importanza della libera iniziativa come possibilità aperta a tutti di inserirsi attivamente e proficuamente all'interno del processo produttivo nell'opera di trasformazione e miglioramento del mondo. Prospettive di libertà e benessere sembravano aprirsi per tutti, seppure all'interno di un disegno di inevitabile lotta sociale giustificata nella sua provvidenzialità («In tutta la Natura possiamo vedere l'opera di una disciplina severa, che deve essere un po' crudele per poter essere molto buona» diceva una celebre frase di Spencer). L'immagine del progresso che si profilava come vicina e concreta possibilità nutriva l'illusione borghese di facili profezie e legittimava il fecondo rapporto tra scienza e crescita capitalistica. Ma, verso la fine del secolo, all'ottimismo dominante si andò progressivamente sostituendo un profondo senso di crisi e ci si cominciò a chiedere se quello verso cui si stava procedendo era veramente il «progresso». L'etica darwiniana della sopravvivenza del più forte ritornava pesantemente a far sentire la crudeltà della sua legge e le illusioni che avevano accompagnato lo sviluppo economico perdevano la loro efficacia propagandistica.
La piccola borghesia, rimasta fuori dalla gestione diretta del potere, avvertì con disagio i limiti di un progresso che appariva ora come un'inevitabile e fatale marcia verso il caos e non esitò a riconoscersi nelle tesi apocalittiche teorizzate, negli stessi anni, da quegli intellettuali che presagirono il «tramonto dell'Occidente» (titolo di un famoso libro di Oswald Spengler del 1918).
In un celebre libro, intitolato Degenerazione (1894), Max Nordau analizzava la corruzione e la dissacrazione dei vecchi e sani costumi della borghesia e denunciava la decadenza morale e l'anarchia estetica. Nella società delle grandi masse e dell'anonimato l'uomo borghese sentiva di aver perso la propria identità socioculturale e sperimentava ora un vuoto morale che nemmeno il benessere poteva più risarcire.
Verso il volgere del secolo questa crisi si allargò e generalizzò esprimendosi, a livello intellettuale, nelle formulazioni di sociologi e filosofi, come Max Weber (1864-1920), Georges Sorel (1847-1922), Friedrich Nietzsche (1844-1900). Nacque, per definire la letteratura che in certo modo si faceva interprete di questa crisi, il termine «decadente», ricavato da quanto Verlaine aveva detto di sé scrivendo nel 1883, di sentirsi come un romano della decadenza che compone «acrostici indolenti» mentre davanti a lui sfilano i barbari invasori. In questo contesto qualche anno prima, erano apparsi quattro personaggi significativi del clima culturale dominante: Des Essentes, protagonista del romanzo A ritroso (1884) di Huysmans; Axel, eroe dell'omonimo romanzo (1886) di Villiers de l'Isle-Adam; Andrea Sperelli, eroe romano del romanzo Il piacere (1886) di D'Annunzio; Dorian Gray protagonista di Il ritratto di Dorian Gray (1891) di Wilde. Protagonisti di una rivolta estetica più che politica, questi personaggi-eroi decadenti rappresentavano, attraverso la fuga in un raffinato ed esasperato estetismo, la loro inconciliabilità con il mondo borghese. Esasperando motivi già presenti, nel romanticismo, l'artista decadente ricercava stravaganza e sregolatezza, cercava e sperimentava tutto ciò che potesse esaltare il suo io, si imbeveva di demonismo, indugiava nel morboso e nel crudele, coltivava le ricerche esoteriche, l'alchimia e la magia, si esibiva in un sapere raro e bizzarro. Disprezzava le opinioni correnti, umanitarie o socialistiche e, se si interessava alla religione, lo faceva accentuandone gli aspetti estetici ed esoterici; ostentava la sua predilezione per le epoche in disfacimento, per le complicazioni e la stanchezza dei sensi fino a indugiare nella contemplazione della morte delle cose e della società. Nella fuga dalla banalità giornaliera, approdava così ad un mondo carico di artificio e di cultura.
Durante l'ultimo decennio dell'Ottocento, le tematiche della decadenza si diffusero in tutta l'Europa e interessarono anche l'America. Numerosi gli artisti che ne restarono influenzati: in Inghilterra soprattutto Wilde, Walter Pater (1839-1894), Algernon Charles Swinburne (1837-1909) e William Butler Yeats (1865-1939); in Francia motivazioni decadenti sono presenti, nell'opera giovanile di Proust e di André Gide (1869-1951); in Germania nell'opera poetica di Stefan George (1868-1933), Hugo von Hofmannsthal (1874-1929) e Rainer Maria Rilke (1875-1926) e nella narrativa di Thomas Mann e Musil. Nell'area scandinava importante fu il contributo teatrale di Strindberg e Ibsen.

