Atto e contenuto del pregare. Testo scritto, parola o pensiero mediante i quali
il devoto si rivolge alla divinità per lodarla, implorarla, ecc. ║
Per estens. - Richiesta rivolta a qualcuno con toni di particolare fervore o
improntata a umiltà e sottomissione. ║ Invito cortese, formula di
cortesia:
le rivolgo una p. • Rel. - Atto di culto che si
caratterizza in quanto comunicazione specificamente verbale tra l'uomo (come
singolo o come membro di una comunità) e la divinità. L'idea e la
pratica della
p. sono essenziali e connaturate a ogni esperienza
religiosa nota, anche se in relazione ai diversi contesti storico-culturali si
rileva un'ampia variazione di tipologie, contenuti e comportamenti cultuali.
Infatti, benché la definizione volutamente generica indichi il tratto
specifico della
p. nella sua "oralità", non è
sempre possibile distinguere nettamente, all'interno di un'esperienza religiosa
unitaria, tale atto rituale da altri (nell'ambito di numerose religioni
cosiddette primitive, ad esempio, la
p. si connette intimamente e
inscindibilmente mediante grida, canti, esclamazioni e formulari a lunghe danze
rituali, mimiche, ecc.). Nella fenomenologia religiosa, la
p. rappresenta
una dimensione talvolta coesistente ma concettualmente opposta alla
magia:
quest'ultima infatti si configura, analogamente alla
p.,
come un nucleo verbalizzato di formulari tradizionali e/o
scritti, ma si differenzia da essa per il dato di costrizione e di coercizione
della divinità, che il recitante si prefigge di prevaricare grazie alla
presunta onnipotenza degli incantesimi. Non è chiaro, allo stato attuale,
se sia corretto interpretare il momento magico, nell'evoluzione religiosa
dell'uomo e dei singoli popoli, come uno stadio primitivo della
p. o
piuttosto come una sua successiva degenerazione; è anche ragionevole
supporre che le due dimensioni, pur nella loro intima differenza, abbiano sempre
convissuto nei sentimenti dei fedeli. Numerose sono, comunque, le distinzioni
possibili tra le
p. tanto a livello sostanziale quanto formale. Nel primo
caso, sulla base del contenuto, si distinguono comunemente
p. impetrative
(o
utilitarie, cioè finalizzate a una richiesta immediata e per lo
più indirizzate a un bene concreto, come la pioggia, un buon raccolto, la
soluzione di un grave problema, ecc.),
p. profetiche (a carattere
dialogico, in cui da una parte si sottolinea il dato antropologico della
finitezza e debolezza umana e dall'altro si esalta il dato teologico
dell'onnipotenza e grandezza della divinità) e
p. mistiche
(incentrate sull'ineffabilità del dio, sull'adorazione e sul desiderio
dell'orante di accedere a un'intima unione con lui). In realtà ogni
p.
ha una sua dimensione impetrativa, cioè direttamente connessa a un
oggetto di interesse: storicamente si rileva, però, che religioni
finalizzate alla "salvezza assoluta" del singolo (aventi perciò
un oggetto che trascende il mondo fisico e fenomenico), quali i
"misteri" del mondo classico, l'Ebraismo, il Cristianesimo, l'Islam,
l'Induismo, il Buddhismo hanno consentito un più alto sviluppo della
dimensione dialogica e mistica della
p. Da un punto di vista formale, si
possono individuare alcune categorie:
formule (cioè brevi risposte
che la collettività dà, all'interno di una celebrazione
comunitaria, alle orazioni recitate da un celebrante: ne sono esempi l'
amen
ebraico-cristiano o l'
evoè degli inni dionisiaci);
litanie (ripetizioni di formulari, come nel caso del
Rosario);
giaculatorie (recita di testi che si considerano quale compendio ed
essenza dell'esperienza religiosa, come la prima
sūra del Corano, lo
shema' Israel ebraico di
Deuteronomio 6,
4-9, o il
Padre Nostro cristiano);
salmi e
inni (testi di lode
e benedizione, di natura letteraria, attestati già nelle più
antiche tra le religioni storiche quali: gli inni mesopotamici agli dei, il
Rigveda indiano, l'inno ad
Aton dell'antico
Egitto, i Salmi
ebraici, gli inni omerici e classici in onore degli dei, ecc.). Per quanto
attiene ai gesti rituali che possono accompagnare la recita della
p.,
predominano, in genere, la tipologia della genuflessione e prosternazione
(significante l'atteggiamento umile dell'orante di fronte alla divinità)
e l'elevazione delle mani al cielo (considerato metaforicamente o realmente
dimora del dio) o ad un simulacro (qualora sia concessa la rappresentazione
della divinità). ║
La p. nell'Islam: uno dei cinque pilastri
(
arkan) che costituiscono i momenti irrinunciabili per la vita del
credente, e che dunque lo definiscono come tale, è la
p.
