Stats Tweet

Predestinazione.

Atto ed effetto del predestinare. Determinazione di un evento o del suo corso prima che esso si verifichi. • Teol. - Per la teologia cattolica, il concetto di p. coincide largamente con quello di provvidenza (V.), in quanto indica l'atto mediante il quale Dio conosce e insieme liberamente vuole gli avvenimenti che si verificano nel tempo. Se applicata a un'accezione più ristretta e specifica del termine, relativamente alla questione della salvezza o dannazione di ogni singolo uomo, la definizione di p. si fa difficoltosa e meno univoca. Essa deve infatti comprendere e conciliare due elementi che la costituiscono: la prescienza e la predeterminazione. Con la prima Dio conosce gli eventi che per noi ancora sono futuri, con la seconda li ordina al raggiungimento del fine voluto. Nella definizione di san Tommaso (Summa Theologica, I, 23, 1), la p. corrisponde al "piano secondo cui Dio ordina la creatura razionale al conseguimento della vita eterna". La dottrina cattolica afferma che nessuno può attingere la visione salvifica senza lo speciale dono della Grazia, ma anche che nessuno può essere escluso da tale visione se non per sua colpa personale. Questa definizione, che si colloca entro l'evoluzione filosofica e teologica che il concetto ha subito nel corso della storia e che mira a coniugare l'eterna azione predestinante di Dio con il libero arbitrio dell'uomo, lascia tuttavia ancora spazio ad ambiguità e a differenti sfumature del suo significato. ║ Il concetto cristiano di p. ha il suo fondamento nei Vangeli (ma anche nell'Antico Testamento è citato un "libro della vita" in cui sono segnati i nomi degli eletti). In Matteo 25, 34, Gesù parla del Regno preparato per gli eletti sin dalla fondazione del mondo e in Luca 10, 20 aggiunge che i loro nomi sono scritti in cielo. Tuttavia la p. acquisì la propria peculiarità teologica negli scritti paolini, in cui compare per cinque volte il verbo corrispondente (Romani 8, 29 e 30; Efesini 1, 5 e 11; I Corinzi 2, 7), con il quale Paolo designa l'azione benevola di Dio che destina l'uomo alla salvezza. Essa è un'azione: teocentrica (in quanto procede dall'eterno disegno di Dio); cristocentrica (in quanto mira a rendere ogni uomo conforme al Cristo); ecclesiale (in quanto si rende visibile nella chiamata ad aderire alla fede della Chiesa); gratuita (in quanto non presuppone nulla da parte dei destinatari); universale (in quanto rivolta ad ogni uomo); efficace (perché in grado di ottenere il proprio fine). Da tutto ciò discende una nozione di p., nei Vangeli e nell'epistolario di Paolo, univoca e positiva, in assenza assoluta di una simmetrica e complementare p. alla dannazione che sarebbe intrinsecamente contraddittoria rispetto alla nozione scritturale attestata. Anche se non è possibile enucleare da essa una dottrina sistematica della p., tuttavia la Bibbia sottolinea il prevalere della Grazia sul peccato e la universale volontà salvifica di Dio, contestuale alla concessione dei mezzi per attingere tale salvezza: la vocazione e la giustificazione per la fede ("Dio vuole la salvezza di tutti gli uomini chiamandoli alla conoscenza della verità", I Timoteo 2, 4). La patristica (V.) greca si mantenne aderente al dato biblico, confortata da una coscienza antifatalista e da una apertura universalista dell'apostolato. Una prima restrizione del concetto teologico di p. si ebbe con sant'Agostino, nell'ambito della controversia pelagiana del V sec. Pelagio, infatti, aveva affermato che la natura era sufficiente in sé a ottenere la salvezza, negando la prescienza di Dio in questo ambito e riducendo l'intervento della Grazia al solo libero arbitrio dell'uomo; per i pelagiani, dunque, la salvezza poteva essere "meritata" dall'uomo. Agostino, in reazione a questa dottrina, ribadì la necessità della Grazia e della p., dal momento che il peccato di