DAGLI EROI AGLI UOMINI COMUNI: GRANDE REALISMO E GUSTO BIEDERMAIER
Nessuno dei
narratori vittoriani, nonostante la posizione critica, si distaccò mai
completamente dal sistema di vita e di valori di quella borghesia diventata
protagonista sia della vita economica e politica, sia della letteratura. Non a
caso le trame dei principali romanzi finirono per essere incentrate su quelli
che per un pubblico borghese erano gli eventi cruciali dell'esistenza: ascesa o
perdita di posizione sociale, guadagno o perdita di ricchezze, maturazione e
crescita individuale. Lontano dalle tensioni emotive e dal protagonismo eroico
dei romantici, lo scrittore borghese sembrò ritirarsi
nell'intimità ad osservare il pacifico e sedentario sviluppo di una
cultura piccolo-borghese in una specie di «epopea del quotidiano» in
cui, in mancanza di grandi eroi ed eroine, le cose più semplici, i
particolari più insignificanti, acquistavano straordinaria
importanza.
... Era una stanzetta bassa, nella parte antica della
casa, scura per via delle legature cupe dei libri che rivestivano le pareti;
eppure sembrava molto allegra quella mattina mentre Arthur s'avvicinava alla
finestra aperta.
Ché il sole mattutino colpiva di sbieco il gran
globo di vetro che conteneva i pesci rossi, posato su una colonnina di scagliola
dinanzi alla tavola apparecchiata per lo scapolo e accanto alla tavola c'era un
gruppo che avrebbe reso incantevole qualunque stanza.
Nella poltrona
coperta di damasco cremisi sedeva Mr. Irwine, con quella raggiante freschezza
che egli sempre aveva appena finita la toletta mattutina; la sua bella mano
bianca e grassoccia scherzava sul bruno dorso ricciuto di Giunone, e accanto
alla coda di Giunone, che si dimenava con calmo piacere matronale, i due
cuccioli bruni si voltolavano l'uno addosso all'altro, rugando in un estatico
duetto... Sul tavolo, accanto al gomito di Mr. Irwine, era posato il primo
volume dell'Eschilo del Foulis, che Arthur conosceva bene di vista; e la
caffettiera d'argento, che Carroll stava portando, diffondeva un vapore
fragrante che completava le delizie d'una colazione di scapolo...
Di
George Eliot si definisce quel gusto biedermeier destinato a caratterizzare
molta produzione narrativa dell'Ottocento, atteggiamento nei confronti della
realtà che rifugge da ogni tendenza al meraviglioso, al rivoluzionario,
da ogni esaltazione della passione, e che si fissa in un realismo descrittivo
sostenuto nei casi migliori da una profonda presa di coscienza della
vanità dei grandi ideali e dalla forza dell'azione e del carattere morale
individuale.
Soprattutto con George Eliot e Thomas Hardy la letteratura
inglese dette dunque il suo più interessante contributo alla grande
fioritura del realismo europeo. Mentre in Inghilterra tale tendenza a
rappresentare la realtà esterna con attendibilità e concretezza si
innestò nella più consistente tradizione del romanzo sociale e di
costume, in altri Paesi europei il realismo costituì uno straordinario
momento di crescita e innovazione letteraria.
La grande novità
introdotta dal realismo non fu soltanto nella scelta di nuovi soggetti narrativi
(si è già detto della crisi dell'eroe e del ripiegamento degli
autori su temi meno eclatanti, come, ad esempio, la descrizione di centri urbani
e rurali colpiti dalle trasformazioni economiche e sociali della prima
metà del secolo), ma soprattutto nella scelta di un metodo di analisi di
questa realtà, modellato su quello delle scienze naturali.
Alle
origini della letteratura realista stanno in Francia soprattutto le opere di
Balzac, Stendhal, Flaubert. Dalla Francia questa tendenza letteraria si
allargò a quasi tutti i Paesi europei e innestandosi nelle diverse
realtà e tradizioni letterarie diede vita a una ricca e varia produzione
da quella di Kleist e Theodor Fontane (1819-1898) in Germania, al teatro di
Johan August Strindberg (1849-1912) e Ibsen in Scandinavia, al romanzo di
Ippolito Nievo (1831-1861) in Italia. Ma fu soprattutto in Russia che la lezione
dei realisti francesi si sviluppò influenzando profondamente l'intera
cultura e la vita politica attraverso le opere di Tolstoj, Dostoevskij, Ivan
Aleksandrovic Goncarov (1812-1891) e Maksim Gorkij (1868-1936).
Nonostante
molti contemporanei lo criticassero e non capissero la grandezza delle sue
opere, autori come Émile Zola (1840-1902), Guy de Maupassant (1850-1893),
Joris-Karl Huysmans (1848-1907) riconobbero immediatamente in Flaubert il loro
maestro. L'oggettività e il rigore stilistico che caratterizzava la sua
opera ben si adattava al naturalismo, la nuova tendenza letteraria e artistica
sviluppatasi negli ultimi anni del secolo dalla combinazione delle tesi realiste
con i principi del positivismo. Nato da una sorta di irrigidimento del realismo,
il naturalismo accentuò la sua distanza dallo spiritualismo e
dall'ottimismo della cultura romantica e sottolineò piuttosto il cieco
determinismo che lega l'uomo alle condizioni sociali e ambientali, considerate
come inevitabili cause di sopraffazione e abbrutimento. Determinismo e
pessimismo, indubbiamente influenzati anche dagli accesi dibattiti sui recenti
sviluppi del pensiero scientifico, soprattutto quelli relativi al darwinismo (e
quindi ai concetti di evoluzione, progresso, ma anche degenerazione), finivano
per tradursi in un totale affrancamento dai principi estetici della letteratura
aristocratica e sfociavano in una programmatica e polemica equiparazione di
"bello" e "brutto", soggetti "alti" e soggetti "bassi" (secondo i fratelli
Goncourt il romanzo doveva essere centrato sulle classi subalterne - soprattutto
piccola borghesia e proletariato - che erano sempre rimaste escluse dalla grande
letteratura, arrivando a privilegiare l'analisi delle forme di deterioramento
non solo della struttura sociale, ma anche di quella fisica (frequenti i
riferimenti al male e alle malattie). All'arte il naturalismo chiedeva
l'assoluta e completa imparzialità della fotografia (nata in quegli
stessi anni), l'oggettività e il rigore documentario.
La Francia fu
ancora una volta il Paese da cui il movimento prese il via e al quale
appartennero i più significativi esponenti di questa corrente: Zola, che
ne fu il principale teorico e il più famoso romanziere, Maupassant,
Huysmans, i Goncourt.
BIEDERMEIER
Nome tedesco di un personaggio caricaturale,
letteralmente uguale a «buon fattore» e quindi
«borghesuccio». Caratteristiche del personaggio erano l'adesione ad
un'ideologia cauta in politica (progressista, ma non troppo) e una visione del
mondo romantica ma anche attenta al realismo quotidiano. Il termine venne poi
usato per designare la cultura tedesca tra il 1815 e il 1848, un po' come col
termine vittoriano si indica la cultura inglese durante il regno della regina
Vittoria.
QUALCHE NOME
GEORGE ELIOT
L'autrice
più interessante e rappresentativa del realismo borghese è forse
proprio George Eliot (1819-1880), straordinario esempio non solo di grande
letteratura, ma anche di forza e coraggio femminile (il nome non deve trarre in
inganno: si tratta di uno pseudonimo che cela in realtà una donna, Mary
Ann Evans).
Cresciuta in un'Inghilterra rurale, appassionata fin da giovane
di letteratura, influenzata dagli ideali evangelici del sacrificio e del dovere,
era ancora molto giovane quando ebbe la possibilità di conoscere Charles
e Caroline Bray, una coppia di intellettuali che la iniziarono alla filosofia
moderna, soprattutto a quella di Auguste Comte. Cominciò così un
intenso periodo di ribellioni e di maturazione personale che la portò nel
1842 all'agnosticismo. Dopo un periodo di intense letture, di traduzioni, di
viaggi sul continente, diventò collaboratrice e poi direttrice di
un'importante rivista culturale.
