Filosofo greco. Nacque in una delle più illustri casate ateniesi: la
famiglia del padre vantava di discendere dal mitico re Codro, mentre quella
della madre si ricollegava al grande legislatore Solone; lo zio Crizia era una
delle figure di spicco dei Trenta Tiranni. Secondo la tradizione, gli fu
inizialmente imposto il nome del nonno,
Aristocle; quello di
P.
gli fu dato come soprannome più tardi, in ragione della sua corporatura
robusta e in particolar modo delle spalle larghe (
platús: largo).
Come membro dell'aristocrazia ateniese,
P. ricevette un'educazione
prevalentemente artistica e letteraria (musica, pittura, poesia); sembra che
egli stesso abbia scritto diverse opere poetiche e drammatiche che distrusse
dopo aver conosciuto Socrate. Si accostò alla filosofia tramite
l'insegnamento dell'eracliteo Cratilo (V.), ma
l'incontro decisivo fu quello con Socrate (408-407 a.C.), di cui fu per circa un
decennio uno dei più stretti discepoli. Dopo l'incriminazione del
maestro, fu tra quanti misero a disposizione i propri beni nel caso egli fosse
stato condannato a una multa. Alla morte di Socrate (399 a.C.), andò
esule con altri discepoli a Megara, presso Euclide. Secondo alcuni biografi,
poco dopo avrebbe intrapreso un viaggio in Egitto, dove sarebbe entrato in
contatto con i sacerdoti, acquisendone le conoscenze misterico-religiose. Tale
tradizione, chiaramente ispirata dal desiderio di legare il pensiero greco a
fonti orientali, in realtà è assai dubbia; si dice anche che
durante un soggiorno a Cirene
P. avrebbe conosciuto il matematico
Teodoro. Certo è che
P. fu in Atene fra il 391 e il 388 a.C., anno
in cui intraprese un viaggio in Italia meridionale; a Taranto ebbe contatti con
lo statista pitagorico Archita e, a Siracusa, si legò con Dione, parente
del tiranno Dionigi I. Con l'aiuto di Dione,
P. sperò di poter
realizzare in Sicilia gli ideali etico-politici legati alla sua dottrina
filosofica; ma l'ostilità del tiranno troncò sul nascere ogni
sperimentazione:
P. fu incarcerato e venduto come schiavo a Egina, dove
fu riscattato da un certo Anniceride. Tornato ad Atene nel 387 a.C., vi
fondò quella comunità, avente insieme tratti di scuola filosofica
e di comunità religiosa che, avendo sede nel ginnasio dedicato all'eroe
Academo, prese il nome di
Accademia. Per i seguenti 20 anni
P. si
dedicò interamente alla scuola, approfondendo e rielaborando in modo del
tutto originale gli insegnamenti socratici. Da sottolineare come, finché
fu vivo
P., la ricerca all'interno dell'Accademia fu sempre liberissima e
svincolata da quel dogmatismo che si impose solo dopo la sua morte. Nel 367 a.C.
P. tornò a Siracusa; morto Dionigi I, gli era succeduto il figlio
Dionigi II che in un primo momento sembrò mostrare un grande interesse
per le dottrine del filosofo e appoggiarne la realizzazione pratica. Intrighi e
opposizioni di corte, tuttavia, fecero fallire anche questo tentativo: Dione fu
esiliato e
P. stesso venne trattenuto come prigioniero fino al 365 a.C.
P. fu di nuovo in Atene dal 365 al 361 a.C., quando intraprese il terzo e
ultimo viaggio in Sicilia. Nel tentativo di riconciliare Dione con Dionigi II,
rischiò la sua stessa vita e solo l'intervento di Archita gli permise di
tornare in patria. ║
Le opere. Forma, problemi di autenticità e
cronologia: il
corpus delle opere platoniche è formato
dall'
Apologia di Socrate, 34
Dialoghi e 13
Lettere. La
scelta della forma dialogica per quasi tutti gli scritti (tranne
l'
Apologia e le
Lettere) va ricondotta alla critica platonica nei
confronti dello scritto, giudicato spesso incapace di comunicare la sapienza. Il
dialogo, nella sua forma orale e, sia pure in minor misura in quella scritta,
rispecchia meglio la natura del pensiero, concepito come colloquio dell'anima
con se stessa, nonché l'andamento del metodo maieutico socratico
(V. MAIEUTICA) mutuato e rielaborato da
P.