Adamo, originale in tutti gli uomini, condannerebbe ogni uomo alla dannazione se non fosse per la speciale misericordia di Dio che ne ha prescelto un numero, determinato, per la salvezza. La proposizione agostiniana influenzò tutta la riflessione successiva e venne portata alle conseguenze più radicali da Gotescalco di Fulda (IX sec.), che addirittura negò la realtà del libero arbitrio e formulò una dottrina della doppia p., secondo la quale Dio destinava alcuni alla salvezza e altri alla dannazione, indipendentemente dai meriti o demeriti di ciascuno (giacché questo a suo parere sarebbe stato in contrasto con l'attributo della immutabilità divina). Secondo il pensiero di Gotescalco, dunque, Cristo morì in croce solo per gli eletti, poiché il Padre vuole salvi solo questi, e la sua venuta ebbe l'unico scopo di annunciare che non tutti sono predestinati alla dannazione. In molti si schierarono contro questa dottrina (tra cui l'irlandese Scoto Eriugena con il trattato De Praedestinatione) ed essa fu condannata ufficialmente dal Concilio di Magonza (848) e dal Sinodo di Quiercy (849), in cui si affermò come ortodossia l'universalità della volontà salvifica di Dio e la piena responsabilità dell'uomo nella sua eventuale dannazione, che discende dal peccato e dalla malizia del singolo e non dalla prescienza né dalla p. divina. Il concetto della doppia p. fu però ripreso nei secc. XIV-XV dall'inglese J. Wycliffe e dal boemo J. Hus: essi ne sostennero l'accezione più dura, dividendo l'umanità in salvati e reietti. Anche questa forma di predestinazionismo fu condannata, per due volte, dal Concilio di Costanza nel 1414 e nel 1418. Ciò nonostante la questione si complicò ulteriormente con l'avvento della Riforma, sia nell'ambito luterano sia in quello calvinista. Lutero infatti elaborò una teoria della salvezza fondata sulla negazione del libero arbitrio e sulla giustificazione per la sola fede (cioè a prescindere dalle opere): essa fu condannata nel 1520 da papa Leone X. Calvino, ancora più radicalmente, affermò che Dio, Signore di tutte le creature, dispone di esse secondo il Suo volere e in ordine alla Sua gloria e stabilisce liberamente la salvezza di alcune e la dannazione di altre secondo un disegno per noi imperscrutabile, ma che dobbiamo accettare con fede. Questa rigida posizione fu tacciata di manicheismo anche fra gli stessi calvinisti e prevalse ufficialmente solo nel sinodo di Dordrecht del 1618. Sulla base dei motivi agostiniani già estremizzati da Lutero, si pose la riflessione di Michel de Bay (V. BAIANISMO), secondo il quale l'originaria e naturale integrità dell'uomo prima del peccato originale gli consentiva di elevarsi naturalmente alla partecipazione del divino. Dopo il peccato, però, il suo libero arbitrio rimase corrotto irreparabilmente, tanto che da qual momento, per quanto attiene alla sua natura, l'uomo è capace solo di fare il male. Per questo sono necessarie la Grazia e la fede (che giungono all'uomo solo da Cristo mediatore), senza le quali qualsiasi opera non può che risolversi in un peccato. Il Baianismo, poco diffuso, rappresenta però il sostrato dottrinale del Giansenismo (V. GIANSENIO, CORNELIO). Questa dottrina (condannata più volte dai pontefici come eretica), affermando una contrapposizione tra stato di natura e stato di Grazia, affermava che la volontà e il libero arbitrio dell'uomo non possono nulla in opposizione alla Grazia e che dunque mediante essa Dio salva, senza loro merito, solo coloro che ha predestinato alla salvezza. Gli altri, sotto la tirannia dello stato di natura, possono solo compiere il male. Contemporaneamente al diffondersi di tali dottrine, anche la Chiesa cattolica cercò di fissare una sua propria teoria della p.: tuttavia il Concilio di Trento con il Decretum de Justificatione (gennaio 1547) riuscì a stabilire solo l'inammissibilità di una p. direttamente ordinata al