Ideologia che esalta le qualità di una razza affermandone la
superiorità, biologica e storica, rispetto ad altre razze. •
Encicl. - Tale ideologia, fondata sulla base di forti tradizioni o di teorie
pseudoscientifiche, è intesa a conservare la purezza della razza
superiore, preservandola da contaminazioni con individui inferiori, e ad
affermarne il predominio, possibile o attuale ma sempre legittimo, sulle altre
razze. Il
r. si esplica mediante atteggiamenti di intolleranza,
pregiudizio, discriminazione fino all'emarginazione e, talvolta, alle
persecuzioni e al genocidio. Suffragato da un'opportuna legislazione, il
r. diviene la prassi politica di Stati che si pongano come scopo il
primato militare e politico su altre Nazioni. • St. - Forme diverse di
r. si manifestarono fin dall'antichità, in alcuni casi sotto
l'apparenza di persecuzioni religiose, in altri casi dichiarate apertamente e
tendenti, generalmente, a giustificare un atto di prepotenza politica o
militare. Gli Arya, ad esempio, che provenivano dalle regioni di Nord-Ovest,
intorno al 1500 a.C. emigrarono verso Sud-Est e invasero la pianura del Gange,
ove poi si stanziarono. Nello stesso nome di queste popolazioni indoeuropee
(Arya significa in sanscrito padroni, signori, coloro che sottomettono gli
altri) era implicito un programma di supremazia che sanciva la loro
superiorità rispetto all'elemento autoctono rappresentato dai Dravida.
Accanto agli Arya, anche gli Ebrei, fin da tempi remoti, si autoproclamarono il
popolo eletto, cioè superiore a tutti gli altri. In epoca medioevale non
mancarono atteggiamenti apertamente razzisti, spesso tesi a mascherare fenomeni
di lotta sociale e politica. Basti pensare alle discriminazioni di cui furono
oggetto gli Ebrei in vari Paesi dell'Europa: includendoli fra gli eretici,
considerandoli il popolo deicida per eccellenza, sottolineando la loro
diversità (culturale, sociale), in realtà si intendeva colpire il
loro primato economico. Gli atteggiamenti razzisti divennero vere e proprie
teorizzazioni in seguito alla scoperta dell'America, quando si trattò di
legittimare la strage di intere civiltà, come quelle degli Aztechi e
degli Incas, o la tratta degli schiavi. Appellandosi ora alle interpretazioni
fondamentaliste di alcuni passi della Bibbia (
Genesi, 9, 20-27), ora alle
differenze biologiche e comportamentali di Amerindi e Africani, anche il papa
Alessandro VI affermò, con gli altri, la necessità che i popoli
barbari fossero «vinti e condotti alla fede»; addirittura, quando il
frate domenicano B. De Las Casas denunciò senza mezzi termini la
crudeltà dei
conquistadores spagnoli, J.G. de Sepúlveda
replicò giustificando quelle imprese, in quanto condotte da uomini
«con doti di prudenza, ingegno, umanità, religione» su
«omuncoli quasi senza traccia di umanità». Queste teorie furono
riprese nei secc. XVII-XVIII con l'affermazione delle dottrine fisiognomiche,
della frenologia e di un presunto ideale di bellezza e perfezione del corpo
umano mutuato dal mondo classico. Determinante fu l'elaborazione del concetto di
razza, ad opera, in particolare, di G.-L. Buffon: la descrizione delle varie
tipologie fisiche, fondata per lo più sui caratteri esteriori ed
ereditari, da avalutativa qual era si caricò in seguito di connotazioni
fortemente discriminatorie. Soltanto nel XIX sec., tuttavia, il Positivismo
conferì i caratteri della scientificità ad antichi pregiudizi.
Basti citare, ad esempio, la teoria poligenetistica di L. Agassiz, secondo la
quale le varie razze, separate e distinte fra loro, andavano ordinate
gerarchicamente come segue: al vertice la razza bianca, alla base i negri e gli
asiatici. Grande seguito ebbero poi gli studi craniometrici di G. Morton e P.-P.