La fiducia e gli incoraggiamenti di George
Henry Lewes, il compagno con il quale visse tutta la vita senza mai sposarsi, la
spinsero a tentare, all'età di 38 anni, la carriera di scrittrice. Nei
suoi romanzi più importanti, Adam Bede (1859), Il mulino sulla Floss
(1860), Middlemarch (1871-72), Daniel Deronda (1874-76), seppe esprimere il
gioco ambiguo delle interazioni tra passato e presente, vita privata e vita
pubblica e il complesso tessuto sociale di un momento di transizione. Attenta
alla realtà soprattutto a quella della provincia inglese a metà
strada tra economia rurale e industrializzazione, la Eliot analizzò le
dinamiche individuali sullo sfondo dello sviluppo sociale, sempre mantenendo una
forte tensione morale per la quale è stata avvicinata a
Tolstoj.
HONORÉ DE BALZAC
Nato in Francia da una famiglia della media
borghesia, Balzac (1799-1850) arrivò tardi e dopo inizi difficili alla
carriera letteraria. Lasciati gli studi giuridici tentò il successo con
opere narrative di scarsa importanza; provò con il giornalismo,
azzardò iniziative imprenditoriali che fallirono. Solo verso il 1829-30
riuscì ad affermarsi con un'opera di pungente critica del costume, La
fisiologia del matrimonio, che segnò l'inizio della sua crescente
popolarità.
Sempre in quegli anni Balzac concepì l'idea della
Commedia Umana di un'opera cioè che collegasse tutti i suoi romanzi
realizzando un gigantesco quadro storico-sociale, una sorta di grande affresco
della società francese dalla rivoluzione del 1789 alla vigilia del 1848 e
dunque ripercorresse le principali tappe dello sviluppo sociale, dalla decadenza
dell'aristrocrazia fino all'ascesa della borghesia. Al progetto fu dato il
titolo di Studi di costumi del XIX secolo arricchiti da Scene della vita
politica, Scene della vita militare e Scene della vita di campagna. Venivano poi
gli Studi filosofici e, alla sommità, gli Studi analitici che Balzac non
fece in tempo a scrivere e che dovevano raccogliere le conclusioni
filosofico-politiche di questa visione dell'uomo e della società.
In
questa gigantesca opera di descrizione e analisi delle varietà di uomini
prodotte dalla vita sociale, Balzac intendeva riprodurre in ambito letterario
quello che il naturalista Buffon aveva fatto definendo e classificando le varie
specie di animali. Da questa storia dal vivo dei costumi e dei modi di pensare e
di agire di un'epoca, doveva scaturire nelle intenzioni dell'autore un invito
alla moderazione e naturalezza di vita, presupposti per Balzac alla
felicità e longevità dei popoli.
Con Balzac il romanzo non
solo si afferma come il più importante mezzo espressivo della letteratura
moderna, ma acquista anche una dimensione epica che lo rende capace di esprimere
al di là delle singole vicende individuali il destino di un'epoca. La
presenza di grandi forze collettive che attraverso gli individui operano e si
manifestano è evidente nei modi in cui i singoli personaggi affrontano,
reagiscono e si lasciano attraversare dalle contraddizioni di un sistema, quello
liberale, in cui coesistono senza possibilità di soluzione, progresso e
disumanizzazione, accumulazione e impoverimento. Il denaro è il grande
protagonista di queste storie, forza concreta che trasforma il mondo, le
ideologie e la morale, come in Eugenia Grandet (1833) e Papà Goriot
(1834-35). Ma il denaro è anche la legge che governa la società
borghese e che in ultima istanza, la condanna: lo slancio iniziale che aveva
determinato la rapida decadenza di vecchie forme di vita e l'instaurarsi di
nuovi valori, approda alla fine alla solitudine, alla prostituzione e alla
morte.
Nella società tutto è inganno, inautenticità,
illusione; la sfrenata corsa al denaro, la commercializzazione, le stesse
energie umane si bloccano alla fine nell'impotenza, nella rinuncia, come nelle
Illusioni perdute (1837-39), nel suicidio o restano impigliate nelle reti di un
freddo carrierismo.
GUSTAVE FLAUBERT
Se il mondo di Balzac è popolato di
figure forti, quello di Flaubert (1821-1880) è il mondo dei deboli; nella
sua opera L'educazione sentimentale (1843-45) viene descritto il fallimento
morale e pratico di una generazione e, attraverso di essa, il fallimento di
un'epoca (la sconfitta della Repubblica del 1848 ad opera del Secondo
impero).
Sensibile e instabile, anche a causa di una grave malattia nervosa
che lo afflisse per tutta la vita, Flaubert visse un momento storico denso di
eventi (la rivoluzione del 1848, la guerra franco-prussiana del 1870, gli
avvenimenti della Comune). E tuttavia del suo tempo egli non indagò i
rapporti di forze che fanno la storia, quanto piuttosto l'impotenza, le
frustrazioni, le passioni mai appagate che all'individuo da esse derivano.
Avvertì traumaticamente la crisi della società borghese, la
degradazione del conformismo, la caduta dei valori individuali e reagì
isolandosi e annullandosi nel lavoro artistico e narrando freddamente storie
anche mediocri ma reali e oggettive. è il caso di Madame Bovary
(1851-56), il suo romanzo più grande (insieme con L'educazione
sentimentale), storia di un tradimento e di un'insanabile frustrazione
sentimentale e sociale. Esempio di quella rigorosa oggettività con cui
egli riteneva che il romanziere dovesse trattare la sua materia (lo scrittore
doveva rendersi impersonale, dimenticare se stesso), l'opera, ispirata ad un
fatto di cronaca, costò a Flaubert una denuncia per oltraggio alla morale
e alla religione. Ma lo scandalo favorì il successo anche se molti
continuarono a condannare lo spietato realismo con cui era stata trattata la
scabrosa vicenda.
L'EDUCAZIONE SENTIMENTALE
Con quest'opera Flaubert si confermò agli
occhi delle nuove generazioni di artisti come il maestro da seguire e imitare,
quello che aveva avuto il coraggio di rompere con la tradizione romantica e che
allontanandosi dalla strada tracciata da Balzac, aveva indicato una nuova
impostazione nella narrativa.
Filo conduttore del romanzo è la
passione mai appagata di un giovane provinciale, Frédéric Moreau,
per madame Arnoux; accanto a lui si muovono personaggi ugualmente destinati al
fallimento delle loro aspirazioni e un contesto sociale reduce dalla sconfitta
della rivoluzione del 1848. Alla personale disfatta del protagonista, incapace
di amare e di affermarsi in una società governata dal denaro e dalla
vanità, fa riscontro, narrata con perfetta oggettività, la
sconfitta di una classe e di una generazione (ancora influenzata dai miti del
Romanticismo) che aveva creduto nella rivoluzione e che ora sperimentava insieme
alla Restaurazione la propria impotente emarginazione sociale.
IL VERISMO ITALIANO
Diretta derivazione del naturalismo francese
fu il verismo italiano sviluppatosi negli anni 1870-90. Anche in questo caso
veniva ribadito il principio dell'impersonalità (secondo il quale, come
diceva Verga, l'opera doveva sembrare «essersi fatta da sé, aver
maturato ed essere sorta spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun
punto di contatto con il suo autore...») ma, diversamente dalla produzione
francese, venivano soprattutto evidenziati i problemi relativi alle
realtà regionali più lontane e separate. In un'Italia che solo da
pochi anni aveva raggiunto l'unità nazionale e che già viveva i
problemi sociali connessi alla crescita economica determinata dal recente
sviluppo industriale, il verismo rappresentò, in un certo senso, la
risposta alla crisi che seguì l'unità, il tentativo di dar voce
alle tante parti d'Italia che continuavano ad essere ignorate. Mentre il teatro
verista affrontava soprattutto l'analisi delle crisi e dei contrasti all'interno
della famiglia borghese, la narrativa si dedicava, in modo particolare, alle
varie realtà regionali, esplorate con interesse antropologico e
analizzate come documenti di verità non ancora compromessi dalla
falsità del mondo borghese.