salāt. A differenza della
p. spontanea, che è
consigliata ma non obbligatoria, la
salāt deve essere
necessariamente recitata cinque volte al giorno ed è composta da formule
coraniche e gesti prestabiliti che non possono essere variati. I momenti
canonici della
p. sono: l'alba, prima che appaia il sole; il mezzogiorno;
il pomeriggio, circa tre ore dopo il mezzodì; il tramonto; la notte, dopo
il calare del sole e prima dell'alba. Il fedele musulmano può recitare le
p. giornaliere in qualsiasi luogo, da solo o in gruppo (ad eccezione
della funzione del venerdì per la quale è tenuto a recarsi in una
moschea; V. PRECETTO). Prima di ogni
p.,
però, egli deve svolgere la purificazione rituale (
tahāra),
che consiste nel lavarsi le mani e le braccia fino al gomito; sciacquarsi la
bocca; bagnarsi il capo; lavarsi i piedi fino al malleolo. La
p.,
inoltre, deve essere recitata, a capo scoperto, stando sul tappeto della
p. (
saggāda), la cui funzione è quella di delimitare
uno spazio sacro e purificato da quello profano, e volgendosi in direzione della
Mecca. Il contenuto della
p. consiste in una serie di enunciazioni (tra
cui l'
Allāha akbar, la prima
sūra del Corano e la
shahāda:
professione di fede) accompagnate da movimenti
rituali quali l'elevazione delle mani, la flessione del busto e la
prosternazione. ║
La p. nell'Antico Testamento: soggetto della
p. veterotestamentaria
è, prima dei singoli, il popolo
stesso, che si rivolge a un Dio personale capace di agire nella sua storia e di
determinarla mediante l'Alleanza. La
p. di Israele è perciò
lode, ringraziamento, lamento, nonché ammissione delle proprie colpe e
accettazione dei castighi che Dio infligge: essa
ha la sua massima e
più completa espressione nei Salmi (V. SALMO). ║
La p. cristiana: la specificità della
p.
cristiana va ricondotta da un lato all'esemplarità della vita di
Gesù - che è spesso descritto nei Vangeli raccolto in
p.,
di volta in volta espressione di lode, ringraziamento, intercessione, supplica e
abbandono alla volontà del Padre - e al frequente invito a pregare
che egli rivolge ai discepoli in attesa del Regno; dall'altro alla fede
nella natura mediatrice tra gli uomini e Dio dello stesso Cristo. Altri
elementi, così come ci sono tramandati dai Vangeli, sono riconducibili
alla pratica religiosa del Giudaismo ai tempi di Gesù: egli infatti
frequentò le sinagoghe e partecipò al culto nel Tempio di
Gerusalemme, tuttavia introdusse i discepoli anche a una visione più
personale e interiore della
p., meno rigida e predeterminata ma
più semplice. A modello di questa nuova forma di
p. insegnò
il
Padre Nostro (V.), a tutt'oggi la
più importante orazione per i cristiani, che la recitano nella versione
data dal vangelo di Matteo (6, 9-15). Gli
Atti degli Apostoli
testimoniano una graduale articolazione tipologica delle
p. in uso nelle
prime comunità (individuale e comunitaria, di supplica, di intercessione,
di ringraziamento, ecc.) e una sempre maggiore importanza attribuita ad esse
nella vita del credente.
