LA CRISI DEL MARXISMO
Non fu soltanto
su pensatori di mediocre levatura, come Spencer e i suoi seguaci, che la teoria
darwiniana dell'evoluzione esercitò una forte suggestione. Marx, ad
esempio, ne era rimasto fortemente impressionato e l'aveva sentita profondamente
affine al suo modo di pensare. Si era anche riproposto di dedicare a Darwin il
primo volume della sua opera maggiore, il Capitale, ma Darwin declinò
l'offerta per non aumentare la confusione nel pubblico, già disorientato
dalle furibonde polemiche seguite alla pubblicazione dell'Origine delle specie,
e per non incoraggiare interpretazioni indebitamente estensive della sua teoria.
Forse più ancora di Marx l'evoluzionismo darwiniano influenzò
Engels, l'altro grande teorico di quel movimento che Engels stesso definì
«socialismo scientifico» e che, più sbrigativamente (ma senza
dimenticare la bella battuta di Marx: - Io? non sono marxista! -), chiameremo
d'ora in poi «marxismo».
Fino al 1869 Engels aveva dovuto
occuparsi dell'azienda paterna dirigendo una fabbrica a Manchester. Era un
impegno poco gradito, che per altro gli era servito ad approfondire la
conoscenza del mondo industriale e, con i buoni redditi che ne ricavava, gli
aveva permesso di aiutare Marx, che praticamente era sempre sull'orlo della
miseria. Quando finalmente riuscì a liberarsi di questo lavoro, Engels si
stabilì a Londra per dedicarsi, a fianco di Marx, alla ricerca teorica e
alla lotta politica nell'ambito del movimento operaio internazionale. Alla morte
dell'amico, nel 1883, Engels divenne il naturale punto di riferimento dei suoi
numerosi seguaci. Curando la pubblicazione delle opere di Marx rimaste
incompiute o inedite (come il secondo e il terzo volume del Capitale, usciti
rispettivamente nel 1885 e nel 1894), interpretandone, divulgandone e
difendendone il pensiero in una lunga serie di opere, continuandone e
integrandone le teorie con elaborazioni originali, Engels finì con
imprimere profondamente il suo segno personale sul cosiddetto
«marxismo».
La prima importante opera di Engels pubblicata dopo
la morte di Marx, L'origine della famiglia, della proprietà privata e
dello Stato (1884), era fortemente condizionata da un evoluzionismo di stampo
darwiniano: si ispirava infatti alle idee dell'antropologo evoluzionista
americano Lewis Henry Morgan (1818-1881), autore di uno schema di sviluppo delle
società umane fondato sulla successione delle forme di produzione, caccia
e raccolta, agricoltura, industria. Con un evoluzionismo criticamente assai meno
controllato Engels aveva invece avuto a che fare nel 1878 quando aveva
polemizzato duramente con un tipico rappresentante della filosofia positivistica
del secondo Ottocento, Karl Eugen Dühring (1833-1921). Dühring
è uno di quei personaggi che la storia ricorda solo perché il caso
ha voluto che fossero strapazzati da qualche uomo d'ingegno. Era scientista
(«scientismo» è l'atteggiamento di chi assume la scienza
naturale a modello di ogni genere di conoscenza, senza troppo domandarsi quali
ne siano effettivamente i metodi; potremmo dire che è l'entusiasmo per la
scienza di quelli che non la praticano); era materialista ed evoluzionista e
nutriva inclinazioni anticapitalistiche; era infine antisemita e antimarxista, e
tendeva a collegare quello che giudicava il carattere aberrante delle idee di
Marx con l'origine ebraica dello stesso Marx. A parte la polemica personale,
l'Antidüring di Engels servì come prima, importante e pubblica presa
di distanza del marxismo nei confronti dell'ormai dilagante positivismo
evoluzionistico.
Ma l'opera filosofica più impegnativa di Engels, a
cui lavorò dal 1873 al 1885 e che, rimasta incompiuta, fu pubblicata solo
nel 1925, è la Dialettica della Natura, dove l'evoluzionismo darwiniano
era fortemente presente come suggestione ideologica, ma purtroppo non come
lezione di metodo scientifico. L'assunto principale dell'opera era di
«dimostrare» che le leggi della dialettica hegeliana non sono mere
leggi del pensiero, ma leggi reali, oggettive, a cui si conformerebbe l'intera
evoluzione della natura. Con ciò Engels pretendeva di mantenere il
capovolgimento marxiano della dialettica hegeliana e insieme di contrapporre il
materialismo marxista, in quanto essenzialmente «dialettico», al
materialismo metafisico o «volgare» (come lo chiamava), ossia al
materialismo meccanicistico di derivazione galileo-newtoniana, fatto proprio
(con qualche ragione, bisogna pur dire) da molti settori del positivismo. In
realtà, sforzandosi di rintracciare nella fisica, nella chimica e nella
biologia del suo tempo le fantomatiche «leggi» della dialettica,
Engels tornava a cacciarsi nei tradizionali gineprai di quelle filosofie della
natura che erano di moda negli anni della sua giovinezza; ma soprattutto
mostrava di condividere la pericolosa tendenza di tanti sedicenti
«positivisti» a spacciare come leggi scientifiche, sulla base di
analogie e di assonanze più o meno casuali, le loro fantasiose
improvvisazioni. Il grande merito di Engels resta quello di non aver portato a
termine un tale libro. Il quale, tuttavia, con la sua pubblicazione nel 1925,
fece tutto il male di cui era capace contribuendo all'affermazione (specialmente
in quella che fu l'Unione Sovietica, dove divenne la filosofia di Stato)
di quell'intruglio ideologico che Lenin prima e Stalin poi hanno chiamato
«materialismo dialettico».
Engels morì nel 1895, proprio a
metà di un decennio cruciale per la storia della cultura europea. Gli
anni Novanta videro repentinamente e contemporaneamente messe in discussione una
serie di certezze che avevano caratterizzato la seconda metà
dell'Ottocento: la fiducia nel progresso, nella scienza, nella
possibilità di eliminare prima o poi dalla vita dell'umanità
l'oppressione, la miseria, la violenza e l'ignoranza. Questa crisi di sfiducia
investì prima di tutto le correnti più sprovvedute del
positivismo, che avevano dato al generale ottimismo scientista e progressista
toni insopportabilmente sdolcinati, e che erano le principali responsabili del
senso di sazietà improvvisamente avvertito in tutti gli ambienti
intellettuali dotati di qualche vivacità. Ma il marxismo, che pure si era
vigorosamente opposto al semplicismo delle teorie positivistiche, non fu affatto
risparmiato.
Con la morte di Engels si aprì anzi ufficialmente la
«crisi del marxismo», come fu definita dai giornalisti, che
cominciavano a interessarsi a questo genere di cose e ci si sbizzarrirono, con
grande dispiacere, tra gli altri, di Antonio Labriola, uno dei migliori cervelli
dell'Università italiana, che era approdato da poco al marxismo e che
avrebbe desiderato in tutta la faccenda una maggiore riservatezza.
La crisi
era dovuta in parte alla rottura che si stava producendo sul terreno politico e
su quello teorico tra marxisti detti «ortodossi» (un termine che
annunciava la degenerazione ecclesiastica di un movimento che era iniziato come
radicale negazione di ogni autorità e di ogni dogma) e marxisti detti
«revisionisti» (che in realtà puntavano soltanto a conciliare o
integrare il marxismo con le cose più disparate: l'evoluzionismo di
Spencer, il darwinismo sociale, il movimento per la pace universale, ecc.). Ma
per la parte di gran lunga più interessante (almeno dal punto di vista
delle idee) la crisi del marxismo nasceva fuori del marxismo stesso: nasceva
cioè dalle osservazioni, spesso benevole e comunque ispirate a grande
rispetto per quegli straordinari personaggi che erano stati Marx e Engels, di un
consistente gruppo di intellettuali di valore (Benedetto Croce e Vilfredo Pareto
in Italia, Georges Sorel in Francia, ecc.) che, senza essere mai stati marxisti,
avevano imparato dal marxismo a smontare i sistemi di pensiero per svelarne le
mistificazioni e che poi avevano applicato lo stesso trattamento proprio al
marxismo.
Il risultato di questa operazione non era stato confortante per i
marxisti. C'era indubbiamente molta «ideologia» (nel senso marxiano di
«falsa coscienza» o di «mascheratura» della realtà)
nella presuntuosa autodefinizione di «socialismo scientifico». Le
opere di Marx e di Engels erano piene di intelligenza e meritavano un'attenta
considerazione da parte degli studiosi, ma a questa attenta considerazione non
giovavano né la commistione di filosofia, politica, economia,
storiografia, morale e via dicendo, che vi si rinveniva, né tanto meno
gli ambigui rapporti esistenti tra la teoria marxista e la pratica dei partiti
sedicenti marxisti.
Quella commistione e questi rapporti non deponevano a
favore del carattere scientifico del marxismo. Né era conforme a un
qualsiasi standard scientifico il linguaggio marxista, sempre polemico e carico
di immagini e di metafore, spesso indovinate, ma causa inevitabile di equivoci.
Nient'altro che una metafora era, ad esempio, la nozione di «guerra di
classe» (e metaforica era tutta la tetra terminologia bellica che ne
discendeva: «l'esercito del proletariato», «la strategia del
partito», «l'arma dello sciopero», «le avanguardie
organizzate», ecc.). La guerra, quella vera, come diceva Croce e come
avrebbe dimostrato di lì a poco la prima guerra mondiale, la fanno gli
Stati, che hanno a disposizione eserciti veri e armi micidiali, non le classi
sociali.
Come auspicio e predizione di una società senza classi il
marxismo sembrava poi rientrare perfettamente in quel socialismo utopistico da
cui aveva voluto orgogliosamente distinguersi in nome della scienza. Contro ogni
sua pretesa di scientificità, Sorel finì per parlare del marxismo
come di una forma di «poesia sociale», una definizione che di sicuro
avrebbe mandato in bestia Marx ed Engels (e forse più Engels che Marx).
Ma di quale scienza, poi, si stava parlando? I critici del marxismo non erano
affatto d'accordo su cosa si dovesse intendere per «scienza», ma erano
tutti d'accordo nel rimetterne in discussione i valori. Il problema, anzi, per
certi aspetti, era tutto qui: la crisi vera riguardava la tradizionale
concezione della scienza e questa crisi aveva coinvolto inevitabilmente tutte le
correnti di pensiero che a quella concezione erano in un modo o nell'altro
legate e che non avevano saputo liberarsene a tempo. Forse Engels aveva
percepito l'avvicinarsi della crisi quando aveva preso a scrivere la Dialettica
della Natura, ma decisamente non aveva imboccato la strada
giusta.
ANTONIO LABRIOLA
Antonio Labriola (1843-1904), era stato
allievo dell'hegeliano Bertrando Spaventa (1817-1883), nemico acerrimo e
intelligente di preti e di positivisti. Pur avendo abbandonato assai presto le
posizioni hegeliane, Labriola era rimasto molto legato al maestro, di cui in
ogni caso ereditò l'odio per i positivisti (e per i preti, naturalmente).
Ammiratore di Darwin, ma non delle confusioni tra mondo della natura e mondo
della storia che erano frequenti tra i darwinisti agli inizi degli anni Novanta
Labriola aderì al marxismo ed entrò in corrispondenza con Engels.