peccato e alla dannazione da parte della prescienza divina. Il dibattito teologico continuò nei secc. XVI-XVII e non poteva ignorare il fatto che, dal momento che non tutti gli uomini attingono la salvezza, Dio è presciente e predeterminante la salvezza di alcuni e la dannazione di altri. I teologi si chiedevano cioè se il decreto divino, per cui solo agli eletti sono concessi i mezzi per ottenere la salvezza, preceda o segua la previsione dei loro propri meriti o demeriti, se tale decreto, infine, sia condizionato o meno dall'uso che il singolo uomo fa della propria libertà. Il problema fu analizzato a lungo e culminò nelle cosiddette dispute De auxiliis, tenutesi durante i pontificati di Clemente VIII e di Paolo V. In tali occasioni si delinearono due scuole di pensiero differenti, l'una guidata dal gesuita L. de Molina (V. MOLINISMO), l'altra dal domenicano Domigo Báñez (V.). Per i primi, la p. alla salvezza da parte di Dio è successiva alla previsione dei meriti del singolo (post praevisa merita): la creatura avrebbe, secondo tale dottrina, l'iniziativa primaria nel proprio ordinarsi alla salvezza, mentre la Grazia sarebbe uno strumento della volontà salvifica universale di Dio, che l'uomo può accettare o meno per volgersi al bene. Per i secondi, invece, la p. sarebbe precedente alla previsione dei meriti dei singoli (ante praevisa merita), in quanto la Grazia è gratuita (cioè non concessa in base a requisiti particolari) e la creatura è totalmente dipendente dalla concessione di questa per potersi volgere alla salvezza. Nel 1607, dal momento che la controversia non trovava soluzione, Paolo V la troncò dichiarando ambedue le posizioni lecite per l'ortodossia cattolica. La questione fu ripresa, secondo una genuina prospettiva scritturale, a partire dal XIX sec.: Matthias Joseph Scheeben (V.), superando la pesante eredità agostiniana, affermò la coincidenza della p. con la volontà salvifica universale di Dio. Il teologo Karl Barth (V.), nel XX sec., precisò la dottrina della doppia p. affermando che, essendo Cristo al medesimo tempo il Dio che elegge e l'uomo eletto, in Lui tutti gli uomini sono eletti e non esistono più i reprobi, perché Egli ha assunto su di sé come vicario la riprovazione di tutti. Nel mistero dell'Incarnazione e della Redenzione, infatti, Dio invera la propria giustizia (perché prende su di sé la dannazione e la riprovazione di tutti) e manifesta la propria misericordia (perché offre a tutti la salvezza). Storicamente tale possibilità si incarna nella mediazione della Chiesa, per cui la p. non si pone come evento irrelato e indipendente dalla volontà di ogni singolo uomo, ma come conciliazione tra l'azione eterna e predestinante di Dio e il libero agire dell'uomo. La teologia cattolica, dal Concilio Vaticano II in poi, suggerisce che tale concorso e compenetrazione tra p. divina e libero arbitrio umano si attui non su un piano di successione cronologica (prima la prescienza e la predeterminazione di Dio e poi l'azione più o meno libera dell'uomo), ma in una dimensione ontologica per cui la prima fonda e contiene il secondo, facendolo sussistere e coincidendo con esso, proprio come l'eternità non precede il tempo ma lo contiene. Secondo tale impostazione, dunque, la p. non preconosce né determina dall'esterno il destino di ogni uomo, ma piuttosto si invera e accade nel libero agire della creatura (V. anche PREDESTINAZIONISMO). ║ Anche il Corano, come la Bibbia, propone simultaneamente come verità tra loro complementari l'onnipotenza divina e la libertà e responsabilità dell'uomo nel proprio agire. Le scuole teologiche islamiche, nel tentativo di armonizzare tra loro questi concetti, hanno sottolineato chi (scuola ash'arita) il potere illimitato dei decreti divini (che imprime il bene o il male nei cuori di chi vuole), chi (scuola mu'tazilita) la libera e operosa risposta dell'uomo alla fede.