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ITINERARI - IDEE - LA SVOLTA DI FINE SECOLO

LA CRISI DEL MARXISMO

Non fu soltanto su pensatori di mediocre levatura, come Spencer e i suoi seguaci, che la teoria darwiniana dell'evoluzione esercitò una forte suggestione. Marx, ad esempio, ne era rimasto fortemente impressionato e l'aveva sentita profondamente affine al suo modo di pensare. Si era anche riproposto di dedicare a Darwin il primo volume della sua opera maggiore, il Capitale, ma Darwin declinò l'offerta per non aumentare la confusione nel pubblico, già disorientato dalle furibonde polemiche seguite alla pubblicazione dell'Origine delle specie, e per non incoraggiare interpretazioni indebitamente estensive della sua teoria. Forse più ancora di Marx l'evoluzionismo darwiniano influenzò Engels, l'altro grande teorico di quel movimento che Engels stesso definì «socialismo scientifico» e che, più sbrigativamente (ma senza dimenticare la bella battuta di Marx: - Io? non sono marxista! -), chiameremo d'ora in poi «marxismo».
Fino al 1869 Engels aveva dovuto occuparsi dell'azienda paterna dirigendo una fabbrica a Manchester. Era un impegno poco gradito, che per altro gli era servito ad approfondire la conoscenza del mondo industriale e, con i buoni redditi che ne ricavava, gli aveva permesso di aiutare Marx, che praticamente era sempre sull'orlo della miseria. Quando finalmente riuscì a liberarsi di questo lavoro, Engels si stabilì a Londra per dedicarsi, a fianco di Marx, alla ricerca teorica e alla lotta politica nell'ambito del movimento operaio internazionale. Alla morte dell'amico, nel 1883, Engels divenne il naturale punto di riferimento dei suoi numerosi seguaci. Curando la pubblicazione delle opere di Marx rimaste incompiute o inedite (come il secondo e il terzo volume del Capitale, usciti rispettivamente nel 1885 e nel 1894), interpretandone, divulgandone e difendendone il pensiero in una lunga serie di opere, continuandone e integrandone le teorie con elaborazioni originali, Engels finì con imprimere profondamente il suo segno personale sul cosiddetto «marxismo».
La prima importante opera di Engels pubblicata dopo la morte di Marx, L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884), era fortemente condizionata da un evoluzionismo di stampo darwiniano: si ispirava infatti alle idee dell'antropologo evoluzionista americano Lewis Henry Morgan (1818-1881), autore di uno schema di sviluppo delle società umane fondato sulla successione delle forme di produzione, caccia e raccolta, agricoltura, industria. Con un evoluzionismo criticamente assai meno controllato Engels aveva invece avuto a che fare nel 1878 quando aveva polemizzato duramente con un tipico rappresentante della filosofia positivistica del secondo Ottocento, Karl Eugen Dühring (1833-1921). Dühring è uno di quei personaggi che la storia ricorda solo perché il caso ha voluto che fossero strapazzati da qualche uomo d'ingegno. Era scientista («scientismo» è l'atteggiamento di chi assume la scienza naturale a modello di ogni genere di conoscenza, senza troppo domandarsi quali ne siano effettivamente i metodi; potremmo dire che è l'entusiasmo per la scienza di quelli che non la praticano); era materialista ed evoluzionista e nutriva inclinazioni anticapitalistiche; era infine antisemita e antimarxista, e tendeva a collegare quello che giudicava il carattere aberrante delle idee di Marx con l'origine ebraica dello stesso Marx. A parte la polemica personale, l'Antidüring di Engels servì come prima, importante e pubblica presa di distanza del marxismo nei confronti dell'ormai dilagante positivismo evoluzionistico.
Ma l'opera filosofica più impegnativa di Engels, a cui lavorò dal 1873 al 1885 e che, rimasta incompiuta, fu pubblicata solo nel 1925, è la Dialettica della Natura, dove l'evoluzionismo darwiniano era fortemente presente come suggestione ideologica, ma purtroppo non come lezione di metodo scientifico. L'assunto principale dell'opera era di «dimostrare» che le leggi della dialettica hegeliana non sono mere leggi del pensiero, ma leggi reali, oggettive, a cui si conformerebbe l'intera evoluzione della natura. Con ciò Engels pretendeva di mantenere il capovolgimento marxiano della dialettica hegeliana e insieme di contrapporre il materialismo marxista, in quanto essenzialmente «dialettico», al materialismo metafisico o «volgare» (come lo chiamava), ossia al materialismo meccanicistico di derivazione galileo-newtoniana, fatto proprio (con qualche ragione, bisogna pur dire) da molti settori del positivismo. In realtà, sforzandosi di rintracciare nella fisica, nella chimica e nella biologia del suo tempo le fantomatiche «leggi» della dialettica, Engels tornava a cacciarsi nei tradizionali gineprai di quelle filosofie della natura che erano di moda negli anni della sua giovinezza; ma soprattutto mostrava di condividere la pericolosa tendenza di tanti sedicenti «positivisti» a spacciare come leggi scientifiche, sulla base di analogie e di assonanze più o meno casuali, le loro fantasiose improvvisazioni. Il grande merito di Engels resta quello di non aver portato a termine un tale libro. Il quale, tuttavia, con la sua pubblicazione nel 1925, fece tutto il male di cui era capace contribuendo all'affermazione (specialmente in quella che fu l'Unione Sovietica, dove divenne la filosofia di Stato) di quell'intruglio ideologico che Lenin prima e Stalin poi hanno chiamato «materialismo dialettico».
Engels morì nel 1895, proprio a metà di un decennio cruciale per la storia della cultura europea. Gli anni Novanta videro repentinamente e contemporaneamente messe in discussione una serie di certezze che avevano caratterizzato la seconda metà dell'Ottocento: la fiducia nel progresso, nella scienza, nella possibilità di eliminare prima o poi dalla vita dell'umanità l'oppressione, la miseria, la violenza e l'ignoranza. Questa crisi di sfiducia investì prima di tutto le correnti più sprovvedute del positivismo, che avevano dato al generale ottimismo scientista e progressista toni insopportabilmente sdolcinati, e che erano le principali responsabili del senso di sazietà improvvisamente avvertito in tutti gli ambienti intellettuali dotati di qualche vivacità. Ma il marxismo, che pure si era vigorosamente opposto al semplicismo delle teorie positivistiche, non fu affatto risparmiato.
Con la morte di Engels si aprì anzi ufficialmente la «crisi del marxismo», come fu definita dai giornalisti, che cominciavano a interessarsi a questo genere di cose e ci si sbizzarrirono, con grande dispiacere, tra gli altri, di Antonio Labriola, uno dei migliori cervelli dell'Università italiana, che era approdato da poco al marxismo e che avrebbe desiderato in tutta la faccenda una maggiore riservatezza.
La crisi era dovuta in parte alla rottura che si stava producendo sul terreno politico e su quello teorico tra marxisti detti «ortodossi» (un termine che annunciava la degenerazione ecclesiastica di un movimento che era iniziato come radicale negazione di ogni autorità e di ogni dogma) e marxisti detti «revisionisti» (che in realtà puntavano soltanto a conciliare o integrare il marxismo con le cose più disparate: l'evoluzionismo di Spencer, il darwinismo sociale, il movimento per la pace universale, ecc.). Ma per la parte di gran lunga più interessante (almeno dal punto di vista delle idee) la crisi del marxismo nasceva fuori del marxismo stesso: nasceva cioè dalle osservazioni, spesso benevole e comunque ispirate a grande rispetto per quegli straordinari personaggi che erano stati Marx e Engels, di un consistente gruppo di intellettuali di valore (Benedetto Croce e Vilfredo Pareto in Italia, Georges Sorel in Francia, ecc.) che, senza essere mai stati marxisti, avevano imparato dal marxismo a smontare i sistemi di pensiero per svelarne le mistificazioni e che poi avevano applicato lo stesso trattamento proprio al marxismo.
Il risultato di questa operazione non era stato confortante per i marxisti. C'era indubbiamente molta «ideologia» (nel senso marxiano di «falsa coscienza» o di «mascheratura» della realtà) nella presuntuosa autodefinizione di «socialismo scientifico». Le opere di Marx e di Engels erano piene di intelligenza e meritavano un'attenta considerazione da parte degli studiosi, ma a questa attenta considerazione non giovavano né la commistione di filosofia, politica, economia, storiografia, morale e via dicendo, che vi si rinveniva, né tanto meno gli ambigui rapporti esistenti tra la teoria marxista e la pratica dei partiti sedicenti marxisti.
Quella commistione e questi rapporti non deponevano a favore del carattere scientifico del marxismo. Né era conforme a un qualsiasi standard scientifico il linguaggio marxista, sempre polemico e carico di immagini e di metafore, spesso indovinate, ma causa inevitabile di equivoci. Nient'altro che una metafora era, ad esempio, la nozione di «guerra di classe» (e metaforica era tutta la tetra terminologia bellica che ne discendeva: «l'esercito del proletariato», «la strategia del partito», «l'arma dello sciopero», «le avanguardie organizzate», ecc.). La guerra, quella vera, come diceva Croce e come avrebbe dimostrato di lì a poco la prima guerra mondiale, la fanno gli Stati, che hanno a disposizione eserciti veri e armi micidiali, non le classi sociali.
Come auspicio e predizione di una società senza classi il marxismo sembrava poi rientrare perfettamente in quel socialismo utopistico da cui aveva voluto orgogliosamente distinguersi in nome della scienza. Contro ogni sua pretesa di scientificità, Sorel finì per parlare del marxismo come di una forma di «poesia sociale», una definizione che di sicuro avrebbe mandato in bestia Marx ed Engels (e forse più Engels che Marx). Ma di quale scienza, poi, si stava parlando? I critici del marxismo non erano affatto d'accordo su cosa si dovesse intendere per «scienza», ma erano tutti d'accordo nel rimetterne in discussione i valori. Il problema, anzi, per certi aspetti, era tutto qui: la crisi vera riguardava la tradizionale concezione della scienza e questa crisi aveva coinvolto inevitabilmente tutte le correnti di pensiero che a quella concezione erano in un modo o nell'altro legate e che non avevano saputo liberarsene a tempo. Forse Engels aveva percepito l'avvicinarsi della crisi quando aveva preso a scrivere la Dialettica della Natura, ma decisamente non aveva imboccato la strada giusta.

ANTONIO LABRIOLA

Antonio Labriola (1843-1904), era stato allievo dell'hegeliano Bertrando Spaventa (1817-1883), nemico acerrimo e intelligente di preti e di positivisti. Pur avendo abbandonato assai presto le posizioni hegeliane, Labriola era rimasto molto legato al maestro, di cui in ogni caso ereditò l'odio per i positivisti (e per i preti, naturalmente). Ammiratore di Darwin, ma non delle confusioni tra mondo della natura e mondo della storia che erano frequenti tra i darwinisti agli inizi degli anni Novanta Labriola aderì al marxismo ed entrò in corrispondenza con Engels. Il marxismo di Labriola era soprattutto una forma di stoicismo antipositivista, e in questo senso era perfettamente in sintonia con quella sorta di «crisi di rigetto» nei confronti del positivismo che la cultura europea attraversò a cavallo dei due secoli. Come i suoi amici Benedetto Croce e Georges Sorel, Labriola amava ostentare una durezza da politico «realista», che lo fece polemizzare vivacemente con le interpretazioni liberali e umanitarie del socialismo e che alla fine gli fece assumere posizioni aberranti per un socialista, come l'adesione alla politica colonialista. Isolato nell'ambito del movimento operaio italiano, Labriola lo fu anche sul piano della polemica culturale quando, scoppiata la cosiddetta «crisi del marxismo», si accorse che tra i suoi promotori c'erano Sorel e Croce, che si era illuso di coinvolgere nella formulazione e nella diffusione di una versione «dura», «realistica», antiutopistica del marxismo.