Tra i numerosi autori del verismo
italiano, Luigi Capuana (1839-1915), Federico De Roberto (1861-1927), Matilde
Serao (1856-1927), Renato Fucini (1843-1921), Grazia Deledda (1871-1936),
Salvatore Di Giacomo (1860-1934), il più celebre resta Giovanni
Verga.
GIOVANNI VERGA
Per il giovane Verga (1840-1922), nato da
una famiglia siciliana di origini nobiliari e tradizioni liberali, ed educato
alla scuola di don Antonio Abate, letterato e patriota, politica e letteratura
furono, secondo i modi cari alla tradizione romantico-risorgimentale, le
passioni dominanti destinate a determinare le prime scelte di vita. Ancora
giovane si impegnò nella duplice attività di scrittore di romanzi
storici e patriottici e di giornalista politico, quasi a voler realizzare
concretamente quell'integrazione fra impegno artistico e passione politica
considerata essenziale all'interno di un più vasto programma culturale e
politico tendente a sottolineare la funzione dello scrittore come guida
spirituale del popolo. Ma nel clima prosaico dell'Italia postunitaria Verga
sperimentò la delusione dei suoi entusiasmi politici e l'inadeguatezza di
quella mitologia romantico-passionale che condizionava il suo rapporto con la
realtà.
Abbandonati gli studi di legge scelse allora di dedicarsi
completamente alla letteratura. Si recò a Firenze, allora capitale
d'Italia, dove subì le prime influenze letterarie e scrisse Storia di una
capinera (1871) e da lì si trasferì poi a Milano dove rimase,
seppure con diverse interruzioni dal 1872 al 1893. In questa città Verga
frequentò gli ambienti artistici legati alla Scapigliatura ed
entrò in contatto con la cultura e la narrativa europea: lesse Flaubert,
Balzac, Zola e studiò la filosofia positivistica. La crisi dei valori
romantico-risorgimentali su cui si era formato, lo spinsero a maturare elementi
di critica sociale antiborghese improntata ad un forte pessimismo e moralismo
sia contro «l'Italia parlamentare e industriale» che egli odiava, sia,
soprattutto, contro il nuovo sviluppo capitalistico responsabile della crisi e
dell'emarginazione della figura sociale dell'artista e dell'intellettuale. Se in
questo atteggiamento influiva indubbiamente il punto di vista del borghese
proprietario terriero che, arroccato su posizioni conservatrici, vedeva con
ostilità il processo di industrializzazione e modernizzazione, è
anche vero che proprio dall'insieme di questi ed altri elementi (non ultimo, la
presenza a Milano di Capuana) maturò l'avvicinamento di Verga al verismo.
Già nel 1874 con la novella Nedda, la prima di genere rusticano e di
ambiente siciliano, lo scrittore aveva mutato ambiente e tema rispetto alle
storie scritte sino ad allora ma è solo con la raccolta di novelle Vita
dei campi (1879) e con il romanzo I Malavoglia (1881) che l'adesione alle tesi
veriste si espresse nella sua forma più completa.
Il ritorno alla
Sicilia e l'interesse per gli ambienti più umili, contrapposti al mondo
frivolo e corrotto della società borghese e cittadina, testimoniano la
speranza che Verga nutriva di poter ritrovare almeno nella società
arcaico-rurale quei valori ideali improponibili nella società
industriale. La malinconia e la pietà con cui l'autore si rivolgeva a
quella realtà mostrava però quanto radicata fosse la sua
consapevolezza della ineluttabilità del mondo dell'interesse e
dell'alienazione. Ed infatti, dopo I Malavoglia, la sua visione del mondo
divenne sempre più cupa, totalmente pessimistica, atea e
antispiritualistica; sempre più si sarebbe dimostrato convinto di quanto
negli istinti e nella brama della «roba» risiedano le motivazioni di
qualunque azione umana.
Fedele per tutta la vita al metodo realistico,
Verga si propose di studiare le fisionomie dei vari strati sociali, dai
più umili ai più elevati secondo un piano («ciclo dei
Vinti») che prevedeva cinque romanzi, di questi solo due, I Malavoglia e
Mastro Don Gesualdo, furono completati. L'impietosa demistificazione delle
ideologie ottimistiche e progressiste della borghesia italiana post unitaria,
spiegano lo scarso successo che Verga ebbe presso un pubblico allora incline ad
ammirare autori come Fogazzaro e D'Annunzio; per lui la notorietà fu
legata soprattutto ad un'opera giovanile come Storia di una capinera e al
trionfo teatrale della Cavalleria rusticana (1884) che dette inizio al teatro
verista.
Dal 1893 si ritirò definitivamente a Catania chiudendosi in
un amaro scetticismo e in un completo isolamento.
Giovanni Verga
I MALAVOGLIA
I Toscano, soprannominati «Malavoglia»,
sono pescatori di Aci Trezza, un piccolo Paese della Sicilia. Possiedono una
casa e una barca, la Provvidenza, ma, per guadagnare qualcosa in più,
tentano di vendere altrove un carico di lupini comprato da Padron 'Ntoni, il
vecchio padre di Bastianazzo. Ma la barca, carica di lupini, fa naufragio: il
carico si perde e Bastianazzo muore. Per pagare il debito devono vendere la
casa. La sfortuna però non abbandona la famiglia: muoiono anche uno dei
figli di Bastianazzo e sua moglie Maruzza; un altro figlio, 'Ntoni, comincia a
bere e finisce in galera; la sorella Lia si perde. Quando il vecchio nonno
muore, la famiglia si smembra definitivamente e il giovane 'Ntoni decide di
partire e andarsene lontano.
IL REALISMO IMPERFETTO DI MELVILLE
Nel 1851 veniva pubblicato in America un
romanzo intitolato Moby Dick. Pur essendo un'opera straordinaria, restò a
lungo incompresa e il suo autore, Herman Melville (1819-1891), non riuscì
a trarne né successo né fama. Scrisse ancora altre opere ma poi,
deluso e depresso, rinunciò del tutto alla letteratura, si impiegò
alla dogana di New York e morì sconosciuto nel 1891. Moby Dick è
un racconto d'avventure che narra il viaggio della baleniera Pequod a caccia
della terribile balena bianca, ma nello stesso tempo è anche una specie
di ricerca filosofica che si interroga sull'ambiguità del reale, sugli
innumerevoli significati simbolici delle azioni umane, sulla difficoltà
di scindere il bene e il male. Proprio del male e dell'assurdità del
mondo la balena bianca è il potente simbolo; contro di lei, la lotta
ostinata e inutile del capitano Achab rappresenta il delirante fanatismo di chi
riduce la complessità della realtà a mania individuale,
trascinando gli altri con sé nella sua rovina.
Moby Dick è
dunque un romanzo che pur partendo da una storia narrata con ricchezza di
particolari realistici (Melville sapeva come era la vita nelle baleniere
perché da giovane vi aveva lavorato), trascende questo primo livello di
narrazione per diventare grande ritratto simbolico dell'uomo e delle sue
debolezze, epopea del mondo americano e dei suoi miti. Per questa sua
complessità e ricchezza resta uno dei più grandi romanzi che siano
mai stati scritti.
MOBY DICK
Moby Dick è una balena astuta e
feroce, temuta e odiata da tutti i balenieri che le danno la caccia e che in lei
vedono l'incarnazione del diavolo stesso. La odia particolarmente il capitano
del Pequod, Achab, al quale la balena ha stroncato una gamba. Achab giura
vendetta e avverte i suoi uomini che da quel momento in poi il Pequod non
mirerà ad altra preda che all'inafferrabile balena bianca. L'inseguimento
è lungo, ma alla fine Moby Dick viene avvistata e arpionata. La sua
potenza è però così grande da trascinare in una folle corsa
le lance della baleniera e da annientarne l'equipaggio; anche Achab
morirà crocifisso sul suo dorso dalle corde degli arpioni. L'unico
sopravvissuto sarà il marinaio Ishmael, dal quale la vicenda si immagina
raccontata.
