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Purismo.

Lett. - Indirizzo linguistico e letterario, con orientamenti più o meno rigidi sul piano critico e normativo, che rifiuta per principio l'adozione nel vocabolario della lingua nazionale di termini mutuati da tradizioni linguistiche straniere o di neologismi, assumendo come riferimento vincolante il lessico desunto dalle opere di uno o più autori, considerati «puri». La teoria e la prassi purista prevedono l'imitazione metodica di modelli riconosciuti e condivisi, adottandone il registro linguistico mediante il riferimento a un corpus di opere geograficamente e cronologicamente omogeneo e coerente. Si può dunque definire purista ogni ideale linguistico che sia determinato e delimitato da un repertorio letterario chiuso e prestabilito. Secondo tale accezione, il p. è atteggiamento rilevabile in diversi momenti del pensiero umano, ad esempio nell'antichità classica, quando, applicando al fatto linguistico categorie quali «purezza» o «corruzione», si dibatté sull'opportunità o meno di inserire grecismi nella lingua latina o quando retori come Quintiliano indicarono a modello di eloquenza la lingua e lo stile di Cicerone. Il p., per antonomasia, è stato tuttavia fenomeno prettamente italiano, anche se si articolò in più fasi e venne così definito relativamente tardi, intorno al 1840. Nelle sue Prose della volgar lingua (1525), P. Bembo delineò un canone per l'imitazione sia stilistica sia linguistica, identificando come lingua letteraria il volgare toscano-fiorentino del Trecento, secondo l'uso fattone dalla celebre triade di autori: Dante, Petrarca e Boccaccio, che presto divennero i «classici» della nostra letteratura così come Cicerone e Virgilio lo erano per quella latina. In questa prima fase, perciò, il P. basò la propria poetica solo sui «grandi», secondo un'impostazione tipicamente classicista. Una svolta nella prassi e nella riflessione sulla lingua si ebbe alla fine del Cinquecento con L. Salviati, cui si deve in massima parte la preparazione filologica del primo vocabolario italiano della Crusca. La sua compilazione ebbe inizio dal 1591 e terminò con la pubblicazione nel 1612, ad opera dell'omonima Accademia (V. ACCADEMIA DELLA CRUSCA). Al criterio classicista della grandezza degli autori da considerare quali modello di perfezione linguistica subentrarono il principio storico (secondo il quale la perfezione è da ricercare nella fase più antica della lingua, cioè quella trecentesca, rispetto alla quale si ebbero poi solo decadenza e ibridizzazione) e quello geografico (per il quale solo nel dialetto fiorentino o fiorentineggiante è possibile riconoscere il carattere perfetto della lingua). In tal modo, pur restringendo al solo Trecento fiorentino il canone, la Crusca accolse tra gli auctores da imitare, oltre alla triade classica, anche personaggi minori, purché fiorentini del buon secolo (Giovanni Villani, Jacopo Passavanti, ecc.). Il volgare fiorentino nel Trecento era infatti, secondo gli accademici della Crusca, non lingua letteraria in sé, ma purissima lingua popolare che, rispecchiandosi nella lingua scritta di tutti gli autori fiorentini dell'epoca, diventò per i posteri riferimento stilistico e linguistico: in ciò la grande differenza rispetto alla concezione di Bembo. A partire dalla prima edizione del Vocabolario, l'evoluzione del p. venne a coincidere in gran parte con la storia dell'Accademia della Crusca: il dizionario ebbe una ristampa nel 1623; alcuni aggiornamenti, il più significativo dei quali nel 1691; una nuova edizione nel 1729-38. L'epoca delle più accese polemiche tra puristi e antipuristi, tuttavia, si ebbe con la diffusione in Italia dell'Illuminismo e delle idee e delle mode soprattutto francesi ad esso connesse. In seguito a ciò, e alla dominazione napoleonica nella penisola, la lingua italiana fu interessata da un uso sempre più vasto e corrente di francesismi, fatto che provocò una vivace reazione purista. Mentre dalle pagine del «Caffè» A. Verri pubblicava un articolo provocatorio intitolato Rinuncia