Il marxismo di Labriola era soprattutto una forma di stoicismo antipositivista,
e in questo senso era perfettamente in sintonia con quella sorta di «crisi
di rigetto» nei confronti del positivismo che la cultura europea
attraversò a cavallo dei due secoli. Come i suoi amici Benedetto Croce e
Georges Sorel, Labriola amava ostentare una durezza da politico
«realista», che lo fece polemizzare vivacemente con le interpretazioni
liberali e umanitarie del socialismo e che alla fine gli fece assumere posizioni
aberranti per un socialista, come l'adesione alla politica colonialista. Isolato
nell'ambito del movimento operaio italiano, Labriola lo fu anche sul piano della
polemica culturale quando, scoppiata la cosiddetta «crisi del
marxismo», si accorse che tra i suoi promotori c'erano Sorel e Croce, che
si era illuso di coinvolgere nella formulazione e nella diffusione di una
versione «dura», «realistica», antiutopistica del
marxismo.
BENEDETTO CROCE
Benedetto Croce (1866-1952), il maggiore
pensatore italiano del Novecento, si diceva «idealista» avendo
derivato da Hegel, ma molto liberamente, la concezione della realtà come
storia, sviluppo, realizzazione progressiva dei valori dello spirito. Amico e
allievo di Antonio Labriola, iniziò la sua attività di filosofo
commentando le dottrine marxiste. Nel saggio Come nacque e come morì il
marxismo teorico in Italia del 1937 Croce racconta un divertente episodio
relativo al ruolo che aveva avuto da giovane, a fianco di Antonio Labriola,
nella divulgazione del marxismo in Italia:
... Nel 1930, nel
congresso filosofico di Oxford, mi accadde di udire il bolscevico ed ex-ministro
dell'istruzione sovietico Lunaciarscki che presentò una relazione assai
sprezzante sull'«estetica borghese» (Kant non escluso e me,
nominativamente, compreso) e celebrante in cambio quella marxistica e del
proletariato; e io, levandomi a parlare dopo il discorso, (nel fargli notare che
«estetica marxistica» è contraddizione in termini ammettendo il
marxismo un'economia e non un'estetica, e che non meno prive di senso sono le
parole «poesia borghese» e «poesia proletaria») gli dissi
che il pensiero di Marx noi napoletani lo conoscevamo per filo e per segno molto
prima di lor signori rivoluzionari russi, e che io che gli parlavo ero stato
scolaro, editore e commentatore di quel Labriola che il loro Trotzskij aveva
studiato da giovane, e, col Labriola, uno dei due promotori dello studio del
Marx in Italia. Così parlando a lui, dentro di me sorridevo,
perché mi pareva di parodiare in prosa francese i due magnifici versi
della Gerusalemme:
Ma, chiunque io sia, tu innanzi vedi
un di
quei due che la gran torre accese!
Alla quale parodia il Lunaciarscki
fece un gesto tra di meraviglia e di ammirazione, e poi venne a salutarmi e a
intrattenersi bonariamente con me...
UNA, DUE, CENTO GEOMETRIE
Che qualcosa nella tradizionale concezione
della scienza non funzionasse e avesse bisogno di qualche aggiustamento stava
emergendo da tempo e proprio nell'ambiente tranquillo e un po' appartato dei
matematici e dei logici, considerati da sempre depositari delle uniche certezze
indefettibili di cui fosse capace la mente umana e custodi di quelle scienze
esatte che sin dall'antichità avevano rappresentato il modello, quasi
sempre ineguagliabile, di tutte le altre discipline scientifiche. In particolare
gli Elementi della geometria di Euclide avevano incarnato per oltre due millenni
l'ideale formale di una scienza costruita per via di pura deduzione da premesse
assolutamente certe, assiomi, che sono gli enunciati che non hanno bisogno di
essere dimostrati perché di per sé evidenti, o postulati, che non
sono evidenti di per sé, ma che devono essere assunti come veri
perché necessariamente legati ad altri enunciati che sappiamo essere
veri. A questo ideale si era ispirato, tra gli altri, Spinoza, che aveva voluto
more geometrico demonstrata la sua Etica.
Che cosa sarebbe accaduto della
geometria di Euclide se qualcuno avesse posto in dubbio la validità di
qualcuna delle sue premesse? Il problema fu affrontato tra la fine del XVIII e
gli inizi del XIX secolo da tre matematici, dal tedesco Carl Friedrich Gauss
(1777-1855), dal russo Nicolaj Ivanovic Lobacevskij (1792-1856) e dall'ungherese
Jànos Bòlyai (1802-1860) ai quali non sembrava per nulla evidente
il quinto postulato di Euclide, detto «delle parallele», che
può essere enunciato in questa forma: «dati in un piano una retta e
un punto fuori di essa esiste una sola parallela alla retta che passa per il
punto».
Prima di loro altri matematici avevano messo in dubbio che il
quinto postulato potesse essere considerato davvero tale, messi sull'avviso
anche dal fatto che negli Elementi, mentre gli altri quattro postulati erano
collocati all'inizio, questo si trovava molto più avanti, quasi che lo
stesso Euclide avesse avuto dei dubbi in proposito. L'italiano Giovanni Gerolamo
Saccheri (1667-1733), un gesuita, cercando di darne una dimostrazione per
assurdo (ossia cercando di dimostrare l'assurdità delle proposizioni che
lo contraddicono), aveva in effetti trovato una serie di enunciati che
considerò falsi per fedeltà ad Euclide, ma che non erano per nulla
assurdi e che avrebbero poi trovato posto nelle geometrie non-euclidee di
Lobacevskij e di Riemann.
Lobacevskij e Bòlyai partirono
dall'ipotesi che non si trattasse di un postulato, ma di un teorema da
dimostrare; e cercarono di dimostrarlo. Si accorsero quasi subito che esso era
valido solo in relazione a certe premesse, quelle appunto della geometria
euclidea, ma non era più vero se si accettavano premesse diverse. Se per
esempio si immaginava che il piano fosse una superficie sferica e che una retta
fosse una circonferenza massima si poteva concludere che per un punto fuori
della circonferenza considerata non poteva passare nessuna altra circonferenza
massima che toccasse in un solo punto la circonferenza. Infatti due
circonferenze massime si incontrano in due punti. Cadendo questo postulato tutta
la geometria euclidea cambiava faccia, o, per meglio dire, era possibile
costruire una nuova geometria che era perfettamente coerente con le premesse, ma
dove ad esempio la somma degli angoli interni di un triangolo non era più
uguale a 180 gradi. Anche il tedesco Bernhard Riemann (1826-1866) costruì
una sua geometria partendo dal postulato che per un punto non è possibile
condurre alcuna retta parallela ad una retta data.
Che cosa significava
tutto ciò e quali conseguenze bisognava trarre dal sorprendente
moltiplicarsi delle geometrie possibili? Una conseguenza era che anche le
caratteristiche dello spazio dipendono dalle premesse su cui poggiano le
geometrie. La concezione dello spazio quale risultava dalla geometria di
Riemann, ad esempio, avrebbe trovato applicazione qualche decennio più
tardi nella teoria generale della relatività di Einstein. Questo voleva
anche dire che lo spazio non esiste di per sé, ma è solo qualcosa
che soddisfa certe proprietà. Stando così le cose, però,
dove andava a finire lo spazio assoluto di Newton, che Newton considerava come
il sensorio di Dio? E che ne era dello spazio di Kant, forma a priori della
sensibilità?
Anche l'idea che gli «oggetti» della
matematica siano solo numeri, grandezze, figure doveva venire a cadere. Il
matematico irlandese George Boole (1815-1864) aveva affermato che la matematica
studia le operazioni in se stesse, indipendentemente dagli oggetti a cui possono
essere applicate. La matematica sarebbe dunque «una pura teoria delle
forme» e i suoi oggetti «oggetti del pensiero». Non importa tanto
di che cosa stiamo parlando, quanto di come ne parliamo. Consapevole
dell'applicabilità delle nozioni e dei metodi algebrici a oggetti diversi
dagli enti matematici, aveva fondato una «algebra della logica»,
immediato antecedente della moderna logica simbolica, nella quale termini
algebrici come +, x, ', =, ecc. servivano per esprimere operazioni e relazioni
logiche, con il vantaggio di evitare le ambiguità e le improprietà
del linguaggio comune, e di poter trattare un materiale complesso con assoluta
precisione formale come in un vero e proprio «calcolo logico». Dopo
Boole, il tedesco Gottlob Frege (1848-1925) e l'italiano Giuseppe Peano
(1858-1932) hanno tentato di ridurre i concetti-base dell'aritmetica, come per
esempio il concetto di numero, a concetti puri della logica, come per esempio il
concetto di classe. Questi tentativi sboccarono infine, nel 1912, nei Principia
mathematica di Bertrand Russell (1872-1970) e Alfred North Whitehead
(1861-1947), che rappresentano l'opera fondamentale e più matura del
«logicismo», come viene chiamata questo programma di integrale
logicizzazione della matematica.
Nell'ultimo decennio dell'Ottocento, il
matematico tedesco Georg Cantor (1845-1918), il creatore della teoria degli
insiemi, scriveva che
... le nozioni della matematica sono legate fra
di loro solo dalla necessità di non essere in contraddizione e di essere
coordinate ai concetti precedentemente introdotti mediante precise
definizioni...
Per il resto, aggiungeva, il matematico può
procedere «in completa libertà». Questo punto di vista doveva
affermarsi in ogni campo della matematica, dall'aritmetica all'analisi,
all'algebra, alla geometria stessa. Nel 1900, nei suoi Fondamenti della
geometria il matematico tedesco David Hilbert (1862-1943) parlava dei
tradizionali oggetti geometrici, di cui aveva già parlato Euclide, ossia
di punti, rette, piani che sono tra di loro in certe relazioni fondamentali,
espresse dagli assiomi. Ma quello che conta, diceva, non sono gli oggetti, sono
le relazioni che gli assiomi esprimono:
... Se voglio intendere un
qualsiasi sistema di oggetti, per esempio il sistema: amore, legge,
spazzacamino, - scriveva nel 1899 - [...] basterà che pensi che i miei
assiomi esprimono relazioni fra questi oggetti, purché tali asserti
valgano anche per questi oggetti...
Si possono cioè
legittimamente chiamare «punti», «rette» e «piani»
tutti i possibili enti fra i quali viga un sistema di relazioni uguale a quello
descritto dagli assiomi. In ultima analisi, la verità o la falsità
degli asserti matematici dipende dalla interpretazione che diamo dei termini
matematici in un dato sistema di oggetti. In generale, si possono dare infinite
interpretazioni, perché, come scrive Hilbert «ogni teoria può
essere applicata a infiniti sistemi di oggetti». Naturalmente, data una
certa teoria matematica, ci interesseranno quei sistemi di oggetti rispetto ai
quali, con un'opportuna interpretazione, risultano veri gli asserti della
teoria. La verità di una proposizione matematica (o, di una intera teoria
matematica) si riporta, allora, alla ricerca (e allo studio) di sistemi di
oggetti in cui tale proposizione (o tale teoria) risulti vera.
In rapporto
alla geometria, Einstein ha riassunto così il significato di
«verità matematica»:
... La geometria prende l'avvio
da alcuni concetti fondamentali, come «piano», «punto»,
«retta», ai quali siamo in grado di associare delle rappresentazioni
più o meno precise, e da alcune proposizioni semplici (assiomi) che, in
virtù di queste rappresentazioni, siamo inclini ad accettare come
«vere». In base ad un procedimento logico di cui ci sentiamo costretti
ad ammettere la legittimità, tutte le rimanenti proposizioni vengono poi
ricondotte a questi assiomi, cioè vengono dimostrate. Una proposizione
risulterà dunque corretta («vera») quando è stata
derivata dagli assiomi nella maniera ammessa come legittima.