IL REALISMO RUSSO
Anche in Russia, la seconda metà
dell'Ottocento coincise con lo sviluppo di un realismo narrativo nato dalla
combinazione di complessi fermenti intellettuali e sociali, influssi stranieri
(Balzac) e tradizioni letterarie locali. La nuova attenzione per i fenomeni
sociali è testimoniata nell'opera di Puskin, Turgenev e Goncarov, il cui
romanzo Oblomov (1859) descrive con grande ironia e sensibilità il
tramonto di una classe, la piccola nobiltà, rimasta troppo lontana dai
tempi nuovi. Ma furono soprattutto due autori, Dostoevskij e Tolstoj, a definire
la grande tradizione del realismo russo.
FEDOR DOSTOEVSKIJ
Inizialmente influenzato da Gogol e da
scrittori europei come Balzac e Dickens, Dostoevskij (1821-1881) giunse, sotto
l'impulso di una profonda crisi religiosa e di una forte tendenza
all'introspezione, a risultati che sembrano allontanarsi dalla iniziale matrice
realista e che stanno alla base del moderno romanzo psicologico e di idee.
Proprio per la straordinaria profondità delle sue riflessioni religiose e
politiche, il suo nome viene avvicinato a quello di filosofi come Kierkegaard e
Nietzsche con i quali condivise la meditazione, spesso polemica, sempre
sofferta, sui grandi problemi del suo tempo e le pessimistiche previsioni sul
futuro. Di natura decisamente moderna fu la sua religiosità,
antidogmatica e aperta alla sofferenza del dubbio. A questo proposito scriveva
di sé, nel 1854:
... sono un figlio del secolo, figlio
dell'incredulità e del dubbio finora e (lo so) fino alla tomba. Quali
terribili tormenti mi è costata e adesso mi costa questa brama di credere
che è tanto più forte nell'anima mia quanto più numerose in
me le ragioni contrarie!...
Nei protagonisti dei suoi romanzi (i
più importanti dei quali sono Delitto e castigo, L'idiota, I demoni e I
fratelli Karamazov) rappresentò lo sdoppiamento dell'essere e dei valori,
l'instabilità della ragione, il senso di smarrimento e di vuoto che
scaturiva dal passaggio dal vecchio al nuovo mondo. Da qui derivava la natura
introspettiva e psicologica delle situazioni narrate, chiuse entro i confini di
una breve esistenza di vita ma anche aperte, nei loro significati, a comprendere
il lungo corso della storia umana.
LEV TOLSTOJ
Diversamente da Dostoevskij che tese ad
interiorizzare e vivere in prima persona le contraddizioni della realtà,
Tolstoj (1828-1910) si concentrò sull'analisi dei rapporti
individuo-società realizzando un vasto affresco della società
russa del suo tempo rappresentata nelle forme di un grande racconto epico e
filosofico.
Il suo monumentale romanzo, Guerra e pace (1863-69) analizza,
sullo sfondo degli avvenimenti storici che vanno dal 1805 al 1813, la crescita
individuale e l'evoluzione sociale di personaggi appartenenti all'alta
nobiltà moscovita e pietroburghese. Centrato sul conflittuale rapporto
tra vita istintiva e autocoscienza, il romanzo pone in primo piano la
difficoltà di vivere secondo il corso naturale delle cose, la
difficoltà cioè di vivere secondo coscienza operando per il bene
di se stessi e contemporaneamente per il miglioramento della
società.
Convinto che il vero progresso si raggiunge con
l'autoperfezionamento morale degli individui, Tolstoj rifiutò la violenza
rivoluzionaria e nonostante il problema dei rapporti di proprietà e dello
sfruttamento dei contadini fosse uno dei temi che attraversa tutta la sua opera,
non si soffermò sui meccanismi del processo capitalistico e sulle nuove
figure sociali emergenti (borghesia, proletariato industriale, ecc.) ma
restò ancorato ad una rappresentazione della nobiltà, sua classe
di origine. Ciò non limitò la portata della sua lezione morale,
che accresciuta dall'esempio della sua vita, costantemente impegnata nella
difesa e nell'aiuto ai poveri e agli emarginati, contribuì a fare di lui
un mito non solo letterario.
GUERRA E PACE
Il romanzo si apre con un quadro dell'alta
società moscovita alla vigilia della guerra contro Napoleone, nel 1805.
Dalla folla elegante e mondana emergono i ritratti di alcuni personaggi inquieti
e vivaci: Pierre Bezuchov, goffo e sensibile, appena tornato dall'estero dove il
padre, il principe Bezuchov, lo ha mandato ad istruirsi; il suo amico, il
principe Andrej Bolkonskij, sarcastico e orgoglioso, già pentito del suo
recente matrimonio con Lisa; i ragazzi Rostov, Nikolaj, Petja e, tra di loro,
soprattutto la vivace Natasa. Arriva la guerra e Andrej si arruola cercando di
dimenticare le sue vicende personali nel turbine del conflitto; Pierre, rimasto
a Mosca, divenuto ricco dopo la morte del padre, viene raggirato dal principe
Vasilij Kuragin che gli fa sposare la figlia Hélène, bellissima,
sciocca e corrotta. Alle infedeltà della moglie, Pierre reagisce sfidando
in duello il rivale e separandosi dalla moglie. Aderisce alla massoneria e ad un
progetto di emancipazione dei servi. Andrej, tornato dal fronte e rimasto
vedovo, si innamora di Natasa che accetta di sposarlo, ma le nozze vengono
rimandate a causa dell'opposizione del padre di Andrej, il principe Bolkonskij.
Offesa da questo ritardo, Natasa, durante l'assenza di Andrej, si lascia sedurre
da Anatole, lo sciocco fratello di Hélène e accetta il progetto,
che poi fallirà, di un suo rapimento. Intanto Andrej, gravemente ferito a
Borodino, ritrova accanto a sé nell'infermeria il giovane Anatole, al
quale è stata amputata una gamba e dimentica il rancore che nutriva per
lui e per Natasa, che pentita e innamorata, lo assisterà fino al momento
della sua morte.
A Mosca, Pierre, che medita di uccidere Napoleone, viene
fatto prigioniero dai Francesi; tornato alla fine della guerra, rivede Natasa
che egli segretamente aveva sempre amato e si risposa con lei. Nikolaj, fratello
di Natasa si sposa invece con Marja, dolce e timida sorella del principe
Andrej.
Nell'epilogo le nuove famiglie sono mostrate molti anni dopo, nel
1820: fanno anche la loro apparizione, quasi a testimoniare la continuità
della vita, i loro giovani figli.
L'ESTETA E IL DANDY
In Francia, negli anni attorno al 1860, due
erano le tendenze di fondo che caratterizzavano la produzione letteraria: una in
direzione del realismo e della rappresentazione oggettiva (a questa tendenza si
riallacceranno anche i tentativi di ritorno alla classicità degli autori
«parnassiani») e un'altra, più direttamente collegata
all'individualismo romantico (e destinata a sfociare in seguito nel simbolismo),
interessata invece all'approfondimento dell'interiorità, all'essenza,
più che all'apparenza, della realtà. Proprio a quest'ultima
tendenza, incontrastata dominatrice della produzione poetica, va collegato lo
sviluppo di tutta la poesia moderna che da essa derivò, non solo la
straordinaria ricchezza di innovazioni stilistiche, ma anche un nuovo modo di
definire la funzione della poesia e del poeta all'interno dell'esperienza della
modernità.