Broca che affermavano la superiorità della razza bianca sulla base del
maggior volume del cervello degli individui appartenenti ad essa: secondo gli
studiosi, infatti, maggior volume era sinonimo di superiori capacità
mentali. È importante menzionare, infine, le teorie
pseudoevoluzionistiche di chiara derivazione darwiniana in cui, appellandosi al
criterio della «sopravvivenza del migliore», si giustificava lo
sterminio perpetrato dai bianchi ai danni delle popolazioni primitive e
selvagge. Su tutte queste teorie si fondarono, nello stesso periodo, le prime
proposte eugeniche, volte a sconsigliare i rapporti sessuali fra individui
appartenenti alla «razza pura con individui inferiori: l'unione avrebbe
contaminato e, dunque, estinto irrimediabilmente i caratteri della razza
eletta». Nel XIX sec. non fu soltanto il Positivismo ad alimentare dottrine
ispirate al
r., ma anche quel grande movimento di cultura e di
civiltà che fu il Romanticismo. A partire dal concetto romantico di
popolo (
Volk), infatti, venne elaborata una nuova configurazione della
razza fondata su basi linguistiche: la scoperta delle lingue indogermaniche,
più precisamente, alimentò l'ipotesi dell'esistenza di una
popolazione aria o indogermanica quale capostipite di tutte le popolazioni
europee esistenti. A questa teoria si ispirò J.A. Gobineau, diplomatico e
letterato francese, autore del celebre
Saggio sull'ineguaglianza delle razze
umane (1853-55), in cui affermava la diversificazione fra le razze
«gialle e nere» (inferiori) e le razze «bianche» (fornite di
«religione e di storia»). Nell'ambito di queste ultime, lo studioso
sosteneva l'assoluta supremazia della razza ariana (discendente da Jafet), cui
attribuiva caratteri morfologici ben definiti, quali il colore biondo dei
capelli, il colore chiaro degli occhi, ecc. Secondo Gobineau gli Ariani
popolavano le regioni settentrionali della Francia, il Belgio e la Gran Bretagna
e facevano parte esclusivamente dell'aristocrazia locale dei Paesi suddetti;
viceversa, i tipi umani similari, ma appartenenti alla classe borghese o a
quella operaia, nel corso del tempo avevano subito incroci con altre razze
ritenute inferiori, perdendo quella purezza di sangue che contraddistingueva la
nobiltà. Lo studioso era ossessionato dalla prevalenza, sulla «legge
di repulsione», della «legge di attrazione» nei rapporti fra i
popoli, che avrebbe comportato, di lì a poco, la completa estinzione del
sangue ariano. In Francia la teoria di Gobineau non ebbe alcun seguito e, anzi,
fu oggetto di dure critiche, specie da parte di C.-A. Clérel de
Tocqueville, uomo politico e storico francese, grande assertore della
libertà, quale fondamento di ogni compagine sociale. Contro Gobineau si
espresse anche F. Boas in un'opera dal titolo
Cultura e razza (1914), in
cui sostenne l'inesistenza di relazioni di tipo causale fra razze, linguaggi e
culture diverse (nel 1933 la versione tedesca dello scritto venne simbolicamente
bruciata dai nazisti). Le ideologie espresse da Gobineau trovarono un terreno
adatto al loro sviluppo e una critica assai favorevole in Germania dove,
già verso la fine del secolo, il musicista R. Wagner denunciò
senza mezzi termini l'assoluta incapacità della Chiesa nell'impedire che
i «veleni del sangue ebraico» contaminassero la purezza del sangue
ariano. Anche H.S. Chamberlain, scrittore tedesco di origine inglese oltre che
genero dello stesso Wagner, affermò la sua piena adesione ai concetti
razziali di Gobineau nello scritto
I fondamenti del XIX secolo (1899). A
differenza di Gobineau, tuttavia, secondo Chamberlain soltanto i Tedeschi e
alcuni popoli nord-europei potevano vantare l'appartenenza alla razza ariana
pura; di qui gli anatemi contro gli Ebrei, suffragati anche da arditi argomenti
genealogici (in base ai quali, ad esempio, gli Ebrei sarebbero derivati da un
incrocio innaturale fra beduini semiti e ittiti e Siriaci ariani) e teologici
(in cui lo studioso sosteneva, ad esempio, che Gesù non fosse ebreo), e
la risoluta condanna della Chiesa di Roma che non aveva fatto nulla per impedire
nefasti e dannosi incroci razziali. Qualche decennio più tardi, l'avvento
di Hitler al potere come
Führerprinzip del III Reich portò
alla riesumazione dell'opera di Chamberlain. Hitler aveva già
preannunciato le sue idee in campo razziale nel libro
Mein Kampf
(1925-27), scritto in carcere nel 1923 dopo il
putsch di Monaco;
ciò nondimeno fu soltanto nel 1933 che egli diede avvio alla politica
razzista, ovvero all'esaltazione degli ariani e alla conseguente denigrazione
dell'
Untermensch (l'uomo inferiore). L'ideologia razzista del Führer
trovò un autorevole sostenitore in A. Rosenberg, esponente del
Nazionalsocialismo, che nell'opera
Il mito del XX secolo cercò di
teorizzare il
r. hitleriano. Probabilmente la dottrina razzista di Hitler
affondava le proprie radici nel bisogno di vendicare la sconfitta tedesca del
1918 (Hitler ne riteneva responsabili i giudeo-marxisti), o forse nel desiderio,
proprio di ogni dittatura, di creare un avversario contro il quale il popolo
eletto (quello tedesco) avrebbe potuto scagliarsi. Come avversario Hitler scelse
il popolo ebreo, che apparve agli occhi di tutti l'incarnazione del male e,
dunque, l'origine di tutti i problemi e le contraddizioni dell'era
contemporanea. Già nell'aprile del 1933 venne organizzata la cosiddetta
giornata del boicottaggio contro gli Ebrei (che, allora, in Germania, erano
circa 525.000); le azioni di boicottaggio colpirono ogni categoria sociale:
negozianti, proprietari e direttori di aziende, professionisti, studenti, ecc.
