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Risorgimento.

Categoria storiografica che designa sia il movimento culturale e politico mediante il quale, tra i secc. XVIII e XIX, si costituì nella penisola italiana uno Stato unitario, indipendente e liberale, nella forma di Monarchia, non più assoluta ma costituzionale, retta dalla dinastia Savoia, sia il periodo di tempo durante il quale maturò tale fatto. Il vocabolo, nell'accezione ormai concordemente recepita, include la dimensione strettamente storica, diplomatica e militare degli eventi, ma anche la temperie culturale e ideologica, le trasformazioni economiche e sociali, tutti gli elementi cioè che consentirono l'emancipazione dei territori italiani dalle diverse egemonie straniere e la loro costituzione in Stato autonomo. La storiografia seguente l'Unità ebbe la tendenza a presentare il R. come un fenomeno politico nazionale schiettamente autoctono, promosso e guidato dalla Monarchia sabauda e ispirato dal liberalismo cavouriano, riducendo a un ruolo subordinato le altre componenti politiche attive nel processo risorgimentale, democratiche e repubblicane. Solo con il tramonto dello Stato postunitario, dopo la sconfitta del Fascismo, anche la critica storica (profondamente innovata dalle analisi di P. Gobetti e A. Gramsci) ha potuto rivedere tale impostazione, sottolineando il carattere solo formalmente liberal-democratico della Monarchia sabauda, enucleando le cause dell'involuzione autoritaria, nazionalista e colonialista dello Stato, che consentì infine l'avvento della dittatura fascista, nella sua matrice elitaria e slegata dalle masse contadine e popolari. Più importante fu che, emancipandosi dal presupposto filosabaudo, la ricerca poté inquadrare il R. come evento armonico con l'evoluzione europea, vale a dire come momento italiano della tendenza più generale e sovranazionale delle rivoluzioni borghesi: la situazione francese, in cui il potere politico era ormai nelle mani del ceto medio, e la radicale trasformazione dei rapporti di produzione favorita dalla classe imprenditoriale inglese esercitarono anche in Italia la loro influenza, stimolandone la realtà economica e culturale più arretrata. In quest'ottica, il progressivo tendere a un mercato unico nazionale non sarebbe più da leggersi come esito necessitato di eventi politici unitari, mediante l'imposizione di programmi governativi, ma come fenomeno preesistente, frutto di una naturale convergenza di elementi già insiti nelle diverse economie e amministrazioni italiane, che per il loro stesso carattere favorivano la soluzione unitaria. Con tali elementi il fattore ideologico e politico in senso stretto giocò in un rapporto biunivoco, per cui il secondo catalizzava i primi ma ne era anche legittimato e sostanziato. Questa visione storiografica ha permesso anche di riconoscere, secondo una prospettiva cronologicamente più ampia rispetto a quella ottocentesca, i prodromi del complesso movimento che, dalla Restaurazione (V.), portò all'Unità d'Italia. ║ Origini del R.: intorno alla metà del XVIII sec., le dinastie straniere che la fine delle guerre di Successione aveva posto alla guida dei maggiori Stati italiani (Asburgo nel Milanese, Lorena in Toscana, due rami dei Borboni a Napoli e a Parma) svolsero anche una funzione di collegamento tra le regioni italiane e la politica mercantilista delle potenze nazionali europee, stimolando lo sviluppo dell'agricoltura e facendo dei propri domini altrettanti centri di impulso economico e, in certa misura, politico e culturale. Sulla spinta delle necessità organizzative interne e del rilancio economico, i governanti stranieri in Italia intrapresero politiche riformatrici, che ebbero alcuni elementi comuni fra loro: il Giurisdizionalismo (V.), ad esempio, in forza dal quale l'autorità civile affermava i propri diritti nei confronti della Chiesa e si adoperava per recuperare al fisco estese proprietà fondiarie, su cui l'autorità ecclesiale non pagava tasse e che per lo più lasciava improduttive. Un certo numero di intellettuali (Muratori, Verri, ecc.) collaborò nelle proprie regioni all'opera di funzionari e amministratori, nel tentativo di diffondere contestualmente programmi e idee di natura progressista. La contraddizione insita in questa prima fase riformatrice (che infatti finì per favorire lo Stato assoluto e la grande proprietà a scapito dei ceti borghesi, frenando l'applicazione delle riforme più innovatrici) spinse gruppi e circoli intellettuali di tutta Italia, che già avevano recepito i contenuti civili e politici della Rivoluzione francese, su posizioni più avanzate e radicali. La critica ha parlato, talvolta, di un Giacobinismo italiano: è pur vero che il patrimonio ideologico di questi gruppi si formò mentre in Francia i giacobini erano già stati oscurati dall'avvento di Napoleone; ciò nonostante nel triennio 1796-99, con la costituzione delle Repubbliche cisalpina, romana e partenopea, divenne operante in tutta la penisola, da Milano a Napoli, un programma unitario nazionale che ebbe nella figura di Filippo Buonarroti un collegamento con il Neogiacobinismo francese. L'attività di quest'ultimo, commissario delle armate rivoluzionarie in Italia, introdusse nel pensiero riformatore nostrano istanze di rinnovamento sociale, da realizzare per mezzo di una radicale riforma agraria. Tuttavia l'evoluzione ideologica dei giacobini italiani, che superò la dimensione meramente politico-diplomatica e pose in stretta connessione l'ideale nazionale e la rivendicazione di diritti e libertà (anche contro gli stessi occupanti francesi), dimostrò uno scarso radicamento tra le masse popolari che, con assai maggior successo, vennero mobilitate in funzione antifrancese dai moti reazionari sanfedisti (V.). Si segnalava in questo modo la prima scissione tra borghesia prerisorgimentale, guidata da un'élite intellettuale che perseguiva, grazie al Codice