Al rifiuto del culto del dato oggettivo, al gusto per il
non definito, per le sfumature, per la dissolvenza del reale in immagini sempre
più imprecise che caratterizzava la poesia di Paul Verlaine (1844-1896)
si accompagnava, nei versi di Jean-Nicolas-Arthur Rimbaud (1854-1891), la
ricerca di un mondo nuovo, nascosto, da scoprire attraverso il sogno e la
visione. Nel suo poema Il battello ebbro (1871), un battello rimasto senza
marinai resta in balia delle acque di un grande fiume dell'America e, portato
alla deriva, arriva al mare. Questo lungo viaggio, ricco di strani e
meravigliosi spettacoli, si configura chiaramente come un percorso iniziatico
oltre i limiti del reale e dell'esperienza ordinaria, evidente riferimento al
tentativo di penetrazione all'interno di una dimensione ignota in cui anche il
poeta, divenuto ora veggente, si cimenta.
Nella famosa Lettera del veggente
(1871), fondamentale per capire anche tanta poesia posteriore, Rimbaud
teorizzava questa nuova funzione del poeta:
... Il Poeta si fa
veggente mediante un lungo, immenso e ragionato deragliamento di tutti i sensi.
Tutte le forme d'amore, di sofferenze, di pazzie; egli cerca se stesso,
esaurisce in sé tutti i veleni, per non conservarne che la quintessenza,
Ineffabile tortura nella quale egli ha bisogno di tutta la fede, di tutta la
forza sovrumana, nella quale egli diventa il grande infermo, il grande
criminale, il grande maledetto - e il sommo Sapiente! - Egli giunge infatti
all'«ignoto!». Poiché ha coltivato la sua anima, già
ricca, più di qualsiasi altro! Egli giunge all'ignoto, e quand'anche,
smarrito, finisse col perdere l'intelligenza delle proprie visioni, le
avrà pur viste! [...] Dunque il poeta è veramente un ladro di
fuoco. Ha l'incarico dell'umanità, degli «animali» addirittura;
dovrà far sentire, palpare, ascoltare le sue invenzioni; se ciò
che riporta di «laggiù» ha forma, egli dà forma, se
è informe, egli dà l'informe. Trovare una lingua [...] Questa
lingua sarà dell'anima per l'anima, riassumerà tutto: profumi,
suoni, colori; pensiero che uncina il pensiero e che tira. Il poeta definirebbe
la quantità di ignoto che nel suo tempo si desta nell'anima universale
[...].
Ma, non meno della precedente produzione lirica violentemente
polemica e rivoluzionaria, anche questa poetica dell'ignoto e del mistero
nasceva dalla ribellione nei confronti del conformismo e della mediocrità
borghese, dal rifiuto di un mondo odiato e deriso in opposizione al quale
l'artista rivendicava l'estraneità e autenticità delle sue
esperienze. Sintomo dunque di una sempre più profonda e consapevole
inconciliabilità del poeta con la società borghese, ritenuta
responsabile di aver svilito il prodotto artistico a semplice merce e di aver
privato l'artista della sua autorevolezza (della sua «aureola»,
dirà Baudelaire). Non più integrabile nel corpo sociale, il poeta
tornava allora a preferire una calcolata trasgressione, un comportamento
deviante e fuori dalla norma che ne definisse l'eccentrica individualità
contro l'appiattimento e l'oblio nella massa. Isolato in una sorta di reazione
etico-estetica contro le forme della pianificazione moderna (gas e vapore,
strade ferrate, ma anche tirannia della pubblica opinione e potere della
stampa), l'artista si ritraeva disgustato, coltivando nel privato la propria
eccezionalità e dedicandosi esclusivamente all'arte e al bello. Ne
diventava esemplare rappresentazione il dandy, figura di intellettuale raffinato
ed eccentrico, esponente convinto di una cultura dell'apparenza, impegnato
nell'ostentazione intellettuale della sua diversità. In questo senso il
«dandismo», fenomeno culturale tipico della fine del secolo,
estremizzava l'emarginazione dell'artista producendosi in un deliberato
allontanamento dalla norma ed esprimendosi in un nuovo linguaggio: quello del
corpo, dell'abbigliamento, degli accessori.
Nel secolo del mercato, della
fruizione di massa e dell'uniformità, il dandismo rappresentava il culto
di una diversità (Barbey d'Aurevilly odiava i treni che, secondo lui
avrebbero livellato e appiattito l'intelletto così come livellavano e
appiattivano il paesaggio) per ottenere la quale il dandy non esitava a usare
come oggetto anche il proprio corpo.
Profonde connessioni legarono questo
fenomeno a movimenti artistici e letterari dell'epoca come il simbolismo,
l'estetismo e il decadentismo che rivelarono l'influenza di questo modello non
solo nella delineazione dei protagonisti delle opere principali del periodo, ma
anche nel modo in cui gli artisti stessi costruirono e imposero la loro
immagine.
A partire da Baudelaire, la schiera di raffinati cultori
dell'arte e della bellezza si accrebbe di nomi celebri: dai francesi Rimbaud e
Huysmans, autore di un romanzo - A ritroso (1884) - considerato il repertorio
più completo di motivi decadenti, all'inglese Oscar Wilde (1854-1900),
autore di Il ritratto di Dorian Gray (1891), e di un'opera teatrale,
Salomé (1893), fino allo straordinario disegnatore Aubrey
Beardsley.
CHARLES BAUDELAIRE
A Parigi, città natale, Baudelaire
(1821-1867) visse quasi tutta la sua vita se si eccettua il periodo che
trascorse facendo un viaggio in Oriente. Continuamente assillato da
difficoltà economiche, ebbe un'esistenza difficile - caratterizzata da
una continua alternanza di disordini e aspirazioni ideali - per sopportare la
quale si abituò a far ricorso all'hascisc e all'oppio. Tradusse i
Racconti straordinari e Le avventure di Cordon Pym di Edgar Allan Poe, che egli
ammirò come maestro di stile e di idee e, nel 1857, pubblicò la
raccolta di liriche I fiori del male, riconosciuto capolavoro della poesia
moderna, per il quale fu accusato di pubblicazione oscena. Nel 1864, sempre
più malandato in salute e oppresso dai debiti si recò in Belgio
dove visse in miseria due anni. Morì a 46 anni a Parigi dopo un grave
attacco di paralisi.
La condizione del poeta per Baudelaire è quella
di un «esiliato», di un «angelo caduto», estraneo al mondo
in cui vive; come l'albatro catturato:
il Poeta... avvezzo alla
tempesta
... ma esiliato
sulla terra, fra scherni, camminare
non
può per le sue ali di gigante.
Cosciente di questa
diversità egli è vittima di cupe stanchezze fatte di noia e di
disgusto o di effimeri tentativi di rivolta inevitabilmente segnati da
frustrazioni e delusioni. La sua vita si consuma nell'alternanza di queste
sensazioni, nella consapevolezza di perdite irrecuperabili (l'infanzia, la
madre, la fede) e nella vana ricerca di una ideale integrità e pienezza
di vita.
In questa disperata condizione di esilio, non resta che il sogno
di nuovi paradisi o il viaggio lontano, «verso nuove albe», che possa
sottrarre alla triste monotonia della quotidianità:
tuffarci
in fondo all'abisso (Inferno o Cielo che importa?)
toccare il fondo
dell'Ignoto per trovarvi il nuovo.
Con religiosa dedizione il poeta
sceglie di affidarsi esclusivamente all'arte e alla bellezza per conoscere la
realtà: rifiutando tutto ciò che è oggettivo si addentra ad
esplorare le zone sconosciute della sensibilità, ne decifra i simboli e
le misteriose corrispondenze.
La parola poetica sarà allora scelta
più per la sua musicalità e la sua capacità di evocazione e
suggestione che per la sua capacità di definire e classificare la
realtà. Per Baudelaire il poeta deve diventare come «un perfetto
alchimista» non solo in grado di penetrare oltre il muro delle apparenze,
ma anche capace di dominare con il rigore espressivo del suo stile l'indistinta
materia dei sogni.
PARNASSIANI
Il termine deriva dal titolo di una raccolta
di versi, Il Parnaso contemporaneo (1866), che riuniva la produzione di un
gruppo di poeti francesi accumunati da un identico intento: per reagire alla
poesia romantica affermavano che l'artista doveva essere un cesellatore, un
artefice raffinato della materia senza lasciarsene emotivamente
coinvolgere.