Atti 2, 42 elenca i quattro elementi fondanti la
vita della comunità cristiana di Gerusalemme: l'insegnamento degli
Apostoli, la comunione fraterna, la frazione del pane (nucleo dell'Eucarestia)
e, appunto, la
p. Essa è contemporaneamente elevata a Dio per la
mediazione di Cristo e a Lui stesso rivolta; è inoltre
p.
pneumatica
, cioè ispirata e sostenuta dallo Spirito, che
concede ai fedeli i carismi e il discernimento perché, anche nelle
proprie suppliche di beni terreni, siano sempre orientati al bene ultimo e
trascendente. Come per molti dati della nascente teologia cristiana, anche nel
campo eucologico è l'epistolario paolino a fornire le prime formulazioni
della
dossologia (glorificazione) e dell'
epiclesi (invocazione
benedicente recitata sulle offerte, divenuta poi parte della liturgia
eucaristica), che denunciano però ancora lo stretto legame con il
formulario del Giudaismo contemporaneo. Il trattato della
Didaché
(V.), composto verosimilmente nel II sec.,
testimonia di un momento successivo, in cui l'evoluzione della
p. fu
connessa a quella del culto. In particolare, il trattato riporta nei capitoli IX
e X le
p. eucaristiche (V. OLTRE) sul pane
e sul vino e quelle di ringraziamento alla fine della celebrazione. Comparvero
contestualmente
p. da recitare in occasioni sacramentali:
p. per i
catecumeni (coloro che si preparavano a ricevere il Battesimo), per il
Battesimo, per l'Ordinazione. Anche l'ambito personale si arricchì di
testi per
le
p. di intercessione (per la Chiesa universale,
per i sofferenti, per la fertilità della terra, ecc.), per quelle del
mattino, della sera, della mensa, ecc. Fin dai primi secoli del Cristianesimo,
dunque, la
p. fu considerata momento centrale tanto a livello individuale
che comunitario, benché venisse particolarmente raccomandato quest'ultimo
aspetto, culminante nella celebrazione eucaristica. Già nei secc. II-III,
la
p. risulta sistematicamente inclusa nelle pratiche dell'ascesi
contemplativa, pur con differenti sottolineature (rispettivamente mistiche o
intellettualistiche) attinenti le tradizioni teologiche orientali e occidentali.
Il monachesimo orientale, infatti, valorizzò quasi esclusivamente la vita
contemplativa e, in essa, la
p. mistica, che ebbe grande spazio anche
nella Chiesa greco-orientale in genere; il monachesimo occidentale, invece, si
foggiò sulla regola benedettina dell'
ora et labora, secondo una
visione olistica delle attività umane. Il Medioevo latino vide una
significativa fioritura di
p. individuali, di inni e testi mistici (tra
cui dobbiamo necessariamente ricordare le numerose
p. alla Vergine
composte dopo l'anno 1000, il
Cantico delle creature di san Francesco
d'Assisi, le composizioni di san Bernardo e, nel
Paradiso di Dante, la
parafrasi del
Pater Noster e l'insuperato inno a Maria "Vergine
madre, figlia del tuo Figlio"). Sulla scia della diffusione degli ordini
mendicanti e delle confraternite laiche, nel tardo Medioevo si rafforzarono
anche forme individuali e libere di
p., cui in seguito si
ricollegò la Riforma. Durante il XVI sec., infatti, vennero redatti
numerosi e vari manuali per la
p. libera
e personale, tanto in
campo cattolico che luterano, calvinista e riformato in genere, che spesso
proponevano alla devozione popolare anche rielaborazioni di modelli biblici o di
inni medioevali. Nei secoli, comunque, la discussione intorno al grado di
importanza della
p. nella vita del cristiano fu a lungo connessa a quella
sulla Grazia. La dottrina cattolica attuale afferma la necessità di una