BENEDETTO CROCE

Benedetto Croce (1866-1952), il maggiore pensatore italiano del Novecento, si diceva «idealista» avendo derivato da Hegel, ma molto liberamente, la concezione della realtà come storia, sviluppo, realizzazione progressiva dei valori dello spirito. Amico e allievo di Antonio Labriola, iniziò la sua attività di filosofo commentando le dottrine marxiste. Nel saggio Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia del 1937 Croce racconta un divertente episodio relativo al ruolo che aveva avuto da giovane, a fianco di Antonio Labriola, nella divulgazione del marxismo in Italia:

... Nel 1930, nel congresso filosofico di Oxford, mi accadde di udire il bolscevico ed ex-ministro dell'istruzione sovietico Lunaciarscki che presentò una relazione assai sprezzante sull'«estetica borghese» (Kant non escluso e me, nominativamente, compreso) e celebrante in cambio quella marxistica e del proletariato; e io, levandomi a parlare dopo il discorso, (nel fargli notare che «estetica marxistica» è contraddizione in termini ammettendo il marxismo un'economia e non un'estetica, e che non meno prive di senso sono le parole «poesia borghese» e «poesia proletaria») gli dissi che il pensiero di Marx noi napoletani lo conoscevamo per filo e per segno molto prima di lor signori rivoluzionari russi, e che io che gli parlavo ero stato scolaro, editore e commentatore di quel Labriola che il loro Trotzskij aveva studiato da giovane, e, col Labriola, uno dei due promotori dello studio del Marx in Italia. Così parlando a lui, dentro di me sorridevo, perché mi pareva di parodiare in prosa francese i due magnifici versi della Gerusalemme:

Ma, chiunque io sia, tu innanzi vedi
un di quei due che la gran torre accese!

Alla quale parodia il Lunaciarscki fece un gesto tra di meraviglia e di ammirazione, e poi venne a salutarmi e a intrattenersi bonariamente con me...

UNA, DUE, CENTO GEOMETRIE

Che qualcosa nella tradizionale concezione della scienza non funzionasse e avesse bisogno di qualche aggiustamento stava emergendo da tempo e proprio nell'ambiente tranquillo e un po' appartato dei matematici e dei logici, considerati da sempre depositari delle uniche certezze indefettibili di cui fosse capace la mente umana e custodi di quelle scienze esatte che sin dall'antichità avevano rappresentato il modello, quasi sempre ineguagliabile, di tutte le altre discipline scientifiche. In particolare gli Elementi della geometria di Euclide avevano incarnato per oltre due millenni l'ideale formale di una scienza costruita per via di pura deduzione da premesse assolutamente certe, assiomi, che sono gli enunciati che non hanno bisogno di essere dimostrati perché di per sé evidenti, o postulati, che non sono evidenti di per sé, ma che devono essere assunti come veri perché necessariamente legati ad altri enunciati che sappiamo essere veri. A questo ideale si era ispirato, tra gli altri, Spinoza, che aveva voluto more geometrico demonstrata la sua Etica.
Che cosa sarebbe accaduto della geometria di Euclide se qualcuno avesse posto in dubbio la validità di qualcuna delle sue premesse? Il problema fu affrontato tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo da tre matematici, dal tedesco Carl Friedrich Gauss (1777-1855), dal russo Nicolaj Ivanovic Lobacevskij (1792-1856) e dall'ungherese Jànos Bòlyai (1802-1860) ai quali non sembrava per nulla evidente il quinto postulato di Euclide, detto «delle parallele», che può essere enunciato in questa forma: «dati in un piano una retta e un punto fuori di essa esiste una sola parallela alla retta che passa per il punto».
Prima di loro altri matematici avevano messo in dubbio che il quinto postulato potesse essere considerato davvero tale, messi sull'avviso anche dal fatto che negli Elementi, mentre gli altri quattro postulati erano collocati all'inizio, questo si trovava molto più avanti, quasi che lo stesso Euclide avesse avuto dei dubbi in proposito. L'italiano Giovanni Gerolamo Saccheri (1667-1733), un gesuita, cercando di darne una dimostrazione per assurdo (ossia cercando di dimostrare l'assurdità delle proposizioni che lo contraddicono), aveva in effetti trovato una serie di enunciati che considerò falsi per fedeltà ad Euclide, ma che non erano per nulla assurdi e che avrebbero poi trovato posto nelle geometrie non-euclidee di Lobacevskij e di Riemann.
Lobacevskij e Bòlyai partirono dall'ipotesi che non si trattasse di un postulato, ma di un teorema da dimostrare; e cercarono di dimostrarlo. Si accorsero quasi subito che esso era valido solo in relazione a certe premesse, quelle appunto della geometria euclidea, ma non era più vero se si accettavano premesse diverse. Se per esempio si immaginava che il piano fosse una superficie sferica e che una retta fosse una circonferenza massima si poteva concludere che per un punto fuori della circonferenza considerata non poteva passare nessuna altra circonferenza massima che toccasse in un solo punto la circonferenza. Infatti due circonferenze massime si incontrano in due punti. Cadendo questo postulato tutta la geometria euclidea cambiava faccia, o, per meglio dire, era possibile costruire una nuova geometria che era perfettamente coerente con le premesse, ma dove ad esempio la somma degli angoli interni di un triangolo non era più uguale a 180 gradi. Anche il tedesco Bernhard Riemann (1826-1866) costruì una sua geometria partendo dal postulato che per un punto non è possibile condurre alcuna retta parallela ad una retta data.
Che cosa significava tutto ciò e quali conseguenze bisognava trarre dal sorprendente moltiplicarsi delle geometrie possibili? Una conseguenza era che anche le caratteristiche dello spazio dipendono dalle premesse su cui poggiano le geometrie. La concezione dello spazio quale risultava dalla geometria di Riemann, ad esempio, avrebbe trovato applicazione qualche decennio più tardi nella teoria generale della relatività di Einstein. Questo voleva anche dire che lo spazio non esiste di per sé, ma è solo qualcosa che soddisfa certe proprietà. Stando così le cose, però, dove andava a finire lo spazio assoluto di Newton, che Newton considerava come il sensorio di Dio? E che ne era dello spazio di Kant, forma a priori della sensibilità?
Anche l'idea che gli «oggetti» della matematica siano solo numeri, grandezze, figure doveva venire a cadere. Il matematico irlandese George Boole (1815-1864) aveva affermato che la matematica studia le operazioni in se stesse, indipendentemente dagli oggetti a cui possono essere applicate. La matematica sarebbe dunque «una pura teoria delle forme» e i suoi oggetti «oggetti del pensiero». Non importa tanto di che cosa stiamo parlando, quanto di come ne parliamo. Consapevole dell'applicabilità delle nozioni e dei metodi algebrici a oggetti diversi dagli enti matematici, aveva fondato una «algebra della logica», immediato antecedente della moderna logica simbolica, nella quale termini algebrici come +, x, ', =, ecc. servivano per esprimere operazioni e relazioni logiche, con il vantaggio di evitare le ambiguità e le improprietà del linguaggio comune, e di poter trattare un materiale complesso con assoluta precisione formale come in un vero e proprio «calcolo logico». Dopo Boole, il tedesco Gottlob Frege (1848-1925) e l'italiano Giuseppe Peano (1858-1932) hanno tentato di ridurre i concetti-base dell'aritmetica, come per esempio il concetto di numero, a concetti puri della logica, come per esempio il concetto di classe. Questi tentativi sboccarono infine, nel 1912, nei Principia mathematica di Bertrand Russell (1872-1970) e Alfred North Whitehead (1861-1947), che rappresentano l'opera fondamentale e più matura del «logicismo», come viene chiamata questo programma di integrale logicizzazione della matematica.
Nell'ultimo decennio dell'Ottocento, il matematico tedesco Georg Cantor (1845-1918), il creatore della teoria degli insiemi, scriveva che

... le nozioni della matematica sono legate fra di loro solo dalla necessità di non essere in contraddizione e di essere coordinate ai concetti precedentemente introdotti mediante precise definizioni...

Per il resto, aggiungeva, il matematico può procedere «in completa libertà». Questo punto di vista doveva affermarsi in ogni campo della matematica, dall'aritmetica all'analisi, all'algebra, alla geometria stessa. Nel 1900, nei suoi Fondamenti della geometria il matematico tedesco David Hilbert (1862-1943) parlava dei tradizionali oggetti geometrici, di cui aveva già parlato Euclide, ossia di punti, rette, piani che sono tra di loro in certe relazioni fondamentali, espresse dagli assiomi. Ma quello che conta, diceva, non sono gli oggetti, sono le relazioni che gli assiomi esprimono:

... Se voglio intendere un qualsiasi sistema di oggetti, per esempio il sistema: amore, legge, spazzacamino, - scriveva nel 1899 - [...] basterà che pensi che i miei assiomi esprimono relazioni fra questi oggetti, purché tali asserti valgano anche per questi oggetti...

Si possono cioè legittimamente chiamare «punti», «rette» e «piani» tutti i possibili enti fra i quali viga un sistema di relazioni uguale a quello descritto dagli assiomi. In ultima analisi, la verità o la falsità degli asserti matematici dipende dalla interpretazione che diamo dei termini matematici in un dato sistema di oggetti. In generale, si possono dare infinite interpretazioni, perché, come scrive Hilbert «ogni teoria può essere applicata a infiniti sistemi di oggetti». Naturalmente, data una certa teoria matematica, ci interesseranno quei sistemi di oggetti rispetto ai quali, con un'opportuna interpretazione, risultano veri gli asserti della teoria. La verità di una proposizione matematica (o, di una intera teoria matematica) si riporta, allora, alla ricerca (e allo studio) di sistemi di oggetti in cui tale proposizione (o tale teoria) risulti vera.
In rapporto alla geometria, Einstein ha riassunto così il significato di «verità matematica»:

... La geometria prende l'avvio da alcuni concetti fondamentali, come «piano», «punto», «retta», ai quali siamo in grado di associare delle rappresentazioni più o meno precise, e da alcune proposizioni semplici (assiomi) che, in virtù di queste rappresentazioni, siamo inclini ad accettare come «vere». In base ad un procedimento logico di cui ci sentiamo costretti ad ammettere la legittimità, tutte le rimanenti proposizioni vengono poi ricondotte a questi assiomi, cioè vengono dimostrate. Una proposizione risulterà dunque corretta («vera») quando è stata derivata dagli assiomi nella maniera ammessa come legittima.
Il problema della «verità» delle singole proposizioni geometriche viene così ricondotta al problema della «verità» degli assiomi. Orbene, è da tempo noto che a quest'ultimo problema non soltanto non si può dare una risposta con i metodi della geometria, ma che esso è in sé assolutamente privo di significato. Non possiamo chiedere se sia vero che per due punti passa soltanto un'unica retta. Possiamo solamente dire che la geometria euclidea tratta di oggetti da essa chiamati «rette», attribuendo a ciascuna di queste rette la proprietà di essere univocamente determinata da due suoi punti.
Il concetto di «vero» non si addice alle asserzioni della geometria pura, perché con la parola «vero» noi abbiamo in definitiva l'abitudine di designare sempre la corrispondenza con un oggetto «reale»; la geometria invece non si occupa della relazione fra i concetti da essi presi in esame e gli oggetti dell'esperienza, ma soltanto della connessione logica di tali concetti l'uno con l'altro...