Il problema
della «verità» delle singole proposizioni geometriche viene
così ricondotta al problema della «verità» degli
assiomi. Orbene, è da tempo noto che a quest'ultimo problema non soltanto
non si può dare una risposta con i metodi della geometria, ma che esso
è in sé assolutamente privo di significato. Non possiamo chiedere
se sia vero che per due punti passa soltanto un'unica retta. Possiamo solamente
dire che la geometria euclidea tratta di oggetti da essa chiamati
«rette», attribuendo a ciascuna di queste rette la proprietà di
essere univocamente determinata da due suoi punti.
Il concetto di
«vero» non si addice alle asserzioni della geometria pura,
perché con la parola «vero» noi abbiamo in definitiva
l'abitudine di designare sempre la corrispondenza con un oggetto
«reale»; la geometria invece non si occupa della relazione fra i
concetti da essi presi in esame e gli oggetti dell'esperienza, ma soltanto della
connessione logica di tali concetti l'uno con l'altro...
LOGICA, LOGISTICA, LOGICISMO
Come sappiamo la logica, anche quella detta
«tradizionale» che riconosce il suo fondatore in Aristotele, si
è sempre occupata della struttura delle proposizioni e dei ragionamenti,
ossia della loro forma e non dei loro contenuti concreti. In questo senso la
logica è sempre «logica formale». La logica moderna,
però, si distingue dalla logica tradizionale per un più accentuato
processo di formalizzazione che: 1) ha portato all'abbandono del linguaggio
ordinario, fonte di ambiguità e di errori, e all'adozione di un
linguaggio costituito da un insieme esattamente definito di simboli e di regole
per la formazione di enunciati (per questo la logica moderna si dice
«simbolica»); 2) ha fatto emergere la convergenza (o l'identità
come è stato sostenuto, per esempio, da Gottlob Frege e da Bertrand
Russell) di logica e matematica (si parla per questo di «logica
matematica»).
Il termine «logistica», che in antico indicava
l'aritmetica, ossia l'arte del calcolare, dagli inizi del Novecento è
usato o come generico sinonimo di logica simbolica o matematica, oppure, in modo
specifico, per indicare il programma di Frege e di Russell di riduzione di tutta
la matematica a logica: in questo secondo significato, però, è
meglio usare il termine «logicismo».
Nel suo tentativo di
«logicizzazione» della matematica Frege si è scontrato con la
tendenza (rappresentata tra l'altro da Franz Brentano, uno dei maestri di
Husserl) a ridurre la logica e la matematica a fenomeni soggettivi della
coscienza, e quindi a interpretare il significato dei concetti logici e
matematici in funzione della loro genesi nella mente umana
(«psicologismo»). Un asserto logico e una proposizione matematica,
osservava in proposito Frege, non cessano di essere veri quando non pensiamo
più ad essi, allo stesso modo in cui il Sole non cessa di esistere quando
chiudiamo gli occhi. L'atto con cui pensiamo una nozione logica è cosa
affatto diversa da questa nozione, così come l'atto del vedere il Sole
è un'altra cosa rispetto al Sole. Secondo Frege la logica si occupa di
oggetti ideali e dei rapporti che intercorrono tra di loro, e questi oggetti (e
i loro rapporti) esistono per proprio conto, indipendentemente dal fatto che ce
ne occupiamo.
A parte la polemica con lo psicologismo, il
«logicismo» di Frege e di Russell ha incontrato notevoli resistenze
sia tra i logici sia tra i matematici. Esso - ha scritto Russell -
«è avversato dai logici che, avendo dedicato il loro tempo allo
studio dei testi classici, sono incapaci di seguire anche un solo frammento di
ragionamento simbolico, e dai matematici che hanno imparato una tecnica senza
preoccuparsi di indagare il suo significato e la sua giustificazione». In
realtà queste resistenze esprimevano, più che un disagio di
carattere «tecnico», un dissenso di principio. Nel programma logicista
c'era la presunzione di fondare la matematica su un nucleo di verità
assolute ed eterne, quale si immaginava che fossero i principi della logica. Ma,
obiettavano i convenzionalisti, queste idee assolute ed eterne non si sa dove
siano e che cosa siano e a forza di fondare qualcosa su qualcosa di diverso si
deve pur finire in qualcosa che non è fondato su niente, ma che è
semplicemente «postulato per convenzione».
Anche Russell
sosteneva che gli enti logici e matematici esistono realmente al pari degli
oggetti fisici: le proposizioni della logica e dell'aritmetica - diceva con un
pizzico di paradosso - debbono essere scoperte allo stesso modo in cui Colombo
scoprì le Indie occidentali. In seguito Russell ha corretto le sue
posizioni in materia, ma non ha mai abbandonato la tesi secondo cui le
proposizioni della logica e della matematica si riferiscono a qualcosa che
è del mondo e che pertanto non possono essere considerate (come fa invece
il convenzionalismo) creazioni arbitrarie della mente umana.
DUE PIÙ DUE FA SEMPRE QUATTRO?
«È vero come è vero che
2 + 2 fa 4!»: lo diciamo abitualmente quando vogliamo affermare la
verità indubitabile di qualche cosa. Questo modo di dire riposa sulla
convinzione che le asserzioni della matematica siano assolutamente vere, ieri
come oggi e come tra mille anni, sulla Terra come sulla Luna, in tutti i casi e
in tutte le situazioni possibili. Ma quanto è giustificata questa
opinione?
Per sgombrare la mente dai pregiudizi e aprirci la strada verso
la comprensione di che cosa significhi «verità» in matematica,
facciamo un esempio molto semplice. Qualcuno ci propone un'escursione: dovremo
cenare fra tre ore, andare a letto fra cinque e partire fra undici. Guardiamo
l'orologio: sono le 14 del pomeriggio. Ceneremo dunque alle 7, e andremo a letto
alle 9. Per saperlo è bastato fare le addizioni 4 + 3 = 7 e 4 + 5 = 9. Ma
a che ora partiremo? Se fra 5 ore la lancetta dell'orologio segnerà le 9,
fra 6 ore segnerà le 10, fra 7 le 11, fra 8 le 12, fra 9 l'una di notte,
fra 10 le 2, fra 11 le 3. Partiremo alle tre. Abbiamo aggiunto 11 a 4 e abbiamo
ottenuto 3: per l'aritmetica dell'orologio 4 + 11 = 3. Non è
un'aritmetica strana: ciascuno di noi la adopera in continuazione.
Possiamo
ottenere 11 + 4 = 3 togliendo 12 (il numero più alto che compare sul
quadrante dell'orologio) dalla somma ottenuta con l'aritmetica
normale:
4 + 11 = 15; 15 - 12 = 3.
Si può allora
costruire una tabella di addizione che deve essere usata come si usa la tavola
pitagorica (vedi fig.) per fare le moltiplicazioni: per esempio 5 + 9 =
2.
Tabella di addizione
Come si vede qualsiasi numero sommato a 12 dà se stesso. Il 12 in questa aritmetica ha perciò
delle proprietà analoghe a quelle dello 0 dell'aritmetica normale. La
mezzanotte infatti può essere pensata o come le ore 12 della sera o come
le ore 0 del mattino.
Qualcuno potrebbe obiettare a questo punto che
l'aritmetica dell'orologio è in fin dei conti una costruzione artificiale
dell'uomo, e che i suoi risultati erano per così dire scontati fin dal
principio, fin da quando cioè si è deciso di utilizzare solo
dodici numeri e di ricominciare daccapo il conto ogni dodici ore. L'osservazione
è giustissima. Quello di cui tuttavia dobbiamo renderci conto è
che anche l'aritmetica normale, e qualsiasi altro ramo della matematica, sono
costruzioni artificiali, e che i loro risultati sono condizionati dai numeri
dagli enti e dalle regole fondamentali che si è deciso di adottare. Per
esempio: è sempre possibile eseguire la divisione di due numeri? Se per
«numeri» si intendono i numeri interi 1, 2, 3, 4, ..., la risposta
è no: se non vogliamo tagliare nessuno in due non possiamo dividere un
gruppo di 5 persone in due gruppi uguali. Se però per «numeri»
si intendono oltre gli interi, i frazionari, la risposta è sì:
è perfettamente possibile dividere 5 kg di farina in due parti uguali,
ognuna di due chili e mezzo.
Ma allora è vero o no che 5 è
divisibile per 2? Dovrebbe ormai essere chiaro che la domanda ha un senso solo
se specifichiamo l'insieme dei numeri che prendiamo in considerazione e che la
divisibilità di 5 per 2 è relativa all'insieme scelto. Resta da
vedere se ci sia e quale sia il «vero» insieme dei numeri, cioè
quali enti abbiano il pieno diritto di chiamarsi numeri. In realtà non
c'è un «vero» insieme di numeri, o meglio tutti gli insiemi di
numeri che possiamo pensare di usare sono ugualmente veri, e pertanto tutte le
aritmetiche hanno pari dignità. Siamo così giunti a intendere la
natura delle scienze matematiche in generale.
Una qualsiasi branca della
matematica si fonda su un certo numero di concetti-base e di postulati o di
assiomi, che esprimono proprietà e relazioni fondamentali tra i
concetti-base: concetti base e postulati vengono assunti per convenzione. Da
questa base convenzionale attraverso le regole della logica si deducono altre
asserzioni, chiamate teoremi. Un teorema è corretto se è stato
dedotto senza errori logici dai postulati fondamentali. Attraverso lunghe serie
di teoremi si possono ottenere gigantesche costruzioni, perfettamente coerenti e
dal rigore impeccabile. In questo senso è corretto parlare delle
matematiche come di scienze esatte, nel senso che in esse ogni asserzione
discende necessariamente dai postulati scelti. Ma è chiaro che non ha
senso dire che queste asserzioni sono vere: il loro grado di verità
è lo stesso dei postulati da cui derivano, ed essi in matematica pura non
sono né veri né falsi, ma scelti ad arbitrio.
Trasferendoci
dal dominio della matematica «pura» a quelli delle matematiche
applicate, della fisica, ecc., possiamo però chiederci legittimamente
quanto i postulati siano in accordo con le caratteristiche degli oggetti
realmente esistenti in natura e di cui intendiamo occuparci. Si tratterà
allora di scegliere per ogni singolo problema la matematica più
conveniente, quella cioè che rispecchia maggiormente le condizioni della
situazione sotto indagine: così, per sommare le ore si userà
l'aritmetica finita a 12 numeri, per suddividere gruppi di individualità
indivisibili (come le persone) l'aritmetica dei numeri interi; per dividere
quantità suddivisibili quanto si vuole l'aritmetica dei numeri razionali.
E ancora: per misurare l'estensione di un terreno la geometria euclidea; per
studiare le proprietà geometriche dell'universo una geometria
spazio-temporale a 4 dimensioni, e così via.
Storicamente, le basi
assiomatiche dei vari rami della matematica sono state scelte in genere proprio
in modo che corrispondessero il più strettamente possibile alle
proprietà reali delle cose. Che però una corrispondenza assoluta
sia impossibile lo possiamo capire per esempio, dal confronto tra il
«punto» geometrico (senza dimensioni in nessuna direzione) e i
«punti» che possiamo disegnare sulla lavagna o sul quaderno, che sono
in realtà sempre macchioline più o meno grosse di dimensioni
più o meno grandi. Possiamo concludere con le parole di
Einstein:
... Fino a quando le leggi della matematica si riferiscono
alla realtà esse non sono certe; e fino a quando esse sono certe, non si
riferiscono alla realtà...
