Colui che è tenuto rinchiuso in un luogo senza potere usufruire della
propria libertà personale, specie in ambito bellico. Per coloro che hanno
subito una condanna giudiziaria in genere, si preferiscono termini quali
detenuto o
carcerato, salvo nel caso di persone in carcere per
reati di tipo politico o ideologico: in questo caso si parla di
p.
politico. • Dir. internaz. - Dal principio secondo cui ogni Stato
belligerante gode del diritto di sottrarre permanentemente all'avversario o agli
avversari i suoi combattenti, scaturisce il concetto di
p. di guerra.
Anticamente il
p. poteva essere reso schiavo, perdeva totalmente la
propria libertà ed eventualmente poteva essere ucciso. In epoca
medioevale, grazie alla presenza dell'istituto della cavalleria e all'influenza
della fede cristiana, e soprattutto in epoca moderna, si affermò
lentamente il principio che prevedeva la cattura e la detenzione del nemico al
solo scopo di sottrargli, per la durata delle ostilità, un possibile
elemento di vantaggio. A questo proposito la consuetudine ha reso necessaria una
vera e propria codificazione delle norme inerenti il trattamento dei
p.
di guerra; ciò si è verificato con le Convenzioni dell'Aia del 29
luglio 1899 e del 18 ottobre 1907 e con quelle di Ginevra del 27 luglio 1929 e
del 12 agosto 1949. Quest'ultima, sottoscritta da 62 Stati e integrata da due
protocolli l'8 giugno 1977, riveste una notevole importanza per il diritto
internazionale, per quanto concerne il trattamento e i diritti del
p. e i
luoghi di detenzione. Vengono considerati
p. di guerra coloro che fanno
parte delle forze armate regolari, le milizie indipendenti e di resistenza (ad
esempio i partigiani), le popolazioni non occupate che, all'arrivo del nemico,
prendano volontariamente le armi, i membri dei comitati di liberazione
nazionale. La prigionia non obbliga chi vi è soggetto al comando dello
Stato che l'ha imposta e di conseguenza non è considerata illecita la
fuga. Le attività dei
p., unitamente al loro trattamento da parte
dello Stato cattore, sono oggetto di precise disposizioni. I soldati non possono
venire impiegati per operazioni volte contro lo Stato di appartenenza, devono
essere nutriti, vestiti ed eventualmente curati. Inoltre essi non devono essere
oggetto di discriminazioni politiche, razziali o religiose, conservando
pienamente il diritto alla libertà di culto, alle insegne del grado, al
possesso del proprio denaro. Ai
p. è concesso tra l'altro di
corrispondere con le famiglie e di nominare rappresentanti incaricati di
comunicare con le autorità dello Stato cattore, presentando ad esse (o al
comitato internazionale della Croce Rossa) eventuali reclami. Al termine delle
ostilità, a meno che non sia già intervenuto uno scambio tra le
parti in lotta, i
p., ormai liberi, devono essere rimpatriati a cura
dello Stato cattore. Per quanto concerne i luoghi di detenzione, essi devono
essere dislocati lontano dal teatro delle operazioni belliche e dotati di
servizi igienici e assistenziali. Il controllo sull'osservanza delle norme
contenute nella Convenzione di Ginevra del 1949 è affidato, tramite
agenti diplomatici, consolari o appositi incaricati, a Stati neutrali per conto
di uno Stato belligerante. Nonostante queste precise disposizioni, tendenti a
conferire un volto più umano alla prigionia di guerra, si sono verificate
e tuttora si verificano gravissime violazioni in merito al trattamento dei
p. da parte degli Stati cattori. Le atrocità commesse in occasione
dei conflitti vietnamita e jugoslavo, solo per fare un esempio, ne costituiscono
una tragica testimonianza.