avanti notaio degli autori del presente foglio al Vocabolario della Crusca (1764), i puristi si battevano contro ogni «barbarismo» e «forestierismo», in base a una vera e propria esterofobia linguistica. M. Cesarotti (V.), con il suo Saggio sopra la lingua italiana (1785), cercò una mediazione tra gli opposti estremismi, legittimando moderati neologismi e ammettendo la razionalità delle costruzioni sintattiche francesi. Sulla questione schiettamente linguistica, tuttavia, si innestò quella politica che, nella resistenza al francese, vedeva un simbolo dell'orgoglio nazionale. Fu così propugnato un rigido ritorno al solo canone fiorentino, in particolare nella celebre Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana (1808) di A. Cesari, che escludeva dall'uso letterario qualsiasi vocabolo che non trovasse un precedente e una giustificazione in un qualche testo toscano trecentesco e, dunque, stigmatizzava anche l'uso del toscano parlato del tempo. Tale concezione si poneva in contrasto con le teorie pur moderate di Cesarotti, affermando che anche i concetti più nuovi e moderni potevano essere espressi mediante il vocabolario del Trecento toscano, solo apparentemente ristretto. Le idee di Cesari, fondatore anche della Crusca veronese e compilatore di numerose integrazioni al Vocabolario ufficiale dell'Accademia, ebbero diversi epigoni, ma si dimostrarono obsolete proprio nell'applicazione pratica: ne derivava infatti una prosa artificiosa, stentata e spesso goffa, invece della naturalezza e della semplice grazia che si tentava di raggiungere. Elementi puristi furono fecondi tuttavia nella riflessione di molti autori che, tuttavia, non si attennero strettamente alle posizioni di Cesari (P. Giordani, G. Leopardi, B. Puoti). Progressivamente si venne affermando, anche attraverso la polemica anticesariana condotta dal gruppo del «Conciliatore», una prassi purista più moderata, in quanto intesa come ricerca di una lingua corretta e buona, che non disdegnasse né l'apporto dei classici, né dei trecentisti, né della lingua corrente tosco-fiorentina. La scelta di Manzoni di «sciacquare i panni in Arno» si spiega con il tentativo di realizzare un ideale linguistico opposto rispetto a quello del p. della Crusca, che prevedeva l'uso di una lingua bella, ma viva e moderna: tuttavia, in forza della rigida selezione che l'autore operò nella revisione del suo romanzo, sostituendo sempre vocaboli fiorentini o toscani in luogo delle voci troppo lombarde, la critica ha potuto parlare di p. manzoniano. Come rilevò in seguito B. Croce, p. classico e p. manzoniano si equivalgono da un punto di vista concettuale, poiché entrambi affermavano l'esistenza di una lingua modello, dotata di unità e definita secondo una teoria astratta, pur adottando un diverso corpus linguistico di riferimento. A partire dalla seconda metà dell'Ottocento, in particolare dopo l'Unità d'Italia, il dibattito teorico sulla lingua italiana si spostò dalle aspirazioni puriste schiettamente letterarie all'esigenza storico-sociale di una lingua nazionale unitaria, problema intorno al quale lo stesso Manzoni si applicò a lungo. Infine, è lecito parlare, almeno in parte, di neopurismo per quanto riguarda B. Migliorini (V.), mentre le rozze interpretazioni puriste del Fascismo si esaurirono in una sorta di protezionismo e di autarchia linguistica. L'ultima veste assunta dal p. italiano è quella delle moderne polemiche contro i numerosi anglicismi, accusati di corrompere la lingua, soprattutto in ambito giovanile. • Arte - Termine riferito, nel campo delle arti figurative, a due distinti movimenti artistici, fioriti il primo in Italia nel XIX sec. e il secondo in Francia, durante gli anni del primo dopoguerra. ║ Il P. artistico italiano si sviluppò sull'onda dei movimenti primitivisti che si erano diffusi in Europa alla metà dell'Ottocento: esso fu influenzato dall'opera di J.-A.