L'AUTOCRITICA DELLA SCIENZA
Mentre i positivisti si crogiolavano al
fuoco delle loro «scientifiche» certezze, dalla matematica arrivavano
una serie di sconcertanti messaggi: non esiste una sola aritmetica o una sola
geometria; non c'è neppure una aritmetica o una geometria
«più vera» delle altre; perfino lo spazio non è
più quello di sempre e non è più uno solo. In una parola:
la verità non esiste, o, se esiste, non è quella che ci si
immaginava, perché non è più possibile parlare di un'unica
verità.
Per parecchio tempo quasi nessuno si accorse di nulla e solo
alla fine del secolo con l'affacciarsi di correnti apertamente convenzionaliste
la cosa divenne di pubblico dominio. L'idea però era matura da tempo.
Hans Vaihinger (1852-1933), per esempio, che avrebbe pubblicato la sua opera
più importante, La filosofia del Come-Se, solo nel 1911, e cioè
quando aveva quasi sessant'anni, ne aveva steso una prima redazione negli anni
Settanta, quando ne aveva a mala pena venticinque. Più che
«convenzionalismo» nel caso di Vaihinger si dovrebbe parlare di
«finzionismo» (ma lui definiva la sua filosofia come «positivismo
critico» o «positivismo idealistico» o «idealismo
positivo», con un singolare e significativo attaccamento alla nozione di
«positività»). Le scienze, sosteneva Vaihinger (e non solo
quelle matematiche, ma anche, e soprattutto, quelle naturali e sociali), operano
sulla base di assunti indimostrabili per definizione, con nozioni
approssimative, inadeguate, frutto di immaginazione, spesso contraddittorie. E
tuttavia le teorie scientifiche ci permettono di orientarci nella realtà
e di padroneggiarla. D'altra parte questa cosiddetta «realtà»
non è che una massa di rappresentazioni; non ha dunque senso parlare
delle teorie scientifiche come di teorie «vere», ossia conformi alla
realtà. Ma ne avrebbe ancora meno parlarne come di costruzioni false o
inutili. Le teorie scientifiche sono piuttosto delle finzioni, per altro
utilissime, che adoperiamo come se fossero vere: quanto più siamo
consapevoli di questo loro carattere tanto maggiore è il profitto che
possiamo sperare di trarne.
Vaihinger era uno studioso di Kant, direttore
di una rivista interamente dedicata a lui e fondatore di un'associazione di
studi kantiani. Di formazione kantiana (aveva letto Kant a quindici anni e ne
aveva ricevuto «un'impressione incancellabile») era anche lo
scienziato austriaco Ernst Mach (1838-1916), autore di interessanti studi nel
campo della meccanica, della termodinamica, dell'elettrologia, ma soprattutto
epistemologo (ossia filosofo della scienza) e storico della scienza (la sua
opera maggiore in questo campo è la Storia critica della meccanica del
1883).
Anche Mach cercando di definire in che cosa potesse consistere la
«verità» delle teorie e delle leggi scientifiche indicava la
loro capacità di organizzare nel modo più economico possibile la
massa dei dati sensibili, e cioè in sostanza nella loro utilità
come strumenti di azione. Ad analoghe conclusioni, ma prima e indipendentemente
da Mach, era arrivato il tedesco Richard Avenarius (1843-1896), autore di una
grande Critica dell'esperienza pura, da cui il nome di
«empiriocriticismo» da lui stesso attribuito al proprio indirizzo di
pensiero (poi esteso a quello di Mach). La Critica di Avenarius fu pubblicata
tra il 1888 e il 1890, ma era stata preceduta da una serie di scritti risalenti,
ancora una volta, agli anni Settanta, che ne anticipavano i contenuti più
importanti, e in primo luogo il cosiddetto «principio del minimo
sforzo»: la conoscenza (diceva in sostanza Avenarius) e in particolare la
conoscenza scientifica tende a organizzare i dati dell'esperienza nel modo
più semplice possibile, descrivendoli e classificandoli in base al minor
numero possibile di segni e di regole convenzionali.
Il massimo
rappresentante del convenzionalismo fu il francese Jules-Henri Poincaré
(1854-1912). Matematico, fisico, astronomo, non aveva ancora trent'anni e
già occupava una cattedra prestigiosa alla Sorbona, l'università
di Parigi. Oltre che filosofo della scienza, è stato uno dei più
eminenti scienziati del suo tempo. Ha contribuito al rinnovamento della fisica
con numerosi lavori, specialmente nel campo dell'elettrodinamica, arrivando tra
l'altro a formulare una teoria del tutto analoga a quella della
relatività di Einstein. I positivisti gli rimproveravano di «mettere
in dubbio la validità della scienza», ma nessuno poteva mettere in
dubbio il suo impegno scientifico e nessuno era più «positivo»
di lui. La sua riflessione epistemologica è stata definita una sorta di
autocritica della scienza, e in verità essa nasceva (come del resto in
Mach) dalla pratica effettiva e militante della ricerca.
Secondo Mach
la sola realtà di cui si possa parlare è l'esperienza
«pura», definita come flusso ininterrotto di sensazioni: un'arancia
è la somma delle sensazioni che ne abbiamo (il profumo, il colore, la
particolare sensazione tattile che abbiamo toccandola, ecc.) e basta. Nel flusso
continuo dell'esperienza isoliamo diversi complessi di sensazioni o oggetti
(distinguiamo, per esempio, l'arancia dal tavolo su cui è posata) e
usiamo le parole come nomi o etichette per contrassegnarli.
Questa
divisione del flusso dell'esperienza è utile per orientarsi in esso e per
dominarne il corso, ma è una manipolazione arbitraria: ha dunque un
carattere esclusivamente pratico-utilitario o, come si esprime Mach,
«economico», teso cioè a risparmiarci lavoro nelle
attività legate alla sopravvivenza.
IPOTESI
«Ipotesi» (dal greco hypò
= «sotto» e thésis = «tesio, posizione) corrisponde a
«supposizione», ossia a proposizione formulata in via di tentativo per
spiegare un insieme di fatti di cui non si ha perfetta conoscenza. Il
significato fondamentale del termine ipotesi fu stabilito da Platone, secondo il
quale ogni argomentazione deve partire da certe proposizioni iniziali, le
ipotesi appunto, da cui si deducono tutte le possibili conseguenze: sulla base
di queste, infine, si accetta o si scarta l'ipotesi di partenza. Il termine
ipotesi ha trovato la sua massima diffusione nell'epistemologia contemporanea in
cui indica una proposizione formulata per spiegare un certo insieme di fatti
d'esperienza.
Le posizioni degli epistemologi moderni circa la natura
dell'ipotesi possono essere ricondotte a due principali. La prima, che fa capo a
Mach, Poincaré e in genere a posizioni convenzionalistiche, sostiene che
l'ipotesi è soltanto uno strumento utile per mettere ordine nella nostra
esperienza. In quanto strumento l'ipotesi non può dirsi né vera
né falsa, ma soltanto utile o inutile, per cui la scelta tra due ipotesi
deve essere compiuta sulla base della loro maggiore o minore semplicità o
economicità. Quanto più un'ipotesi è semplice e quanti meno
elementi sono richiesti per la sua formulazione, tanto più essa risulta
comoda, maneggevole, utilizzabile. Così, ad esempio, la teoria di
Copernico era preferibile a quella di Tolomeo non perché fosse più
vera, ma perché risultava decisamente più elegante (meno
complicata) e rendeva più facili i calcoli astronomici. La seconda
tendenza fa capo a Peirce e a Popper, per i quali l'ipotesi è una
proposizione che può essere vera, anche se non possiamo stabilirne
effettivamente la verità (altrimenti non saremmo più in presenza
di una semplice ipotesi): il criterio di scelta tra due ipotesi diverse non
è dunque la comodità o l'eleganza, ma «il grado di
verità» che esse presentano.
Quelle che Vaihinger chiamava
«finzioni» non sono pienamente assimilabili alle ipotesi di Mach o di
Poincaré: «la finzione - scriveva lo stesso Vaihinger - non è
che una costruzione utile, un'approssimazione indiretta, una piattaforma di cui
si deve prevedere la demolizione; l'ipotesi, invece, si costruisce in vista di
una sua conferma. [...] Ciò che è insostenibile come ipotesi
può rendere eccellenti servizi come finzione». Ma Vaihinger ci
teneva soprattutto a distinguersi dal pragmatismo, specialmente quello alla
James, che riduceva il vero all'utile. Una finzione, diceva Vaihinger,
può risultare utilissima, ma non cessa per questo di essere una finzione,
cioè una non-verità.
EPISTEMOLOGIA
Dal greco epistème =
«scienza», significa genericamente «filosofia della
scienza». Il termine però necessita di qualche spiegazione,
soprattutto in relazione a «gnoseologia» o teoria della conoscenza.
Poiché anche la conoscenza scientifica è conoscenza
l'epistemologia può essere considerata come una branca della gnoseologia.
In inglese, anzi, il termine epistemologia è usato spesso come sinonimo
di teoria della conoscenza. La scienza contemporanea ha raggiunto però un
grado tale di sviluppo da apparire come un'attività dotata di una propria
fisionomia irriducibile a qualsiasi altra attività, compresa
l'attività conoscitiva in generale. Uno dei compiti principali
dell'epistemologia diventa allora quello di mettere in luce ciò che
distingue la scienza in senso stretto dalla conoscenza comune, di mettere in
luce, cioè, quelle tecniche e quei problemi che sono specifici
dell'indagine scientifica e che, pur trovando addentellati nella conoscenza
comune, soltanto nella scienza giungono ad uno sviluppo e una
sistematicità tali da diventare oggetto di ricerca autonoma.
L'epistemologia, insomma, è l'analisi critica dei principi, dei
procedimenti logici e dei risultati della scienza.
EINSTEIN E POINCARÈ
Tutti sanno che nel 1905 Einstein
fondò la teoria della relatività. Non tutti sanno però che
una teoria sostanzialmente uguale fu presentata, contemporaneamente, da Henri
Poincaré. In quel momento Einstein era un oscuro impiegato dell'ufficio
brevetti di Berna, mentre Poincaré era uno dei più famosi
matematici e filosofi del mondo. Per di più Poincaré era uno
scrittore elegante e un abile divulgatore noto e apprezzato da un largo pubblico
di persone colte. Eppure la risonanza dell'articolo di Einstein Zur
Elektrodynamik der bewegter Körper fu immensamente maggiore di quella dei
lavori di Poincaré.
Il fatto è che Einstein presentava
un'analisi profonda del significato del tempo e dello spazio in un mondo in cui
l'informazione viene scambiata alla velocità della luce; mentre a
Poincaré, convenzionalista, tutto questo interessava meno; ciò che
contava per lui era prima di tutto la struttura matematica della teorie.
È dunque per il suo interesse filosofico che la teoria di Einstein
affascinò i fisici. Bisogna pur ricordare, comunque, che anche
Poincaré ha formulato, indipendentemente da Einstein, il principio di
relatività (oggi la teoria di Poincaré, più raffinata
matematicamente, è largamente apprezzata). E forse non è male
ammettere che nel successo di Einstein abbia pesato un po' anche lo sciovinismo:
Einstein scriveva sugli «Annalen der Physik», e per i dotti tedeschi,
che allora controllavano il mercato scientifico, gli «Annalen» erano
pur sempre gli «Annalen», il vertice, il massimo, il meglio del
meglio, l'incomparabile. E Poincaré, in fondo, non era che un
francese.