Il fine dell'arte era dare una rappresentazione oggettiva e
accurata, «in perfetti versi impassibili, di avvenimenti storici o di
fenomeni naturali». Tra molti altri, parnassiani furono considerati anche
Gautier, Baudelaire, Mallarmé, Verlaine e Villiers de l'Isle-Adam.
SIMBOLISMO
Nel 1886 nasceva ufficialmente questa nuova
scuola poetica di cui Il pomeriggio di un fauno di Stéphane
Mallarmé (1842-1898) è generalmente considerato il primo vero
testo-base. Più che di una scuola si trattò in misura ancora
maggiore di un modo particolare di intendere la poesia e in generale la
letteratura come rigoroso esercizio spirituale e profonda esperienza interiore.
Storicamente nacque come reazione al naturalismo e al parnassianesimo contro i
quali elaborò una teoria completamente diversa della poesia e della
funzione del poeta.
Unica legge riconosciuta alla base dell'esperienza
simbolista, era quella dell'«analogia universale», intesa come bisogno
di dilatare i confini dell'indagine artistica e di utilizzare nuovi strumenti
espressivi, soprattutto la musica, nella cui fluidità e suggestione il
discorso poetico poteva perdersi e dissolversi. Per i simbolisti il poeta non
doveva più «raccontare», ma «decifrare» la
realtà, il mondo apparente. La poesia più che alla realtà,
si affidava così ai segni e ai simboli per svelare il mistero celato
dietro l'apparenza. In questo processo di «decifrazione» e
«traduzione» della realtà profonda, la poesia assumeva una
funzione essenzialmente «rivelativa» e il poeta diventava una specie
di sacerdote e profeta dell'invisibile votato alla bellezza, alla purezza e
all'assoluto.
Baudelaire fu il precursore del simbolismo, ma molti furono i
poeti coinvolti in questa esperienza o da essa influenzati. Oltre a Rimbaud e
Valery, si pensi in Inghilterra a Hopkins e Swinburne, in Russia a Blok, in
Germania a Rilke, in Italia a Pascoli, D'Annunzio, in Spagna a Jiménez e
Machado.
Non va poi dimenticata la grande importanza del simbolismo in
altri settori dell'attività estetica: musica, teatro, danza, pittura,
fotografia scultura e persino architettura.
SCAPIGLIATURA
Movimento letterario e artistico degli anni
1860-70. Gli scapigliati, in genere giovani appartenenti alla borghesia dei
centri industriali del Nord (specie Milano), assunsero atteggiamenti polemici e
provocatori nei confronti del loro ambiente sociale. Contro la retorica
patriottica e sentimentale e contro l'ipocrisia dei borghesi benpensanti
proposero un modello di vita anarchica e dissipata e un modello di arte libera,
realistica e aperta alla nuova cultura europea (specialmente Baudelaire). La
loro protesta, ideologicamente fragile, si risolse piuttosto in un fatto di
costume e più che altro servì ad esprimere il disagio delle nuove
generazioni post risorgimentali nei confronti di una classe dirigente incapace
di risolvere i gravissimi problemi sociali creati dall'unificazione e
dall'industrializzazione. Gli esponenti più significativi del movimento
furono Emilio Praga (1839-1875), di cui val la pena leggere il romanzo Memorie
del presbiterio, Arrigo Boito (1842-1918), scrittore e musicista, autore di un
noto poemetto, Re Orso e Iginio Ugo Tarchetti (1839-1869).
DEGENERAZIONE E DECADENZA
Nel 1859 era stato pubblicato L'origine
della specie di Darwin, testo destinato ad influenzare profondamente non solo la
scienza ma anche la cultura di tutto il secolo. Dai concetti di evoluzione e
selezione naturale che Darwin per la prima volta proponeva all'interno di una
teoria scientifica, il mondo borghese aveva afferrato l'idea stimolante della
lotta, norma segreta e inevitabile delle fortune umane. L'ottimismo ufficiale
della borghesia, accentuando la funzione di stimolo che l'ambiente opera
sull'individuo, aveva così sottolineato l'importanza della libera
iniziativa come possibilità aperta a tutti di inserirsi attivamente e
proficuamente all'interno del processo produttivo nell'opera di trasformazione e
miglioramento del mondo. Prospettive di libertà e benessere sembravano
aprirsi per tutti, seppure all'interno di un disegno di inevitabile lotta
sociale giustificata nella sua provvidenzialità («In tutta la Natura
possiamo vedere l'opera di una disciplina severa, che deve essere un po' crudele
per poter essere molto buona» diceva una celebre frase di Spencer).
L'immagine del progresso che si profilava come vicina e concreta
possibilità nutriva l'illusione borghese di facili profezie e legittimava
il fecondo rapporto tra scienza e crescita capitalistica. Ma, verso la fine del
secolo, all'ottimismo dominante si andò progressivamente sostituendo un
profondo senso di crisi e ci si cominciò a chiedere se quello verso cui
si stava procedendo era veramente il «progresso». L'etica darwiniana
della sopravvivenza del più forte ritornava pesantemente a far sentire la
crudeltà della sua legge e le illusioni che avevano accompagnato lo
sviluppo economico perdevano la loro efficacia propagandistica.
La piccola
borghesia, rimasta fuori dalla gestione diretta del potere, avvertì con
disagio i limiti di un progresso che appariva ora come un'inevitabile e fatale
marcia verso il caos e non esitò a riconoscersi nelle tesi apocalittiche
teorizzate, negli stessi anni, da quegli intellettuali che presagirono il
«tramonto dell'Occidente» (titolo di un famoso libro di Oswald
Spengler del 1918).
In un celebre libro, intitolato Degenerazione (1894),
Max Nordau analizzava la corruzione e la dissacrazione dei vecchi e sani costumi
della borghesia e denunciava la decadenza morale e l'anarchia estetica. Nella
società delle grandi masse e dell'anonimato l'uomo borghese sentiva di
aver perso la propria identità socioculturale e sperimentava ora un vuoto
morale che nemmeno il benessere poteva più risarcire.
Verso il
volgere del secolo questa crisi si allargò e generalizzò
esprimendosi, a livello intellettuale, nelle formulazioni di sociologi e
filosofi, come Max Weber (1864-1920), Georges Sorel (1847-1922), Friedrich
Nietzsche (1844-1900). Nacque, per definire la letteratura che in certo modo si
faceva interprete di questa crisi, il termine «decadente», ricavato da
quanto Verlaine aveva detto di sé scrivendo nel 1883, di sentirsi come un
romano della decadenza che compone «acrostici indolenti» mentre
davanti a lui sfilano i barbari invasori. In questo contesto qualche anno prima,
erano apparsi quattro personaggi significativi del clima culturale dominante:
Des Essentes, protagonista del romanzo A ritroso (1884) di Huysmans; Axel, eroe
dell'omonimo romanzo (1886) di Villiers de l'Isle-Adam; Andrea Sperelli, eroe
romano del romanzo Il piacere (1886) di D'Annunzio; Dorian Gray protagonista di
Il ritratto di Dorian Gray (1891) di Wilde. Protagonisti di una rivolta estetica
più che politica, questi personaggi-eroi decadenti rappresentavano,
attraverso la fuga in un raffinato ed esasperato estetismo, la loro
inconciliabilità con il mondo borghese. Esasperando motivi già
presenti, nel romanticismo, l'artista decadente ricercava stravaganza e
sregolatezza, cercava e sperimentava tutto ciò che potesse esaltare il
suo io, si imbeveva di demonismo, indugiava nel morboso e nel crudele, coltivava
le ricerche esoteriche, l'alchimia e la magia, si esibiva in un sapere raro e
bizzarro. Disprezzava le opinioni correnti, umanitarie o socialistiche e, se si
interessava alla religione, lo faceva accentuandone gli aspetti estetici ed
esoterici; ostentava la sua predilezione per le epoche in disfacimento, per le
complicazioni e la stanchezza dei sensi fino a indugiare nella contemplazione
della morte delle cose e della società. Nella fuga dalla banalità
giornaliera, approdava così ad un mondo carico di artificio e di
cultura.