LOGICA, LOGISTICA, LOGICISMO

Come sappiamo la logica, anche quella detta «tradizionale» che riconosce il suo fondatore in Aristotele, si è sempre occupata della struttura delle proposizioni e dei ragionamenti, ossia della loro forma e non dei loro contenuti concreti. In questo senso la logica è sempre «logica formale». La logica moderna, però, si distingue dalla logica tradizionale per un più accentuato processo di formalizzazione che: 1) ha portato all'abbandono del linguaggio ordinario, fonte di ambiguità e di errori, e all'adozione di un linguaggio costituito da un insieme esattamente definito di simboli e di regole per la formazione di enunciati (per questo la logica moderna si dice «simbolica»); 2) ha fatto emergere la convergenza (o l'identità come è stato sostenuto, per esempio, da Gottlob Frege e da Bertrand Russell) di logica e matematica (si parla per questo di «logica matematica»).
Il termine «logistica», che in antico indicava l'aritmetica, ossia l'arte del calcolare, dagli inizi del Novecento è usato o come generico sinonimo di logica simbolica o matematica, oppure, in modo specifico, per indicare il programma di Frege e di Russell di riduzione di tutta la matematica a logica: in questo secondo significato, però, è meglio usare il termine «logicismo».
Nel suo tentativo di «logicizzazione» della matematica Frege si è scontrato con la tendenza (rappresentata tra l'altro da Franz Brentano, uno dei maestri di Husserl) a ridurre la logica e la matematica a fenomeni soggettivi della coscienza, e quindi a interpretare il significato dei concetti logici e matematici in funzione della loro genesi nella mente umana («psicologismo»). Un asserto logico e una proposizione matematica, osservava in proposito Frege, non cessano di essere veri quando non pensiamo più ad essi, allo stesso modo in cui il Sole non cessa di esistere quando chiudiamo gli occhi. L'atto con cui pensiamo una nozione logica è cosa affatto diversa da questa nozione, così come l'atto del vedere il Sole è un'altra cosa rispetto al Sole. Secondo Frege la logica si occupa di oggetti ideali e dei rapporti che intercorrono tra di loro, e questi oggetti (e i loro rapporti) esistono per proprio conto, indipendentemente dal fatto che ce ne occupiamo.
A parte la polemica con lo psicologismo, il «logicismo» di Frege e di Russell ha incontrato notevoli resistenze sia tra i logici sia tra i matematici. Esso - ha scritto Russell - «è avversato dai logici che, avendo dedicato il loro tempo allo studio dei testi classici, sono incapaci di seguire anche un solo frammento di ragionamento simbolico, e dai matematici che hanno imparato una tecnica senza preoccuparsi di indagare il suo significato e la sua giustificazione». In realtà queste resistenze esprimevano, più che un disagio di carattere «tecnico», un dissenso di principio. Nel programma logicista c'era la presunzione di fondare la matematica su un nucleo di verità assolute ed eterne, quale si immaginava che fossero i principi della logica. Ma, obiettavano i convenzionalisti, queste idee assolute ed eterne non si sa dove siano e che cosa siano e a forza di fondare qualcosa su qualcosa di diverso si deve pur finire in qualcosa che non è fondato su niente, ma che è semplicemente «postulato per convenzione».
Anche Russell sosteneva che gli enti logici e matematici esistono realmente al pari degli oggetti fisici: le proposizioni della logica e dell'aritmetica - diceva con un pizzico di paradosso - debbono essere scoperte allo stesso modo in cui Colombo scoprì le Indie occidentali. In seguito Russell ha corretto le sue posizioni in materia, ma non ha mai abbandonato la tesi secondo cui le proposizioni della logica e della matematica si riferiscono a qualcosa che è del mondo e che pertanto non possono essere considerate (come fa invece il convenzionalismo) creazioni arbitrarie della mente umana.

DUE PIÙ DUE FA SEMPRE QUATTRO?

«È vero come è vero che 2 + 2 fa 4!»: lo diciamo abitualmente quando vogliamo affermare la verità indubitabile di qualche cosa. Questo modo di dire riposa sulla convinzione che le asserzioni della matematica siano assolutamente vere, ieri come oggi e come tra mille anni, sulla Terra come sulla Luna, in tutti i casi e in tutte le situazioni possibili. Ma quanto è giustificata questa opinione?
Per sgombrare la mente dai pregiudizi e aprirci la strada verso la comprensione di che cosa significhi «verità» in matematica, facciamo un esempio molto semplice. Qualcuno ci propone un'escursione: dovremo cenare fra tre ore, andare a letto fra cinque e partire fra undici. Guardiamo l'orologio: sono le 14 del pomeriggio. Ceneremo dunque alle 7, e andremo a letto alle 9. Per saperlo è bastato fare le addizioni 4 + 3 = 7 e 4 + 5 = 9. Ma a che ora partiremo? Se fra 5 ore la lancetta dell'orologio segnerà le 9, fra 6 ore segnerà le 10, fra 7 le 11, fra 8 le 12, fra 9 l'una di notte, fra 10 le 2, fra 11 le 3. Partiremo alle tre. Abbiamo aggiunto 11 a 4 e abbiamo ottenuto 3: per l'aritmetica dell'orologio 4 + 11 = 3. Non è un'aritmetica strana: ciascuno di noi la adopera in continuazione.
Possiamo ottenere 11 + 4 = 3 togliendo 12 (il numero più alto che compare sul quadrante dell'orologio) dalla somma ottenuta con l'aritmetica normale:

4 + 11 = 15; 15 - 12 = 3.

Si può allora costruire una tabella di addizione che deve essere usata come si usa la tavola pitagorica (vedi fig.) per fare le moltiplicazioni: per esempio 5 + 9 = 2.
Tabella di addizione

Come si vede qualsiasi numero sommato a 12 dà se stesso. Il 12 in questa aritmetica ha perciò delle proprietà analoghe a quelle dello 0 dell'aritmetica normale. La mezzanotte infatti può essere pensata o come le ore 12 della sera o come le ore 0 del mattino.
Qualcuno potrebbe obiettare a questo punto che l'aritmetica dell'orologio è in fin dei conti una costruzione artificiale dell'uomo, e che i suoi risultati erano per così dire scontati fin dal principio, fin da quando cioè si è deciso di utilizzare solo dodici numeri e di ricominciare daccapo il conto ogni dodici ore. L'osservazione è giustissima. Quello di cui tuttavia dobbiamo renderci conto è che anche l'aritmetica normale, e qualsiasi altro ramo della matematica, sono costruzioni artificiali, e che i loro risultati sono condizionati dai numeri dagli enti e dalle regole fondamentali che si è deciso di adottare. Per esempio: è sempre possibile eseguire la divisione di due numeri? Se per «numeri» si intendono i numeri interi 1, 2, 3, 4, ..., la risposta è no: se non vogliamo tagliare nessuno in due non possiamo dividere un gruppo di 5 persone in due gruppi uguali. Se però per «numeri» si intendono oltre gli interi, i frazionari, la risposta è sì: è perfettamente possibile dividere 5 kg di farina in due parti uguali, ognuna di due chili e mezzo.
Ma allora è vero o no che 5 è divisibile per 2? Dovrebbe ormai essere chiaro che la domanda ha un senso solo se specifichiamo l'insieme dei numeri che prendiamo in considerazione e che la divisibilità di 5 per 2 è relativa all'insieme scelto. Resta da vedere se ci sia e quale sia il «vero» insieme dei numeri, cioè quali enti abbiano il pieno diritto di chiamarsi numeri. In realtà non c'è un «vero» insieme di numeri, o meglio tutti gli insiemi di numeri che possiamo pensare di usare sono ugualmente veri, e pertanto tutte le aritmetiche hanno pari dignità. Siamo così giunti a intendere la natura delle scienze matematiche in generale.
Una qualsiasi branca della matematica si fonda su un certo numero di concetti-base e di postulati o di assiomi, che esprimono proprietà e relazioni fondamentali tra i concetti-base: concetti base e postulati vengono assunti per convenzione. Da questa base convenzionale attraverso le regole della logica si deducono altre asserzioni, chiamate teoremi. Un teorema è corretto se è stato dedotto senza errori logici dai postulati fondamentali. Attraverso lunghe serie di teoremi si possono ottenere gigantesche costruzioni, perfettamente coerenti e dal rigore impeccabile. In questo senso è corretto parlare delle matematiche come di scienze esatte, nel senso che in esse ogni asserzione discende necessariamente dai postulati scelti. Ma è chiaro che non ha senso dire che queste asserzioni sono vere: il loro grado di verità è lo stesso dei postulati da cui derivano, ed essi in matematica pura non sono né veri né falsi, ma scelti ad arbitrio.
Trasferendoci dal dominio della matematica «pura» a quelli delle matematiche applicate, della fisica, ecc., possiamo però chiederci legittimamente quanto i postulati siano in accordo con le caratteristiche degli oggetti realmente esistenti in natura e di cui intendiamo occuparci. Si tratterà allora di scegliere per ogni singolo problema la matematica più conveniente, quella cioè che rispecchia maggiormente le condizioni della situazione sotto indagine: così, per sommare le ore si userà l'aritmetica finita a 12 numeri, per suddividere gruppi di individualità indivisibili (come le persone) l'aritmetica dei numeri interi; per dividere quantità suddivisibili quanto si vuole l'aritmetica dei numeri razionali. E ancora: per misurare l'estensione di un terreno la geometria euclidea; per studiare le proprietà geometriche dell'universo una geometria spazio-temporale a 4 dimensioni, e così via.
Storicamente, le basi assiomatiche dei vari rami della matematica sono state scelte in genere proprio in modo che corrispondessero il più strettamente possibile alle proprietà reali delle cose. Che però una corrispondenza assoluta sia impossibile lo possiamo capire per esempio, dal confronto tra il «punto» geometrico (senza dimensioni in nessuna direzione) e i «punti» che possiamo disegnare sulla lavagna o sul quaderno, che sono in realtà sempre macchioline più o meno grosse di dimensioni più o meno grandi. Possiamo concludere con le parole di Einstein:

... Fino a quando le leggi della matematica si riferiscono alla realtà esse non sono certe; e fino a quando esse sono certe, non si riferiscono alla realtà...