napoleonico, un programma antiecclesiastico e antifeudale (abolizione della manomorta, dei vincoli feudali, ecc.), e la maggioranza della popolazione, orientata dalla salda presa della Chiesa cattolica e del Papato in senso antiborghese e antinapoleonico. Lo stesso regime imperiale francese, subentrato al breve periodo repubblicano, se spingeva nel senso di un rinnovamento delle strutture economiche e sociali, lasciava però spazi assai limitati alle tematiche nazionali e liberali, dibattute in alcune sedi culturali (quali la torinese Accademia dei Concordi, i circoli milanesi poi artefici del «Conciliatore», ecc.) e interpretate dall'opera di tanti artisti, quali Alfieri, Foscolo, Cuoco. ║ Dalla Restaurazione al 1848: la Restaurazione, che seguì la definitiva sconfitta di Napoleone, comportò per l'Italia il frazionamento politico, una solida alleanza tra Governi assoluti e istituzione ecclesiale e, soprattutto, la preponderanza dell'egemonia austriaca nella penisola. Il programma di unificazione e indipendenza acquisì perciò un netto contenuto antiasburgico, interpretato da gruppi della borghesia commerciale e produttiva che, più di altri, aspiravano all'integrazione agricola e commerciale fra le regioni più sviluppate. Tuttavia, l'esiguità di tali nuclei borghesi, la loro fragilità strutturale e concentrazione in una limitata zona geografica e in un'unica classe sociale si frangevano contro la compattezza del blocco sociale che sosteneva le Monarchie (aristocrazia fondiaria, masse contadine e Chiesa), articolato e presente su tutto il territorio della penisola e sostenuto dalla presenza militare austriaca. A favore dei nuclei minoritari di borghesi e intellettuali spirava però il vento delle esperienze europee: l'Inghilterra, assurta a nuova potenza economica grazie alla Rivoluzione industriale, esportò la dottrina economica liberista, da cui si evidenziava come la divisione politica dell'Italia fosse un impedimento al suo sviluppo produttivo e commerciale; la Francia, anche dopo la Rivoluzione di Luglio, fornì l'esempio di un regime monarchico costituzionale; gli Stati di lingua tedesca, interessati da un frazionamento per certi versi simile a quello italiano, sperimentarono la forma federale e, poi, del mercato nazionale (V. PRUSSIA). In tutto il continente, inoltre, si diffondeva la grande esperienza culturale del Romanticismo (V.) che in Italia, in particolare, si intrecciò alle tematiche dell'indipendenza e della libertà come opera del «popolo». Tuttavia, almeno fino ai moti del 1831, l'azione dei primi gruppi risorgimentali trovò espressione solo in formazioni estremamente ristrette e clandestine, di tipo cospirativo, come la «Carboneria» (V.), che imponevano la segretezza non solo delle azioni ma anche dei fini ultimi della società. I moti piemontesi e partenopei del 1820-21 e quelli in Italia centrale e nelle Legazioni pontificie del 1831, di origine carbonara, se ebbero finalità e carattere nazionale, non riuscirono tuttavia a emanciparsi dal limite settario che ne impedì l'espandersi al di fuori di esigue cerchie aristocratiche, intellettuali e militari. Il fallimento dei primi moti favorì però una presa di coscienza riguardo la necessità di un coinvolgimento più ampio della popolazione: ne sortì lo strutturarsi delle due prime forze organizzate, la Giovine Italia (V.) di G. Mazzini (V.) e il Moderatismo (V.). Mazzini e il mazzinianesimo: con l'associazione mazziniana si costituì di fatto il primo partito politico italiano, in base alla concezione moderna della esplicita dichiarazione del programma, che perseguiva l'unità, l'indipendenza e la libertà d'Italia e la sua costituzione in Repubblica, da ottenere mediante la lotta contro l'Austria e i regimi assoluti presenti nella penisola. Unitarismo e patriottismo in Mazzini differivano dalle esperienze precedenti soprattutto per la loro pubblica affermazione, attraverso una propaganda continua e capillare, che ne faceva obiettivi da realizzare democraticamente e con la partecipazione del più vasto blocco sociale possibile, senza subordinarli o demandarli a una congiuntura favorevole di alleanze diplomatiche europee. Vi fu tra Mazzini e l'anziano Buonarroti una certa polemica per la sordina innestata dal primo in merito a punti di matrice giacobina: obiettivo supremo della lotta politica era per la Giovine Italia l'unità nazionale, non già la dittatura rivoluzionaria o la riforma sociale. Il suo fondatore, per formazione romantica, vedeva nel popolo il protagonista della storia e nel costituirsi della Nazione una tappa del più ampio ideale di fratellanza (per un'Europa dei popoli contro l'Europa dei re); per suggestione delle teorie di Saint-Simon, però, egli identificava il popolo con i suoi settori più numerosi e produttivi (piccola e media borghesia cittadina). Egli tutto subordinò alla rivoluzione nazionale, necessariamente guidata dalla borghesia, trascurando il coinvolgimento dei contadini con un programma di riforma agraria, per non inimicarsi le classi dei proprietari fondiari. Ciò fu senza dubbio un limite che, insieme alle oggettive difficoltà di propaganda, dovute alla censura e al divieto di riunione, impedì il costituirsi di un sostegno popolare ampio e attivo ai moti mazziniani e ne comportò il fallimento militare come già era stato per quelli carbonari (spedizione di Savoia 1834; moti in Romagna, 1843 e 1845; spedizione dei Fratelli Bandiera, 1844). Tuttavia il reale radicamento del mazzinianesimo negli strati della borghesia, dell'artigianato e del popolino urbano, soprattutto nel centro e nel settentrione, gli garantì una fisionomia autenticamente liberale e immune da germi di nazionalismo. Il Moderatismo: mentre l'esperienza mazziniana coagulò intorno a sé lo slancio nazionale di strati borghesi e popolari, latifondisti e ottimati locali ostentavano immobilismo culturale e stagnazione economica, incapaci di una visione che travalicasse la