UN ESEMPIO: IL RITRATTO Dl DORIAN GRAY

Dorian Gray è un giovane di straordinaria bellezza, ritratto dal pittore Hallward. è anche un giovane dissoluto e avido di piaceri che, influenzato dal cinico Henry Wotton, si lascia andare alle peggiori esperienze convinto com'è che nessuna traccia delle sue malvagità deturperà mai il suo bel volto. Grazie ad un incantesimo, egli ha infatti ottenuto che ad invecchiare sia il suo ritratto e non lui. Dopo aver ucciso lo stesso Hallward, non sopportando di vedere più lo spaventoso volto del ritratto, che lo accusa della sua cattiveria, in un impeto di disperazione squarcia la tela con una pugnalata. Ma, a quel punto, il ritratto assume di nuovo le fattezze di Dorian così com'era da giovane, e il vero Dorian, col volto di un vecchio osceno e disgustoso, cade a terra morto.

ALCUNI NOMI

GIOVANNI PASCOLI

Pascoli (1855-1912) nacque in Romagna da famiglia modesta e nella tenuta dei principi di Torlonia di cui il padre era amministratore, visse i primi anni. Il 10 agosto 1867 il padre, mentre tornava a casa, venne assassinato; per la vedova e i sette figli cominciarono le difficoltà economiche. Dopo la morte della sorella e della madre, Pascoli continuò gli studi in un collegio di Urbino diretto dai padri Scolopi. Finiti gli studi vinse un concorso per borse di studio bandito dal comune di Bologna e si iscrisse all'Università. Dopo una serie di lutti familiari (morì anche il fratello), si avvicinò alle idee anarchico-socialeggianti di Andrea Costa. Arrestato per aver partecipato ad una dimostrazione anarchica, trascorse tre mesi in carcere prima di essere riconosciuto innocente. Dopo la laurea divenne insegnante di liceo. Nel 1891 pubblicò la prima edizione di Myricae e iniziò la sua attività di poeta in latino, nella quale divenne famoso in campo internazionale. Nel 1897 divenne docente universitario e pubblicò i Primi Poemetti, cui seguirono nel 1903 i Canti di Castelvecchio. Morì a Bologna.
Apparentemente ispirata alla vita campestre, colta nei suoi mutamenti stagionali e nei suoi aspetti quotidiani e dimessi, la poesia di Myricae (il titolo derivava da un verso del poeta latino Virgilio in cui si parlava delle tamerici, umili fiori di campo), rivelava già una sostanziale diversità rispetto ai moduli espressivi del verismo che pure quegli stessi temi aveva ampiamente trattato; il dato realistico, più che qualificare una realtà oggettiva diventava infatti fin dall'inizio lo sfondo su cui il poeta proiettava personali inquietudini e smarrimenti, un senso dell'esistenza turbato da ansiose perplessità.
Gli oggetti e i paesaggi della quotidianità, si caricavano di significati, simboli e suggestioni simboliche. Questa rivalutazione poetica degli aspetti più semplici e quotidiani dell'esistenza, in cui largo spazio avevano anche i riferimenti alla propria cronaca familiare rivissuta con angosciante ossessività (l'assassinio del padre, i lutti familiari, la povertà, ecc.) si accompagnava ad una concezione della poesia intesa non come disposizione logica e razionale nei confronti della realtà, ma come capacità di mantenere lo stupore e l'intuizione felice dell'infanzia, per scoprire «nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose».
I rapporti di Pascoli col decadentismo, anche se meno vistosi di quelli di D'Annunzio, furono molto profondi e duraturi e si espressero soprattutto nell'adozione di un nuovo linguaggio poetico sommesso e intimista, apparentemente prosastico, ma in realtà pieno di complesse risonanze ed evocazioni, un nuovo modo di fare poesia che tanto avrebbe influito sugli sviluppi della poesia successiva.

