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Riduzionismo.

Concezione della totalità dei fenomeni naturali, secondo la quale essi sono gerarchicamente disposti in base a livelli di complessità crescente e tali da permettere la riduzione dei livelli più complessi a quelli meno complessi; un analogo ordinamento caratterizza anche le scienze empiriche. • Filos. - R. fisicalista: concezione epistemologica che si pose come fine la riduzione degli asserti teorici della scienza alla loro base osservativa (celebri furono i tentativi di E. Mach e di B. Russell) o a definizioni operazionali (come cercò di fare P.W. Bridgam). Questo programma, fatto proprio soprattutto dal Neopositivismo (in particolare da R. Carnap), fu oggetto di dure critiche da parte di C.G. Hempel e W.V.O. Quine, secondo i quali le teorie scientifiche non possono essere trasformate completamente in dati osservativi: vi sono ipotesi e definizioni che, oltre a non essere riducibili all'esperienza, garantiscono l'accordo della scienza con la sua base osservativa. K.R. Popper, N.R. Hanson e I. Lakatos, inoltre, lungi dall'accettare la tesi del r., insistettero sul carattere teorico della medesima osservazione. ║ R. teorico: concezione epistemologica che afferma la possibilità della riduzione dei concetti e del linguaggio di una teoria scientifica nei concetti e nel linguaggio di un'altra teoria ritenuta più fondamentale. Il primo tentativo in questa direzione risale ai secc. XVII-XVIII, quando si affermò il modello meccanicistico e, con esso, la convinzione che tutta la realtà (sia materiale sia vivente) potesse essere spiegata ricorrendo unicamente alle particelle materiali e ai loro movimenti. In modo analogo, sempre nel XVIII sec., ottennero un certo favore presso gli ambienti accademici due diverse, ma per certi versi affini, forme di r., che sostenevano rispettivamente la possibilità di ridurre i fenomeni vitali a fenomeni fisico-chimici e i fenomeni psicologici e mentali a fenomeni di tipo neurofisiologico. Nell'epistemologia contemporanea si designa come r. anche la dottrina dell'individualismo metodologico che cercò di rendere ragione degli eventi storico-sociali unicamente in base alle azioni e alle preferenze degli individui. Occorre attendere il XX sec. perché la filosofia della scienza di orientamento neopositivista concepisca il r. come riduzione di una teoria scientifica a un'altra. Fu E. Nagel a enunciare le due fondamentali condizioni di questa riduzione: innanzitutto, i termini base della teoria da ridurre devono essere correlati ai termini base della teoria riducente; in secondo luogo, gli assiomi e le leggi della teoria da ridurre devono derivare logicamente dalla teoria riducente. Oltre a ciò, secondo Nagel è indispensabile che, in virtù di questa riduzione, il patrimonio di leggi della teoria primaria venga indirettamente dimostrato; una dimostrazione per via diretta, invece, si richiede per il patrimonio di leggi della teoria secondaria, che risulterà anche accresciuto e perfezionato. Esempio classico di Nagel è la riduzione della termodinamica alla meccanica statistica, avvenuta nella seconda metà del XIX sec. Soprattutto a partire dai primi anni Settanta del XX sec., al r. teorico sono state mosse varie critiche. W. Dray, G.H. von Wright, P. Winch e H. Putnam, ad esempio, rimproverarono al r. l'equiparazione delle scienze della natura e delle scienze dello spirito, sottolineando l'autonomia della psicologia, della sociologia e della storia, sia dal punto di vista dell'oggetto di studio sia del metodo di ricerca. Ancor più radicali furono le posizioni assunte nei confronti del r. da N.R. Hanson, S. Toulmin, I. Lakatos e P. Feyerabend, che contestarono sia le condizioni di riducibilità elencate da Nagel sia l'esaltazione del modello nomologico-deduttivo, assurto alla condizione di unica e possibile spiegazione scientifica. Estremamente originale fu la critica di T. Kuhn che, nell'opera La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), elaborò un nuovo concetto di progresso scientifico: non per riduzione, ma per rivoluzione. Il filosofo statunitense, più precisamente, costruì una nuova concezione epistemologica in base alla quale lo sviluppo della scienza si articola in periodi di «scienza normale» e in periodi di «rotture rivoluzionarie». I primi sono caratterizzati dal prevalere di determinati «paradigmi», ossia di modelli esplicativi organizzati in teorie e pratiche sperimentali che, per un certo periodo, vengono riconosciuti come validi dalla comunità scientifica. Ciò nondimeno, quando nel paradigma cominciano a insorgere «anomalie», ossia eventi nuovi che contrastano manifestamente con il vecchio modello esplicativo, si apre un periodo di crisi cui può porre rimedio soltanto l'adozione di un nuovo paradigma. Secondo Kuhn, dunque, le nuove dottrine scientifiche non sorgono né dalla falsificazione, né dalla verificazione del modello esplicativo, ma dalla sua sostituzione con uno nuovo: è proprio in questa sostituzione che consiste una rivoluzione scientifica. Contro il r., infine, si espresse K. Popper, che si fece portavoce di un'epistemologia «evoluzionista», finalizzata a valorizzare le procedure di selezione, di controllo, di eliminazione e di autocorrezione del linguaggio scientifico.