qualche forma di
p. anche personale, oltre che comunitaria, per ottenere
la Grazia della perseveranza nella fede e dunque la vita eterna. Per quanto
riguarda le "fonti" privilegiate della
p. individuale, il
Concilio Vaticano II ha voluto recuperare l'uso dei
Salmi, in quanto
testi in cui l'esperienza religiosa ed esistenziale del singolo si allarga a
condividere e a trovare significato in quella del popolo, cioè della
comunità. Inoltre le indicazioni post-conciliari raccomandano una maggior
attenzione alla Sacra Scrittura come contenuto della
p. - individuale e
collettiva - rivalutando lo schema monastico della "scuola della
Parola". Essa, partendo da un testo biblico, prevede la
lectio
(lettura del brano), la
meditatio (una riflessione sul brano, condotta
intimamente dal singolo o proposta da chi guida la
p. comunitaria) e
oratio (la
p. vera e propria, che si caratterizza però per
un contenuto dettato dalla Parola or ora meditata più che dalla stretta
contingenza degli oranti). La
p. sulla Parola realizza infatti,
più di altre modalità, il carattere reciproco e dialogico di
questo atto di culto, in quanto si configura come momento di "ascolto"
di ciò che Dio dice all'uomo, mediante le Scritture, e come risposta
dell'uomo a Dio. In tal modo quest'ultima, pur conservando elementi di
impetrazione e propiziazione, consente un'espressione adeguata ma non
superstiziosa dell'adorazione e del ringraziamento. ║
Via crucis:
p. devozionale cristologica, affermatasi nell'ambito della pietà
popolare in epoca medioevale, attraverso la quale il fedele ripercorre gli
eventi della Passione e Morte di Gesù (V. VIA CRUCIS). • Lit. -
P. eucaristica: costituisce il momento
centrale della liturgia eucaristica (V. anche EUCARESTIA, MESSA e LITURGIA), in cui si ricorda e riattualizza il
sacrificio di Cristo, centro della celebrazione sacramentale, e consiste nella
p. di azione di grazie e di lode, pronunciata sul pane e sul vino. Essa
deriva direttamente, per quanto riguarda la dimensione dossologica, dalla
tradizione veterotestamentaria delle benedizioni (
berakah) e della Cena
pasquale (
seder). Infatti l'Ultima Cena di Cristo, che i Vangeli indicano
come l'atto istitutivo dell'Eucarestia, si svolse come celebrazione della Pasqua
ebraica, ragione per cui i momenti principali di quel rito si ritrovano,
unitamente alle parole e ai gesti di Gesù, nella
p. eucaristica
cristiana
. In essa si riconosce un nucleo centrale (narrazione e
riattualizzazione dell'Ultima Cena) cui si affiancano altri elementi aggiuntivi
(
Sanctus,
p. di intercessione, commemorazione dei santi).
Più precisamente: il
prefazio, in cui si rende grazie al Padre per
il disegno di salvezza a favore dell'uomo; l'epiclesi consacratoria, cioè
l'invocazione dello Spirito perché trasformi le offerte del pane e del
vino nel corpo e sangue di Cristo; la consacrazione, cioè il racconto
dell'Ultima Cena e la ripetizione delle parole di Cristo istitutive del
Sacramento; anamnesi
, o memoriale degli eventi della passione, morte e
resurrezione di Gesù; offerta del sacrificio;
p. per
l'accettazione dell'offerta;
p. di intercessione e di commemorazione dei
santi; dossologia finale. Mentre la tradizione occidentale conobbe, a partire
dal IV sec., un'unica
p. eucaristica (detta anche
anafora o
canone romano), quella orientale ha prodotto una ricchissima
varietà di testi (la liturgia bizantina, ad esempio, utilizzò le
anafore di san Giovanni Crisostomo, o di san Basilio o di sant'Ippolito, ecc.).
