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Psicosi.

Termine usato in psichiatria, riferito a un gruppo di malattie mentali e a disturbi gravi del comportamento, distinti sia dalla nevrosi che dalle psicopatie. • Med. -In genere si distinguono p. organiche, in cui è evidenziabile una lesione del tessuto nervoso, e p. funzionali, quando tale lesione non è evidenziabile. Più esattamente, si parla di p. esogene, quando l'alienazione mentale è imputabile a una causa somatica, estranea all'universo psichico del paziente, e di p. endogene, quando non è possibile far risalire la genesi della malattia né a uno stato di sofferenza somatica né a una reazione a una particolare situazione ambientale. Le p. esogene possono essere legate a processi morbosi che colpiscono il cervello in modo particolare (come nel caso delle encefalopatie vascolari, delle encefaliti e della meningoencefalite luetica, che causa la paralisi progressiva), oppure dipendere da sindromi di demenza senile o presenile, come nella demenza arteriosclerotica, in cui la riduzione delle funzioni cognitive, la comparsa di alterazione del linguaggio e gli stati confusionali sono determinati dalla degenerazione delle arterie cerebrali e dalla difettosa circolazione del sangue. Reazioni psicotiche più o meno prolungate possono ancora essere causate da traumi cranici gravi o da intossicazioni volontarie o accidentali (provocate da farmaci, dall'alcool, dall'uso di sostanze stupefacenti come eroina, morfina, o determinate da malattie organiche quali il diabete o l'uremia). Rientrano nella categoria della p. da farmaco anche le cosiddette p. sperimentali, sindromi di tipo confusionale indotte artificialmente con farmaci specifici come la mescalina o l'LSD, allo scopo di studiare l'insorgenza dei meccanismo psicotici. Sono classificabili come p. esogene anche quelle che si manifestano nel corso di malattie infettive come il tifo, la malaria, la polmonite, nelle quali l'episodio psicotico costituisce solo uno dei sintomi che si presentano all'osservazione clinica: per tale motivo p. di questo tipo, in genere di forma acuta e a decorso benigno, tendono a regredire con il regredire dello stato febbrile e vengono definite appunto sintomatiche. Si possono comprendere nella categoria delle p. esogene anche le p. reattive, che insorgono in seguito a gravi traumi di carattere psichico. Le p. endogene sono rappresentate dalla p. maniaco-depressiva, dalla schizofrenia, dalla paranoia, dalla catatonia, dall'ebefrenia. Va precisato peraltro che i fattori costituzionali che sarebbero alla base delle p. endogene non sono ancora stati precisamente individuati, ed è anzi proprio a questo proposito che emergono le divergenze più radicali tra le correnti psichiatriche di impostazione organicistica e quelle legate alle teorie psicodinamiche. ║ Encicl. - Il termine di p. fu introdotto in psichiatria intorno alla metà dell'Ottocento per designare la malattia mentale vera e propria, lo stato di alienazione caratterizzato dalla perdita di contatto con la realtà e da una grave compromissione dell'affettività e della percezione. Come tale, il concetto di p. fu l'oggetto privilegiato di studio dei massimi esponenti della psichiatria classica, da Philippe Pinel (V.) a Emil Kraepelin (V.), che fornì tra l'altro una complessa classificazione nosografica delle varie forme di malattia mentale. Fu però soprattutto l'apporto della psicoanalisi a fornire chiarimenti essenziali, definendo in particolare la sintomatologia della p. in rapporto con quella della nevrosi, che la psicoanalisi assunse come ambito privilegiato di intervento terapeutico. Il quadro sintomatico della p. presenta dunque una sua specificità proprio in rapporto al concetto antagonista di nevrosi, e si caratterizza per la patologia a tutti i livelli più grave di quella caratteristica delle nevrosi, con una profonda compromissione della salute mentale. Tale compromissione si manifesta con assenza di percezione o percezione strutturalmente deformata della realtà esterna e con mancanza di rapporto cognitivo con la medesima; con disgregazione a livelli profondi della personalità totale, spesso con regressione del comportamento a livelli primitivi; con allucinazioni e deliri; con gravi alterazioni del pensiero logico e della capacità linguistica e di comunicazione, verbale e non verbale; con mancanza generale di comprensibilità dei sintomi e di consapevolezza da parte del paziente della sua condizione patologica. Secondo Freud, la p. è determinata dalla rottura fra l'Io e la realtà esterna, dovuta al premere delle richieste provenienti dall'Es, le quali invece, nel processo di formazione della nevrosi, si piegano alle esigenze della realtà esterna e vengono rimosse dall'Io. In altri termini, mentre l'Io del nevrotico obbedisce al mondo esterno e si difende dall'Es mediante la repressione, l'Io dello psicotico rinuncia ad adattarsi al mondo esterno che lo limita e dal quale rifugge. Le difese psicotiche si differenzierebbero da quelle nevrotiche per la violenza con cui effettuano il rigetto della realtà: lo psicotico abolirebbe infatti totalmente le percezioni che gli sono insopportabili, compromettendo il suo rapporto con la realtà, mentre nel nevrotico l'Io rimarrebbe legato ad essa rimuovendo le esigenze pulsionali eventualmente in contrasto. La veemenza delle difese renderebbe ragione, secondo Freud, delle principali caratteristiche del comportamento psicotico, dalla perdita del senso di realtà, alla precarietà dei processi di simbolizzazione, al disinvestimento del mondo esterno. Sul piano terapeutico, Freud riteneva la p. non suscettibile di trattamento psicoanalitico, poiché la regressione dei soggetti psicotici a una fase narcisistica dello sviluppo della personalità renderebbe loro impossibile lo sviluppo di un transfert, che di tale trattamento costituisce un presupposto essenziale e indispensabile. Nonostante il vivo interesse dimostrato da Freud per lo studio delle p., l'indagine su di esse si mantenne quindi nella psicoanalisi classica su un piano esclusivamente teorico.