frammentata dimensione dei singoli Stati italiani. Tuttavia, in parte proprio per la presenza e l'attività dei mazziniani, in parte per il timido circolare di alcuni motivi della cultura liberale europea, altri settori della popolazione, decisivi perché costituivano la classe dirigente in tutta la penisola, contribuirono alla nascita di idee e alla stesura di programmi con un respiro più ampio e nazionale. Questo fu in sintesi il Moderatismo: un tentativo di mediazione rispetto all'opzione insurrezionale dei mazziniani, compiuto da una parte dei ceti intellettuali e dirigenziali per ottenere attraverso la via delle riforme miglioramenti sul piano civile ed economico, al fine di disinnescare la spinta rivoluzionaria, consentire una transizione controllata e meno radicale verso regimi costituzionali e ottenere un mercato unico nazionale e altri minori o comunque limitati obiettivi. Determinante fu, nell'agglutinarsi delle tendenze moderate, l'azione di un'élitaria leadership intellettuale che, elaborando differenti soluzioni possibili (sempre in chiave federale) alla situazione italiana, pur lasciando indifferenti le masse popolari riuscì ad acquisire parte dei ceti abbienti e cattolici al blocco liberale, strappandola a quello conservatore. A tale importante evoluzione contribuì in primo luogo V. Gioberti (V.), con il celebre trattato Del primato morale e civile degli Italiani del 1843 (V. PRIMATO MORALE E CIVILE DEGLI ITALIANI, DEL), dando vita al cosiddetto Neoguelfismo (V.) che prospettava una federazione degli Stati italiani sotto la guida del Papato; tale progetto fiorì, e presto si spense, quando fu eletto papa Pio IX (V.), ma ebbe il suo punto debole nell'incapacità di risolvere il problema della dominazione asburgica in alta Italia. Un'altra ipotesi fu elaborata da C. Balbo (V.) nello scritto, di grande lucidità storico-politica, Speranze d'Italia (1844): il centro della federazione, propulsore e garante dell'indipendenza doveva essere per Balbo non il Papato ma la Monarchia sabauda (in realtà tutt'altro che riformatrice ma tradizionalmente desiderosa di espandersi e interessata all'annessione della pianura lombarda). Egli riteneva che le stesse potenze europee avrebbero spinto per una cessione del Lombardo-Veneto da parte dell'Austria, per equilibrarne le mire espansionistiche, in funzione antirussa, nelle terre dell'Impero ottomano. Particolarmente interessanti, inoltre, le idee di M. d'Azeglio (V. AZEGLIO, MASSIMO TAPARELLI) esposte in Proposta di un programma per l'opinione nazionale italiana (1847), che comprendevano: una lega doganale tra gli Stati, l'unificazione delle legislazioni commerciali, dei sistemi di pesi e misure e della monetazione, la creazione di una vasta rete ferroviaria in tutta la penisola, ecc. Se il principale risultato del Moderatismo fu quello di incrinare il blocco sociale uscito dalla Restaurazione, attirando nel campo indipendentista e unitario molti possidenti sia tra i ceti urbani sia tra quelli delle campagne, ancora una volta la massa contadina, già trascurata dai mazziniani, non ottenne che una paternalistica considerazione volta più che altro a tutelare la posizione latifondista contro qualsiasi progetto di riforma agraria. A differenza di Mazzini, però, i moderati riuscirono a creare un movimento di opinione su scala davvero nazionale: la mobilitazione in tutti gli Stati per la concessione da parte dei sovrani di Costituzioni che garantissero le elementari libertà politiche e civili, costituì una piattaforma programmatica, se pur minimale, almeno condivisa da tutte le componenti attive del movimento risorgimentale e sicuramente condivisibile da tutte le classi sociali. Tali furono gli Statuti concessi nei primi mesi del 1848 da vari sovrani in Italia: quello strappato dalla rivolta siciliana a Ferdinando II in gennaio; quello cosiddetto «albertino», per il Regno di Sardegna, in febbraio; quelli emanati da Leopoldo II per il Granducato di Toscana e di Pio IX per i territori pontifici. La transizione della penisola dalla frammentazione all'unità fu certo dovuta anche ai moti insurrezionali, a partire dai primi episodi del 1820 fino a quelli degli anni Cinquanta del secolo, interpretati prima dalle associazioni cospirative e poi dal movimento democratico repubblicano di origine mazziniana, ma si realizzò compiutamente attraverso le guerre del R. o d'Indipendenza, che furono invece espressione delle forze moderate e monarchiche, subentrate alla componente più radicale nella guida del processo indipendentista e unitario. ║ La prima guerra d'indipendenza (1848-49): nei primi mesi del 1848 l'Europa fu scossa da un'ondata rivoluzionaria: nel febbraio, in Francia, la Monarchia della casa d'Orléans (V. ORLEANISMO) fu abbattuta e sostituita dalla Repubblica; a Vienna, il 13 marzo, scoppiò un'insurrezione che presto si diffuse nei possedimenti asburgici e, dunque, anche nel Lombardo-Veneto. A Milano, dopo la partenza del viceré in seguito agli eventi viennesi, la popolazione insorse (V. CINQUE GIORNATE DI MILANO) il 18 marzo e il 22 costrinse il generale Radetzky a lasciare la città, in ritirata verso il fiume Oglio e poi verso il Mincio, per condurre le sue truppe all'interno del cosiddetto Quadrilatero (costituito dalle quattro piazzeforti di Peschiera, Mantova, Legnago e Verona), mentre quasi tutte le città lombarde e venete si liberavano dall'occupazione austriaca. L'entusiasmo patriottico si diffuse lungo la penisola: si costituirono corpi di volontari provenienti dalla Toscana (per lo più studenti), dai ducati di Parma e Modena, da Roma e da Napoli, mentre lo Stato pontificio e il Regno delle Due Sicilie, dietro pressione delle forze liberali interne, inviarono truppe regolari guidate rispettivamente dai generali G. Durando e G. Pepe. Gli eventi colsero di sorpresa il sovrano piemontese Carlo Alberto che durante i primi giorni della sollevazione, pur dando inizio a una