Tuttavia, dopo il Concilio Vaticano II, la commissione per la riforma della
liturgia fu incaricata anche di vagliare le proposte per affiancare al canone
romano altre
p. eucaristiche. Dietro parere favorevole del sinodo
episcopale del 1967, Paolo VI promulgò nel 1968 il testo di quattro
p.
eucaristiche ufficiali per la liturgia cattolica, tra cui quella del canone
romano era indicata come
I. La
II, di connotazione cristologica,
è redatta in stretta dipendenza dall'antichissima anafora di
sant'Ippolito; la
III è ispirata ai testi della tradizione
gallicana e ispanica; la
IV è una sintesi, di intonazione
biblico-patristica, dell'anafora di san Basilio. Tuttavia il
Messale
romano, promulgato sempre da Paolo VI nel 1975, contiene in appendice altre
redazioni di
p. eucaristiche, alcune delle quali specifiche per le
celebrazioni con i fanciulli. ║
P. dei fedeli: nei primi secoli del
Cristianesimo si definiva così la solenne
p. comune, riservata ai
soli battezzati, che i fedeli recitavano sotto la guida del vescovo subito dopo
la lettura della Sacra Scrittura. Già nell'epistolario paolino, infatti,
i cristiani erano esortati a pregare per la comunità, per coloro che si
trovavano in stato di necessità e per la salvezza del mondo. Questa
p.
era altresì detta
universale o
grande intercessione,
perché suo tramite l'intera famiglia dei credenti presentava a Dio le
intenzioni per la vita della comunità locale ma anche di tutta la Chiesa.
La liturgia romana conservò le tradizionali modalità e
l'originaria collocazione della
p. subito dopo le letture fino a tutto il
V sec., quando papa Gelasio la spostò all'inizio della Messa e introdusse
un nuovo formulario (detto appunto
deprecatio Gelasii papae). Papa
Gregorio Magno vi aggiunse le risposte corali
Kyrie eleison, Christe
eleison (dal greco: Signore abbi misericordia, Cristo abbi misericordia),
che in seguito furono dissociate dalle intenzioni vere e proprie come
invocazioni autonome e finirono con il sostituire in quella sede la
p.
dei fedeli. Solo il rito ambrosiano mantenne nei secoli, all'inizio della Messa,
una forma di
p. dei fedeli che però veniva, e viene, recitata solo
durante le funzioni delle domeniche di Quaresima, e cioè le cosiddette
preci litaniche. Il Concilio Vaticano II, nell'ambito della generale
riforma liturgica che riguardò anche la celebrazione eucaristica,
ripristinò, dopo le letture e l'omelia, la
p. dei fedeli, in
quanto orazione comune dell'assemblea, con intenzioni speciali, secondo il
dettato paolino, per la Chiesa universale, per i governanti, per i bisognosi,
per tutti gli uomini e la salvezza del mondo. Sempre il Concilio insegnò,
in materia, che in tale specifica forma di
p. il popolo cristiano
esercita la propria vocazione sacerdotale, parte essenziale della sua
identità. Per questa ragione la
p. dei fedeli segue la liturgia
della Parola non solo nella Messa, ma anche nelle celebrazioni sacramentali
(Battesimo, Matrimonio, celebrazione comunitaria della Confessione, ecc.) quando
non siano comprese in quella eucaristica. La conduzione della
p. spetta
al celebrante, che la introduce con una monizione e la conclude con l'orazione
finale. Le intenzioni sono proposte all'assemblea, che risponde con un
invocazione comune (ad esempio:
Noi ti preghiamo, Ascoltaci o Signore,
ecc.), da un diacono o dal lettore, ma possono anche essere presentate da
singoli fedeli.