IL PRAGMATISMO AMERICANO
Il fondatore dell'indirizzo filosofico del
pragmatismo è considerato Charles Sanders Peirce (1839-1914) uno dei
filosofi americani in assoluto più interessanti. Poco conosciuto e poco
apprezzato in vita, i suoi lavori principali sono stati pubblicati dopo la
morte. La tesi più originale di Peirce era che la comprensione di
un'affermazione equivale alla comprensione e alla previsione dei suoi effetti e
delle sue conseguenze pratiche. Se per esempio diciamo che il diamante è
«duro» vogliamo dire che il diamante non può essere facilmente
scalfito da altre sostanze; se diciamo che un vetro è fragile, vogliamo
dire che potrebbe rompersi con facilità. Il significato di
un'affermazione è perciò identico ai suoi prevedibili effetti
pratici. Questa tesi rappresentava una notevole correzione della teoria classica
della verità come corrispondenza delle idee con le cose e si avvicinava
molto alle idee del convenzionalismo di Mach e Poincaré e del finzionismo
di Vaihinger: la «verità» di un'affermazione può essere
accertata solo mediante i risultati pratici ed empirici cui essa conduce.
L'originalità di Peirce consisteva però nel ritenere identici, e
non separabili, il significato di un'affermazione e le sue conseguenze pratiche,
giungendo a concepire la verità come risultato del controllo sperimentale
di queste conseguenze.
Un altro elemento di notevole interesse nel pensiero
di Peirce è l'aver colto un carattere della conoscenza scientifica di cui
soltanto nel nostro secolo la filosofia della scienza (soprattutto con Karl
Raimund Popper) ha compreso l'importanza, e cioè il
«fallibilismo» di ogni nostra conoscenza, il fatto che in ogni nostra
conoscenza si insinua sempre un errore. Il metodo scientifico, secondo Peirce,
è tale perché riconoscendo la possibilità dell'errore, ha
la capacità di autocorreggersi; la scienza, anzi, che non può mai
giungere ad una presunta «verità» definitiva, non è in
sostanza che una certa tecnica per la scoperta dell'errore e per la sua
correzione.
Peirce diceva che il valore di una proposizione sta negli
effetti pratici dell'esperienza sensibile e si riferiva in particolare
all'esperienza scientifica, di laboratorio. Il suo compatriota William James
(1842-1910) diceva la stessa cosa, ma riferendosi all'esperienza interiore e
alla fede. E poiché in quegli anni l'esperienza interiore e la fede erano
molto popolari tra quanti (ed erano la maggioranza) trovavano nella dimostrata
inconsistenza dello scientismo positivistico un buon motivo per non attenersi
più alle risultanze positive della scienza, James dopo la pubblicazione
nel 1902 di Le varietà dell'esperienza religiosa e nel 1907 di
Pragmatismo divenne un filosofo alla moda: un po' come Bergson, che infatti
trovava «affascinante» la filosofia di James, mentre James giudicava
«divina» quella di Bergson.
Poiché secondo James la vera
natura dell'uomo sta nell'agire, la funzione del pensiero è quella di
rendere possibile l'azione, di non ostacolarla. Nel caso in cui non sia
possibile dimostrare né che una convinzione o «credenza»
è vera, né che è falsa, sarebbe assurdo seguire il
principio scettico secondo cui dovremmo sospendere il giudizio e «mettere
un catenaccio» al nostro cuore in attesa che il nostro intelletto abbia
prodotto prove sufficienti a favore o contro: se la credenza in questione
è sentita come decisiva per la vita dell'individuo, l'uomo può
assumersi il rischio di credere. James, anzi, giungeva ad asserire che la fede
in una affermazione può portare alla sua realizzazione o verifica:
può, per esempio, capitare che il credere che una persona ci sia amica,
ci induca ad assumere nei suoi confronti un atteggiamento di simpatia, di
disponibilità, ecc. che alla fine può davvero conquistarci la sua
amicizia.
Il più noto dei pragmatisti americani è il
più giovane dei tre, John Dewey (1859-1952). Dewey accettava
dall'empirismo classico l'idea che ogni nostra conoscenza sia legata
all'esperienza, in cui riposa il criterio della verità o falsità.
Dewey rifiutava però il concetto di esperienza che aveva l'empirismo
sei-settecentesco, che la identificava con una somma di sensazioni isolate (come
nell'atomismo psichico di Locke) e che, cosa ancora più importante,
presupponeva l'opposizione tra la natura, che è oggetto d'esperienza, e
l'uomo, che è il soggetto che ne fa esperienza. L'empirismo classico
aveva insomma concepito il soggetto come sostanzialmente passivo, sottoposto
alle «impressioni» prodotte in lui dalla realtà esterna. Dewey,
al contrario, (con qualche analogia con quanto aveva affermato Marx in polemica
con il vecchio materialismo) intendeva l'esperienza come un processo attivo in
cui non è possibile separare l'uomo dalla natura, il soggetto
dall'oggetto. Caratteristica dell'uomo è sì la
spiritualità, ma questa spiritualità (o intelligenza) non esclude
le radici biologiche: ne è piuttosto la continuazione.
Ogni ricerca
o indagine prende l'avvio, secondo Dewey, da una situazione di precarietà
e instabilità dell'ambiente che circonda l'uomo. In altre parole,
è il rischio rappresentato dall'instabilità e dalla
precarietà in cui l'uomo vive, che stimola l'intelligenza a cercare nuovi
mezzi per introdurre nel mondo ordine e razionalità. L'intelligenza
è per Dewey la capacità di trarre dalle cose i loro significati. E
i «significati» delle cose sono per Dewey quei metodi o strumenti che
consentono di spingere nel futuro lo sguardo dell'uomo e di trarne vantaggio:
mentre l'animale considera le cose nella loro esistenza immediata (per cui il
fuoco è soltanto qualcosa da fuggire perché brucia), l'uomo le
considera nelle loro conseguenze possibili, immaginando certi effetti futuri
(per cui il fuoco può essere pensato come strumento per cuocere, per
illuminare, ecc.). Dewey diede alla propria concezione il nome di strumentalismo
proprio nel senso che i nostri concetti, le nostre idee, le stesse teorie
scientifiche sono strumenti di cui ci serviamo per organizzare e migliorare la
nostra esistenza. Se questi strumenti hanno successo sono veri, se falliscono
sono falsi.
Benché il mondo sia dominato dall'instabilità,
Dewey era fiducioso circa la capacità dell'intelligenza umana di
introdurvi elementi di razionalità. Alcuni hanno visto in questo
ottimismo di Dewey un elemento di affinità con quelle dottrine del
positivismo evoluzionistico che non avevano dubbi circa il carattere
inarrestabile del progresso verso forme sempre più alte e complesse di
vita. Altri, invece, hanno parlato di un «nuovo illuminismo», dotato
di una coscienza critica sicuramente più agguerrita del vecchio
illuminismo settecentesco e perciò lontanissimo dal generico (e spesso
ambiguo) progressismo dei moderni positivisti: una forma di ragionevole fiducia
circa la possibilità (non l'inevitabilità) che la condizione
dell'uomo possa migliorare utilizzando con buon senso le conquiste della
scienza.
MA CHE COS'È LA VERITÀ
Comunemente si intende per
«verità» di una proposizione la sua corrispondenza con i fatti.
Si dice ad esempio: testimoniare la verità, nascondere la verità,
cioè, rispettivamente, narrare fedelmente, oppure occultare, il modo in
cui i fatti effettivamente si sono svolti. Questo significato del termine
coincide con una delle posizioni filosofiche fondamentali e per esempio con la
definizione che già ne dava Platone: «Vero è il discorso che
dice le cose come sono, falso quello che dice le cose come esse non sono»
(Cratilo, 385b). In altre parole, se dico «Socrate è seduto» la
mia asserzione è vera se Socrate è davvero seduto, ed è
falsa se invece è in piedi. Aristotele, precisando la nozione di
verità come corrispondenza con le cose, aggiunse che la verità
è una proprietà soltanto del pensiero o del linguaggio, non delle
cose in quanto tali. In effetti, se dico «La penna è sul
tavolo» né la penna né il tavolo e neppure il loro rapporto
reciproco sono propriamente «veri» bensì soltanto la
proposizione che ne parla.
Chi riduce la realtà alle idee che
abbiamo di essa, come fa l'idealismo, non può ammettere la teoria della
corrispondenza con i fatti, poiché nega appunto l'esistenza di fatti in
sé, fuori del pensiero che li pensa. L'idealismo propende di solito per
una nozione di verità come coerenza: l'accertamento della verità
consiste nel controllo della non contraddittorietà di una proposizione
con altre proposizioni ad essa legate.
Un'altra teoria ripone il criterio
di verità nell'evidenza. Così, per esempio, secondo Cartesio
un'idea è vera se appare «evidente», cioè se appare
talmente chiara e distinta da strappare l'assenso alla mente di chi la
considera. Il criterio dell'evidenza è presente anche in ogni forma di
empirismo secondo cui la verità delle nostre conoscenze riposa
sull'evidenza dei dati percettivi: così, ad esempio, si può
certamente dubitare che il rosso che vedo sia davvero ciò che gli altri
chiamano rosso (potrei infatti essere daltonico), ma è assolutamente
indubitabile che io ho una ben determinata percezione di colore.
Secondo
un'ultima teoria, sostenuta soprattutto dal pragmatismo, è vero
ciò che è utile, o che produce soddisfazione, o che è
efficace per ottenere un certo scopo. Da questo punto di vista si potrebbe dire
che la proposizione: Il cibo nutre è vera perché l'ingerire certe
sostanze è utile alla nostra sopravvivenza. La tesi dell'identità
di vero e utile ha avuto però formulazioni molto diverse. Così, ad
esempio, mentre in senso radicale la si dovrebbe estendere anche alle
conclusioni della scienza sperimentale, William James tende ad applicarla
esclusivamente alla sfera della religione, della morale e in genere dell'azione
pratica. John Dewey, invece, definisce l'utilità dei nostri concetti come
un'utilità - appunto - di tipo conoscitivo (nel senso che essi sono
strumenti mentali che servono per conoscere come le cose stanno effettivamente),
e finisce per proporre una nozione di verità che coincide con la
verificabilità sperimentale.
Quello della verificabilità
delle ipotesi e delle teorie è un tema fondamentale della scienza
sperimentale in qualche modo legato al presupposto della corrispondenza tra idee
e cose. Il controllo di questa corrispondenza, però, dipende nella
scienza dalla possibilità di eseguire pratica mente certe operazioni. La
verità della proposizione: Questa cartella pesa cinque chilogrammi si
stabilisce collocando la cartella sul piatto di una bilancia opportunamente
tarata e leggendo il valore indicato sulla scala graduata. La verifica
sperimentale è insomma una tecnica definita convenzionalmente, che
richiede strumenti, procedure, unità di misura anch'essi definiti
convenzionalmente e sempre suscettibili di perfezionamenti, arricchimenti,
modifiche.
L'ESPLORAZIONE DELL'INCONSCIO
Se nel grosso pubblico la reazione al
positivismo significò un ritorno a posizioni romantiche, mistiche,
irrazionalistiche, lo stesso non può dirsi per quanti furono sul terreno
filosofico e scientifico i protagonisti di quella reazione. Bergson, la cui
riflessione abbastanza presto degenerò in una sorte di fantasia
mistico-biologica, fu forse il solo tra i grandi pensatori della sua generazione
a subire il fascino delle religioni positive: negli altri l'attenzione per la
religione non era una faccenda di fede personale, ma un interesse di carattere
professionale per un fenomeno da studiare con metodi rigorosamente scientifici.