GABRIELE D'ANNUNZIO

Nato a Pescara da una famiglia della media borghesia, D'Annunzio (1863-1938), nel 1881, andò a vivere a Roma dove ebbe per dieci anni un'intensa vita fatta di avventure mondane e anche duelli, dove lavorò come giornalista e cominciò a scrivere. A questo periodo si devono le opere maggiori: i romanzi Il Piacere (1891) e L'innocente; le Elegie romane e il Poema Paradisiaco. Nel 1897 venne eletto deputato per la destra, ma in occasione delle leggi repressive proposte da Pelloux si schierò con le sinistre. Dal 1898 al 1909 visse a Firenze in una villa, la Capponcina, che egli trasformò in una dimora di raffinato estetismo. In questo periodo scrisse le Laudi e molte delle sue opere teatrali. Dal 1910 al 1915 si spostò di nuovo a causa di problemi economici e si ritirò vicino a Bordeaux, in Francia, dove scrisse parecchie opere teatrali in francese. Nelle Canzoni delle gesta d'oltremare, celebrò l'impresa libica. Tornato in Italia nel 1915, partecipò alla propaganda interventista con veementi discorsi inneggianti alla violenza. In guerra si distinse per parecchie imprese nelle quali si fondevano autentico coraggio, gusto dell'avventura e ricerca di protagonismo. In opposizione al Governo italiano e alla decisione della Conferenza della pace, occupò militarmente Fiume. Dal 1921 fino alla morte si ritirò a Gardone nella villa di Cargnacco che trasformò in un museo della sua attività e delle sue gesta. Ebbe contatti non molto chiari con Mussolini e celebrò con scritti d'occasione la conquista dell'Etiopia ma, nei confronti del regime, mantenne un'aristocratica distanza.
Secondo il critico Mario Praz, D'Annunzio fu «la figura più monumentale del decadentismo, quella in cui confluirono le varie correnti europee della seconda metà dell'Ottocento». In questo senso fu un grande e rappresentativo autore della decadenza: non tanto per gli aspetti formali del suo lavoro quanto piuttosto per le tematiche di cui accolse l'intero repertorio (l'accostamento fra bellezza, lussuria e morte, la mescolanza di sacro e profano, il desiderio di evasione verso luoghi esotici, l'esteta e la donna fatale).
Nel corso della sua carriera, D'Annunzio sperimentò tutti i generi letterari e accolse suggestioni da molti autori europei appartenenti spesso a correnti letterarie molto diverse tra loro. Il romanzo che lo impose come raffinato interprete della cultura decadente europea, fu Il piacere, opera in cui la ricerca di una sensualità complessa e ricercata veniva indicata come segno distintivo di una casta di eletti. In questo romanzo il protagonista, Andrea Sperelli, è l'esteta raffinato che odia e rifiuta la modernità (che «tante belle cose e rare sommerge miseramente») e il mondo storico in cui vive, popolato da un'umanità mediocre, da masse indifferenziate e da borghesi interessati solo alle attività economiche. Se Andrea Sperelli disprezza il suo tempo sulla base di motivazioni estetiche, Claudio Cantelmo, protagonista del romanzo Le vergini delle rocce (1895), motiva diversamente il suo disgusto e teorizza il diritto di dominio che spetta all'aristocrazia sulle plebi. Questa ideologia antidemocratica che rifletteva un orientamento storico della società italiana in cui certi ceti vagheggiavano lo Stato forte come difesa dal crescente peso delle forze popolari, si nutriva culturalmente dell'incontro con la filosofia di Nietzsche, del quale D'Annunzio non colse la parte più propriamente filosofica ma solo quella relativa alle indicazioni politiche e alla morale del superuomo.
Questo tipo di atteggiamento politico, innestato sul fondo di estetismo decadente che già contrassegnava la poetica dannunziana, influenzò non solo la sua produzione letteraria ma anche la vita pubblica e personale dell'artista portandolo a scegliere un protagonismo artistico e politico che fece di lui un facile mito. In tempi in cui non esistevano ancora i mass media, D'Annunzio creò e amministrò una sua immagine inimitabile e ardimentosa sulla quale generazioni di piccoli borghesi modellarono i loro sogni proibiti non restando esenti dalle suggestioni guerresche e imperialistiche che la sua figura proponeva. Soltanto negli ultimi anni della sua carriera, la produzione di D'Annunzio perse la dimensione superumana e la carica di vitalistico sensualismo per approdare sia in poesia (con Alcyone), che in prosa (con il Notturno), ad una fase di intimistico e malinconico ripiegamento in se stessa.