coscrizione di volontari e allo spostamento delle truppe lungo il confine con il Ticino, esitò a intervenire soprattutto a causa della contrarietà espressa in merito dalle potenze europee. Il 23 marzo, tuttavia, alla notizia sicura della liberazione di Milano, ritenne di non poter trascurare l'occasione e dichiarò guerra all'Austria, sovrapponendo con tale gesto la guerra regia e la tradizione espansionista dei Savoia alla rivoluzione democratica e popolare. Tale era infatti lo scopo sabaudo: annettere la Lombardia, porsi alla guida del movimento di unificazione nazionale, conquistare l'appoggio degli elementi moderati di tutti gli Stati della penisola e vanificare sul nascere possibili sviluppi repubblicani e radicali dovuti alla radice democratica e insurrezionale della congiuntura attuale. L'esercito piemontese, che pure vantava buone tradizioni ed efficienza, mostrò nei mesi successivi gravissime carenze non solo logistiche ma soprattutto di capacità strategiche nello Stato Maggiore. La gestione inadeguata delle compagnie di volontari si sarebbe rivelata un errore tra i più gravi, specie perché sommata all'emarginazione delle popolazioni insorte, di cui si temeva la vocazione repubblicana, e unita a un atteggiamento attendista e incapace di rapide ed efficaci manovre offensive. Carlo Alberto, infatti, anziché contrastare tempestivamente la ritirata di Radetzky, attaccandone le truppe nel difficile momento del guado dei fiumi, si mosse oltre il Ticino solo il 31 marzo, avanzando lentamente e attestando il proprio fronte lungo il Mincio, tra Peschiera e Mantova, solo l'11 aprile. L'inazione piemontese durò fino al 24 dello stesso mese, quando si pose l'assedio a Peschiera e il grosso dell'esercito fu traghettato al di là del Mincio e schierato in un fronte che da Villafranca toccava il Garda e minacciava anche Verona; il 30 aprile, conquistando Pastrengo, le truppe sabaude si attestavano anche sull'Adige. Tuttavia, nel frattempo, gli Austriaci avevano mantenuto contatti con l'Austria attraverso la valle dell'Adige e colonne di rinforzi erano già in movimento. Ai primi di maggio un'azione volta a occupare postazioni nei pressi di Verona e ad attirare le forze austriache fuori dalla città sortì per i Piemontesi, il giorno 6 maggio, la vittoria di Santa Lucia, sanguinosa ma senza reale importanza strategica. Gli Austriaci ripresero l'iniziativa: i rinforzi del generale Nugent da Gorizia riconquistarono il Veneto, sconfissero il 9 maggio le truppe pontificie di Durando a Cornuda del Piave e si riunirono a Radetzky a Verona. La superiorità numerica spinse il generale asburgico a uscire dalla città per attaccare le postazioni piemontesi: un corpo d'armata austriaco si diresse il 28 maggio a Mantova, attaccando presso Curtatone e Montanara le compagnie di volontari toscani e napoletani. La loro resistenza, che costò un altissimo numero di morti, permise alle truppe regolari sabaude di attestarsi nei pressi di Goito e ottenere una netta vittoria il 30 maggio; lo stesso giorno cedette all'assedio anche Peschiera. Ancora una volta però l'alto comando piemontese non seppe sfruttare l'occasione favorevole: non incalzò Radetzky, ma gli consentì di entrare in Mantova e di lì muovere nei giorni successivi contro Vicenza, dove erano acquartierate le truppe pontificie di Durando. I soldati del papa, che avevano subito durissime perdite ed erano stati delegittimati da una dichiarazione di neutralità pronunciata dallo stesso pontefice nell'aprile, accettarono la resa l'11 giugno e si ritirarono oltre il Po: tutto il Veneto ritornò sotto il dominio austriaco, ad esclusione di Venezia che, proclamata la Repubblica con D. Manin, resistette all'assedio asburgico fino all'agosto 1849. Il comando sabaudo non ritenne opportuno prendere l'iniziativa, pur avendo posto l'assedio anche a Mantova, dal momento che la citata allocuzione pontificia aveva lasciato i Savoia virtualmente isolati: tutti i corpi regolari inviati da Stati italiani furono richiamati, contestualmente al ritiro degli Statuti concessi in precedenza e al ritorno a una politica marcatamente reazionaria. L'armata di Radetzky, accresciuta dai rinforzi, il 22 luglio sferrò un attacco contro l'esercito piemontese, gravato da una linea di fronte lunga ben 70 km e che ammassava il grosso delle truppe presso le città assediate di Verona e Mantova: tre giorni dopo si verificò lo scontro decisivo presso Custoza, a metà della linea sabauda. Costretti a ripiegare su Goito, i soldati di Carlo Alberto ebbero l'ordine di ritirarsi fino a Milano: manovra dettata più da esigenze politiche che strategico-militari, secondo le quali sarebbe stata invece logica una resistenza lungo la barriera naturale dell'Oglio. Ma il re temeva che, se la difesa della capitale lombarda fosse stata lasciata alla popolazione guidata dai mazziniani, l'intera regione si sarebbe costituita in Repubblica, sottraendosi alla fusione con il Regno di Sardegna. La battaglia milanese del 4 agosto fu persa ugualmente e il re firmò, il 9 agosto, un armistizio con Radetzky: gli Austriaci rientrarono in città e i confini furono ristabiliti al Ticino. Solo Garibaldi, al comando di un corpo di volontari di appena 1.500 uomini, continuò a combattere e, grazie al suo genio militare, a conseguire successi contro forze dieci volte superiori (presa di Arona e di Varese, scontro di Morazzone del 25 agosto); alla fine del mese, però, fu costretto a riparare in Svizzera. Si concludeva così la prima fase della guerra, ma non la guerra stessa, dal momento che nemmeno la mediazione inglese e francese riuscì a fermare definitivamente le ostilità. La campagna del 1849: in Piemonte, né il re né i suoi comandi militari si assunsero la responsabilità della sconfitta. Si dibatteva intorno a due opzioni: una, sostenuta dai democratici, per la ripresa della guerra, l'altra, propria dei moderati, di tipo attendista (intanto l'esercito