L'AUTOCRITICA DELLA SCIENZA

Mentre i positivisti si crogiolavano al fuoco delle loro «scientifiche» certezze, dalla matematica arrivavano una serie di sconcertanti messaggi: non esiste una sola aritmetica o una sola geometria; non c'è neppure una aritmetica o una geometria «più vera» delle altre; perfino lo spazio non è più quello di sempre e non è più uno solo. In una parola: la verità non esiste, o, se esiste, non è quella che ci si immaginava, perché non è più possibile parlare di un'unica verità.
Per parecchio tempo quasi nessuno si accorse di nulla e solo alla fine del secolo con l'affacciarsi di correnti apertamente convenzionaliste la cosa divenne di pubblico dominio. L'idea però era matura da tempo. Hans Vaihinger (1852-1933), per esempio, che avrebbe pubblicato la sua opera più importante, La filosofia del Come-Se, solo nel 1911, e cioè quando aveva quasi sessant'anni, ne aveva steso una prima redazione negli anni Settanta, quando ne aveva a mala pena venticinque. Più che «convenzionalismo» nel caso di Vaihinger si dovrebbe parlare di «finzionismo» (ma lui definiva la sua filosofia come «positivismo critico» o «positivismo idealistico» o «idealismo positivo», con un singolare e significativo attaccamento alla nozione di «positività»). Le scienze, sosteneva Vaihinger (e non solo quelle matematiche, ma anche, e soprattutto, quelle naturali e sociali), operano sulla base di assunti indimostrabili per definizione, con nozioni approssimative, inadeguate, frutto di immaginazione, spesso contraddittorie. E tuttavia le teorie scientifiche ci permettono di orientarci nella realtà e di padroneggiarla. D'altra parte questa cosiddetta «realtà» non è che una massa di rappresentazioni; non ha dunque senso parlare delle teorie scientifiche come di teorie «vere», ossia conformi alla realtà. Ma ne avrebbe ancora meno parlarne come di costruzioni false o inutili. Le teorie scientifiche sono piuttosto delle finzioni, per altro utilissime, che adoperiamo come se fossero vere: quanto più siamo consapevoli di questo loro carattere tanto maggiore è il profitto che possiamo sperare di trarne.
Vaihinger era uno studioso di Kant, direttore di una rivista interamente dedicata a lui e fondatore di un'associazione di studi kantiani. Di formazione kantiana (aveva letto Kant a quindici anni e ne aveva ricevuto «un'impressione incancellabile») era anche lo scienziato austriaco Ernst Mach (1838-1916), autore di interessanti studi nel campo della meccanica, della termodinamica, dell'elettrologia, ma soprattutto epistemologo (ossia filosofo della scienza) e storico della scienza (la sua opera maggiore in questo campo è la Storia critica della meccanica del 1883).
Anche Mach cercando di definire in che cosa potesse consistere la «verità» delle teorie e delle leggi scientifiche indicava la loro capacità di organizzare nel modo più economico possibile la massa dei dati sensibili, e cioè in sostanza nella loro utilità come strumenti di azione. Ad analoghe conclusioni, ma prima e indipendentemente da Mach, era arrivato il tedesco Richard Avenarius (1843-1896), autore di una grande Critica dell'esperienza pura, da cui il nome di «empiriocriticismo» da lui stesso attribuito al proprio indirizzo di pensiero (poi esteso a quello di Mach). La Critica di Avenarius fu pubblicata tra il 1888 e il 1890, ma era stata preceduta da una serie di scritti risalenti, ancora una volta, agli anni Settanta, che ne anticipavano i contenuti più importanti, e in primo luogo il cosiddetto «principio del minimo sforzo»: la conoscenza (diceva in sostanza Avenarius) e in particolare la conoscenza scientifica tende a organizzare i dati dell'esperienza nel modo più semplice possibile, descrivendoli e classificandoli in base al minor numero possibile di segni e di regole convenzionali.
Il massimo rappresentante del convenzionalismo fu il francese Jules-Henri Poincaré (1854-1912). Matematico, fisico, astronomo, non aveva ancora trent'anni e già occupava una cattedra prestigiosa alla Sorbona, l'università di Parigi. Oltre che filosofo della scienza, è stato uno dei più eminenti scienziati del suo tempo. Ha contribuito al rinnovamento della fisica con numerosi lavori, specialmente nel campo dell'elettrodinamica, arrivando tra l'altro a formulare una teoria del tutto analoga a quella della relatività di Einstein. I positivisti gli rimproveravano di «mettere in dubbio la validità della scienza», ma nessuno poteva mettere in dubbio il suo impegno scientifico e nessuno era più «positivo» di lui. La sua riflessione epistemologica è stata definita una sorta di autocritica della scienza, e in verità essa nasceva (come del resto in Mach) dalla pratica effettiva e militante della ricerca.

Secondo Mach la sola realtà di cui si possa parlare è l'esperienza «pura», definita come flusso ininterrotto di sensazioni: un'arancia è la somma delle sensazioni che ne abbiamo (il profumo, il colore, la particolare sensazione tattile che abbiamo toccandola, ecc.) e basta. Nel flusso continuo dell'esperienza isoliamo diversi complessi di sensazioni o oggetti (distinguiamo, per esempio, l'arancia dal tavolo su cui è posata) e usiamo le parole come nomi o etichette per contrassegnarli.
Questa divisione del flusso dell'esperienza è utile per orientarsi in esso e per dominarne il corso, ma è una manipolazione arbitraria: ha dunque un carattere esclusivamente pratico-utilitario o, come si esprime Mach, «economico», teso cioè a risparmiarci lavoro nelle attività legate alla sopravvivenza.

IPOTESI

«Ipotesi» (dal greco hypò = «sotto» e thésis = «tesio, posizione) corrisponde a «supposizione», ossia a proposizione formulata in via di tentativo per spiegare un insieme di fatti di cui non si ha perfetta conoscenza. Il significato fondamentale del termine ipotesi fu stabilito da Platone, secondo il quale ogni argomentazione deve partire da certe proposizioni iniziali, le ipotesi appunto, da cui si deducono tutte le possibili conseguenze: sulla base di queste, infine, si accetta o si scarta l'ipotesi di partenza. Il termine ipotesi ha trovato la sua massima diffusione nell'epistemologia contemporanea in cui indica una proposizione formulata per spiegare un certo insieme di fatti d'esperienza.
Le posizioni degli epistemologi moderni circa la natura dell'ipotesi possono essere ricondotte a due principali. La prima, che fa capo a Mach, Poincaré e in genere a posizioni convenzionalistiche, sostiene che l'ipotesi è soltanto uno strumento utile per mettere ordine nella nostra esperienza. In quanto strumento l'ipotesi non può dirsi né vera né falsa, ma soltanto utile o inutile, per cui la scelta tra due ipotesi deve essere compiuta sulla base della loro maggiore o minore semplicità o economicità. Quanto più un'ipotesi è semplice e quanti meno elementi sono richiesti per la sua formulazione, tanto più essa risulta comoda, maneggevole, utilizzabile. Così, ad esempio, la teoria di Copernico era preferibile a quella di Tolomeo non perché fosse più vera, ma perché risultava decisamente più elegante (meno complicata) e rendeva più facili i calcoli astronomici. La seconda tendenza fa capo a Peirce e a Popper, per i quali l'ipotesi è una proposizione che può essere vera, anche se non possiamo stabilirne effettivamente la verità (altrimenti non saremmo più in presenza di una semplice ipotesi): il criterio di scelta tra due ipotesi diverse non è dunque la comodità o l'eleganza, ma «il grado di verità» che esse presentano.
Quelle che Vaihinger chiamava «finzioni» non sono pienamente assimilabili alle ipotesi di Mach o di Poincaré: «la finzione - scriveva lo stesso Vaihinger - non è che una costruzione utile, un'approssimazione indiretta, una piattaforma di cui si deve prevedere la demolizione; l'ipotesi, invece, si costruisce in vista di una sua conferma. [...] Ciò che è insostenibile come ipotesi può rendere eccellenti servizi come finzione». Ma Vaihinger ci teneva soprattutto a distinguersi dal pragmatismo, specialmente quello alla James, che riduceva il vero all'utile. Una finzione, diceva Vaihinger, può risultare utilissima, ma non cessa per questo di essere una finzione, cioè una non-verità.

EPISTEMOLOGIA

Dal greco epistème = «scienza», significa genericamente «filosofia della scienza». Il termine però necessita di qualche spiegazione, soprattutto in relazione a «gnoseologia» o teoria della conoscenza. Poiché anche la conoscenza scientifica è conoscenza l'epistemologia può essere considerata come una branca della gnoseologia. In inglese, anzi, il termine epistemologia è usato spesso come sinonimo di teoria della conoscenza. La scienza contemporanea ha raggiunto però un grado tale di sviluppo da apparire come un'attività dotata di una propria fisionomia irriducibile a qualsiasi altra attività, compresa l'attività conoscitiva in generale. Uno dei compiti principali dell'epistemologia diventa allora quello di mettere in luce ciò che distingue la scienza in senso stretto dalla conoscenza comune, di mettere in luce, cioè, quelle tecniche e quei problemi che sono specifici dell'indagine scientifica e che, pur trovando addentellati nella conoscenza comune, soltanto nella scienza giungono ad uno sviluppo e una sistematicità tali da diventare oggetto di ricerca autonoma. L'epistemologia, insomma, è l'analisi critica dei principi, dei procedimenti logici e dei risultati della scienza.

EINSTEIN E POINCARÈ

Tutti sanno che nel 1905 Einstein fondò la teoria della relatività. Non tutti sanno però che una teoria sostanzialmente uguale fu presentata, contemporaneamente, da Henri Poincaré. In quel momento Einstein era un oscuro impiegato dell'ufficio brevetti di Berna, mentre Poincaré era uno dei più famosi matematici e filosofi del mondo. Per di più Poincaré era uno scrittore elegante e un abile divulgatore noto e apprezzato da un largo pubblico di persone colte. Eppure la risonanza dell'articolo di Einstein Zur Elektrodynamik der bewegter Körper fu immensamente maggiore di quella dei lavori di Poincaré.
Il fatto è che Einstein presentava un'analisi profonda del significato del tempo e dello spazio in un mondo in cui l'informazione viene scambiata alla velocità della luce; mentre a Poincaré, convenzionalista, tutto questo interessava meno; ciò che contava per lui era prima di tutto la struttura matematica della teorie. È dunque per il suo interesse filosofico che la teoria di Einstein affascinò i fisici. Bisogna pur ricordare, comunque, che anche Poincaré ha formulato, indipendentemente da Einstein, il principio di relatività (oggi la teoria di Poincaré, più raffinata matematicamente, è largamente apprezzata). E forse non è male ammettere che nel successo di Einstein abbia pesato un po' anche lo sciovinismo: Einstein scriveva sugli «Annalen der Physik», e per i dotti tedeschi, che allora controllavano il mercato scientifico, gli «Annalen» erano pur sempre gli «Annalen», il vertice, il massimo, il meglio del meglio, l'incomparabile. E Poincaré, in fondo, non era che un francese.