Durante l'ultimo decennio dell'Ottocento, le tematiche della
decadenza si diffusero in tutta l'Europa e interessarono anche l'America.
Numerosi gli artisti che ne restarono influenzati: in Inghilterra soprattutto
Wilde, Walter Pater (1839-1894), Algernon Charles Swinburne (1837-1909) e
William Butler Yeats (1865-1939); in Francia motivazioni decadenti sono
presenti, nell'opera giovanile di Proust e di André Gide (1869-1951); in
Germania nell'opera poetica di Stefan George (1868-1933), Hugo von Hofmannsthal
(1874-1929) e Rainer Maria Rilke (1875-1926) e nella narrativa di Thomas Mann e
Musil. Nell'area scandinava importante fu il contributo teatrale di Strindberg e
Ibsen.
UN ESEMPIO: IL RITRATTO Dl DORIAN GRAY
Dorian Gray è un giovane di
straordinaria bellezza, ritratto dal pittore Hallward. è anche un giovane
dissoluto e avido di piaceri che, influenzato dal cinico Henry Wotton, si lascia
andare alle peggiori esperienze convinto com'è che nessuna traccia delle
sue malvagità deturperà mai il suo bel volto. Grazie ad un
incantesimo, egli ha infatti ottenuto che ad invecchiare sia il suo ritratto e
non lui. Dopo aver ucciso lo stesso Hallward, non sopportando di vedere
più lo spaventoso volto del ritratto, che lo accusa della sua cattiveria,
in un impeto di disperazione squarcia la tela con una pugnalata. Ma, a quel
punto, il ritratto assume di nuovo le fattezze di Dorian così com'era da
giovane, e il vero Dorian, col volto di un vecchio osceno e disgustoso, cade a
terra morto.
ALCUNI NOMI
GIOVANNI PASCOLI
Pascoli (1855-1912)
nacque in Romagna da famiglia modesta e nella tenuta dei principi di Torlonia di
cui il padre era amministratore, visse i primi anni. Il 10 agosto 1867 il padre,
mentre tornava a casa, venne assassinato; per la vedova e i sette figli
cominciarono le difficoltà economiche. Dopo la morte della sorella e
della madre, Pascoli continuò gli studi in un collegio di Urbino diretto
dai padri Scolopi. Finiti gli studi vinse un concorso per borse di studio
bandito dal comune di Bologna e si iscrisse all'Università. Dopo una
serie di lutti familiari (morì anche il fratello), si avvicinò
alle idee anarchico-socialeggianti di Andrea Costa. Arrestato per aver
partecipato ad una dimostrazione anarchica, trascorse tre mesi in carcere prima
di essere riconosciuto innocente. Dopo la laurea divenne insegnante di liceo.
Nel 1891 pubblicò la prima edizione di Myricae e iniziò la sua
attività di poeta in latino, nella quale divenne famoso in campo
internazionale. Nel 1897 divenne docente universitario e pubblicò i Primi
Poemetti, cui seguirono nel 1903 i Canti di Castelvecchio. Morì a
Bologna.
Apparentemente ispirata alla vita campestre, colta nei suoi
mutamenti stagionali e nei suoi aspetti quotidiani e dimessi, la poesia di
Myricae (il titolo derivava da un verso del poeta latino Virgilio in cui si
parlava delle tamerici, umili fiori di campo), rivelava già una
sostanziale diversità rispetto ai moduli espressivi del verismo che pure
quegli stessi temi aveva ampiamente trattato; il dato realistico, più che
qualificare una realtà oggettiva diventava infatti fin dall'inizio lo
sfondo su cui il poeta proiettava personali inquietudini e smarrimenti, un senso
dell'esistenza turbato da ansiose perplessità.
Gli oggetti e i
paesaggi della quotidianità, si caricavano di significati, simboli e
suggestioni simboliche. Questa rivalutazione poetica degli aspetti più
semplici e quotidiani dell'esistenza, in cui largo spazio avevano anche i
riferimenti alla propria cronaca familiare rivissuta con angosciante
ossessività (l'assassinio del padre, i lutti familiari, la
povertà, ecc.) si accompagnava ad una concezione della poesia intesa non
come disposizione logica e razionale nei confronti della realtà, ma come
capacità di mantenere lo stupore e l'intuizione felice dell'infanzia, per
scoprire «nelle cose le somiglianze e relazioni più
ingegnose».
I rapporti di Pascoli col decadentismo, anche se meno
vistosi di quelli di D'Annunzio, furono molto profondi e duraturi e si
espressero soprattutto nell'adozione di un nuovo linguaggio poetico sommesso e
intimista, apparentemente prosastico, ma in realtà pieno di complesse
risonanze ed evocazioni, un nuovo modo di fare poesia che tanto avrebbe influito
sugli sviluppi della poesia successiva.
GABRIELE D'ANNUNZIO
Nato a Pescara da una famiglia della media
borghesia, D'Annunzio (1863-1938), nel 1881, andò a vivere a Roma
dove ebbe per dieci anni un'intensa vita fatta di avventure mondane e anche
duelli, dove lavorò come giornalista e cominciò a scrivere. A
questo periodo si devono le opere maggiori: i romanzi Il Piacere (1891) e
L'innocente; le Elegie romane e il Poema Paradisiaco. Nel 1897 venne eletto
deputato per la destra, ma in occasione delle leggi repressive proposte da
Pelloux si schierò con le sinistre. Dal 1898 al 1909 visse a Firenze in
una villa, la Capponcina, che egli trasformò in una dimora di raffinato
estetismo. In questo periodo scrisse le Laudi e molte delle sue opere teatrali.
Dal 1910 al 1915 si spostò di nuovo a causa di problemi economici e si
ritirò vicino a Bordeaux, in Francia, dove scrisse parecchie opere
teatrali in francese. Nelle Canzoni delle gesta d'oltremare, celebrò
l'impresa libica. Tornato in Italia nel 1915, partecipò alla propaganda
interventista con veementi discorsi inneggianti alla violenza. In guerra si
distinse per parecchie imprese nelle quali si fondevano autentico coraggio,
gusto dell'avventura e ricerca di protagonismo. In opposizione al Governo
italiano e alla decisione della Conferenza della pace, occupò
militarmente Fiume. Dal 1921 fino alla morte si ritirò a Gardone nella
villa di Cargnacco che trasformò in un museo della sua attività e
delle sue gesta. Ebbe contatti non molto chiari con Mussolini e celebrò
con scritti d'occasione la conquista dell'Etiopia ma, nei confronti del regime,
mantenne un'aristocratica distanza.
Secondo il critico Mario Praz,
D'Annunzio fu «la figura più monumentale del decadentismo, quella in
cui confluirono le varie correnti europee della seconda metà
dell'Ottocento». In questo senso fu un grande e rappresentativo autore
della decadenza: non tanto per gli aspetti formali del suo lavoro quanto
piuttosto per le tematiche di cui accolse l'intero repertorio (l'accostamento
fra bellezza, lussuria e morte, la mescolanza di sacro e profano, il desiderio
di evasione verso luoghi esotici, l'esteta e la donna fatale).
Nel corso
della sua carriera, D'Annunzio sperimentò tutti i generi letterari e
accolse suggestioni da molti autori europei appartenenti spesso a correnti
letterarie molto diverse tra loro. Il romanzo che lo impose come raffinato
interprete della cultura decadente europea, fu Il piacere, opera in cui la
ricerca di una sensualità complessa e ricercata veniva indicata come
segno distintivo di una casta di eletti. In questo romanzo il protagonista,
Andrea Sperelli, è l'esteta raffinato che odia e rifiuta la
modernità (che «tante belle cose e rare sommerge miseramente»)
e il mondo storico in cui vive, popolato da un'umanità mediocre, da masse
indifferenziate e da borghesi interessati solo alle attività economiche.
