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Ragione.

(dal latino ratio, der. di reri: fissare, stabilire). La facoltà di pensare e ragionare, che consente di mettere in relazione significati e frasi, nonché la facoltà di giudicare, distinguere il vero dal falso, il bene dal male, cui si attribuisce il controllo di istinti, impulsi e passioni. ║ L'età della r.: la maturità. ║ Ant. - Ragionamento, esposizione logica di un'argomentazione; anche semplicemente discorso. ║ Ant. - Argomento di un componimento poetico o, talvolta, esposizione in prosa che può precedere un componimento poetico. ║ Argomentazione o ragionamento utilizzato in un confronto verbale per difendere le proprie opinioni, persuadere o confutare. ║ Fig. - A r. veduta: considerati tutti gli aspetti della questione, dopo ponderata riflessione. ║ Fondamento oggettivo e intelligibile di una cosa o di un'azione, essenza; causa, motivazione. ║ Fig. - R. per cui: e perciò. ║ Fig. - Farsi una r. di qualcosa: rassegnarsi, assumere l'evento in questione come un dato di fatto. ║ Fig. - Darsi r. : convincersi, persuadersi. ║ Fig. - A r.: opportunamente, giustamente. ║ Fig. - Di santa r.: propriamente, com'è o com'era giusto; più comunemente, molto, abbondantemente. ║ In senso generico, e non tecnico, diritto, specie in locuzioni come far valere le proprie r. ║ Esigenza, competenza. ║ Fig. - A chi di r.: a chi compete, a chi ha il diritto e il dovere di qualcosa. ║ Fig. - Aver r. di uno: far valere, anche con la forza, i propri diritti su qualcuno, imporsi, vincerlo. ║ In opposizione a torto, il buon diritto, cioè il giusto nell'agire e il vero nel pensare. ║ Ant. - Nel linguaggio giuridico, il diritto oggettivo, l'insieme delle norme giuridiche che regolano l'attività umana o una particolare sfera di essa. Per antonomasia la R., il diritto romano universale, in contrapposizione ai diritti particolari. Talvolta anche la giustizia resa dai Tribunali. Tale significato, ormai desueto, si conserva tuttavia ancora in alcune particolari locuzioni, come far r. a uno (rendergli giustizia) o farsi r. da (farsi giustizia da solo). ║ Palazzo della R.: in diverse città, l'edificio che in epoca medioevale ospitava il Tribunale. • Econ. - R. di scambio: rapporto in base al quale due beni vengono scambiati fra di loro; il numero di parti di unità di un bene che si danno per avere un'unità di un altro bene e, di conseguenza, il prezzo relativo dei due beni. ║ R. di scambio internazionale: rapporto tra domanda di beni nazionali di un Paese da parte dell'estero e la domanda di beni esteri da parte di quel Paese, le cui variazioni derivano dai cambiamenti dei prezzi dei prodotti esportati e di quelli importati misurate da numeri indici. • Fin. - Sinonimo di tasso (V.). ║ R. sociale: denominazione di una società commerciale che la distingue dalle altre. Può essere formata dal nome di uno o più soci, nelle società in nome collettivo o in accomandita; dalla denominazione dell'oggetto sociale, da un nome di fantasia o da una sigla, nelle società per azioni. • Dir. - Nel linguaggio giuridico, l'espressione r. fattasi indica la difesa privata dei diritti, o l'esercizio autonomo da parte del singolo della giustizia. Lecita e comunemente praticata all'interno di società poco evolute, tale pratica venne limitata, invece, con l'aumentare dell'ingerenza dell'ordinamento giuridico nell'ambito delle controversie fra i singoli, fino a quando la giustizia statuale, rivendicando a sé completamente la sfera della difesa dei diritti, giunse a condannare come reato il principio della r. fattasi. La r. fattasi implica quindi uno stato essenzialmente antigiuridico e va distinta dalla cosiddetta autonomia privata, ovvero da quella sfera di libertà e autonomia che l'ordinamento giuridico concede ai singoli nell'attuare azioni rilevanti dal punto di vista giuridico. Quest'ultima, infatti, ebbe un'evoluzione inversa a quella della r. fattasi: fortemente limitata negli stadi primitivi, si affermò progressivamente in quelli più evoluti, quando la volontà singola dell'individuo di diritto assunse maggior rilevanza per l'ordinamento giuridico. Paradigmatica in questo senso è l'evoluzione del diritto romano. Nella fase classica, anche se vigeva il divieto per chi faceva uso del proprio diritto di commettere violenza, era comunque lasciato ampio spazio alla difesa privata nell'uso delle cose pubbliche, in materia di locazione, nei rapporti di vicinanza, ecc. Così il creditore poteva avere soddisfazione impadronendosi di cose pignorate e ricorrere anche alla forza per ottenere il pagamento dal debitore insolvente. In altre situazioni il diritto intervenne a limitare il ruolo del singolo nella difesa dei suoi interessi: ciò avveniva, ad esempio, in materia possessoria, dove gli interdetti tutelavano il possessore anche di fronte al proprietario. In epoca successiva fu prevista una punizione per il creditore che si fosse impadronito di beni del debitore con la violenza. Da Costantino in poi il rifiuto del principio della r. fattasi diventò sempre più