IL PRAGMATISMO AMERICANO

Il fondatore dell'indirizzo filosofico del pragmatismo è considerato Charles Sanders Peirce (1839-1914) uno dei filosofi americani in assoluto più interessanti. Poco conosciuto e poco apprezzato in vita, i suoi lavori principali sono stati pubblicati dopo la morte. La tesi più originale di Peirce era che la comprensione di un'affermazione equivale alla comprensione e alla previsione dei suoi effetti e delle sue conseguenze pratiche. Se per esempio diciamo che il diamante è «duro» vogliamo dire che il diamante non può essere facilmente scalfito da altre sostanze; se diciamo che un vetro è fragile, vogliamo dire che potrebbe rompersi con facilità. Il significato di un'affermazione è perciò identico ai suoi prevedibili effetti pratici. Questa tesi rappresentava una notevole correzione della teoria classica della verità come corrispondenza delle idee con le cose e si avvicinava molto alle idee del convenzionalismo di Mach e Poincaré e del finzionismo di Vaihinger: la «verità» di un'affermazione può essere accertata solo mediante i risultati pratici ed empirici cui essa conduce. L'originalità di Peirce consisteva però nel ritenere identici, e non separabili, il significato di un'affermazione e le sue conseguenze pratiche, giungendo a concepire la verità come risultato del controllo sperimentale di queste conseguenze.
Un altro elemento di notevole interesse nel pensiero di Peirce è l'aver colto un carattere della conoscenza scientifica di cui soltanto nel nostro secolo la filosofia della scienza (soprattutto con Karl Raimund Popper) ha compreso l'importanza, e cioè il «fallibilismo» di ogni nostra conoscenza, il fatto che in ogni nostra conoscenza si insinua sempre un errore. Il metodo scientifico, secondo Peirce, è tale perché riconoscendo la possibilità dell'errore, ha la capacità di autocorreggersi; la scienza, anzi, che non può mai giungere ad una presunta «verità» definitiva, non è in sostanza che una certa tecnica per la scoperta dell'errore e per la sua correzione.
Peirce diceva che il valore di una proposizione sta negli effetti pratici dell'esperienza sensibile e si riferiva in particolare all'esperienza scientifica, di laboratorio. Il suo compatriota William James (1842-1910) diceva la stessa cosa, ma riferendosi all'esperienza interiore e alla fede. E poiché in quegli anni l'esperienza interiore e la fede erano molto popolari tra quanti (ed erano la maggioranza) trovavano nella dimostrata inconsistenza dello scientismo positivistico un buon motivo per non attenersi più alle risultanze positive della scienza, James dopo la pubblicazione nel 1902 di Le varietà dell'esperienza religiosa e nel 1907 di Pragmatismo divenne un filosofo alla moda: un po' come Bergson, che infatti trovava «affascinante» la filosofia di James, mentre James giudicava «divina» quella di Bergson.
Poiché secondo James la vera natura dell'uomo sta nell'agire, la funzione del pensiero è quella di rendere possibile l'azione, di non ostacolarla. Nel caso in cui non sia possibile dimostrare né che una convinzione o «credenza» è vera, né che è falsa, sarebbe assurdo seguire il principio scettico secondo cui dovremmo sospendere il giudizio e «mettere un catenaccio» al nostro cuore in attesa che il nostro intelletto abbia prodotto prove sufficienti a favore o contro: se la credenza in questione è sentita come decisiva per la vita dell'individuo, l'uomo può assumersi il rischio di credere. James, anzi, giungeva ad asserire che la fede in una affermazione può portare alla sua realizzazione o verifica: può, per esempio, capitare che il credere che una persona ci sia amica, ci induca ad assumere nei suoi confronti un atteggiamento di simpatia, di disponibilità, ecc. che alla fine può davvero conquistarci la sua amicizia.
Il più noto dei pragmatisti americani è il più giovane dei tre, John Dewey (1859-1952). Dewey accettava dall'empirismo classico l'idea che ogni nostra conoscenza sia legata all'esperienza, in cui riposa il criterio della verità o falsità. Dewey rifiutava però il concetto di esperienza che aveva l'empirismo sei-settecentesco, che la identificava con una somma di sensazioni isolate (come nell'atomismo psichico di Locke) e che, cosa ancora più importante, presupponeva l'opposizione tra la natura, che è oggetto d'esperienza, e l'uomo, che è il soggetto che ne fa esperienza. L'empirismo classico aveva insomma concepito il soggetto come sostanzialmente passivo, sottoposto alle «impressioni» prodotte in lui dalla realtà esterna. Dewey, al contrario, (con qualche analogia con quanto aveva affermato Marx in polemica con il vecchio materialismo) intendeva l'esperienza come un processo attivo in cui non è possibile separare l'uomo dalla natura, il soggetto dall'oggetto. Caratteristica dell'uomo è sì la spiritualità, ma questa spiritualità (o intelligenza) non esclude le radici biologiche: ne è piuttosto la continuazione.
Ogni ricerca o indagine prende l'avvio, secondo Dewey, da una situazione di precarietà e instabilità dell'ambiente che circonda l'uomo. In altre parole, è il rischio rappresentato dall'instabilità e dalla precarietà in cui l'uomo vive, che stimola l'intelligenza a cercare nuovi mezzi per introdurre nel mondo ordine e razionalità. L'intelligenza è per Dewey la capacità di trarre dalle cose i loro significati. E i «significati» delle cose sono per Dewey quei metodi o strumenti che consentono di spingere nel futuro lo sguardo dell'uomo e di trarne vantaggio: mentre l'animale considera le cose nella loro esistenza immediata (per cui il fuoco è soltanto qualcosa da fuggire perché brucia), l'uomo le considera nelle loro conseguenze possibili, immaginando certi effetti futuri (per cui il fuoco può essere pensato come strumento per cuocere, per illuminare, ecc.). Dewey diede alla propria concezione il nome di strumentalismo proprio nel senso che i nostri concetti, le nostre idee, le stesse teorie scientifiche sono strumenti di cui ci serviamo per organizzare e migliorare la nostra esistenza. Se questi strumenti hanno successo sono veri, se falliscono sono falsi.
Benché il mondo sia dominato dall'instabilità, Dewey era fiducioso circa la capacità dell'intelligenza umana di introdurvi elementi di razionalità. Alcuni hanno visto in questo ottimismo di Dewey un elemento di affinità con quelle dottrine del positivismo evoluzionistico che non avevano dubbi circa il carattere inarrestabile del progresso verso forme sempre più alte e complesse di vita. Altri, invece, hanno parlato di un «nuovo illuminismo», dotato di una coscienza critica sicuramente più agguerrita del vecchio illuminismo settecentesco e perciò lontanissimo dal generico (e spesso ambiguo) progressismo dei moderni positivisti: una forma di ragionevole fiducia circa la possibilità (non l'inevitabilità) che la condizione dell'uomo possa migliorare utilizzando con buon senso le conquiste della scienza.

MA CHE COS'È LA VERITÀ

Comunemente si intende per «verità» di una proposizione la sua corrispondenza con i fatti. Si dice ad esempio: testimoniare la verità, nascondere la verità, cioè, rispettivamente, narrare fedelmente, oppure occultare, il modo in cui i fatti effettivamente si sono svolti. Questo significato del termine coincide con una delle posizioni filosofiche fondamentali e per esempio con la definizione che già ne dava Platone: «Vero è il discorso che dice le cose come sono, falso quello che dice le cose come esse non sono» (Cratilo, 385b). In altre parole, se dico «Socrate è seduto» la mia asserzione è vera se Socrate è davvero seduto, ed è falsa se invece è in piedi. Aristotele, precisando la nozione di verità come corrispondenza con le cose, aggiunse che la verità è una proprietà soltanto del pensiero o del linguaggio, non delle cose in quanto tali. In effetti, se dico «La penna è sul tavolo» né la penna né il tavolo e neppure il loro rapporto reciproco sono propriamente «veri» bensì soltanto la proposizione che ne parla.
Chi riduce la realtà alle idee che abbiamo di essa, come fa l'idealismo, non può ammettere la teoria della corrispondenza con i fatti, poiché nega appunto l'esistenza di fatti in sé, fuori del pensiero che li pensa. L'idealismo propende di solito per una nozione di verità come coerenza: l'accertamento della verità consiste nel controllo della non contraddittorietà di una proposizione con altre proposizioni ad essa legate.
Un'altra teoria ripone il criterio di verità nell'evidenza. Così, per esempio, secondo Cartesio un'idea è vera se appare «evidente», cioè se appare talmente chiara e distinta da strappare l'assenso alla mente di chi la considera. Il criterio dell'evidenza è presente anche in ogni forma di empirismo secondo cui la verità delle nostre conoscenze riposa sull'evidenza dei dati percettivi: così, ad esempio, si può certamente dubitare che il rosso che vedo sia davvero ciò che gli altri chiamano rosso (potrei infatti essere daltonico), ma è assolutamente indubitabile che io ho una ben determinata percezione di colore.
Secondo un'ultima teoria, sostenuta soprattutto dal pragmatismo, è vero ciò che è utile, o che produce soddisfazione, o che è efficace per ottenere un certo scopo. Da questo punto di vista si potrebbe dire che la proposizione: Il cibo nutre è vera perché l'ingerire certe sostanze è utile alla nostra sopravvivenza. La tesi dell'identità di vero e utile ha avuto però formulazioni molto diverse. Così, ad esempio, mentre in senso radicale la si dovrebbe estendere anche alle conclusioni della scienza sperimentale, William James tende ad applicarla esclusivamente alla sfera della religione, della morale e in genere dell'azione pratica. John Dewey, invece, definisce l'utilità dei nostri concetti come un'utilità - appunto - di tipo conoscitivo (nel senso che essi sono strumenti mentali che servono per conoscere come le cose stanno effettivamente), e finisce per proporre una nozione di verità che coincide con la verificabilità sperimentale.
Quello della verificabilità delle ipotesi e delle teorie è un tema fondamentale della scienza sperimentale in qualche modo legato al presupposto della corrispondenza tra idee e cose. Il controllo di questa corrispondenza, però, dipende nella scienza dalla possibilità di eseguire pratica mente certe operazioni. La verità della proposizione: Questa cartella pesa cinque chilogrammi si stabilisce collocando la cartella sul piatto di una bilancia opportunamente tarata e leggendo il valore indicato sulla scala graduata. La verifica sperimentale è insomma una tecnica definita convenzionalmente, che richiede strumenti, procedure, unità di misura anch'essi definiti convenzionalmente e sempre suscettibili di perfezionamenti, arricchimenti, modifiche.

