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Plebe.

(dal latino plebs). Parte del popolo di Roma esclusa dal godimento di alcuni dei diritti cittadini, goduti invece dal patriziato. ║ Nell'uso moderno il termine ha assunto un significato negativo e spregiativo, indicando la parte del popolo più arretrata dal punto di vista sociale, culturale ed economico. ║ Fig. - Moltitudine. • St. - La divisione della cittadinanza in patrizi e plebei era spiegata dagli antichi Romani ricorrendo al mitico fondatore Romolo, il quale, in veste di primo legislatore della città, avrebbe creato cento senatori, detti patres. Gli studiosi sono invece propensi a credere che l'origine di tale divisione vada piuttosto ricercata nella differenza etnica tra popolo romano vincitore e popoli autoctoni soggiogati (tesi di G. Niebuhr) o nel processo di emancipazione della clientela dai patrizi (tesi di Th. Mommsen). Alla distinzione tra patriziato e p. non furono estranee disomogeneità di tipo economico e sociale: il patriziato si era costituito in una nobiltà fondata sulla proprietà terriera, in grado, per la sua superiorità, di procurarsi armamenti migliori e di gestire di fatto il governo dello Stato, ottenendolo poi anche di diritto. Diversamente, la p., particolarmente prospera sotto la monarchia dei Tarquini, era formata da piccoli proprietari, artigiani, commercianti. Inizialmente le due classi avevano un'unica possibilità di rapporto, quello di tipo clientelare. Nonostante costituissero una parte importante della cittadinanza romana e godessero di alcuni diritti, i membri della p. non potevano contrarre matrimonio con esponenti del patriziato e fra i due ceti esisteva una rigida separazione. Le rivendicazioni per un'equiparazione con la classe patrizia non tardarono a manifestarsi: nel 494 a.C., con la secessione sull'Aventino, la p. ricorse alla minaccia di separarsi dalla comunità romana e ottenne l'istituzione di magistrati propri, i tribuni della p., che i plebei eleggevano direttamente; essi si impegnavano con solenne giuramento a tutelare i diritti dei plebei e godevano della facoltà di arrestare gli atti dei magistrati (intercessio). Convocata in concilia dai tribuni, la p. eleggeva i propri capi e prendeva deliberazioni, dette plebiscita. Fin dai tempi antichi la p. poteva essere integrata nell'esercito, con alte cariche (tribuni militum) e nel Senato come membri aggiunti (conscripti), privi del diritto di partecipare all'approvazione degli atti dei comizi. Nel 450 a.C., la codificazione delle XII Tavole sottrasse l'interpretazione del diritto consuetudinario ai magistrati patrizi; un'altra tappa fondamentale nel processo di equiparazione tra patrizi e plebei fu l'abolizione del divieto di connubium tra plebei e patrizi (445 a.C.). L'ammissione alla magistratura iniziò nel 444 a.C., con il deferimento della potestà consolare a tribuni militum consulari potestate, carica alla quale poterono accedere anche i plebei. Le leggi Licinie-Sestie riservavano ai plebei uno dei posti di console e aprirono quindi anche le altre magistrature (367 a.C): il primo dittatore di origine plebea fu eletto probabilmente nel 356 a.C.; il primo censore plebeo nel 351 a.C., il primo pretore nel 337 a.C.; nel 172 a.C. si ebbero per la prima volta entrambi i consoli plebei e nel 131 a.C. due censori plebei. L'accesso alle cariche sacerdotali fu reso possibile dalla vittoria del plebiscito Ogulnio (300 a.C.) che aumentò il numero dei pontefici da quattro a otto, imponendone quattro plebei. Gli auguri passarono da quattro a nove, di cui cinque plebei, e nel 254 a.C. si ebbe il primo pontefice massimo plebeo. Allo stesso tempo, le aspirazioni in campo sociale furono soddisfatte con altre leggi (soprattutto quelle per la limitazione dell'usura) e con l'assegnazione delle terre conquistate. Le famiglie plebee, salite alle massime magistrature e riconosciute come nobiles, formarono la nuova nobiltà patrizio-plebea.