JOSEPH CONRAD

I profondi e intricati nodi psicologici e ideologici dell'esperienza individuale e sociale dell'ultimo Ottocento e del primo Novecento sono alla base della produzione narrativa di Joseph Conrad (pseudonimo di Konrad Korzeniowski, 1857-1924) uno dei grandi autori della letteratura moderna. Il mistero, la solitudine, il tormento intellettuale che caratterizzano i personaggi dei suoi celebri romanzi, sembrano singolarmente riflettersi o comunque intrattenere uno stretto rapporto con gli eventi biografici dell'autore stesso. Nato in Polonia nel 1857, unico figlio di una famiglia appartenente alla piccola nobiltà terriera polacca, rimase ben presto orfano di entrambi i genitori (il padre, letterato e patriota era stato condannato per ragioni politiche alla deportazione nella Russia settentrionale). Fu educato dallo zio paterno e frequentò la scuola fino a 17 anni quando partì per Marsiglia e si imbarcò per la Martinica.
Per molti anni continuò a viaggiare per mare: nel 1878 si imbarcò per la prima volta su una nave inglese e nel 1886 ottenne il diploma di capitano di lungo corso ed anche la cittadinanza inglese. Nel 1890, dopo aver navigato a lungo in Oriente e in Australia ottenne da una compagnia belga il comando di un vaporetto sul Congo che risalì annotando in un diario i particolari dell'esperienza. Nel 1894 inviò ad un editore il manoscritto di La follia di Almayer che venne pubblicata l'anno dopo.
Dopo il matrimonio si ritirò a vivere nel Kent, cominciò a frequentare i maggiori scrittori del tempo e iniziò un periodo di intensa produzione letteraria. In pochi anni scrisse Giovinezza (1898), Cuore di tenebra (1898-99), Lord Jim (1898-900), Nostromo (1903-4), L'agente segreto (1906), Con gli occhi dell'Occidente (1907-9).
Profondamente colpito dallo scoppio della guerra che visse come crollo di un universo di valori, dedicò il racconto La linea d'ombra al figlio e ai suoi compagni al fronte. Morì nel 1924.
Due fondamentali forme di consapevolezza sembrano esistere e guidare le trame dei suoi racconti, da un lato l'idealizzazione della piccola società chiusa, fondata sull'onore, il lavoro, i codici di comportamento dell'equipaggio di una nave, vista quasi come modello in vitro della perduta civiltà liberale; dall'altra la visione catastrofica del mondo. Ma sia in mare che nei popolosi centri dell'Occidente, l'uomo che egli descrive è solo e isolato, continuamente investito dal dubbio e dall'incertezza, dalla oscura presenza di un altro se stesso, da un segreto, che lo tormenta. Il più delle volte si tratta di una trasgressione, di un momento di debolezza o di paura che non è espiabile e che condanna l'uomo a ricercare il rischio e, infine la morte. L'esistenza umana, per Conrad, sembra così procedere per prove successive, reali e simboliche fino a traguardi di maturità e responsabilità che, nel momento in cui vengono raggiunti, generano nuovi dubbi e inquietudini. Mai, allora, si riuscirà a sapere se si è veramente «capitani» della propria nave; ed infatti, non a caso, i capitani di cui egli narra le avventure, spesso tradiscono o non sono all'altezza del loro compito o comunque sono oppressi da incertezze e da sensi di colpa. Solo in mare, nella solitudine del mare aperto, fra tempeste e bonacce, nel dominio delle forze naturali, questi personaggi riacquistano la loro dignità e la loro identità e riescono ad esorcizzare rimorsi e colpe. Di capitani e avventurieri, reietti ed emarginati sono piene le bellissime storie che Conrad racconta cercando di farci vedere, attraverso i conflitti interiori dei personaggi, gli elementi impuri e contraddittori di una civiltà in declino, i mali del colonialismo e l'ipocrisia dei Governi occidentali, gli inutili spasmi rivoluzionari di un mondo senza innocenti e senza eroi.

