(dal latino
purgare: liberare da impurità). Secondo la fede e la
tradizione cattolica, stato e condizione temporanea delle anime di coloro che
sono morti in grazia di Dio ma che, prima di essere ammesse alla visione
salvifica di Dio, devono ancora espiare i propri peccati veniali o la pena di
quelli mortali, per altro già perdonati. ║ La seconda cantica della
Divina Commedia di Dante. ║ Fig. -
Sembrare un'anima
del P.: detto di persona in ansia, inquieta. ║
P. di San
Patrizio: caverna sita su un isolotto del lago Derg, in Irlanda. Secondo una
leggenda, questa grotta rappresentava uno degli accessi diretti al regno dei
morti e, dimorandovi per un'intera giornata, si otteneva la remissione dei
peccati. Per tale superstizione, diventò meta di pellegrinaggi, ma fu
chiusa nel 1457 per ordine papale. Il luogo, tuttavia, nei cui pressi è
sorta anche una chiesa, è ancora meta di pellegrinaggi. La leggenda, che
è attestata per la prima volta in un racconto del monaco cistercense
Enrico di Saltrey (XII sec.), ispirò la commedia drammatica di
Calderón de la Barca
El Purgatorio de san Patricio (1628). •
Rel. - Durante i primi secoli del Cristianesimo era già sentimento
diffuso e fede condivisa quella nella possibilità di espiazione dei
peccati dopo la morte, come testimoniano numerose epigrafi catacombali, in cui
si elevano preghiere per i morti nella convinzione di giovare loro. A sostegno
di tale credenza, del resto, stava anche la tradizione farisaica e
veterotestamentaria che, nel
II Maccabei 12, 43-46, attestava
esplicitamente e giustificava teologicamente la fede nel valore efficace, per
l'espiazione dei peccati di coloro che sono morti, della preghiera e del
sacrificio da parte dei vivi. Origene e Clemente Alessandrino, fra gli altri,
sostennero nel III sec. la dottrina secondo la quale dopo la morte era possibile
scontare la pena dei peccati commessi in vita per i quali non si era ancora
fatta adeguata penitenza; il culto popolare, del resto, condivideva tale assunto
teologico con la pratica delle offerte di preghiere e la dedicazione di
celebrazioni eucaristiche ai propri cari defunti. A quest'epoca risale anche il
cosiddetto
memento (ricordate!), inserito nella preghiera eucaristica.
Una distinzione tra
peccati capitali, che comportano la dannazione
dell'anima, e
peccati minori, che possono essere espiati in vita con le
buone opere o dopo la morte mediante la purificazione nel
P., fu
introdotta nel VI sec. da Cesario di Arles. Egli poteva rifarsi ad alcuni passi
del Nuovo Testamento, in cui Gesù (
Matteo 12, 31 e seguenti) si
riferisce a un peccato irremissibile (quello contro lo Spirito) in questa e
nell'altra vita, affermazione da cui si fece discendere la possibilità
che altri peccati potessero invece essere rimessi dopo la morte. Anche
nell'epistolario paolino (
I Corinzi 3, 10-17) si parla di una salvezza
«come attraverso il fuoco» per coloro che fossero morti dopo una vita
imperfetta: tuttavia la valenza probatoria di questi passi in favore
dell'esistenza del
P., non fu esente da contestazioni in epoche
successive (in particolare il II libro dei
Maccabei fu escluso da talune
Chiese dal numero dei libri ispirati). Mentre, a partire dall'epoca medioevale,
alcuni movimenti ereticali (albigesi, ecc.) negarono la fede nel
P.,
Tommaso d'Aquino si preoccupò di chiarire la distinzione tra
colpa
inerente il peccato, che veniva rimessa da Dio subito dopo la morte con un atto
di perfetta carità, e
pena, conseguente al peccato stesso e che
l'anima del defunto terminava di scontare in
P. Le prime posizioni
ufficiali della dottrina cattolica al riguardo, tuttavia, risalgono al Concilio
di Lione (1274) prima e poi a quello di Firenze (1434): in entrambi i casi, non
sussistendo piena conformità di vedute soprattutto con i patriarchi delle
Chiese orientali, furono promulgate solo affermazioni generiche sull'esistenza
del
P. e sull'utilità delle preghiere per i morti. Tuttavia,
l'estensione da parte dei latini della dottrina delle indulgenze anche alle
anime del
P. generò un tale sistema di abusi e corruzione tra gli
ecclesiastici da essere storicamente indicata come la causa principale e
immediata della Riforma (V. INDULGENZA e RIFORMA). Tutte le Chiese protestanti e riformate,
infatti, sulla base del principio della giustificazione «per la sola
fede», confutarono, e rifiutano a tutt'oggi, la dottrina del
P.