Di lì a poco, vennero emanate alcune leggi che escludevano gli Ebrei
dalle professioni medica e legale, nonché dal lavoro nei pubblici uffici.
Due anni dopo, nel 1935, vennero promulgate, a Norimberga, le celebri leggi
della cittadinanza del Reich, che privavano gli Ebrei di ogni diritto
costituzionale, e la legge per la difesa del sangue e dell'onore tedesco, che
proibiva non solo il matrimonio, ma anche i rapporti extraconiugali fra Ebrei e
cittadini tedeschi. Agli Ebrei fu anche proibito di tenere alle proprie
dipendenze personale femminile al di sotto dei 45 anni d'età. Le pene
prevedevano l'incarcerazione dei trasgressori. Successivamente, vennero emanate
13 disposizioni integrative della prima legge, che sancirono la totale
esclusione degli Ebrei dalle comunità tedesche. Verso la fine del 1936
venne istituito un Servizio per le questioni ebraiche presso le SS, la cui
direzione fu affidata ad A. Eichmann. Già in quegli anni, per sfuggire
alle persecuzioni, molti Ebrei lasciarono il Paese e cercarono rifugio altrove.
Nel 1939 la politica antisemita venne ulteriormente intensificata: agli Ebrei
toccò l'obbligo di far precedere il loro nome dal prenome
Israel o
Sara; i loro passaporti vennero marcati con la lettera
J
(
Jude); ogni loro patrimonio di valore superiore ai 5.000 marchi dovette
essere denunciato; vennero censite tutte le attività professionali degli
Ebrei e registrate tutte le associazioni di culto israelita; 17.000
Ebrei-polacchi, residenti in Germania, espatriarono d'autorità.
Esemplificativo del clima che si venne a creare nella Germania di quegli anni fu
un episodio del 1938: dopo l'attentato alla vita di un consigliere
dell'amministrazione tedesca da parte del figlio di un Ebreo deportato, le SS
organizzarono per rappresaglia un vero e proprio
pogrom in tutto il
territorio del Reich, noto come la «notte dei cristalli» perché
vennero distrutte le vetrine dei negozi appartenenti a Ebrei. In quei giorni
furono inoltre incendiati e profanati i cimiteri degli israeliti e più di
200 sinagoghe; vennero arrestati più di 25.000 Ebrei e gli stessi Ebrei
del Reich dovettero pagare un tributo espiatorio di un miliardo di marchi. Dal
1° settembre 1941, infine, gli Ebrei furono costretti a portare sugli
abiti, bene in evidenza, la stella di David, onde poter essere riconosciuti a
vista. Con l'inizio della seconda guerra mondiale, la persecuzione antisemita
anziché attenuarsi si fece ancor più feroce: arresti in massa,
fucilazioni, esecuzioni sommarie, ghettizzazioni, deportazioni nei lager si
susseguirono senza sosta, finché il 31 luglio 1941 Himmler
incaricò Reinhard Heydrich di preparare i piani per la «soluzione
finale della questione ebraica» (cioè per l'annientamento biologico
degli Ebrei). Fu così che tutti gli Ebrei dei Paesi occupati o
controllati dai Tedeschi vennero deportati nei campi di concentramento dell'Est
(Auschwitz, Belzec, Sobibor, Chelmno, ecc.) dove si trucidarono senza
pietà 4.192.000 Ebrei residenti in Europa (secondo alcune fonti, il
numero totale sarebbe pari addirittura a 6.100.000). In Italia, anche se in
forma più attenuata, il
r. seguì l'esempio della politica
razziale tedesca a partire dal 1938, quando furono sottoscritti gli Accordi di
Monaco, preludio della costituzione del Patto d'acciaio fra l'Italia e Germania.