Lo stesso Bergson, in ogni caso, non accettò mai l'etichetta di
irrazionalista. L'inadeguatezza del pensiero discorsivo a cogliere la ricchezza
dell'esperienza concreta e l'impossibilità che le astrazioni e le
generalizzazioni dell'intelletto rispettassero l'integrità dei «dati
immediati della coscienza» (come si intitolava uno dei suoi primi scritti)
lo avevano indotto a rivendicare il valore conoscitivo dell'intuizione, ma il
suo intuizionismo, come ebbe a dichiarare più volte, non voleva affatto
contrapporsi alla conoscenza scientifica, ma semmai proporsi come sua
integrazione.
Anche il più vecchio e il più feroce degli
antipositivisti, Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900), da tempo sofferente di
nevrosi e diventato definitivamente pazzo nel 1889, e cioè proprio nel
momento in cui l'antipositivismo diventava di moda, non era propriamente un
irrazionalista, o per lo meno non lo era alla maniera becera degli innumerevoli
seguaci che avrebbe avuto da morto. Nietzsche detestava i costruttori di
sistemi, questi «operai della filosofia», come sprezzantemente li
chiamava, e concepiva il filosofare come poesia, mito, rivelazione, profezia.
Esponeva perciò i suoi pensieri in forma di aforismi, sentenze ed enigmi;
si esprimeva con un'enfasi pesante e talvolta insopportabile; cedeva
continuamente al gusto della provocazione e dello scandalo. Tutto ciò ha
favorito prima la manipolazione dei suoi scritti in senso reazionario e razzista
da parte della sorella alle cui cure era affidato negli anni della sua follia, e
più tardi la strumentalizzazione del suo pensiero da parte del nazismo.
Ma a dispetto dei fraintendimenti postumi e delle ambiguità volute,
l'irrazionalismo nietzschiano era assai più una forma di interesse
(polemicamente enfatizzata) verso le motivazioni irrazionali, oscure,
inesplicabili della condotta umana, che non la manifestazione di una
scelta.
Lo «smascheramento» nietzschiano della cultura, ad
esempio, e cioè la riscoperta delle radici «basse» dei
sentimenti per definizione «più elevati» e delle componenti
spregevoli dei nobili valori morali, quegli impulsi primordiali e quegli
interessi egoistici che costituiscono la materia prima della cultura, aveva per
tema l'irrazionale, ma aveva ben poco di irrazionalistico. Ricordava piuttosto,
e da vicino, la critica marxiana delle ideologie. Marx interpretava le idee
sulla base dei condizionamenti economici e sociali, e alla fine trovava sempre
sotto i mascheramenti ideologici una solida realtà (la struttura
economica, le forme della produzione sociale) a cui fare riferimento. Le analisi
di Nietzsche, invece, non arrivavano mai a verità elementari o
incondizionate, poiché ogni credenza gli appariva prodotto effimero di
particolari condizioni psicologiche, o di variabili assetti sociali, o di
transitori equilibri di forze.
Entrambi (e Nietzsche ancora più di
Marx), nel mettere in luce le basi materiali (economiche, istintuali, inconsce)
di ogni prodotto dello spirito, anche senza influenzarla direttamente, si
sarebbero trovati in sostanziale sintonia con l'esplorazione dell'inconscio
affrontata sul finire del secolo da Sigmund Freud.
SIGMUND FREUD
Anche Freud (1856-1939), come Nietzsche,
amava esprimersi con le immagini del mito, e anche lui avrebbe avuto torme di
seguaci affascinati più dalle ambigue suggestioni di quel fondo oscuro di
pulsioni vitali che era l'oggetto delle sue ricerche, che non dallo sforzo
ammirevole di gettarvi un po' di luce. Ciò nonostante Freud era
sicuramente un razionalista, uno scienziato scrupoloso, e, alla fin fine, un
«positivista» convinto.
Freud era nato in Moravia, una provincia
dell'impero austro-ungarico, da una famiglia di piccoli commercianti ebrei. Il
padre, Jacob, rimasto vedovo con due figli, si era risposato con una
giovanissima ragazza, la madre di Freud, dalla quale ebbe sette figli. Come
figlio maschio primogenito, la madre, secondo la tradizione ebraica, considerava
Sigmund votato a un grande avvenire e gli riservava per questo un trattamento
privilegiato. Sigmund stimava molto suo padre, che doveva sembrargli, per la
differenza di età con la madre, molto anziano; ebbe però una forte
delusione quando seppe che, assalito da un gruppo di antisemiti al grido di
«sporco ebreo», aveva preferito non reagire. Qualche anno più
tardi anche il giovane Freud fu vittima di un'aggressione e si difese con
estrema decisione. A Vienna, dove la famiglia si era trasferita pochi anni dopo
la sua nascita, Freud si laureò in medicina nel 1881. Ottenuta nel 1885
una borsa di studio, andò a Parigi nella clinica di Jean-Martin Charcot
(1825-1893), famoso alienista e neurologo, che si occupava della cura
dell'isteria mediante ipnosi. A Freud piacque la concezione dello studioso
parigino, secondo la quale l'isteria non è dovuta, come i medici da
Ippocrate in poi avevano creduto, a cause organiche, ma a fattori
psicologici.
Tornato a Vienna Freud si associò nella professione ad
un collega, Joseph Breuer (1842-1925), che già praticava la terapia
ipnotica. Lo studio dell'isteria e il metodo, più tardi rifiutato,
dell'ipnosi rappresentarono il punto di partenza per il viaggio di Freud
nell'inconscio. Praticando l'ipnosi Freud ebbe modo di notare nei pazienti il
riaffiorare alla memoria di sensazioni, ricordi e sentimenti dimenticati
(più tardi avrebbe detto «rimossi») e cioè il
manifestarsi di un materiale psichico profondo, inconscio: ben presto
l'inconscio divenne il suo principale campo di ricerca, mediante una nuova
tecnica di indagine e di cura, la psicoanalisi, che venne progressivamente
mettendo a punto.
Nel 1895 Freud cominciò la sua autoanalisi,
un'esperienza lunga e tormentosa nel corso della quale si orientò ad
assumere il sogno come via privilegiata per accedere in quella parte della
psiche di cui non abbiamo consapevolezza immediata. Nel 1896 era morto suo padre
e Freud aveva attraversato un periodo di crisi profonda, caratterizzata da sogni
angosciosi. Nel 1899 pubblicò il libro a cui tenne di più, e che
è sicuramente uno dei suoi scritti più importanti,
L'interpretazione dei sogni. È appunto in questo torno di tempo che Freud
pose i fondamenti della teoria psicoanalitica con la definizione dei concetti di
rimozione e di inconscio, con l'affermazione sempre più convinta
dell'origine sessuale delle nevrosi e con la scoperta della sessualità
infantile.
La rimozione è il meccanismo di difesa con cui l'Io
esclude dalla coscienza quei materiali psichici (immagini, desideri, ricordi)
che avverte pericolosi per il proprio equilibrio e che sono associati alle
tendenze o «pulsioni» istintive, specialmente di natura sessuale,
denominate da Freud Libido (in latino = «piacere»). L'Inconscio
è il «luogo» della psiche in cui vengono relegati i materiali
rimossi dall'Io. Ma la rimozione non elimina l'impulso, ed anzi i processi
inconsci hanno un ruolo primario nel determinare la condotta degli uomini, che
non è mai, in nessun momento, frutto del caso. Questo è uno degli
assunti fondamentali della teoria freudiana, legato al tradizionale determinismo
della scienza sperimentale: ogni azione ha una causa. Anche se può
apparire privo di giustificazioni, l'agire dell'uomo ha sempre un significato
nascosto, un movente inconscio, una logica, insomma, che è compito dello
psicoanalista individuare e portare alla coscienza. Anche i lapsus linguae (in
latino = «scivolamento della lingua»), ossia gli errori che si
commettono inavvertitamente nel parlare (o nello scrivere: si parla allora di
lapsus calami = «scivolamento della penna»), sono un caratteristico
esempio di interferenza dell'inconscio nei comportamenti coscienti: non semplici
sbadataggini, ma espressioni involontarie di idee o di sentimenti
rimossi.
La teoria della rimozione, ebbe più tardi a scrivere Freud,
«è il sostegno su cui si basa l'edificio della psicoanalisi».
Freud rivendicava a sé l'intero merito di averla formulata, anche se
riconosceva che in Schopenhauer (che però non aveva mai letto) se ne
sarebbero potuti trovare dei precorrimenti:
... Nella teoria della
rimozione sono di certo stato indipendente: non mi risulta di nessun influsso
che mi abbia accostato ad essa, e per molto tempo ritenni questa idea originale,
finché Rank ci segnalò il brano del Mondo come volontà e
rappresentazione di Schopenhauer in cui il filosofo cerca di fornire una
spiegazione della pazzia. Ciò che lì è detto sulla
riluttanza ad accettare una parte penosa della realtà corrisponde in
maniera così piena al contenuto del mio concetto di rimozione, che
dovetti ancora una volta essere grato alle lacune della mia cultura, che mi
avevano consentito di fare una scoperta. Infatti, altri hanno letto quel brano
senza indugiarvi, senza arrivare a questa scoperta, e forse a me sarebbe
successo lo stesso se negli anni giovanili avessi provato più piacere
nella lettura di autori filosofici...
Anche l'idea di inconscio non
era di per sé una novità assoluta.
La psicologia tradizionale
aveva formulato se non altro la nozione di una «soglia della
coscienza» quale limite tra i processi consapevoli e quelli inconsapevoli,
ed esistevano da sempre correnti di pensiero (le correnti irrazionalistiche,
appunto) che esaltavano il lato oscuro, occulto, istintivo dell'uomo.
La
novità di Freud stava nell'aver sostenuto, con una forza e una chiarezza
sconosciute a Schopenhauer o a Nietzsche, da un lato l'assoluta
centralità dei processi inconsci e dall'altro la possibilità di
interpretarli in termini razionali.
In sostanza, Freud rimetteva
radicalmente in discussione le tradizionali opposizioni di coscienza/inconscio,
razionalità/irrazionalità, ecc. fondate sulla reciproca esclusione
e proponeva una visione dinamica della vita psichica come conflitto tra spinte
diverse. «La psiche - ha scritto Freud - è un campo di battaglia fra
tendenze opposte».
La psicoanalisi si presentava essenzialmente come
eziologia (o etiologia, dal greco aitìa = «causa»: è
quella parte della medicina che studia l'origine delle malattie) delle nevrosi.
Le nevrosi (fobie, angosce, ossessioni, fenomeni isterici) costituiscono una
classe di malattie mentali sulla cui definizione gli psichiatri non si sono mai
messi d'accordo. Meno gravi delle psicosi, si presentano come accentuazioni dei
normali conflitti psichici, tanto che è assai difficile (se non
impossibile) tracciare un confine tra normalità e nevrosi. Secondo Freud
l'origine delle nevrosi va ricercato nella sfera della sessualità e
specialmente nell'esperienza sessuale dell'infanzia. Questa tesi, ha scritto,
non senza malizia, gli era stata suggerita da alcuni dei suoi maestri e
predecessori, come Charcot e Breuer, che tuttavia non avevano mai avuto il
coraggio di proclamarla apertamente e di trarne tutte le necessarie
conseguenze.
La psicoanalisi incominciava a suscitare nel pubblico un
crescente interesse ed anche un certo scandalo proprio per l'attenzione dedicata
alla sessualità e specialmente alla sessualità infantile, che
l'ipocrisia del tempo preferiva ignorare. Da parte degli ambienti accademici e
dell'opinione pubblica retriva non tardarono a manifestarsi dure reazioni
negative. Freud interpretò questa opposizione da parte della
società alla stessa stregua del rifiuto dell'individuo nevrotico di
mettere in discussione l'idea che ha di se stesso.