L'ESPLORAZIONE DELL'INCONSCIO

Se nel grosso pubblico la reazione al positivismo significò un ritorno a posizioni romantiche, mistiche, irrazionalistiche, lo stesso non può dirsi per quanti furono sul terreno filosofico e scientifico i protagonisti di quella reazione. Bergson, la cui riflessione abbastanza presto degenerò in una sorte di fantasia mistico-biologica, fu forse il solo tra i grandi pensatori della sua generazione a subire il fascino delle religioni positive: negli altri l'attenzione per la religione non era una faccenda di fede personale, ma un interesse di carattere professionale per un fenomeno da studiare con metodi rigorosamente scientifici. Lo stesso Bergson, in ogni caso, non accettò mai l'etichetta di irrazionalista. L'inadeguatezza del pensiero discorsivo a cogliere la ricchezza dell'esperienza concreta e l'impossibilità che le astrazioni e le generalizzazioni dell'intelletto rispettassero l'integrità dei «dati immediati della coscienza» (come si intitolava uno dei suoi primi scritti) lo avevano indotto a rivendicare il valore conoscitivo dell'intuizione, ma il suo intuizionismo, come ebbe a dichiarare più volte, non voleva affatto contrapporsi alla conoscenza scientifica, ma semmai proporsi come sua integrazione.
Anche il più vecchio e il più feroce degli antipositivisti, Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900), da tempo sofferente di nevrosi e diventato definitivamente pazzo nel 1889, e cioè proprio nel momento in cui l'antipositivismo diventava di moda, non era propriamente un irrazionalista, o per lo meno non lo era alla maniera becera degli innumerevoli seguaci che avrebbe avuto da morto. Nietzsche detestava i costruttori di sistemi, questi «operai della filosofia», come sprezzantemente li chiamava, e concepiva il filosofare come poesia, mito, rivelazione, profezia. Esponeva perciò i suoi pensieri in forma di aforismi, sentenze ed enigmi; si esprimeva con un'enfasi pesante e talvolta insopportabile; cedeva continuamente al gusto della provocazione e dello scandalo. Tutto ciò ha favorito prima la manipolazione dei suoi scritti in senso reazionario e razzista da parte della sorella alle cui cure era affidato negli anni della sua follia, e più tardi la strumentalizzazione del suo pensiero da parte del nazismo. Ma a dispetto dei fraintendimenti postumi e delle ambiguità volute, l'irrazionalismo nietzschiano era assai più una forma di interesse (polemicamente enfatizzata) verso le motivazioni irrazionali, oscure, inesplicabili della condotta umana, che non la manifestazione di una scelta.
Lo «smascheramento» nietzschiano della cultura, ad esempio, e cioè la riscoperta delle radici «basse» dei sentimenti per definizione «più elevati» e delle componenti spregevoli dei nobili valori morali, quegli impulsi primordiali e quegli interessi egoistici che costituiscono la materia prima della cultura, aveva per tema l'irrazionale, ma aveva ben poco di irrazionalistico. Ricordava piuttosto, e da vicino, la critica marxiana delle ideologie. Marx interpretava le idee sulla base dei condizionamenti economici e sociali, e alla fine trovava sempre sotto i mascheramenti ideologici una solida realtà (la struttura economica, le forme della produzione sociale) a cui fare riferimento. Le analisi di Nietzsche, invece, non arrivavano mai a verità elementari o incondizionate, poiché ogni credenza gli appariva prodotto effimero di particolari condizioni psicologiche, o di variabili assetti sociali, o di transitori equilibri di forze.
Entrambi (e Nietzsche ancora più di Marx), nel mettere in luce le basi materiali (economiche, istintuali, inconsce) di ogni prodotto dello spirito, anche senza influenzarla direttamente, si sarebbero trovati in sostanziale sintonia con l'esplorazione dell'inconscio affrontata sul finire del secolo da Sigmund Freud.

SIGMUND FREUD

Anche Freud (1856-1939), come Nietzsche, amava esprimersi con le immagini del mito, e anche lui avrebbe avuto torme di seguaci affascinati più dalle ambigue suggestioni di quel fondo oscuro di pulsioni vitali che era l'oggetto delle sue ricerche, che non dallo sforzo ammirevole di gettarvi un po' di luce. Ciò nonostante Freud era sicuramente un razionalista, uno scienziato scrupoloso, e, alla fin fine, un «positivista» convinto.
Freud era nato in Moravia, una provincia dell'impero austro-ungarico, da una famiglia di piccoli commercianti ebrei. Il padre, Jacob, rimasto vedovo con due figli, si era risposato con una giovanissima ragazza, la madre di Freud, dalla quale ebbe sette figli. Come figlio maschio primogenito, la madre, secondo la tradizione ebraica, considerava Sigmund votato a un grande avvenire e gli riservava per questo un trattamento privilegiato. Sigmund stimava molto suo padre, che doveva sembrargli, per la differenza di età con la madre, molto anziano; ebbe però una forte delusione quando seppe che, assalito da un gruppo di antisemiti al grido di «sporco ebreo», aveva preferito non reagire. Qualche anno più tardi anche il giovane Freud fu vittima di un'aggressione e si difese con estrema decisione. A Vienna, dove la famiglia si era trasferita pochi anni dopo la sua nascita, Freud si laureò in medicina nel 1881. Ottenuta nel 1885 una borsa di studio, andò a Parigi nella clinica di Jean-Martin Charcot (1825-1893), famoso alienista e neurologo, che si occupava della cura dell'isteria mediante ipnosi. A Freud piacque la concezione dello studioso parigino, secondo la quale l'isteria non è dovuta, come i medici da Ippocrate in poi avevano creduto, a cause organiche, ma a fattori psicologici.
Tornato a Vienna Freud si associò nella professione ad un collega, Joseph Breuer (1842-1925), che già praticava la terapia ipnotica. Lo studio dell'isteria e il metodo, più tardi rifiutato, dell'ipnosi rappresentarono il punto di partenza per il viaggio di Freud nell'inconscio. Praticando l'ipnosi Freud ebbe modo di notare nei pazienti il riaffiorare alla memoria di sensazioni, ricordi e sentimenti dimenticati (più tardi avrebbe detto «rimossi») e cioè il manifestarsi di un materiale psichico profondo, inconscio: ben presto l'inconscio divenne il suo principale campo di ricerca, mediante una nuova tecnica di indagine e di cura, la psicoanalisi, che venne progressivamente mettendo a punto.
Nel 1895 Freud cominciò la sua autoanalisi, un'esperienza lunga e tormentosa nel corso della quale si orientò ad assumere il sogno come via privilegiata per accedere in quella parte della psiche di cui non abbiamo consapevolezza immediata. Nel 1896 era morto suo padre e Freud aveva attraversato un periodo di crisi profonda, caratterizzata da sogni angosciosi. Nel 1899 pubblicò il libro a cui tenne di più, e che è sicuramente uno dei suoi scritti più importanti, L'interpretazione dei sogni. È appunto in questo torno di tempo che Freud pose i fondamenti della teoria psicoanalitica con la definizione dei concetti di rimozione e di inconscio, con l'affermazione sempre più convinta dell'origine sessuale delle nevrosi e con la scoperta della sessualità infantile.
La rimozione è il meccanismo di difesa con cui l'Io esclude dalla coscienza quei materiali psichici (immagini, desideri, ricordi) che avverte pericolosi per il proprio equilibrio e che sono associati alle tendenze o «pulsioni» istintive, specialmente di natura sessuale, denominate da Freud Libido (in latino = «piacere»). L'Inconscio è il «luogo» della psiche in cui vengono relegati i materiali rimossi dall'Io. Ma la rimozione non elimina l'impulso, ed anzi i processi inconsci hanno un ruolo primario nel determinare la condotta degli uomini, che non è mai, in nessun momento, frutto del caso. Questo è uno degli assunti fondamentali della teoria freudiana, legato al tradizionale determinismo della scienza sperimentale: ogni azione ha una causa. Anche se può apparire privo di giustificazioni, l'agire dell'uomo ha sempre un significato nascosto, un movente inconscio, una logica, insomma, che è compito dello psicoanalista individuare e portare alla coscienza. Anche i lapsus linguae (in latino = «scivolamento della lingua»), ossia gli errori che si commettono inavvertitamente nel parlare (o nello scrivere: si parla allora di lapsus calami = «scivolamento della penna»), sono un caratteristico esempio di interferenza dell'inconscio nei comportamenti coscienti: non semplici sbadataggini, ma espressioni involontarie di idee o di sentimenti rimossi.
La teoria della rimozione, ebbe più tardi a scrivere Freud, «è il sostegno su cui si basa l'edificio della psicoanalisi». Freud rivendicava a sé l'intero merito di averla formulata, anche se riconosceva che in Schopenhauer (che però non aveva mai letto) se ne sarebbero potuti trovare dei precorrimenti:

... Nella teoria della rimozione sono di certo stato indipendente: non mi risulta di nessun influsso che mi abbia accostato ad essa, e per molto tempo ritenni questa idea originale, finché Rank ci segnalò il brano del Mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer in cui il filosofo cerca di fornire una spiegazione della pazzia. Ciò che lì è detto sulla riluttanza ad accettare una parte penosa della realtà corrisponde in maniera così piena al contenuto del mio concetto di rimozione, che dovetti ancora una volta essere grato alle lacune della mia cultura, che mi avevano consentito di fare una scoperta. Infatti, altri hanno letto quel brano senza indugiarvi, senza arrivare a questa scoperta, e forse a me sarebbe successo lo stesso se negli anni giovanili avessi provato più piacere nella lettura di autori filosofici...

Anche l'idea di inconscio non era di per sé una novità assoluta.
La psicologia tradizionale aveva formulato se non altro la nozione di una «soglia della coscienza» quale limite tra i processi consapevoli e quelli inconsapevoli, ed esistevano da sempre correnti di pensiero (le correnti irrazionalistiche, appunto) che esaltavano il lato oscuro, occulto, istintivo dell'uomo.
La novità di Freud stava nell'aver sostenuto, con una forza e una chiarezza sconosciute a Schopenhauer o a Nietzsche, da un lato l'assoluta centralità dei processi inconsci e dall'altro la possibilità di interpretarli in termini razionali.
In sostanza, Freud rimetteva radicalmente in discussione le tradizionali opposizioni di coscienza/inconscio, razionalità/irrazionalità, ecc. fondate sulla reciproca esclusione e proponeva una visione dinamica della vita psichica come conflitto tra spinte diverse. «La psiche - ha scritto Freud - è un campo di battaglia fra tendenze opposte».
La psicoanalisi si presentava essenzialmente come eziologia (o etiologia, dal greco aitìa = «causa»: è quella parte della medicina che studia l'origine delle malattie) delle nevrosi. Le nevrosi (fobie, angosce, ossessioni, fenomeni isterici) costituiscono una classe di malattie mentali sulla cui definizione gli psichiatri non si sono mai messi d'accordo. Meno gravi delle psicosi, si presentano come accentuazioni dei normali conflitti psichici, tanto che è assai difficile (se non impossibile) tracciare un confine tra normalità e nevrosi. Secondo Freud l'origine delle nevrosi va ricercato nella sfera della sessualità e specialmente nell'esperienza sessuale dell'infanzia. Questa tesi, ha scritto, non senza malizia, gli era stata suggerita da alcuni dei suoi maestri e predecessori, come Charcot e Breuer, che tuttavia non avevano mai avuto il coraggio di proclamarla apertamente e di trarne tutte le necessarie conseguenze.
La psicoanalisi incominciava a suscitare nel pubblico un crescente interesse ed anche un certo scandalo proprio per l'attenzione dedicata alla sessualità e specialmente alla sessualità infantile, che l'ipocrisia del tempo preferiva ignorare. Da parte degli ambienti accademici e dell'opinione pubblica retriva non tardarono a manifestarsi dure reazioni negative. Freud interpretò questa opposizione da parte della società alla stessa stregua del rifiuto dell'individuo nevrotico di mettere in discussione l'idea che ha di se stesso.