veniva riformato e riorganizzato). Il Governo guidato da Gioberti, di centro-sinistra, catalizzò tutti gli argomenti filobellici, tra cui figurava anche il desiderio di riguadagnare il prestigio della casa sabauda di fronte al movimento nazionale unitario, al fine di poterne meglio determinare la natura e gli orientamenti in senso moderato. Il 12 marzo 1849, confidando anche nelle difficoltà asburgiche dovute alla Rivoluzione ungherese, il Piemonte disattese l'armistizio e stabilì l'inizio delle operazioni militari per il 20 marzo. L'esercito Savoia contava circa 70.000 uomini, contro i 73.000 austriaci, al comando del generale polacco W. Chrzanowski: la nomina di quest'ultimo si rivelò infelice, in quanto ancora meno dei suoi predecessori egli era disponibile ad accogliere e sollecitare il contributo dei movimenti insurrezionali lombardi. Egli dislocò il grosso del suo esercito presso Novara, con finalità offensive, mentre al generale Ramorino fu affidata la difesa del basso corso del Ticino presso Cava, di fronte a Pavia. Radetzky, dal quale il comando piemontese si attendeva una strategia puramente difensiva, adottò invece un piano di rapida avanzata: convogliò a sorpresa le proprie truppe a Pavia e il 20 marzo passò il Ticino, travolgendo Ramorino che, contro gli ordini, abbandonò la postazione e si ritirò oltre il Po. Gli Austriaci occuparono Mortara, manovrando liberamente nelle retrovie nemiche: Chrzanowski, che era già penetrato in Lombardia, fu costretto a ripassare il fiume, cercando di bloccarne l'avanzata all'altezza di Vigevano, nei pressi di Borgo Santo Spirito e della Sforzesca. Il 23 marzo, davanti a Novara, si svolse la battaglia campale che concluse la guerra, dopo soli tre giorni, con la sconfitta dei Piemontesi. Per consentire l'armistizio (che si concluse a Vignale il 24 marzo), che Radetzky negava alla persona di Carlo Alberto in quanto non aveva rispettato quello precedente, il re abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele. I termini della resa prevedevano, fino alla firma della pace, l'occupazione della Lomellina e del Novarese da parte delle truppe austriache; il diritto di guarnigione austriaca nella cittadella di Alessandria; lo scioglimento dei corpi di volontari lombardi; il ritiro delle truppe piemontesi dalla Toscana (dove erano stati inviati in appoggio al regime democratico di Montanelli e Guerrazzi che avevano spodestato il granduca). La pace fu firmata a Milano il 10 agosto. ║ La leadership di Cavour (1849-59): la guerra evidenziò numerose contraddizioni interne al composito fronte risorgimentale: gran parte delle forze moderate si rivelarono, dopo la sconfitta, più conservatrici che liberali; gli episodi rivoluzionari, condotti dalla borghesia e dall'artigianato cittadino a Roma e a Venezia, portarono all'abbandono della causa da parte dei proprietari terrieri senza per questo ottenere l'appoggio dei contadini. L'elemento moderato, infatti, sia a Roma sia in Toscana collaborò con le armi, rispettivamente francesi e austriache, a ristabilire i regimi precedenti. Gli eventi del 1848-49, dunque, avevano dimostrato come inattuabili tanto il Neoguelfismo quanto il federalismo, lasciando sul tappeto solo la via repubblicana di Mazzini o quella della Monarchia dei Savoia, che Vittorio Emanuele riuscì a promuovere con successo. Unico tra tutti gli Stati italiani, il Piemonte non abbandonò l'ordinamento liberale, confermando lo Statuto del 1848, e si adoperò per la modernizzazione delle proprie strutture economiche e politiche e la crescita civile della popolazione durante un decennio che, invece, vide una sostanziale stagnazione di tutte le altre entità politiche della penisola, compresa la Lombardia. Il Governo del liberale M. d'Azeglio inaugurò con decisione l'atteggiamento anticlericale della Monarchia sabauda, abolendo numerosi privilegi del clero, ponendosi come alternativa, indipendente dalla Chiesa e dal Papato, alla via rivoluzionaria per l'unità. La politica di Cavour (V. CAVOUR, CAMILLO BENSO, CONTE DI), che riuscì a foggiare una classe dirigente di statura nazionale e ispirazione moderata, si dispiegò nel settore economico, mediante trattati commerciali con i maggiori Stati europei (Inghilterra, Francia, Belgio, Svizzera), l'applicazione del liberismo economico, lo sviluppo dell'agricoltura e dell'industria, l'abolizione delle barriere doganali; curò la costruzione delle linee ferroviarie, l'ampliamento del porto di Genova (civile e commerciale) e di La Spezia (militare). Puntando sull'efficienza dell'apparato burocratico e dell'esercito, Cavour si affacciò anche alla diplomazia europea, forte dell'evidenza con cui il Regno di Sardegna sarebbe apparso come il nucleo italiano più progredito e moderno, in grado di attrarre e gestire le istanze indipendentiste. Il fallimento di tutti i tentativi insurrezionali collegati direttamente o indirettamente a Mazzini (nel febbraio 1853 a Milano, nel 1857 a Genova e, nel medesimo anno, la spedizione di Carlo Pisacane) cementò la coalizione tra Savoia e ceti liberali, finalizzandola al progetto unitario con tanta efficacia da saper costringere alla soluzione monarchico-costituzionale, alla fine e mediante il fattore garibaldino, anche le tendenze repubblicane e democratiche (molti mazziniani cioè, ma non lo stesso Mazzini). Il progetto di Cavour non contemplava il raggiungimento dell'unità mediante sollevazioni e rivoluzioni: egli prospettava, una volta estromessa l'Austria, un processo graduale di aggregazioni successive delle varie regioni italiane al Regno sabaudo, che avrebbe dovuto coincidere con l'intero settentrione, politicamente, economicamente, socialmente, tecnologicamente più avanzato. Il punto debole di tale progetto riguardava le regioni meridionali, in cui appunto andò a concentrarsi, in quel decennio, l'attività dei repubblicani, con numerose azioni di cui quella dei Mille (V. MILLE, SPEDIZIONE DEI) fu