... Consideravo le
mie scoperte come normali apporti alla scienza e mi aspettavo che gli altri
facessero lo stesso. Fu il silenzio che si levava alla fine delle mie
conferenze, il vuoto che si faceva intorno alla mia persona, le allusioni che mi
venivano riportate che gradualmente mi fecero capire che dichiarazioni sulla
funzione della sessualità nell'etiologia delle nevrosi non si potevano
aspettare il trattamento concesso ad apporti scientifici di diversa natura. Mi
resi conto che da quel momento in poi sarei rientrato tra quelli che «hanno
scosso il sonno del mondo», secondo l'espressione di Hebbel, e che non mi
era lecito fare affidamento né su oggettività né su
indulgenza. [...]
Rivedendo quegli anni di solitudine dai turbamenti e
dagli affanni del presente, quello mi appare un periodo bello e valoroso; la
splendid isolation non era priva di vantaggi e di attrattive. Non dovevo leggere
bibliografie, né ascoltare avversari male informati, non ero sottomesso a
nessun condizionamento, non subivo nessuna pressione...
Nel
frattempo, però, la teoria e la pratica della psicoanalisi avevano dato
vita ad un vero e proprio movimento: agli inizi del secolo nacque il primo
nucleo viennese di quella che diverrà, nel 1910, la Società
Internazionale di Psicoanalisi: vi faceva parte tra gli altri Alfred Adler. Nel
1907 Freud volle conoscere lo psichiatra svizzero Carl Gustav Jung, che da
qualche anno, dopo aver letto L'interpretazione dei sogni, aveva adottato il
metodo psicoanalitico di cura e che sarebbe diventato il primo presidente della
Società Internazionale di Psicoanalisi. Nel 1908 entrò in contatto
con Sandor Ferenczi, fondatore nel 1913 della Società Psicoanalitica di
Budapest. Nel 1909 si recò con Jung, per una serie di conferenze alla
Clark University, negli Stati Uniti, dove due anni più tardi sarebbe nata
l'autorevole Associazione psicoanalitica americana. La pubblicazione di opere
come Totem e tabù del 1913 (una geniale favola antropologica che sulla
base anche di suggestioni darwiniane ricostruiva l'infanzia del genere umano), e
come L'Io e l'Es del 1923, rivela chiaramente come la psicoanalisi freudiana da
tecnica per l'interpretazione e la cura delle neurosi aspirasse a diventare una
teoria o un metodo generale di interpretazione dei rapporti interindividuali e
sociali. Nel frattempo però si erano separati da lui, per divergenze
teoriche, alcuni seguaci e amici, primi fra tutti per prestigio intellettuale,
Adler, fondatore della cosiddetta «psicologia individuale» (nel 1911)
e Jung, fondatore della «psicologia analitica» (nel 1913).
Nel
febbraio del '23 Freud avvertì i primi sintomi di quello che più
tardi si rivelerà un tumore alla mascella. Nonostante la malattia, Freud
lavorò assiduamente come analista e come scrittore ed entrò in
contatto con le più famose personalità della cultura del suo
tempo, Albert Einstein e Thomas Mann. Sino al 1938, e cioè sino
all'annessione dell'Austria alla Germania nazista, Freud rimase a Vienna. Per
sfuggire alle persecuzione antisemita del regime nazista si trasferì a
Londra, dove morì l'anno seguente, assistito dalla figlia Anna, anch'essa
esponente di rilievo del movimento psicoanalitico.
[Figura: Il comitato
della Società Internazionale di Psicoanalisi nel 1920. Seduto accanto a
Freud è l'ungherese Sandor Ferenczi (1873-1933). L'ultimo a destra
è l'inglese Ernst Jones (1879-1959) amico e biografo di Freud e
principale diffusore della psicoanalisi nel mondo anglosassone]
Comitato della Società Internazionale di Psicoanalisi
CARL GUSTAV JUNG
Lo svizzero Carl Gustav Jung (1875-1961)
è considerato il maggiore fra gli psicoanalisti dissidenti da Freud. Il
padre era un pastore protestante, la madre una studiosa di letteratura.
Laureatosi in medicina a Basilea nel 1900, Jung si trasferì a Zurigo,
dove iniziò la professione di psichiatra. Fin dai primi anni di tirocinio
manifestò la sua opposizione alla psichiatria ufficiale che gli sembrava
occuparsi troppo di diagnosi, di sintomi e di statistiche e troppo poco di
ciò che il paziente aveva da dire. Nel 1900 lesse L'interpretazione dei
sogni di Freud e da quel momento incominciò a servirsi del metodo
psicoanalitico per curare i pazienti affetti da disturbi psichici anche molto
gravi (psicosi). Nel 1905, dopo avere pubblicato La psicologia della dementia
praecox e il contenuto delle psicosi che gli assicurò una larga fama, fu
nominato primario della clinica psichiatrica dell'Università di Zurigo.
Freud volle conoscerlo e lo invitò a Vienna. Nel 1910 Jung divenne
presidente della Società Internazionale di Psicoanalisi.
Il libro
che doveva segnare il suo distacco da Freud, Libido: simboli e trasformazioni,
fu pubblicato nel 1913. Jung giudicava eccessiva l'importanza attribuita da
Freud alla sessualità, e nella spiegazione delle nevrosi tendeva a dare
maggior rilievo ai conflitti presenti che non ai traumi infantili su cui invece
insisteva Freud. La nozione di inconscio collettivo è probabilmente
l'innovazione più rilevante introdotta da Jung nella teoria
psicanalitica, anche perché segna un ritorno a interpretazioni fantasiose
della vita psichica e culturale, che il «positivista» Freud aveva
cercato, per quanto possibile in una materia così poco suscettibile di
verifica, di evitare.
Nella mente di ogni uomo agiscono, secondo Jung,
tracce di immagini ancestrali, o «archetipi» (dal greco arché =
«principio»; la parola, già adoperata da Platone per indicare
le idee, ha il significato di modello originario o primordiale) ereditati (non
si capisce come) dai nostri lontanissimi progenitori e comuni a tutta
l'umanità; queste immagini manifestano la loro influenza sia nella
realtà individuale e nelle nevrosi, sia nella vita sociale e religiosa
attraverso meccanismi simbolici irriducibili ad un linguaggio razionale.
Così, mentre subiva il fascino di religioni esotiche e di filosofie
orientali, Jung si allontanava sempre più dall'insegnamento di Freud,
arrivando ad un suo sostanziale capovolgimento: l'inconscio di Jung è
misteriosamente collettivo, mentre quello di Freud è rigorosamente
individuale; l'inconscio di Jung preesiste in qualche luogo alla vita psichica
cosciente, mentre quello di Freud è il risultato dei meccanismi di
rimozione e perciò viene dopo; l'inconscio di Jung, infine, è uno
scrigno di significati arcani ed esoterici, mentre quello di Freud è per
definizione oggetto di spiegazione razionale.
ALFRED ADLER
L'austriaco Alfred Adler (1870-1937) era
stato attratto fin da giovane dai problemi sociali e aveva partecipato
all'attività dei gruppi studenteschi di ispirazione marxista. Fu tra i
primi a porre il problema del rapporto tra psicoanalisi e marxismi e a tentarne
un'integrazione. In armonia con questo suo disegno si occupò di problemi
della scuola operando direttamente nelle istituzioni: fino all'avvento del
nazismo fu consulente del Governo social-democratico per i problemi
dell'istruzione. Adler non condivideva la visione freudiana della Libido,
fondata sulla preminenza delle pulsioni sessuali. Quale fonte di energia
psichica indicava invece l'aggressività che, secondo Adler, nasce dal
senso di inferiorità nei confronti degli altri. Dall'esigenza di
compensare in qualche modo questo stato debolezza nascerebbe una spinta
all'affermazione di sé che, quando riesce a integrarsi positivamente con
l'ambiente sociale, è la molla dello sviluppo individuale e collettivo,
ma quando non ci riesce è causa di conflitti e di nevrosi.
Questa
condizione di inferiorità (nei confronti degli adulti) e il relativo
meccanismo di compensazione sono particolarmente evidenti nei bambini: di qui
l'importanza di una educazione atta a incanalare positivamente
l'aggressività del bambino di prevenire l'insorgere delle nevrosi. La
terapia delle nevrosi, poi, doveva tendere a reinserire l'individuo nel suo
ambiente non solo operando sulla psiche del paziente, ma cercando di rimuovere
le cause oggettive del suo disagio.
LA PSICOANALISI NEL LINGUAGGIO DI TUTTI I GIORNI
Il termine psicoanalisi è stato
usato da Freud per la prima volta nel 1896; in precedenza, per indicare la
propria tecnica di esplorazione dell'inconscio Freud aveva impiegato espressioni
come «analisi psicologica» o «analisi psichica». Alfred
Adler e Carl Gustav Jung, allievi dissidenti di Freud, hanno designato le
proprie teorie rispettivamente come «psicologia individuale» e
«psicologia analitica». La denominazione di «psicologia del
profondo» si applica genericamente a tutte le scuole che attribuiscono
un'importanza centrale ai processi inconsci della psiche.
Le scuole
psicoanalitiche, infaticabili costruttrici di immagini, miti e favole
filosofiche, hanno prodotto una grande quantità di parole suggestive, ma
dal significato non sempre ben definito e soprattutto quasi mai definitivo. Per
di più molte espressioni proprie della psicoanalisi hanno avuto larga
fortuna e sono entrate a far parte del lessico comune; senonché la
volgarizzazione della psicoanalisi (quella che Freud già nel 1910
definiva «la psicoanalisi selvaggia», ossia l'interpretazione
dilettantesca e incolta della psicoanalisi) ha fatto e fa un uso del tutto
improprio della terminologia psicoanalitica.
Un termine abusatissimo
è, ad esempio, «complesso», che Freud usava invece con grande
circospezione. Complesso è propriamente un insieme di immagini, pensieri,
ricordi carichi di affettività, in gran parte o del tutto inconsci
(perché rimossi), che si forma nell'infanzia e che può interferire
in tutta la successiva vita dell'adulto.
Le prime formulazioni della teoria
psicanalitica ruotavano sull'opposizione elementare Coscienza/Inconscio. In una
seconda formulazione Freud ha distinto l'apparato psichico in tre livelli o
«istanze»: l'Es, l'Io e il Super-io. L'Es (in tedesco è il
pronome personale neutro, analogo all'id latino, che infatti è talvolta
usato in suo luogo) è il serbatoio di tutte le tendenze (o
«pulsioni») elementari ed istintive ed è totalmente inconscio,
ma non si identifica con l'Inconscio, giacché meccanismi inconsci operano
anche nelle altre due istanze della psiche. La componente inconscia dell'Io, ad
esempio, si manifesta nei meccanismi di difesa con cui l'Io protegge la propria
integrità dalle pulsioni provenienti dall'Es: la rimozione, che respinge
nell'inconscio gli impulsi nocivi, e la sublimazione, che li devia verso
comportamenti socialmente utili. L'Io controlla le pulsioni e presiede al
pensiero logico, ma poiché è parzialmente inconscio, non si
può identificare con l'Io della tradizione filosofica (da Cartesio in
poi), che è sinonimo di coscienza. Il Super-io è una sorta di
giudice dell'Io che critica, «censura», genera sensi di colpa, impone
regole e ideali di vita: potrebbe essere assimilato alla tradizionale
«coscienza morale» se non fosse che anche lui opera (almeno in parte)
a livello inconscio.