... Consideravo le mie scoperte come normali apporti alla scienza e mi aspettavo che gli altri facessero lo stesso. Fu il silenzio che si levava alla fine delle mie conferenze, il vuoto che si faceva intorno alla mia persona, le allusioni che mi venivano riportate che gradualmente mi fecero capire che dichiarazioni sulla funzione della sessualità nell'etiologia delle nevrosi non si potevano aspettare il trattamento concesso ad apporti scientifici di diversa natura. Mi resi conto che da quel momento in poi sarei rientrato tra quelli che «hanno scosso il sonno del mondo», secondo l'espressione di Hebbel, e che non mi era lecito fare affidamento né su oggettività né su indulgenza. [...]
Rivedendo quegli anni di solitudine dai turbamenti e dagli affanni del presente, quello mi appare un periodo bello e valoroso; la splendid isolation non era priva di vantaggi e di attrattive. Non dovevo leggere bibliografie, né ascoltare avversari male informati, non ero sottomesso a nessun condizionamento, non subivo nessuna pressione...

Nel frattempo, però, la teoria e la pratica della psicoanalisi avevano dato vita ad un vero e proprio movimento: agli inizi del secolo nacque il primo nucleo viennese di quella che diverrà, nel 1910, la Società Internazionale di Psicoanalisi: vi faceva parte tra gli altri Alfred Adler. Nel 1907 Freud volle conoscere lo psichiatra svizzero Carl Gustav Jung, che da qualche anno, dopo aver letto L'interpretazione dei sogni, aveva adottato il metodo psicoanalitico di cura e che sarebbe diventato il primo presidente della Società Internazionale di Psicoanalisi. Nel 1908 entrò in contatto con Sandor Ferenczi, fondatore nel 1913 della Società Psicoanalitica di Budapest. Nel 1909 si recò con Jung, per una serie di conferenze alla Clark University, negli Stati Uniti, dove due anni più tardi sarebbe nata l'autorevole Associazione psicoanalitica americana. La pubblicazione di opere come Totem e tabù del 1913 (una geniale favola antropologica che sulla base anche di suggestioni darwiniane ricostruiva l'infanzia del genere umano), e come L'Io e l'Es del 1923, rivela chiaramente come la psicoanalisi freudiana da tecnica per l'interpretazione e la cura delle neurosi aspirasse a diventare una teoria o un metodo generale di interpretazione dei rapporti interindividuali e sociali. Nel frattempo però si erano separati da lui, per divergenze teoriche, alcuni seguaci e amici, primi fra tutti per prestigio intellettuale, Adler, fondatore della cosiddetta «psicologia individuale» (nel 1911) e Jung, fondatore della «psicologia analitica» (nel 1913).
Nel febbraio del '23 Freud avvertì i primi sintomi di quello che più tardi si rivelerà un tumore alla mascella. Nonostante la malattia, Freud lavorò assiduamente come analista e come scrittore ed entrò in contatto con le più famose personalità della cultura del suo tempo, Albert Einstein e Thomas Mann. Sino al 1938, e cioè sino all'annessione dell'Austria alla Germania nazista, Freud rimase a Vienna. Per sfuggire alle persecuzione antisemita del regime nazista si trasferì a Londra, dove morì l'anno seguente, assistito dalla figlia Anna, anch'essa esponente di rilievo del movimento psicoanalitico.
[Figura: Il comitato della Società Internazionale di Psicoanalisi nel 1920. Seduto accanto a Freud è l'ungherese Sandor Ferenczi (1873-1933). L'ultimo a destra è l'inglese Ernst Jones (1879-1959) amico e biografo di Freud e principale diffusore della psicoanalisi nel mondo anglosassone]
Comitato della Società Internazionale di Psicoanalisi


CARL GUSTAV JUNG

Lo svizzero Carl Gustav Jung (1875-1961) è considerato il maggiore fra gli psicoanalisti dissidenti da Freud. Il padre era un pastore protestante, la madre una studiosa di letteratura. Laureatosi in medicina a Basilea nel 1900, Jung si trasferì a Zurigo, dove iniziò la professione di psichiatra. Fin dai primi anni di tirocinio manifestò la sua opposizione alla psichiatria ufficiale che gli sembrava occuparsi troppo di diagnosi, di sintomi e di statistiche e troppo poco di ciò che il paziente aveva da dire. Nel 1900 lesse L'interpretazione dei sogni di Freud e da quel momento incominciò a servirsi del metodo psicoanalitico per curare i pazienti affetti da disturbi psichici anche molto gravi (psicosi). Nel 1905, dopo avere pubblicato La psicologia della dementia praecox e il contenuto delle psicosi che gli assicurò una larga fama, fu nominato primario della clinica psichiatrica dell'Università di Zurigo. Freud volle conoscerlo e lo invitò a Vienna. Nel 1910 Jung divenne presidente della Società Internazionale di Psicoanalisi.
Il libro che doveva segnare il suo distacco da Freud, Libido: simboli e trasformazioni, fu pubblicato nel 1913. Jung giudicava eccessiva l'importanza attribuita da Freud alla sessualità, e nella spiegazione delle nevrosi tendeva a dare maggior rilievo ai conflitti presenti che non ai traumi infantili su cui invece insisteva Freud. La nozione di inconscio collettivo è probabilmente l'innovazione più rilevante introdotta da Jung nella teoria psicanalitica, anche perché segna un ritorno a interpretazioni fantasiose della vita psichica e culturale, che il «positivista» Freud aveva cercato, per quanto possibile in una materia così poco suscettibile di verifica, di evitare.
Nella mente di ogni uomo agiscono, secondo Jung, tracce di immagini ancestrali, o «archetipi» (dal greco arché = «principio»; la parola, già adoperata da Platone per indicare le idee, ha il significato di modello originario o primordiale) ereditati (non si capisce come) dai nostri lontanissimi progenitori e comuni a tutta l'umanità; queste immagini manifestano la loro influenza sia nella realtà individuale e nelle nevrosi, sia nella vita sociale e religiosa attraverso meccanismi simbolici irriducibili ad un linguaggio razionale. Così, mentre subiva il fascino di religioni esotiche e di filosofie orientali, Jung si allontanava sempre più dall'insegnamento di Freud, arrivando ad un suo sostanziale capovolgimento: l'inconscio di Jung è misteriosamente collettivo, mentre quello di Freud è rigorosamente individuale; l'inconscio di Jung preesiste in qualche luogo alla vita psichica cosciente, mentre quello di Freud è il risultato dei meccanismi di rimozione e perciò viene dopo; l'inconscio di Jung, infine, è uno scrigno di significati arcani ed esoterici, mentre quello di Freud è per definizione oggetto di spiegazione razionale.

ALFRED ADLER

L'austriaco Alfred Adler (1870-1937) era stato attratto fin da giovane dai problemi sociali e aveva partecipato all'attività dei gruppi studenteschi di ispirazione marxista. Fu tra i primi a porre il problema del rapporto tra psicoanalisi e marxismi e a tentarne un'integrazione. In armonia con questo suo disegno si occupò di problemi della scuola operando direttamente nelle istituzioni: fino all'avvento del nazismo fu consulente del Governo social-democratico per i problemi dell'istruzione. Adler non condivideva la visione freudiana della Libido, fondata sulla preminenza delle pulsioni sessuali. Quale fonte di energia psichica indicava invece l'aggressività che, secondo Adler, nasce dal senso di inferiorità nei confronti degli altri. Dall'esigenza di compensare in qualche modo questo stato debolezza nascerebbe una spinta all'affermazione di sé che, quando riesce a integrarsi positivamente con l'ambiente sociale, è la molla dello sviluppo individuale e collettivo, ma quando non ci riesce è causa di conflitti e di nevrosi.
Questa condizione di inferiorità (nei confronti degli adulti) e il relativo meccanismo di compensazione sono particolarmente evidenti nei bambini: di qui l'importanza di una educazione atta a incanalare positivamente l'aggressività del bambino di prevenire l'insorgere delle nevrosi. La terapia delle nevrosi, poi, doveva tendere a reinserire l'individuo nel suo ambiente non solo operando sulla psiche del paziente, ma cercando di rimuovere le cause oggettive del suo disagio.

LA PSICOANALISI NEL LINGUAGGIO DI TUTTI I GIORNI

Il termine psicoanalisi è stato usato da Freud per la prima volta nel 1896; in precedenza, per indicare la propria tecnica di esplorazione dell'inconscio Freud aveva impiegato espressioni come «analisi psicologica» o «analisi psichica». Alfred Adler e Carl Gustav Jung, allievi dissidenti di Freud, hanno designato le proprie teorie rispettivamente come «psicologia individuale» e «psicologia analitica». La denominazione di «psicologia del profondo» si applica genericamente a tutte le scuole che attribuiscono un'importanza centrale ai processi inconsci della psiche.
Le scuole psicoanalitiche, infaticabili costruttrici di immagini, miti e favole filosofiche, hanno prodotto una grande quantità di parole suggestive, ma dal significato non sempre ben definito e soprattutto quasi mai definitivo. Per di più molte espressioni proprie della psicoanalisi hanno avuto larga fortuna e sono entrate a far parte del lessico comune; senonché la volgarizzazione della psicoanalisi (quella che Freud già nel 1910 definiva «la psicoanalisi selvaggia», ossia l'interpretazione dilettantesca e incolta della psicoanalisi) ha fatto e fa un uso del tutto improprio della terminologia psicoanalitica.
Un termine abusatissimo è, ad esempio, «complesso», che Freud usava invece con grande circospezione. Complesso è propriamente un insieme di immagini, pensieri, ricordi carichi di affettività, in gran parte o del tutto inconsci (perché rimossi), che si forma nell'infanzia e che può interferire in tutta la successiva vita dell'adulto.
Le prime formulazioni della teoria psicanalitica ruotavano sull'opposizione elementare Coscienza/Inconscio. In una seconda formulazione Freud ha distinto l'apparato psichico in tre livelli o «istanze»: l'Es, l'Io e il Super-io. L'Es (in tedesco è il pronome personale neutro, analogo all'id latino, che infatti è talvolta usato in suo luogo) è il serbatoio di tutte le tendenze (o «pulsioni») elementari ed istintive ed è totalmente inconscio, ma non si identifica con l'Inconscio, giacché meccanismi inconsci operano anche nelle altre due istanze della psiche. La componente inconscia dell'Io, ad esempio, si manifesta nei meccanismi di difesa con cui l'Io protegge la propria integrità dalle pulsioni provenienti dall'Es: la rimozione, che respinge nell'inconscio gli impulsi nocivi, e la sublimazione, che li devia verso comportamenti socialmente utili. L'Io controlla le pulsioni e presiede al pensiero logico, ma poiché è parzialmente inconscio, non si può identificare con l'Io della tradizione filosofica (da Cartesio in poi), che è sinonimo di coscienza. Il Super-io è una sorta di giudice dell'Io che critica, «censura», genera sensi di colpa, impone regole e ideali di vita: potrebbe essere assimilato alla tradizionale «coscienza morale» se non fosse che anche lui opera (almeno in parte) a livello inconscio.
La nozione di Super-io si riallaccia all'analisi della sessualità infantile. Freud aveva chiamato complesso di Edipo quell'insieme conflittuale di sentimenti di amore e di ostilità verso i genitori (attrazione verso la madre, gelosia verso il padre nei ragazzi; nelle ragazze, per le quali Jung ha parlato di «complesso di Elettra», accadrebbe pressappoco l'inverso) che si formerebbe nei bambini tra i tre e i cinque anni e che normalmente viene superato nell'adolescenza. Lo sviluppo del Superio sarebbe in relazione, secondo Freud, ai sentimenti di colpa connessi al complesso di Edipo.
Nella seconda definizione freudiana dell'apparato psichico anche il termine Libido ha subito uno slittamento di significato: usato da Freud in un primo tempo per indicare l'insieme delle energie specificamente sessuali ha finito per designare l'insieme delle energie psichiche legate all'istinto di vita o Eros, in opposizione a un supposto istinto di morte, che spingerebbe l'individuo all'autodistruzione.