LORD JIM

Jim, imbarcato come secondo sul Patna, è protagonista di un atto di diserzione causato da un momento di panico in cui egli ha creduto che la nave stesse per affondare. Viene processato e, ormai disonorato, finisce in un'isola dell'arcipelago malese, dove si conquista le simpatie e la stima degli indigeni. Ma un bandito bianco che viene a saccheggiare l'isola, lo tradisce e Jim viene ucciso per esser venuto meno alla fiducia in lui riposta.

L'ESOTISMO E L'AVVENTURA

La curiosità per le aree extraeuropee che alla fine dell'Ottocento entravano a far parte del mondo conosciuto, sotto la spinta della conquista coloniale, diede vita a una ricca produzione di libri di viaggio e d'avventura.
L'esotismo si manifestò attraverso le opere di autori come l'italiano Emilio Salgari (1862-1911) e, con livelli di maggior complessità, in quelle di Robert Louis Stevenson (L'isola del tesoro, 1883) e Rudyard Kipling (1865-1936), di cui ricordiamo Il libro della giungla, 1894, Kim, 1901, Capitani coraggiosi, 1897, romanzi famosi anche nella letteratura giovanile.
In questi due autori, i romanzi non si esaurivano nella semplice narrazione di avventure, ma si fondavano su un discorso morale preciso che, se nel caso di Stevenson tendeva a presentare ambiguità e dilemmi piuttosto che ad individuare soluzioni (l'eroismo si accompagna sempre al bene e alla morale?), nel caso di Kipling accentuava la necessità di un ordine e di una disciplina etica che sostenessero l'azione.
Per Kipling, infatti, l'azione sociale dell'uomo prendeva significato dalla sua «capacità di crearsi codici e regole e di rispettarle in quanto banco di prova del carattere». Da qui nasceva il suo interesse per tutti i gruppi sociali cementati da vincoli di lealtà e solidarietà e ubbidienti a peculiari schemi di comportamento: le scuole, le comunità militari e persino la singolare associazione degli animali della giungla, soggetti anch'essi ad una inderogabile legge.
Partendo da queste premesse, Kipling sarebbe facilmente arrivato ad interiorizzare i miti di efficienza tecnica e di progresso legati alle guerre di conquiste imperialistiche e contemporaneamente ad esaltare la dignità e il valore della civiltà delle macchine.