solo l'ultimo atto. Per ottenere il riconoscimento del proprio status in Europa, Cavour inviò truppe al fianco dell'Inghilterra e di Napoleone III alla guerra di Crimea, gesto che procurò al Piemonte un seggio al Congresso di Parigi dove, per la prima volta, la questione italiana fu trattata in sede diplomatica e condotta dal Regno di Sardegna come maggiore potenza della penisola. L'esperienza del 1848 aveva insegnato la necessità di un alleato contro la potenza austriaca e Cavour, sondata la non disponibilità dell'Inghilterra, nel 1858 stipulò un accordo segreto con la Francia (Convegno di Plombières - V. PLOMBIÈRES-LES-BAINS) che prevedeva il suo sostegno al Piemonte in caso di guerra difensiva contro l'Austria; in cambio la Francia avrebbe ottenuto Nizza e la Savoia, mentre per fusione del Regno sabaudo con il Lombardo-Veneto liberato dagli Austriaci si sarebbe costituito il Regno d'Alta Italia; questo avrebbe poi dato vita a una confederazione con lo Stato pontificio, la Toscana e il Regno delle Due Sicilie. Il trattato di alleanza ufficiale fu sottoscritto sempre a Plombières nel 1859 e da allora Cavour si adoperò in provocazioni sempre più aperte per indurre l'Austria a dichiarare la guerra. Contestualmente a un'attività diplomatica e politica tesa a presentare il Piemonte come il campione dell'unità e dell'indipendenza italiana, infatti, egli affidò al generale A. La Marmora, ministro della Guerra, il riarmo e l'addestramento dell'esercito regolare e l'organizzazione in corpi speciali dei volontari dei diversi Stati italiani (tra cui i famosi Cacciatori delle Alpi comandati da Garibaldi). Il piano di Cavour rischiò il fallimento a causa di un'iniziativa anglo-russa che, per scongiurare una guerra, propose un congresso dedicato alla questione italiana. L'Austria stessa, tuttavia, vanificò il tentativo diplomatico, temendo di perdere in tale congresso parte del proprio prestigio, soprattutto di fronte alla Prussia e all'interno della Federazione germanica, di sentimenti marcatamente antifrancesi: essa dunque, il 23 aprile 1859, lanciò al Piemonte un ultimatum che, respinto, creò il casus belli. ║ La seconda guerra d'indipendenza (1859): la dichiarazione di guerra da parte dell'Impero asburgico, il 27 aprile, consentì al Piemonte di invocare l'intervento francese in una guerra tecnicamente difensiva: l'Austria si proponeva, avendo il vantaggio dell'iniziativa, di sgominare l'esercito piemontese prima che giungessero i rinforzi di Napoleone III, per costringere poi quest'ultimo a trattare anche sotto la minaccia di un attacco prussiano. In tal modo gli Asburgo ritenevano di poter conservare sia l'egemonia in Italia, sia la leadership nella Federazione germanica. Allo scoppio delle ostilità, le truppe piemontesi contavano circa 60.000 uomini a fronte dei 110.000 Austriaci, mentre Napoleone III ne mobilitò 120.000, in parte via mare, sbarcandoli a Genova, in parte attraverso i passi alpini del Moncenisio e del Monginevro. Il generale austriaco Gyulai, passato il Ticino il 30 aprile, si mosse tuttavia con troppa lentezza per riuscire nell'intento: ritardato dalle piogge, dagli allagamenti provocati ad arte dai Piemontesi, temendo l'insorgere di rivolte in Lombardia alle sue spalle (come già stava accadendo in Toscana) e pensando che i Francesi sarebbero stati trattenuti da un intervento prussiano sulla frontiera del Reno, egli bloccò la sua avanzata in terra sabauda il 9 maggio, attestandosi sul fiume Sesia e sulle rive del Po, mentre i Piemontesi si concentrarono fra Casale Monferrato e Alessandria, raggiunti già il 14 maggio dai Francesi, sotto il comando dello stesso Napoleone III. Il primo scontro si verificò il 20 maggio a Montebello: le forze franco-piemontesi, vittoriose, cominciarono quindi una manovra verso Nord, al fine di posizionare il grosso delle truppe lungo la direttrice Novara-Milano. Per la prima volta nella storia delle operazioni militari, la ferrovia (linea Alessandria-Vercelli) fu utilizzata su larga scala per il trasporto delle truppe; parte dell'esercito alleato, tuttavia, fu impiegato in un'azione di copertura del movimento ferroviario provocando gli Austriaci a battaglia nei pressi di Palestro il 30 e il 31 maggio. Gyulai solo in un secondo momento intuì l'intenzione del nemico di attaccare Milano: per qualche giorno indugiò tra la possibilità di arretrare in Lombardia ripassando il Ticino e quella di attaccare i francesi a Novara impegnati a spostarsi al di là dello stesso fiume; infine optò per una linea difensiva e, mentre i Francesi attraversavano i ponti di Turbigo e Boffalora, concentrò le sue forze a Magenta. Il 4 giugno vi si svolse una dura battaglia, risolta favorevolmente per gli alleati grazie alle truppe del generale francese Mac-Mahon e del piemontese M. Fanti. La vittoria aprì la via per Milano, dove entrarono trionfalmente Vittorio Emanuele e Napoleone III (8 giugno). Contemporaneamente, nel settore settentrionale, agiva con grande efficacia Garibaldi, al comando di 5.000 Cacciatori delle Alpi: il 23 maggio, passato il Ticino a Sesto Calende, occupò Varese, e il 26, dopo la battaglia di San Fermo, liberò Como e mantenne impegnate consistenti forze austriache in alta Lombardia. Dopo la battaglia di Magenta, le truppe garibaldine liberarono Bergamo, Brescia e, con uno scontro duro a Treponti sul Chiese, giunsero fino a Salò. Di qui furono inviati in Valtellina, per collaborare con la divisione Cialdini nel caso di un attacco dal Tirolo. Dopo Magenta, Gyulai fu esonerato dal comando e sostituto dallo stesso imperatore Francesco Giuseppe e dal suo capo di Stato Maggiore H.H. Hess: le forze austriache furono ritirate al di là del Mincio e all'interno del Quadrilatero e qui furono anche richiamate le truppe di stanza nei ducati di Modena e Parma e nelle Legazioni pontificie di Emilia e Romagna. I patrioti, scacciati i duchi e i governatori papali, costituirono Governi liberali