-D. Ingres, dalla scuola dei nazareni tedeschi (V. NAZARENO), dal p. lineare di J. Flaxman e dai barbus o primitifs di M. Quaï. Al clima dell'epoca e al p. letterario, tuttavia, si ricollegava, anche nella definizione, il manifesto redatto nel 1843 da A. Bianchini, Del Purismo nelle arti. Il documento pubblico fu sottoscritto da altri artisti attivi a Roma: i pittori F. Overbeck e T. Minardi e lo scultore P. Tenerani. Nucleo della poetica purista fu la ripulsa della ridondanza accademica ed erudita in favore di un ritorno all'espressione degli affetti, alla tradizione religiosa e spirituale dell'arte italiana, i cui modelli vennero individuati nella fase precinquecentesca, da Cimabue, passando attraverso Beato Angelico, Benozzo Gozzoli, Perugino, Leonardo, fino al primo Raffaello (quello anteriore alla Disputa), dei quali si esaltava la semplicità cromatica e compositiva. Tra gli aderenti al movimento Minardi, di formazione neoclassica, seppe cogliere e interpretare meglio di ogni altro le conseguenze formali di tali affermazioni di principio, che comportavano un recupero delle tecniche dell'affresco e della semplice linearità dei grandi artisti del Trecento e Quattrocento. Al di fuori delle cerchia romana, merita di essere ricordato L. Mussini, caposcuola dei puristi toscani che, con i suoi allievi e in particolare con A. Franchi, diresse il rifacimento e il restauro dei pavimenti del duomo di Siena, una delle operazioni più esemplari e significative del P. Nel complesso, tuttavia, benché il sistema teorico del P. fosse in ideologico contrasto con il Neoclassicismo, i suoi interpreti riuscirono al più a rinnovare i contenuti (anche mediante l'affermazione di una finalità «morale» propria dell'arte, propugnata in particolare dal padre domenicano V. Marchetti), ma poco e raramente le forme, le quali conservarono infatti un evidente accademismo. Secondo alcuni critici, il P. ottocentesco non fu altro che una riforma in senso romantico del gusto neoclassico, e non un suo reale superamento. Già dalla seconda metà del XIX sec., del resto, andò perdendosi, nell'uso corrente, il senso originario del termine p. Accanto all'attività di pittori e di scultori puristi, è possibile individuare anche forme puriste in campo architettonico, nel quale artisti come C. Amati, P. Camporese il Giovane, L. Poletti, A. Sarti si cimentarono in un superamento della plasticità neoclassica, secondo un rinnovato interesse per le realizzazioni rinascimentali. ║ Il P. francese si sviluppò, alla fine della prima guerra mondiale, con intenti critici rispetto al decorativismo e alle concessioni di sensibilità romantica che ancora erano proprie del Cubismo. Suo iniziatore fu il pittore A. Ozenfant che, nel 1916, introdusse il termine e la relativa poetica con l'articolo Note al cubismo, pubblicato sulla rivista «L'Elan», da lui stesso diretta. In esso l'autore perorava un recupero del dato geometrico, della proporzione e della chiarezza compositiva, al fine di rimediare allo sconvolgimento della figura causato dall'interpretazione esasperata del Cubismo e, nello stesso tempo, tutelare i fondamenti del Cubismo medesimo che, inizialmente, aveva perseguito proprio la liberazione del linguaggio plastico-figurativo da tanti «termini parassiti». Tale linea di pensiero fu approfondita in seguito in concorso con Ch.-E. Jeanneret (più noto poi con lo pseudonimo di Le Corbusier), con il quale Ozenfant pubblicò, nel 1918, il vero e proprio manifesto del P., Dopo il cubismo. Secondo i due pittori e teorici, l'arte figurativa doveva esprimersi, con rigore e razionalità, mediante rapporti geometrici e proporzioni numeriche e la realizzazione di un quadro doveva seguire l'individuazione di precisi ritmi tra le parti che lo costituivano, per ottenere un'organizzazione e una struttura logica, sempre valida, dell'immagine stessa. Il Cubismo ne usciva depurato da ogni elemento accidentale, decorativo e non organico, ma la produzione che applicò con coerenza tale precetto teorico risultò assai limitata e circoscritta ai soli due artisti citati; da tale esperienza derivò, tuttavia, una rinnovata esigenza di «ritorno all'ordine» che avrebbe ispirato i vari e differenti realismi sviluppatisi in Europa dopo il 1920.