(cioè della necessità di espiare una pena dopo la remissione della
colpa) e con essa l'utilità delle preghiere per i morti, delle opere
buone e delle indulgenze. La fede nella purificazione
post mortem
e nel
P. venne invece riaffermata e precisata nel Concilio di Trento
(VI sessione, canone 30), con la distinzione tra colpa e pena temporale (da
espiare in vita o «nel secolo futuro»), pur permanendo numerosi
elementi di incertezza e disaccordo. In particolare il dibattito si
incentrò sulla durata del
P. in quanto tale (fino al giorno del
Giudizio o anche oltre?) e sulle modalità attraverso le quali avverrebbe
la purificazione delle anime. Prima del concilio, infatti, nella Chiesa latina,
interpretando alla lettera l'affermazione di san Paolo, si era ritenuto che la
pena del
P. consistesse in un dolore assimilabile a quello fisico, in un
fuoco reale e che le sofferenze delle anime purganti differissero da quelle
dannate essenzialmente per lo stato di disperazione di queste in confronto alla
certezza della beatitudine di quelle, che offrirebbero le loro sofferenze come
riparazione dei propri peccati. La Chiesa greco-orientale, invece, aveva sempre
letto il passo paolino in senso allegorico, solo poi seguita, in tale
orientamento, anche dalla teologia ufficiale cattolica che, nel
Catechismo universale pubblicato nel 1992, indicò
nell'impossibilità di godere della visione di Dio e della comunione con
Lui la pena principale delle anime purganti. La Chiesa anglicana, infine, non ha
mai assunto posizioni ufficiali in proposito, anche se alcuni settori più
vicini al Cattolicesimo e il cosiddetto Movimento di Oxford hanno sostenuto
l'esistenza di uno «stato intermedio», tra beatitudine e dannazione.
• Teol. - In riferimento all'escatologia, la fede cristiana propone al
credente una visione del giudizio finale e individuale non come momento di
condanna e punizione ma come incontro con Gesù Cristo Redentore. La
teologia cattolica, in particolare, esprime la speranza nella purificazione e
nella salvezza dell'anima attraverso la dottrina del
P., che ancora oggi,
però, rischia fraintendimenti e semplificazioni dovute a concezioni
fantasiose o a residui
delle controversie dottrinali dei tempi della
Riforma. A partire dal Concilio di Trento, tuttavia, il magistero della Chiesa
ha cercato di risolvere ambiguità quali l'interpretazione del
P.
come spazio o luogo definito o la presenza al suo interno di un «fuoco
purificatore» e di punizioni assimilabili a quelle, per così dire,
corporali: attualmente, infatti, la traduzione ritenuta più corretta del
termine latino
purgatorium è
evento purificatore. I
contenuti della fede cattolica, riguardo la dottrina della purificazione
dell'anima dopo la morte, sono sinteticamente riassumibili in: 1) all'uomo
è data la speranza di essere liberato, dopo la morte fisica, dalla colpa
derivante dai propri peccati e di ricostituire il proprio essere nella sua
integrità originaria grazie alla purificazione. 2) Dopo la morte, l'anima
non ha più facoltà di meritare o demeritare, dal momento che con
la morte termina la dimensione decisionale (libero arbitrio) della persona; la
purificazione, dunque, è un evento che accade all'anima, ma che non
è scelto o agito direttamente da essa. 3) L'evento purificatore
può essere descritto come una sofferenza in vista del compimento del
sé e della ricostituzione della propria integrità. Esso è
momento beatificante, in quanto libera dalla colpa e perfeziona, ma anche
doloroso perché emenda dalle scorie del peccato che erano radicate nella
stessa anima. 4) La misura della purificazione necessaria al compimento è
connessa alla capacità di amore e di conversione che l'uomo ha praticato
o (trascurato) in vita. 5) Le preghiere e le buone opere che i vivi dedicano ai
propri defunti possono aiutare e sostenere le anime di questi nel loro percorso
purificatore. La fede nel
P., perciò, deve essere considerata come
espressione di uno dei contenuti della speranza cristiana: alla fine
dell'esistenza, a dispetto della propria imperfezione, ogni singolo uomo
avrà la possibilità di essere così come avrebbe dovuto
essere e l'impegno che ciascuno avrà profuso in vita in vista della
conversione e dell'amore sarà portato a compimento nel momento della
purificazione. In quest'ottica la preghiera per i defunti non è da
intendersi come intercessione presentata a un giudice che punisce, ma
rappresenta la certezza che la Comunione dei Santi, che unisce la Chiesa al suo
Redentore, è realtà trascendente che supera la morte e continua al
di là di essa come condivisione tra coloro che sono ancora nel mondo e
coloro che si purificano nella certezza della visione di Dio o che già ne
godono.