Più precisamente, nel febbraio del 1938 si ebbe una prima nota
dell'Informazione diplomatica riguardante il problema razziale, mentre nel
luglio del medesimo anno un gruppo di studiosi fascisti, redasse, sotto l'egida
del MINCULPOP (MINistero della CULtura POPolare), un Manifesto della razza in
cui il
r. era trattato da un punto di vista esclusivamente biologico,
senza pretese filosofiche o religiose. In base ad esso, l'unione di un cittadino
italiano con individui appartenenti ad altre razze europee non andava
considerata un ibridismo di razza; ciò nondimeno, tale manifesto reputava
una grave e dannosa alterazione della razza italiana l'incrocio con gente di
colore o con Ebrei, semplicemente perché questi ultimi non appartenevano
alla razza ariana, ma a quella semita. Nel settembre del 1938 il Consiglio dei
ministri, ispirandosi ai concetti del Manifesto, adottò provvedimenti in
seguito ai quali si ebbero l'espulsione dall'Italia degli Ebrei immigrati dopo
la prima guerra mondiale, l'esclusione degli Ebrei italiani dall'insegnamento o
dalla frequenza, come studenti, di scuole statali di ogni grado,
l'allontanamento degli Ebrei dagli impieghi statali, ecc. Nell'ottobre 1938 il
Gran Consiglio del Fascismo decretò, con la Dichiarazione della razza, il
divieto di matrimonio di cittadini italiani con individui di razza semita,
camita o, comunque, non ariana, la necessità di uno speciale consenso del
ministero dell'Interno per il matrimonio con donne straniere, la limitazione,
per gli Ebrei, di alcuni diritti civili relativi alle proprietà e alle
attività industriali, commerciali e bancarie; nel 1939, infine, un nuovo
decreto stabilì le medesime restrizioni anche per l'attività dei
professionisti ebrei. In genere, tuttavia, le disposizioni razziali italiane non
ebbero mai una scrupolosa applicazione, se non dopo l'occupazione della penisola
da parte dell'esercito tedesco (a partire cioè dall'8 settembre 1943),
quando entrò in vigore anche in Italia la legislazione tedesca vigente in
materia. Naturalmente ogni forma di
r. venne a cessare con la liberazione
del Paese (25 aprile 1945). All'indomani della seconda guerra mondiale, numerosi
studiosi non solo negarono l'esistenza di razze pure, ma misero in discussione
la nozione stessa di razza. Esemplare, a questo proposito, fu un documento
dell'UNESCO (redatto per la prima volta nel 1951 e rielaborato nel 1962) in cui
un autorevole gruppo internazionale di genetisti e antropologi affermò
quanto segue: «i gruppi nazionali, religiosi, geografici, linguistici e
culturali non coincidono necessariamente con i gruppi razziali»; «il
materiale scientifico oggi disponibile non giustifica la conclusione secondo cui
le differenze genetiche ereditarie sarebbero un fattore importante nel
determinare le diversità tra le culture e le realizzazioni culturali di
diversi gruppi o popoli»; «non vi è alcuna prova a favore
dell'esistenza delle cosiddette razze pure. Riguardo alla mescolanza tra le
razze, invece, le testimonianze sottolineano che l'ibridazione è
proceduta per un tempo indefinito, ma considerevole». La dichiarazione,
infine, sottolinea che l'uguaglianza fra gli uomini non si fonda su
caratteristiche genetiche (che, anzi, sono diverse in ogni individuo), ma su
principi di tipo etico. A questo dell'UNESCO fecero seguito diversi altri
documenti non meno importanti, tra cui la
Convenzione internazionale
sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, elaborata
dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1965 ed entrata in vigore
quattro anni più tardi, e
La Chiesa di fronte al razzismo. Per una
società più fraterna (1988), redatto dalla Pontificia
commissione «Iustitia et pax».
"Storia del razzismo" di Vinigi L. Grottanelli