La nozione di Super-io si riallaccia all'analisi della
sessualità infantile. Freud aveva chiamato complesso di Edipo
quell'insieme conflittuale di sentimenti di amore e di ostilità verso i
genitori (attrazione verso la madre, gelosia verso il padre nei ragazzi; nelle
ragazze, per le quali Jung ha parlato di «complesso di Elettra»,
accadrebbe pressappoco l'inverso) che si formerebbe nei bambini tra i tre e i
cinque anni e che normalmente viene superato nell'adolescenza. Lo sviluppo del
Superio sarebbe in relazione, secondo Freud, ai sentimenti di colpa connessi al
complesso di Edipo.
Nella seconda definizione freudiana dell'apparato
psichico anche il termine Libido ha subito uno slittamento di significato: usato
da Freud in un primo tempo per indicare l'insieme delle energie specificamente
sessuali ha finito per designare l'insieme delle energie psichiche legate
all'istinto di vita o Eros, in opposizione a un supposto istinto di morte, che
spingerebbe l'individuo all'autodistruzione.
IL REALISMO DEL COMUNE BUON SENSO
Come l'originaria fortuna del positivismo
era in gran parte dovuta alla diffusa stanchezza per le faticose elucubrazioni
dell'idealismo, così, sul finire dell'Ottocento, la nausea per gli
scipiti vaniloqui del positivismo portò un po' dovunque al rifiorire
dell'idealismo. Di idealismi ne spuntarono molti, e molto diversi tra di loro.
In Italia, per esempio, si diceva neohegeliano Benedetto Croce, che in
verità con Hegel in particolare aveva poco a che fare, salvo il fatto di
essere nipote di Bertrando e di Silvio Spaventa, a loro volta hegeliani in odio
al positivismo. Per un certo tempo, e cioè fino all'avvento del regime
fascista, contro il quale si schierò decisamente e apertamente, Benedetto
Croce intrattenne un sodalizio con Giovanni Gentile (1875-1944), oggi ricordato
più come uno dei massimi teorici del fascismo (come tale ucciso dai
partigiani negli anni della guerra civile) che come filosofo: ufficialmente
anche lui si richiamava ad Hegel, ma in effetti rinnovava, semmai, temi
fichtiani. In Inghilterra l'idealismo ebbe un nutrito stuolo di entusiasti
sostenitori, tra i quali il più originale fu forse Francis Herbert
Bradley (1846-1924), che dava dell'hegelismo un'interpretazione abilmente
oscillante tra misticismo e scetticismo: la verità sta nell'unità
del tutto, ossia nell'Assoluto, che però non è definibile se non
negativamente, ossia per ciò che non è, perché ciò
di cui si può dire qualcosa è mera apparenza, la quale per altro
non è estranea all'Assoluto, giacché nulla si può supporre
all'infuori dell'Uno-Tutto, ecc.
Dall'Inghilterra venne anche, all'aprirsi
del nostro secolo, la replica forse più pertinente alle mode
idealistiche. Il giovane Bertrand Russell aveva subito il fascino di Bradley, ma
già nel 1900, in Un'esposizione critica del pensiero di Leibniz aveva
attaccato il monismo idealistico come effetto di una logica antiquata. Nel 1903
George Edward Moore (1873-1958) nella sua Confutazione dell'idealismo
riproponeva apertamente in nome del senso comune, la concezione realistica
dell'uomo della strada, ossia l'istintiva certezza di ciascuno di noi
nell'esistenza del mondo esterno. Nello stesso anno alla stessa concezione
risultavano ispirati i Principi della matematica di Bertrand Russell.
Tra
la Confutazione dell'idealismo del 1903 e la Difesa del senso comune del 1925
(due titoli che riassumono efficacemente il senso del suo lavoro), la
riflessione di Moore, che si è espressa nell'insegnamento e nelle
conversazioni con gli amici (Bertrand Russell e Ludwig Wittgenstein, tra gli
altri) anche più efficacemente che negli scritti, ha dato l'avvio a
quella filosofia analitica che costituisce ormai uno dei grandi filoni del
pensiero contemporaneo.
Il principio idealistico secondo cui nulla esiste
al di fuori del pensiero e dell'attività creatrice del soggetto che pensa
(nella formulazione del primo e più rappresentativo esponente
dell'idealismo moderno, Berkeley: esse est percipi) è in netto contrasto
con gli assunti (o le credenze) del senso comune che sono: 1) che i corpi
materiali esistono indipendentemente dal fatto che noi li percepiamo; 2) che
indipendentemente da noi, esistono altre persone, altri soggetti pensanti, come
noi. Moore riconosceva che queste due proposizioni non possono essere
dimostrate, ma riteneva che l'onere della prova non toccasse a chi, seguendo il
senso comune, ammette l'esistenza di un mondo esterno, ma a chi, come gli
idealisti, pretende di negarla.
Quanto alla filosofia, il suo compito
essenziale è di sottoporre ad analisi le categorie del discorso (e non
solo del discorso scientifico, ma anche di quello della gente comune) risolvendo
nozioni ed enunciati nei loro elementi costitutivi e cogliendone le possibili
contraddizioni. Il compito della filosofia morale, ad esempio, non è di
indicare gli obiettivi o le regole dell'azione, ma chiarire il senso degli
enunciati etici, alla vecchia maniera di Socrate (quale risulta, ad esempio,
dall'Eutifrone di Platone).
Il bene, dice Moore, non è qualcosa di
definibile. Se dicessimo che è buono tutto ciò che è in
accordo con la volontà divina, dovremmo sempre chiederci se la
volontà divina sia davvero buona e in che cosa consiste la sua
«bontà». In realtà, il «bene» (come il suo
opposto, il «male») è una nozione semplice, che nel senso
comune serve a definire la qualità delle cose, e che pertanto non
può essere essa stessa definita. Il compito dell'etica, insomma, non
è di definire il bene, ma piuttosto di analizzare le affermazioni che si
fanno sulle qualità buone o cattive delle cose.
Parallela a quella
di Moore è stata l'esperienza filosofica di Bertrand Russell. Il suo
passaggio al realismo compiutosi tra il 1900 e il 1903 aveva comportato tra
l'altro la sua piena adesione al programma logicista (ossia di riduzione della
matematica a logica) formulato da Gottlob Frege e appunto per portare a termine
tale programma si era impegnato con Whitehead alla stesura dei Principia
Mathematica (pubblicati tra il 1910 e il 1913 da non confondere con i Principi
della matematica, che sono del 1903). I Principia di Russell-Whitehead hanno
rappresentato al tempo stesso il punto d'arrivo del logicismo e uno dei punti di
partenza (insieme all'insegnamento di Moore) della moderna filosofia analitica.
Nell'ipotizzare l'identità di logica e matematica quest'opera finiva per
rilanciare un ideale tipicamente positivistico: la fusione di filosofia e
scienza per un maggior rigore metodologico di entrambe, contro la
verbosità dei costruttori di grandi sistemi. Nel generale discredito in
cui era caduto il positivismo, costituiva un tentativo non privo di
audacia.
BERTRAND RUSSELL
Nato in una famiglia dell'aristocrazia
inglese che vantava una grande tradizione liberale, Bertrand Russell (1872-1971)
unì agli interessi scientifici un atteggiamento libertario nei confronti
della vita che lo costrinse più volte a prendere pubblicamente posizione
su questioni che in un modo o nell'altro mettessero in gioco i valori in cui
credeva: la felicità, la bellezza, l'intelligenza. Decisamente avverso ad
ogni forma di dogmatismo, al punto da rimettere continuamente in discussione le
sue stesse idee, sul piano morale e politico fu in costante polemica con la
stupidità e l'autoritarismo delle istituzioni politiche e religiose
ereditate dal passato e con il cretinismo di massa dei nuovi regimi totalitari
di destra o di sinistra. Questo suo impegno pubblico in difesa del buon senso e
del buon gusto è all'origine di alcuni degli avvenimenti più
spiacevoli della sua lunga e, per il resto, felice esistenza, come per esempio
la destituzione dalla cattedra di Cambridge per essersi opposto, durante la
prima guerra mondiale, alla coscrizione obbligatoria e come, negli stessi anni,
la condanna a sei mesi di carcere per la sua campagna a favore della pace.
Trasferitosi negli Usa, fu perseguitato per le sue spregiudicate teorie sociali
e morali. Reintegrato finalmente nella cattedra di Cambridge nel 1944, nel 1950
ricevette il Premio Nobel per la letteratura. Dopo la seconda guerra mondiale e
negli anni della cosiddetta guerra fredda, ormai ultra ottantenne, scese ancora
una volta in piazza alla testa del movimento per il disarmo nucleare e la
pace.
LIBERALI MA NON TROPPO
Finito Principia Mathematica - racconta Russell
nella sua autobiografia - mi sentivo in certo qual modo sperso. La sensazione
era piacevole ma sconcertante, come uscire di prigione. Poiché a
quell'epoca mi interessavo molto alla lotta tra i liberali e i Lord circa il
bilancio e il Parliament Act, mi sentii portato a entrare in politica. Mi
rivolsi alla segretaria del partito liberale per avere un collegio e mi fu
consigliato Bedford. Mi recai lì e tenni un discorso all'associazione
liberale, che fu accolto con entusiasmo. Prima del discorso, tuttavia, mi
condussero in una stanzetta privata, dove mi sottoposero a un vero e proprio
catechismo che, per quanto possa ricordare, si svolse in questi
termini:
[...]
DOMANDA: È membro della Chiesa
d'Inghilterra?
RISPOSTA: No, sono stato educato come
nonconformista.
DOMANDA: È rimasto tale?
RISPOSTA: No,
non sono rimasto tale.
DOMANDA: Dobbiamo dedurne che lei è
agnostico?
RISPOSTA: Sì, infatti.
DOMANDA: Sarebbe
disposto ad andare in chiesa se si presentasse l'occasione di
farlo?
RISPOSTA: No.
DOMANDA: Sua moglie sarebbe disposta ad
andare in chiesa se si presentasse l'occasione di farlo?
RISPOSTA:
No.
DOMANDA: Pensa che si verrebbe a sapere che lei è
agnostico?
RISPOSTA: Sì, è molto probabile.
La
conseguenza di queste risposte fu che scelsero come candidato Mr Kellaway che
divenne ministro delle Poste e che durante la guerra si rivelò un
benpensante. Devono avere avuto la sensazione di averla scampata
bella.
Anche a me parve di essermi salvato per miracolo, perché
mentre a Bedford stavano pensandoci su, ricevetti un invito del Trinity College
a tenere un corso sui principi della matematica. Questo mi attraeva molto
più della politica, ma se mi avessero accettato a Bedford avrei dovuto
rifiutare la proposta di Cambridge. Assunsi la carica all'inizio della sessione
di ottobre.
[...]
Durante le elezioni del gennaio 1910, mi parve di
dover aiutare i liberali per quanto potevo, ma non volevo sostenere il candidato
della nostra circoscrizione che era venuto meno ad alcune promesse che
consideravo importanti. Decisi quindi di appoggiare il deputato della
circoscrizione sull'altra sponda del fiume. Questi era Philip Morrell, compagno
d'università, a Oxford, di mio cognato. Logan, che aveva nutrito una vera
passione per lui. [...]
Durante la campagna per le elezioni del gennaio
1910 tenni quasi ogni sera comizi a favore di Philip Morrell, e dedicai le
giornate a fare propaganda per lui di casa in casa. Ricordo di essermi recato da
un colonnello in pensione a Iffley, che si precipitò nell'anticamera
strepitando: «Crede forse che darei il mio voto a un furfante simile? Fuori
da questa casa o slego i cani!»
Tenni comizi in quasi tutti i villaggi
tra Oxford e Caversham.
Ma Philip, come gli altri candidati liberali del
circondario, non fu eletto...