marcato, soprattutto nel campo di violenta invasione d'immobili, che veniva punita con la perdita del diritto, nel caso che l'invasore fosse stato il proprietario. Giustiniano interpolò sistematicamente nel suo Codice tutti i passi di diritto classico che ammettevano la r. fattasi. Una simile evoluzione è riscontrabile anche nel diritto germanico: nella fase primitiva, infatti, l'intero sistema punitivo era basato sulla vendetta privata o sulla faida, cui partecipava l'intera famiglia dell'offeso, in quanto era proprio la pace del nucleo familiare che si riteneva compromessa dal delitto. Con il consolidarsi di un potere centrale e la diffusione dell'idea che ciò che il crimine violava era la pace pubblica, tale pratica primitiva fu lentamente abbandonata: l'intervento dell'autorità pubblica si andò dapprima affiancando e poi sostituì completamente la vendetta privata. • Filos. - Il concetto filosofico di r., come si venne sviluppando nel pensiero moderno, corrisponde solo in parte a quello latino di ratio con cui Cicerone, per primo, tradusse il termine greco lógos, il cui significato era sia r. che discorso. Nel pensiero antico la conoscenza razionale si identificava con quella discorsiva che, procedendo da alcune premesse, passa a delle conclusioni e da queste a ulteriori conclusioni, secondo uno schema reso classico dal sillogismo aristotelico (V. SILLOGISMO). Prima di Aristotele, Platone aveva distinto tale tipo di conoscenza discorsiva, da lui battezzata dianóia e identificata con il procedere matematico-geometrico, da quella intuitiva, considerata di natura superiore. Tale distinzione, e il relativo giudizio di valore, venne fatta propria, attraverso il Neoplatonismo e Agostino, anche dalla filosofia cristiana. A prescindere dalle diverse posizioni dottrinali, tutti i filosofi medioevali concordarono nel ritenere la r. una facoltà esclusivamente umana, e nell'attribuire invece a Dio una conoscenza di tipo intuitivo. Il ricorso a procedimenti dimostrativi e argomentativi era considerato una riprova della finitezza umana: se la r. costituisce il primato dell'uomo sulle altre creature (in base alla definizione aristotelica dell'uomo come «animale razionale»), ne segna anche l'inferiorità rispetto al Creatore. Il problema fondamentale della filosofia medioevale fu la determinazione dei rapporti fra fede e r. Così Tommaso d'Aquino distinse la ratio (attività argomentante) dall'intellectus (conoscenza intuitiva), considerando quest'ultimo di qualità superiore. Secondo Tommaso, la Rivelazione supera la r. (che guida e conduce l'uomo al suo fine ultimo), ma non la annulla né la rende inutile. Per quanto non possa dimostrare ciò che forma il contenuto della fede, la r. può tuttavia dimostrare i fondamenti ragionevoli della fede, chiarirne la verità per mezzo di similitudini e contestare le obiezioni contro la fede stessa. A partire dal Rinascimento si registrò la tendenza a dare una valutazione più positiva della r. rispetto all'intelletto, e già Niccolò da Cusa indicò nella ratio l'attività conoscitiva capace di conciliare le contraddizioni dell'intellectus. Tuttavia la vera e propria rottura con la tradizione platonico-aristotelica si ebbe solo nel Seicento, con T. Hobbes. Secondo Hobbes l'intelletto consiste nella pura e semplice capacità di comprendere i desideri e pensieri altrui, mentre la r. si configura come una sorta di «calcolo» che opera deduttivamente a partire da termini universali e dalle loro definizioni. La r. assume quindi nel pensiero di Hobbes il valore di suprema facoltà del conoscere, in quanto è sulla r. che poggia la possibilità stessa della scienza. Il sapere scientifico, infatti, non si basa sull'intuizione dei principi, ma su convenzioni linguistiche. La r. è facoltà propriamente umana, in quanto implica l'uso del linguaggio articolato e la formazione degli universali; ad essa Hobbes contrappose la conoscenza empirica, da cui può derivare al massimo la «prudenza», che è propria degli animali. La contrapposizione fra r. ed esperienza, pur variamente articolata, contraddistinse tutto il dibattito filosofico fra il XVII e il XVIII sec. Tratto peculiare del Razionalismo moderno, da Cartesio in poi, fu quello di fondare la r. sull'intuizione. Cartesio considerò come r. la capacità della mente di conseguire la perfetta evidenza matematica, sia in campo metafisico sia in quello fisico, formulando idee chiare e distinte. Ma la r. stessa veniva ricondotta all'intellezione intuitiva sulla base del fatto che, per quanto una catena deduttiva possa essere complessa, tuttavia ogni suo singolo passaggio deve essere immediatamente evidente, affinché l'intera deduzione possa godere del carattere di certezza. Il contrasto fra Razionalismo ed Empirismo, tuttavia, non riguardò questo punto, ma quello dell'estensione da attribuire alla conoscenza razionale: per gli empiristi essa è limitata al campo delle verità matematiche, mentre per i razionalisti la r. si estende a tutti i settori della conoscenza umana. Nel pensiero di Kant ritorna la distinzione fra r. e intelletto, insieme