IL REALISMO DEL COMUNE BUON SENSO

Come l'originaria fortuna del positivismo era in gran parte dovuta alla diffusa stanchezza per le faticose elucubrazioni dell'idealismo, così, sul finire dell'Ottocento, la nausea per gli scipiti vaniloqui del positivismo portò un po' dovunque al rifiorire dell'idealismo. Di idealismi ne spuntarono molti, e molto diversi tra di loro. In Italia, per esempio, si diceva neohegeliano Benedetto Croce, che in verità con Hegel in particolare aveva poco a che fare, salvo il fatto di essere nipote di Bertrando e di Silvio Spaventa, a loro volta hegeliani in odio al positivismo. Per un certo tempo, e cioè fino all'avvento del regime fascista, contro il quale si schierò decisamente e apertamente, Benedetto Croce intrattenne un sodalizio con Giovanni Gentile (1875-1944), oggi ricordato più come uno dei massimi teorici del fascismo (come tale ucciso dai partigiani negli anni della guerra civile) che come filosofo: ufficialmente anche lui si richiamava ad Hegel, ma in effetti rinnovava, semmai, temi fichtiani. In Inghilterra l'idealismo ebbe un nutrito stuolo di entusiasti sostenitori, tra i quali il più originale fu forse Francis Herbert Bradley (1846-1924), che dava dell'hegelismo un'interpretazione abilmente oscillante tra misticismo e scetticismo: la verità sta nell'unità del tutto, ossia nell'Assoluto, che però non è definibile se non negativamente, ossia per ciò che non è, perché ciò di cui si può dire qualcosa è mera apparenza, la quale per altro non è estranea all'Assoluto, giacché nulla si può supporre all'infuori dell'Uno-Tutto, ecc.
Dall'Inghilterra venne anche, all'aprirsi del nostro secolo, la replica forse più pertinente alle mode idealistiche. Il giovane Bertrand Russell aveva subito il fascino di Bradley, ma già nel 1900, in Un'esposizione critica del pensiero di Leibniz aveva attaccato il monismo idealistico come effetto di una logica antiquata. Nel 1903 George Edward Moore (1873-1958) nella sua Confutazione dell'idealismo riproponeva apertamente in nome del senso comune, la concezione realistica dell'uomo della strada, ossia l'istintiva certezza di ciascuno di noi nell'esistenza del mondo esterno. Nello stesso anno alla stessa concezione risultavano ispirati i Principi della matematica di Bertrand Russell.
Tra la Confutazione dell'idealismo del 1903 e la Difesa del senso comune del 1925 (due titoli che riassumono efficacemente il senso del suo lavoro), la riflessione di Moore, che si è espressa nell'insegnamento e nelle conversazioni con gli amici (Bertrand Russell e Ludwig Wittgenstein, tra gli altri) anche più efficacemente che negli scritti, ha dato l'avvio a quella filosofia analitica che costituisce ormai uno dei grandi filoni del pensiero contemporaneo.
Il principio idealistico secondo cui nulla esiste al di fuori del pensiero e dell'attività creatrice del soggetto che pensa (nella formulazione del primo e più rappresentativo esponente dell'idealismo moderno, Berkeley: esse est percipi) è in netto contrasto con gli assunti (o le credenze) del senso comune che sono: 1) che i corpi materiali esistono indipendentemente dal fatto che noi li percepiamo; 2) che indipendentemente da noi, esistono altre persone, altri soggetti pensanti, come noi. Moore riconosceva che queste due proposizioni non possono essere dimostrate, ma riteneva che l'onere della prova non toccasse a chi, seguendo il senso comune, ammette l'esistenza di un mondo esterno, ma a chi, come gli idealisti, pretende di negarla.
Quanto alla filosofia, il suo compito essenziale è di sottoporre ad analisi le categorie del discorso (e non solo del discorso scientifico, ma anche di quello della gente comune) risolvendo nozioni ed enunciati nei loro elementi costitutivi e cogliendone le possibili contraddizioni. Il compito della filosofia morale, ad esempio, non è di indicare gli obiettivi o le regole dell'azione, ma chiarire il senso degli enunciati etici, alla vecchia maniera di Socrate (quale risulta, ad esempio, dall'Eutifrone di Platone).
Il bene, dice Moore, non è qualcosa di definibile. Se dicessimo che è buono tutto ciò che è in accordo con la volontà divina, dovremmo sempre chiederci se la volontà divina sia davvero buona e in che cosa consiste la sua «bontà». In realtà, il «bene» (come il suo opposto, il «male») è una nozione semplice, che nel senso comune serve a definire la qualità delle cose, e che pertanto non può essere essa stessa definita. Il compito dell'etica, insomma, non è di definire il bene, ma piuttosto di analizzare le affermazioni che si fanno sulle qualità buone o cattive delle cose.
Parallela a quella di Moore è stata l'esperienza filosofica di Bertrand Russell. Il suo passaggio al realismo compiutosi tra il 1900 e il 1903 aveva comportato tra l'altro la sua piena adesione al programma logicista (ossia di riduzione della matematica a logica) formulato da Gottlob Frege e appunto per portare a termine tale programma si era impegnato con Whitehead alla stesura dei Principia Mathematica (pubblicati tra il 1910 e il 1913 da non confondere con i Principi della matematica, che sono del 1903). I Principia di Russell-Whitehead hanno rappresentato al tempo stesso il punto d'arrivo del logicismo e uno dei punti di partenza (insieme all'insegnamento di Moore) della moderna filosofia analitica. Nell'ipotizzare l'identità di logica e matematica quest'opera finiva per rilanciare un ideale tipicamente positivistico: la fusione di filosofia e scienza per un maggior rigore metodologico di entrambe, contro la verbosità dei costruttori di grandi sistemi. Nel generale discredito in cui era caduto il positivismo, costituiva un tentativo non privo di audacia.

BERTRAND RUSSELL

Nato in una famiglia dell'aristocrazia inglese che vantava una grande tradizione liberale, Bertrand Russell (1872-1971) unì agli interessi scientifici un atteggiamento libertario nei confronti della vita che lo costrinse più volte a prendere pubblicamente posizione su questioni che in un modo o nell'altro mettessero in gioco i valori in cui credeva: la felicità, la bellezza, l'intelligenza. Decisamente avverso ad ogni forma di dogmatismo, al punto da rimettere continuamente in discussione le sue stesse idee, sul piano morale e politico fu in costante polemica con la stupidità e l'autoritarismo delle istituzioni politiche e religiose ereditate dal passato e con il cretinismo di massa dei nuovi regimi totalitari di destra o di sinistra. Questo suo impegno pubblico in difesa del buon senso e del buon gusto è all'origine di alcuni degli avvenimenti più spiacevoli della sua lunga e, per il resto, felice esistenza, come per esempio la destituzione dalla cattedra di Cambridge per essersi opposto, durante la prima guerra mondiale, alla coscrizione obbligatoria e come, negli stessi anni, la condanna a sei mesi di carcere per la sua campagna a favore della pace. Trasferitosi negli Usa, fu perseguitato per le sue spregiudicate teorie sociali e morali. Reintegrato finalmente nella cattedra di Cambridge nel 1944, nel 1950 ricevette il Premio Nobel per la letteratura. Dopo la seconda guerra mondiale e negli anni della cosiddetta guerra fredda, ormai ultra ottantenne, scese ancora una volta in piazza alla testa del movimento per il disarmo nucleare e la pace.

LIBERALI MA NON TROPPO

Finito Principia Mathematica - racconta Russell nella sua autobiografia - mi sentivo in certo qual modo sperso. La sensazione era piacevole ma sconcertante, come uscire di prigione. Poiché a quell'epoca mi interessavo molto alla lotta tra i liberali e i Lord circa il bilancio e il Parliament Act, mi sentii portato a entrare in politica. Mi rivolsi alla segretaria del partito liberale per avere un collegio e mi fu consigliato Bedford. Mi recai lì e tenni un discorso all'associazione liberale, che fu accolto con entusiasmo. Prima del discorso, tuttavia, mi condussero in una stanzetta privata, dove mi sottoposero a un vero e proprio catechismo che, per quanto possa ricordare, si svolse in questi termini:

[...]
DOMANDA: È membro della Chiesa d'Inghilterra?
RISPOSTA: No, sono stato educato come nonconformista.

DOMANDA: È rimasto tale?
RISPOSTA: No, non sono rimasto tale.

DOMANDA: Dobbiamo dedurne che lei è agnostico?
RISPOSTA: Sì, infatti.

DOMANDA: Sarebbe disposto ad andare in chiesa se si presentasse l'occasione di farlo?
RISPOSTA: No.

DOMANDA: Sua moglie sarebbe disposta ad andare in chiesa se si presentasse l'occasione di farlo?
RISPOSTA: No.

DOMANDA: Pensa che si verrebbe a sapere che lei è agnostico?
RISPOSTA: Sì, è molto probabile.

La conseguenza di queste risposte fu che scelsero come candidato Mr Kellaway che divenne ministro delle Poste e che durante la guerra si rivelò un benpensante. Devono avere avuto la sensazione di averla scampata bella.
Anche a me parve di essermi salvato per miracolo, perché mentre a Bedford stavano pensandoci su, ricevetti un invito del Trinity College a tenere un corso sui principi della matematica. Questo mi attraeva molto più della politica, ma se mi avessero accettato a Bedford avrei dovuto rifiutare la proposta di Cambridge. Assunsi la carica all'inizio della sessione di ottobre.
[...]
Durante le elezioni del gennaio 1910, mi parve di dover aiutare i liberali per quanto potevo, ma non volevo sostenere il candidato della nostra circoscrizione che era venuto meno ad alcune promesse che consideravo importanti. Decisi quindi di appoggiare il deputato della circoscrizione sull'altra sponda del fiume. Questi era Philip Morrell, compagno d'università, a Oxford, di mio cognato. Logan, che aveva nutrito una vera passione per lui. [...]
Durante la campagna per le elezioni del gennaio 1910 tenni quasi ogni sera comizi a favore di Philip Morrell, e dedicai le giornate a fare propaganda per lui di casa in casa. Ricordo di essermi recato da un colonnello in pensione a Iffley, che si precipitò nell'anticamera strepitando: «Crede forse che darei il mio voto a un furfante simile? Fuori da questa casa o slego i cani!»
Tenni comizi in quasi tutti i villaggi tra Oxford e Caversham.
Ma Philip, come gli altri candidati liberali del circondario, non fu eletto...