e provvisori, chiedendo l'annessione al Regno di Sardegna, come già aveva fatto la Toscana. Il 24 giugno Francesco Giuseppe, cercando lo scontro decisivo, ripassò il Mincio e avanzò verso le postazioni alleate: nei pressi di Solferino, 80.000 Francesi ebbero la meglio in un battaglia sanguinosa contro 90.000 Austriaci, mentre a San Martino 31.000 Piemontesi vinsero altrettanti nemici. L'imperatore si ritirò nel Quadrilatero, in grave difficoltà: il 2 luglio Napoleone III pose l'assedio a Peschiera, col vittorioso combattimento di Bormio Garibaldi da Nord incombeva sul Trentino e, infine, il 5 luglio una flotta alleata giungeva in vista di Venezia pronta ad attaccare. Tuttavia, proprio nel momento di maggiore favore per le armate franco-piemontesi, Napoleone III, senza consultare Vittorio Emanuele, propose l'armistizio all'Austria, firmato l'8 luglio a Villafranca. Cavour, che ne fu informato solo il giorno successivo, si adoperò per convincere il re a non consentire all'imposizione francese e a continuare la guerra per ottenere anche il Veneto: vedendosi inascoltato, si dimise e fu sostituito dal ministro della Guerra La Marmora. L'11 luglio i due imperatori discussero i termini della pace, emarginando il monarca sabaudo: la Lombardia sarebbe stata ceduta alla Francia e da questa, in cambio di Nizza e Savoia, al Piemonte, ma il Veneto sarebbe rimasto all'Austria. I motivi dell'improvvisa volontà francese di interrompere le ostilità si legano allo sviluppo imprevisto della situazione sia italiana sia europea. Le richieste di annessione al Piemonte da parte di numerosi territori italiani dimostravano che il processo di indipendenza aveva ormai carattere direttamente unitario e non federativo come previsto dagli accordi di Plombières: ciò da un lato vanificava i propositi di egemonia indiretta da parte di Napoleone III sulla penisola, dall'altro alienava all'imperatore il sostegno dei cattolici francesi che temevano per la sopravvivenza dello Stato pontificio; per la cessazione del conflitto premeva inoltre la Prussia che, diversamente, minacciava l'intervento contro la Francia. ║ Il processo di unificazione e la liberazione del Mezzogiorno (1860-66): il portato della guerra del 1859, ancorché prematuramente conclusa, fu comunque di enorme consistenza. In Italia centrale le componenti filopiemontesi avevano ben diretto verso l'annessione i territori sottomessi all'egemonia austriaca e pontificia: essi erano coordinati dalla Società Nazionale Italiana, che dal 1857 raccoglieva sotto il programma «Italia e Vittorio Emanuele» numerosi repubblicani della prima ora, pragmaticamente passati al progetto unitario sabaudo in quanto più immediatamente realizzabile. L'unificazione di Mazzini si faceva dunque, ma sotto casa Savoia: l'annessione delle regioni centrali si attuò attraverso l'istituto del plebiscito, quale ratifica «popolare» di una realtà di fatto, senza che a tale evento potesse associarsi alcuna istanza di rinnovamento sociale, politico o economico. L'ideale unitario era ormai privo di qualsiasi implicazione progressista o semplicemente innovativa: non solo lo Statuto albertino, ma l'intero corpus giuridico del Regno di Sardegna veniva esteso, tout court, alle regioni annesse. L'iniziativa di Garibaldi, che nel 1860 liquidò il Regno delle Due Sicilie, benché originata dalla tradizione rivoluzionaria democratica, da Cavour in poi concentrata nelle regioni borboniche più trascurate dal progetto sabaudo, fu alla fine assorbita dal primo nucleo nazionale italiano, pagando anche Garibaldi, nel celebre incontro di Teano con Vittorio Emanuele, il proprio tributo all'ansia unitaria prevalente sull'ideale repubblicano e democratico. L'esercito regio occupò, con il consenso diplomatico di Inghilterra e Francia, le Marche e l'Umbria, proclamando così nel 1861 la nascita del Regno d'Italia, con capitale prima a Torino, poi, dal 1864, a Firenze. Respinta la proposta di eleggere un'Assemblea Costituente, con la semplice approvazione da parte del Parlamento subalpino di un disegno di legge governativo, il re di Sardegna cambiò il proprio titolo in quello di re d'Italia, dando vita a una Monarchia più costituzionale che parlamentare, dal carattere fortemente centralizzato e con una netta preponderanza, nell'assetto formale e sostanziale, del potere esecutivo sugli altri poteri dello Stato. Le modalità stesse assunte dal momento finale dell'unificazione accentuarono il carattere elitario, sia culturale sia d'azione, che era stato proprio del R. e sortirono una gestione oligarchica del potere: l'emarginazione delle classi popolari dall'azione unitaria si ripropose anche nella loro esclusione dalla vita del nuovo Stato, dotato di una ristretta base sociale, economicamente predominante, presto orientata più in senso conservatore che liberale. L'Italia unita, tuttavia, rivendicava ancora Roma e il Triveneto come parte integrante del proprio territorio: per ottenere la prima si percorse la via diplomatica, benché segnata dagli episodi garibaldini di Aspromonte (1862) e di Mentana (1867) e conclusa poi con il colpo di mano del 1870 (V. QUESTIONE ROMANA), ma per il secondo fu necessaria un'altra guerra. L'antica rivalità tra Austria e Prussia all'interno della Federazione germanica offrì all'Italia l'opportunità di liberare il Veneto. Utilizzando come pretesto la questione dei ducati (V. DUCATI, QUESTIONE E GUERRA DEI), infatti, la Prussia era intenzionata ad attaccare gli Asburgo: l'apertura di un contemporaneo fronte italiano sarebbe stata di suo interesse. Per questa ragione propose un'alleanza militare al primo ministro La Marmora che, con qualche riluttanza e dietro insistenza di Napoleone III (che sperava di ottenere vantaggi territoriali sul Reno da un conflitto austro-prussiano), infine accettò. I termini, fissati l'8 aprile 1866 a Berlino tra Bismarck e il generale G. Govone, prevedevano l'impegno dell'Italia a dichiarare