Se Andrea Sperelli disprezza il suo tempo sulla base di motivazioni estetiche,
Claudio Cantelmo, protagonista del romanzo Le vergini delle rocce (1895), motiva
diversamente il suo disgusto e teorizza il diritto di dominio che spetta
all'aristocrazia sulle plebi. Questa ideologia antidemocratica che rifletteva un
orientamento storico della società italiana in cui certi ceti
vagheggiavano lo Stato forte come difesa dal crescente peso delle forze
popolari, si nutriva culturalmente dell'incontro con la filosofia di Nietzsche,
del quale D'Annunzio non colse la parte più propriamente filosofica ma
solo quella relativa alle indicazioni politiche e alla morale del
superuomo.
Questo tipo di atteggiamento politico, innestato sul fondo di
estetismo decadente che già contrassegnava la poetica dannunziana,
influenzò non solo la sua produzione letteraria ma anche la vita pubblica
e personale dell'artista portandolo a scegliere un protagonismo artistico e
politico che fece di lui un facile mito. In tempi in cui non esistevano ancora i
mass media, D'Annunzio creò e amministrò una sua immagine
inimitabile e ardimentosa sulla quale generazioni di piccoli borghesi
modellarono i loro sogni proibiti non restando esenti dalle suggestioni
guerresche e imperialistiche che la sua figura proponeva. Soltanto negli ultimi
anni della sua carriera, la produzione di D'Annunzio perse la dimensione
superumana e la carica di vitalistico sensualismo per approdare sia in poesia
(con Alcyone), che in prosa (con il Notturno), ad una fase di intimistico e
malinconico ripiegamento in se stessa.
JOSEPH CONRAD
I profondi e intricati nodi psicologici e
ideologici dell'esperienza individuale e sociale dell'ultimo Ottocento e del
primo Novecento sono alla base della produzione narrativa di Joseph Conrad
(pseudonimo di Konrad Korzeniowski, 1857-1924) uno dei grandi autori della
letteratura moderna. Il mistero, la solitudine, il tormento intellettuale che
caratterizzano i personaggi dei suoi celebri romanzi, sembrano singolarmente
riflettersi o comunque intrattenere uno stretto rapporto con gli eventi
biografici dell'autore stesso. Nato in Polonia nel 1857, unico figlio di una
famiglia appartenente alla piccola nobiltà terriera polacca, rimase ben
presto orfano di entrambi i genitori (il padre, letterato e patriota era stato
condannato per ragioni politiche alla deportazione nella Russia settentrionale).
Fu educato dallo zio paterno e frequentò la scuola fino a 17 anni quando
partì per Marsiglia e si imbarcò per la Martinica.
Per molti
anni continuò a viaggiare per mare: nel 1878 si imbarcò per la
prima volta su una nave inglese e nel 1886 ottenne il diploma di capitano di
lungo corso ed anche la cittadinanza inglese. Nel 1890, dopo aver navigato a
lungo in Oriente e in Australia ottenne da una compagnia belga il comando di un
vaporetto sul Congo che risalì annotando in un diario i particolari
dell'esperienza. Nel 1894 inviò ad un editore il manoscritto di La follia
di Almayer che venne pubblicata l'anno dopo.
Dopo il matrimonio si
ritirò a vivere nel Kent, cominciò a frequentare i maggiori
scrittori del tempo e iniziò un periodo di intensa produzione letteraria.
In pochi anni scrisse Giovinezza (1898), Cuore di tenebra (1898-99), Lord Jim
(1898-900), Nostromo (1903-4), L'agente segreto (1906), Con gli occhi
dell'Occidente (1907-9).
Profondamente colpito dallo scoppio della guerra
che visse come crollo di un universo di valori, dedicò il racconto La
linea d'ombra al figlio e ai suoi compagni al fronte. Morì nel
1924.
Due fondamentali forme di consapevolezza sembrano esistere e guidare
le trame dei suoi racconti, da un lato l'idealizzazione della piccola
società chiusa, fondata sull'onore, il lavoro, i codici di comportamento
dell'equipaggio di una nave, vista quasi come modello in vitro della perduta
civiltà liberale; dall'altra la visione catastrofica del mondo. Ma sia in
mare che nei popolosi centri dell'Occidente, l'uomo che egli descrive è
solo e isolato, continuamente investito dal dubbio e dall'incertezza, dalla
oscura presenza di un altro se stesso, da un segreto, che lo tormenta. Il
più delle volte si tratta di una trasgressione, di un momento di
debolezza o di paura che non è espiabile e che condanna l'uomo a
ricercare il rischio e, infine la morte. L'esistenza umana, per Conrad, sembra
così procedere per prove successive, reali e simboliche fino a traguardi
di maturità e responsabilità che, nel momento in cui vengono
raggiunti, generano nuovi dubbi e inquietudini. Mai, allora, si riuscirà
a sapere se si è veramente «capitani» della propria nave; ed
infatti, non a caso, i capitani di cui egli narra le avventure, spesso
tradiscono o non sono all'altezza del loro compito o comunque sono oppressi da
incertezze e da sensi di colpa. Solo in mare, nella solitudine del mare aperto,
fra tempeste e bonacce, nel dominio delle forze naturali, questi personaggi
riacquistano la loro dignità e la loro identità e riescono ad
esorcizzare rimorsi e colpe. Di capitani e avventurieri, reietti ed emarginati
sono piene le bellissime storie che Conrad racconta cercando di farci vedere,
attraverso i conflitti interiori dei personaggi, gli elementi impuri e
contraddittori di una civiltà in declino, i mali del colonialismo e
l'ipocrisia dei Governi occidentali, gli inutili spasmi rivoluzionari di un
mondo senza innocenti e senza eroi.
LORD JIM
Jim, imbarcato come secondo sul Patna, è
protagonista di un atto di diserzione causato da un momento di panico in cui
egli ha creduto che la nave stesse per affondare. Viene processato e, ormai
disonorato, finisce in un'isola dell'arcipelago malese, dove si conquista le
simpatie e la stima degli indigeni. Ma un bandito bianco che viene a
saccheggiare l'isola, lo tradisce e Jim viene ucciso per esser venuto meno alla
fiducia in lui riposta.
L'ESOTISMO E L'AVVENTURA
La curiosità per le aree extraeuropee
che alla fine dell'Ottocento entravano a far parte del mondo conosciuto, sotto
la spinta della conquista coloniale, diede vita a una ricca produzione di libri
di viaggio e d'avventura.
L'esotismo si manifestò attraverso le
opere di autori come l'italiano Emilio Salgari (1862-1911) e, con livelli di
maggior complessità, in quelle di Robert Louis Stevenson (L'isola del
tesoro, 1883) e Rudyard Kipling (1865-1936), di cui ricordiamo Il libro della
giungla, 1894, Kim, 1901, Capitani coraggiosi, 1897, romanzi famosi anche nella
letteratura giovanile.
In questi due autori, i romanzi non si esaurivano
nella semplice narrazione di avventure, ma si fondavano su un discorso morale
preciso che, se nel caso di Stevenson tendeva a presentare ambiguità e
dilemmi piuttosto che ad individuare soluzioni (l'eroismo si accompagna sempre
al bene e alla morale?), nel caso di Kipling accentuava la necessità di
un ordine e di una disciplina etica che sostenessero l'azione.
Per Kipling,
infatti, l'azione sociale dell'uomo prendeva significato dalla sua
«capacità di crearsi codici e regole e di rispettarle in quanto
banco di prova del carattere». Da qui nasceva il suo interesse per tutti i
gruppi sociali cementati da vincoli di lealtà e solidarietà e
ubbidienti a peculiari schemi di comportamento: le scuole, le comunità
militari e persino la singolare associazione degli animali della giungla,
soggetti anch'essi ad una inderogabile legge.
Partendo da queste premesse,
Kipling sarebbe facilmente arrivato ad interiorizzare i miti di efficienza
tecnica e di progresso legati alle guerre di conquiste imperialistiche e
contemporaneamente ad esaltare la dignità e il valore della
civiltà delle macchine.