(dal greco
pragma: cosa, fatto). Movimento filosofico sorto negli Stati
Uniti alla fine del XIX sec. e diffusosi all'inizio del XX sec. in Europa.
║ Per estens. - Ogni dottrina filosofica caratterizzata dalla
subordinazione della teoria alla prassi. ║ Per estens. - Tendenza a
privilegiare la concretezza, la ricerca di soluzioni di carattere
pratico-operativo ai problemi, piuttosto che aspetti astratti, ideali o troppo
generali. • Filos. - Benché si possano trovare spunti pragmatistici
nel pensiero antico e moderno (Sofistica, Probabilismo accademico, Illuminismo,
ecc.), il
P., nella sua accezione autentica, è un indirizzo di
pensiero sorto nell'ultimo trentennio del XIX sec. come reazione alle correnti
filosofiche (Idealismo e Positivismo) che avevano monopolizzato la filosofia
ottocentesca. L'aspetto centrale del
P. sta nella proposizione di
un'interpretazione dell'esperienza, della conoscenza e della verità di
carattere evolutivo e dinamico, basata su una serie di principi di fondo: 1)
critica alla tradizionale concezione della conoscenza come attività
"pura", separata dall'esistenza e dall'esperienza pratica; 2) rifiuto
di ogni gnoseologia che consideri la conoscenza come rispecchiamento di fatti o
ricerca di essenze e di leggi già date. Essa si configura piuttosto come
costruzione di modelli interpretativi, che siano in grado di organizzare nel
migliore dei modi il mondo dell'esperienza; 3) separazione del concetto di
verità da quello di fatto o di corrispondenza al fatto, così come
dall'esperienza empirica. La nascita del
P. va fatta risalire alle
riunioni del "Metaphysical Club" di Cambridge (Massachusetts)
organizzate negli anni Sessanta e Settanta dall'utilitarista darwiniano C.
Wright. A tali riunioni partecipava un gruppo di studiosi che, a dispetto del
nome del club, erano accomunati da una posizione marcatamente antimetafisica;
fra di essi Ch. Peirce, W. James, J. Fiske, F.E. Abbot, O.W. Holmes, J.B.
Warner, ecc. Rifacendosi alla distinzione kantiana fra
pratico (il
razionale nella sua autonomia come principio a priori della legge morale) e
pragmatico (il razionale come mezzo per raggiungere un fine), fu Ch.
Peirce a coniare, intorno al 1872, il termine
P. per indicare la teoria
del significato da lui elaborata ed esposta in
La formazione della
credenza (1877) e
Come rendere chiare le nostre idee (1878). In
quest'ultimo scritto, considerato una sorta di manifesto del
P., Peirce,
in opposizione alla tradizione del Razionalismo moderno (Cartesio, Leibniz),
propone l'idea che la conoscenza consista nella produzione di
"credenze" che, a loro volta, si traducono in regole d'azione, abiti,
comportamenti. Per valutare le nostre conoscenze non bisogna quindi cercare
corrispondenze fra i loro contenuti e i fatti, ma esaminare cosa esse comportino
dal punto di vista delle nostre azioni. Su tali principi si fonda la teoria del
significato pragmatista, secondo cui per renderci conto del significato delle
idee impiegate, è necessario considerare gli effetti che esse possono
avere sul nostro comportamento: il significato non è qualcosa che si pone
di fronte al soggetto per essere colto o rispecchiato, ma coincide con l'insieme
dei suoi effetti pratici sul soggetto. L'identificazione del concetto con
l'insieme delle sue conseguenze pratiche rivoluziona completamente la
tradizionale interpretazione della conoscenza e del suo contenuto: essa non
consiste più nel cogliere qualcosa di estraneo da sé, ma in un
rapporto fra soggetto e oggetto, in cui il significato è dato dalle
credenze e dagli abiti che il secondo determina nel primo. Le tesi di Peirce non
ebbero immediato successo; fu W. James a rielaborarle e a divulgarle (insieme
allo stesso termine
P.) nel saggio intitolato
Concezione filosofica e
risultati pratici (1898) e in
Pragmatismo (1907). Nel riprendere le
posizioni di Peirce, James in realtà operò una profonda
trasformazione della teoria del significato: ampliandola, ne fece una sorta di
teoria metafisica ed etica della verità. In tal modo per James il
"vero" viene a coincidere con ciò che produce conseguenze
pratiche positive rispetto alle esigenze vitali dell'individuo. In polemica con
il Positivismo spenceriano e la sua teoria della conoscenza come
"rispecchiamento", James rivendica il valore pratico della religione,
l'importanza della "volontà di credere" e delle "ragioni
del cuore", in quanto dotate di un maggior valore di verità rispetto
all'intellettualismo scientifico. Peirce dissentì profondamente dallo
sviluppo irrazionalista dato al
P. da James, definendolo
"suicida", e cercò di distinguere la sua posizione da quella di
James utilizzando, a partire dal 1904, il termine
Pragmaticismo, senza
per altro avere molto successo. Intanto il
P. assunse dimensioni
mondiali, diffondendosi in Europa ed esercitando un profondo influsso su singoli
pensatori o nuove correnti filosofiche. Ricordiamo G.H. Mead, C.W. Morris, C.I.
Lewis, lo Strumentalismo di J. Dewey, l'Operazionismo di P.W. Bridgman,
l'Umanismo di F.C.S. Schiller, il Neopositivismo. In Europa l'area di maggiore
diffusione del
P. fu l'Italia, grazie all'opera di G. Papini (nel periodo
del "Leonardo"), G. Vailati e M. Calderoni. Papini trovò nel
P. (soprattutto in quello di James) uno strumento di reazione contro la
tradizione positivista. Nella sua elaborazione, persa la profondità
teoretica originaria, il
P. si riduce a una critica radicale
dell'Intellettualismo e del Razionalismo, all'affermazione della preminenza
della volontà sulla ragione, dell'azione sul pensiero. Un maggiore
spessore ebbe invece il
P. di G. Vailati che, respingendo
l'identificazione del
P. con l'Utilitarismo e il Soggettivismo,
trovò nelle dottrine pragmatistiche di Peirce importanti strumenti di
carattere epistemologico. Al centro del suo pensiero si situa così il
tema della funzione e controllabilità degli enunciati scientifici e i
rapporti fra
P. e Logicismo, accomunati dalla tendenza a considerare il
significato di un'asserzione strettamente connesso alle conseguenze che da essa
discendono.