guerra all'Austria non appena l'avesse fatto la Prussia e a continuarla fino alla conquista del Veneto e fino a che la Prussia avesse ottenuto territori equivalenti; si escludeva inoltre la possibilità di armistizi unilaterali. L'alleanza sarebbe decaduta se le ostilità contro l'Austria non fossero scoppiate entro tre mesi dalla sua sottoscrizione. Bismarck non si impegnò riguardo a Trento e Trieste, ma promise di appoggiare diplomaticamente eventuali pretese italiane. I due mesi successivi videro un'intensa attività diplomatica, anche da parte inglese e russa, per scongiurare la guerra: gli Asburgo offrirono anche la cessione del Veneto in cambio della neutralità italiana. La Marmora respinse la proposta ma appoggiò la possibilità di una mediazione tra Austria e Prussia, eventualità resa impossibile dalla rottura delle relazioni diplomatiche tra Vienna e Berlino il 12 giugno. L'ultimo antefatto alla guerra vera e propria è costituito dall'accordo segreto austro-francese, in base al quale l'Austria prometteva territori alla Francia in caso di vittoria sulla Prussia e le cedeva il Veneto, perché essa lo cedesse a sua volta all'Italia, in cambio dell'impegno di Napoleone III a spingere l'Italia al disimpegno o almeno a una blanda azione sul fronte del Mincio. L'esistenza di una tale intesa potrebbe, forse, spiegare la disastrosa condotta bellica italiana. ║ La terza guerra d'indipendenza (1866) e l'Unità d'Italia (1870): iniziate le ostilità austro-prussiane in Boemia il 14 giugno, il 20 anche l'Italia dichiarò guerra agli Asburgo: l'esercito, al comando di La Marmora che aveva lasciato la presidenza del Consiglio a Ricasoli, contava 250.000 uomini: essi furono concentrati sul Mincio, a eccezione di alcune divisioni affidate a Cialdini sul basso Po e di circa 38.000 garibaldini che, col loro generale, avrebbero dovuto portarsi dalla Valtellina verso il Trentino. Tanto le truppe di terra quanto la flotta erano notevolmente superiori alle forze austriache di circa 80.000 uomini, guidate dall'arciduca Alberto. I due comandanti italiani si accordarono per due manovre coordinate: La Marmora si impegnò ad attaccare sul Mincio, tra Goito e Monzambano, mentre Cialdini stabilì di passare il Po il 26 giugno, puntando su Legnago. All'oscuro del fatto che le forze austriache concentrate a Verona avevano ormai passato l'Adige e si erano posizionate a Sud del Garda per attaccare gli Italiani sul fianco sinistro, il 24 gli Italiani furono costretti alla battaglia nel settore di Custoza tra il Mincio e l'Adige. Tuttavia mentre gli Austriaci si presentarono allo scontro in forze, gli Italiani furono sorpresi in formazione tattica, disseminati in piccole unità dopo il guado del fiume, e non poterono sfruttare la loro superiorità numerica. La Marmora ordinò la ritirata oltre il Mincio, fino all'Oglio: Cialdini ritirò le sue truppe fino a Modena. In realtà gli Austriaci non si impegnarono nell'inseguimento, a causa delle perdite subite, assai gravi, e alla necessità di inviare truppe sul fronte boemo. La sconfitta degli Asburgo a Sadowa (3 luglio), inoltre, li spinse ad anticipare i tempi della mediazione francese, offrendo la cessione immediata del Veneto (4 luglio), purché l'Italia accettasse un armistizio. Napoleone esercitò forti pressioni in questo senso, avendo interesse a un riequilibrio di forze tra Prussia e Austria, ma l'opinione pubblica italiana e lo stesso re preferirono una continuazione della guerra, sperando di liberare anche Trentino, Venezia Giulia e Istria. Dimesso La Marmora, il comando dell'esercito fu affidato a Cialdini e fu stabilito un nuovo piano offensivo: Cialdini sarebbe penetrato in Veneto, La Marmora avrebbe attaccato nel Quadrilatero, mentre la flotta di C. Persano avrebbe attirato fuori da Pola la flotta austriaca di W. von Tegetthoff e avrebbe puntato su Trieste. L'8 luglio Cialdini passò il Po, prese Rovigo, Padova e giunse fino a Palmanova e Udine. Nel suo settore operativo Garibaldi, penetrato in Trentino il 2 di luglio, strappate agli Austriaci le Valli Giudicarie, ottenne il 21 luglio la vittoria di Bezzecca (unico successo delle armi italiani nella guerra); altri garibaldini erano entrati in Valsugana e avanzavano verso Trento. La conquista di Trieste via mare era invece fallita per la sconfitta subita a Lissa dalla flotta italiana. La notizia dell'armistizio austro-prussiano (26 luglio) comportò ancora una volta la fine delle ostilità: il 9 agosto fu dato l'ordine a Garibaldi di sgombrare il Trentino ormai occupato, cui il generale rispose con il celebre «Obbedisco» (V.). Il 12 agosto fu siglato l'armistizio di Cormons e la pace firmata a Vienna il 3 ottobre: i pessimi risultati conseguiti dalle armi italiane, che in quell'occasione beneficiavano dei successi prussiani, non poterono evitare l'umiliazione della cessione indiretta del Veneto e della provincia di Mantova attraverso la Francia. In Italia l'esito della guerra lasciò più amarezza che soddisfazione, dal momento che era fallita la liberazione di vasti territori di lingua italiana (il Trentino, la Venezia Giulia, l'Istria) rimasti all'Austria, che sarebbero stati recuperati, e solo parzialmente, con la prima guerra mondiale. Ciò nonostante, la storiografia ha in genere considerato momento finale del R. l'annessione al Regno d'Italia del Lazio e degli ultimi domini pontifici, resa possibile nel 1870 dalla guerra franco-prussiana, e il trasferimento della capitale a Roma nel 1871. Infatti l'interpretazione secondo la quale anche la guerra del 1915-18 sarebbe da considerare storia risorgimentale è oggi generalmente rifiutata: l'irredentismo (V.), infatti, relativo soprattutto alle province di Trento e Trieste, pur prolungando in certo modo l'istanza unitaria, assunse in breve caratteri formali e contenuti ideali assai differenti rispetto agli eventi del R. vero e proprio.
Le fasi dell'unificazione italiana durante il Risorgimento