al rifiuto dell'onnipresenza della r. Secondo Kant la r. pura funziona incondizionatamente solo in un ambito diverso da quello conoscitivo, quello della morale. La legge morale, di cui la r. è organo, è infatti incondizionata, in quanto prescinde dalla sensibilità, che dal punto di vista pratico non è altro che l'egoismo. Hegel capovolse tale concezione: mantenendo ferma la tesi della superiorità della r. sull'intelletto, assegnò alla prima il compito di raggiungere il «sapere assoluto», coincidente, in ultima analisi, con il suo stesso sistema filosofico. Fra il XIX e il XX sec. il richiamo alla r. assunse sempre di più un carattere antimetafisico. Nel pensiero contemporaneo la r. viene concepita come un insieme di sforzi, di metodi e di tecniche per controllare e amministrare la natura e la storia. Si tratta quindi di una r. empirica e storica, mentre ormai del tutto sorpassata si presenta l'idea di una r. capace di cogliere verità prime, senza desumere le proprie conclusioni dall'indagine concreta dei fatti. La r. non viene più, quindi, contrapposta all'intelletto, quanto al pensiero mitico e alla metafisica, che prescindono dalla possibilità di verifica empirica. Solo in alcune correnti di pensiero (ad esempio la Scuola di Francoforte), più o meno direttamente influenzate dalla filosofia hegeliana, si riscontra ancora l'opposizione fra r. e intelletto. ║ Principio di r. sufficiente: principio logico, secondo cui nessun fatto può essere riconosciuto come effettivo né alcuna enunciazione come vera se non si dà una r. sufficiente per farla essere ciò che è. Per quanto l'ammissione della necessità logica di una r. sufficiente sia presente già nella filosofia classica greca, la formulazione esplicita di tale principio si deve a Leibniz, che distinse i giudizi in verità di r. e verità di fatto: le verità di r. (per esempio le verità matematiche) sono necessarie e sottostanno al principio di non-contraddizione. Le verità di fatto sono proposizioni contingenti e, come tali, obbediscono al principio di r. sufficiente: il loro contrario non è contraddittorio, ma possibile. Sono tali i fenomeni sperimentali e concreti che rimandano il pensiero umano ad altri fenomeni come a loro cause, in un processo indefinito. Schopenhauer operò una nuova sistemazione del principio leibniziano di r. sufficiente, nel tentativo di intendere la realtà come divenire. Egli distinse quattro radici: principium rationalis sufficientis essendi (ossia necessità matematica - spazio e tempo), fiendi (ossia necessità fisica - causa ed effetto), cognoscendi (ossia necessità logica - r. e conoscenza), agendi (ossia necessità morale - motivo e azione). Nella filosofia contemporanea, il principio di r. sufficiente trovò uno sviluppo significativo nel pensiero di M. Heidegger, che se ne servì per esprimere l'idea di un condizionamento non necessitante. ║ Teoria della r. di Stato: enunciazione dottrinaria che accompagnò il sorgere e il rafforzarsi dello Stato moderno attraverso la formazione delle grandi Monarchie assolute. L'espressione nacque verso la metà del Cinquecento per indicare l'interesse e il bene dello Stato come criterio assoluto di giudizio e norma dell'agire politico. Una delle migliori espressioni di tale concezione fu quella data da N. Machiavelli, secondo cui la politica è fornita di regole proprie non sovrapponibili a quelle della morale tradizionale. La tematica del contrasto fra politica e morale trovò una delle sue più celebri impostazioni nel trattato di G. Botero intitolato Della Ragion di Stato (1589): in esso l'autore si propose di ricondurre la r. di Stato nel dominio della morale, concentrandosi soprattutto sui mezzi per garantire la sopravvivenza dello Stato, attraverso una precettistica che solo in pratica distingueva fra previdenza e astuzia. Molti altri autori seguirono la strada inaugurata da Botero, cercando di giustificare le decisioni del monarca come espressione della r. di Stato, a differenza di quelle dei tiranni, prive di legittimità. In generale la trattatistica su questo tema cercò di conciliare politica e morale empiricamente, giustificando anche la violazione della morale comune se fatta allo scopo di difendere il bene generale, senza peraltro compromettere l'ossequio all'autorità religiosa. T. Boccalini, rifiutando questo tipo di soluzioni per la loro ambiguità, riaffermò l'assoluta inconciliabilità fra r. di Stato e morale, mentre L. Zuccolo negò che si potesse avere una r. di Stato buona o cattiva, in quanto la politica opera su un piano diverso da quello della morale. • Mat. - Come sinonimo di rapporto (V.), il termine r. viene frequentemente usato in espressioni quali r. di una progressione geometrica (rapporto costante fra ciascun termine e il precedente), o r. di una progressione aritmetica (differenza costante fra ciascun termine e il precedente). Si divide un segmento in media ed estrema r., quando si trova una parte del segmento (media r. o sezione aurea del segmento) che sia media proporzionale tra l'intero segmento e la parte restante (estrema r.).