Alcune delle opere tramandate sotto il nome di
P. furono giudicate spurie
già nell'antichità (
Erissia, Alcione, Sisifo, Assioco,
Demodoco, Del giusto, Delle virtù, Epinomide) e quindi escluse dalla
sistemazione data agli scritti platonici dal grammatico Trasillo (I sec.): egli
suddivise i 36 titoli ritenuti autentici in nove tetralogie in base ad
approssimativi criteri contenutistici; è questo l'ordinamento tuttora
seguito dalle edizioni critiche: 1)
Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone,
Fedone; 2)
Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico; 3)
Parmenide,
Filebo, Simposio, Fedro; 4)
Alcibiade primo e
secondo,
Ipparco, Amanti; 5)
Teagete, Carmide, Lachete, Liside; 6)
Eutidemo, Protagora, Gorgia, Memone; 7)
Ippia maggiore e
minore, Ione, Menesseno; 8)
Clitofonte, Repubblica, Timeo, Crizia;
9)
Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere. La critica moderna ha molto
discusso sull'autenticità delle
Lettere, giudicando generalmente
autentiche solo la VII e l'VIII. Riguardo ai dialoghi, vengono ritenuti spuri
Alcibiade primo, Teagete, Clitofonte e
Minosse. I problemi di
cronologia, particolarmente rilevanti per un pensiero come quello platonico in
continua evoluzione, sono stati risolti, oltre che sulla base di criteri
contenutistici o di riferimenti interni a eventi storici, con il metodo
"stilometrico". Il primo passo è stato quello di individuare
nelle
Leggi, ultimo scritto platonico secondo la testimonianza di
Aristotele, una serie di tratti stilistici caratterizzanti (iato, particelle,
stilemi, ecc.). Dall'esame della presenza o meno di tali parametri negli altri
scritti si è ricavata, con buona approssimazione, la collocazione
temporale di essi. La periodizzazione generalmente accettata, pur con qualche
differenza, è la seguente: 1)
Scritti giovanili o
socratici
(396-388 circa):
Apologia di Socrate, Critone, Ipparco, Ippia minore,
Alcibiade primo, Protagora, Eutifrone, Liside, Carmide, Lachete, Ippia maggiore,
Ione, Menesseno. In essi
P. riproduce, in maniera pressoché
fedele, il metodo d'insegnamento socratico, mostrando la problematicità
di ciò che in apparenza è dato come conosciuto. 2)
Dialoghi
della maturità (scritti fra il primo e il secondo viaggio in
Sicilia):
Gorgia, Menone, Eutidemo, Cratilo, Repubblica, Fedone, Simposio,
Fedro. In questa fase si fa sempre più forte la polemica
antisofistica e insieme giunge a compimento la teoria delle Idee. 3)
Dialoghi
della vecchiaia:
Teeteto, Parmenide, Sofista, Politico, Filebo, Timeo,
Crizia, le
Leggi e le
Lettere. Questa fase è
caratterizzata da un ripensamento critico delle dottrine in precedenza elaborate
per risolvere problematiche rimaste ancora aperte. Socrate, protagonista di
tutte le altre opere, appare qui più raramente e, quando appare, figura
chiaramente come personaggio, portavoce e interprete di dottrine altrui. ║
Dai dialoghi socratici all'elaborazione della dottrina delle idee: il
pensiero platonico non è costituito da un rigido sistema monolitico,
quanto da un insieme di problemi, gnoseologici, metafisici ed etici,
sviluppatosi gradualmente e gradualmente modificatosi. Nei primi dialoghi,
definiti dalla critica "aporetici" (in quanto non si giunge mai a una
conclusione definitiva),
P. è ancora pienamente impegnato ad
approfondire le problematiche socratiche: identità fra virtù e
scienza, insegnabilità della virtù, carattere attrattivo della
virtù sulla volontà, che si configura quindi come un premio in se
stessa (
eudemonismo), intellettualismo etico. Il fulcro dell'indagine
è quindi esclusivamente di carattere morale; lo scopo è di
determinare intelligibilmente il "che cos'è" la cosa o la
qualità in questione: l'
Eutidemo tratta della pietà, il
Liside dell'amicizia, il
Carmide della saggezza, il
Lachete
del coraggio, l'
Ippia minore della veracità. È proprio
attraverso l'approfondimento del pensiero socratico che
P. viene a
trovarsi di fronte al problema della conciliazione fra esperienza e ragione. I
valori (bene, giustizia, virtù, ecc.) oggetto della ricerca socratica non
possono avere quei caratteri di stabilità e universalità loro
richiesti, se non vengono concepiti con tratti diversi da quelli del fenomenico.
Eraclito e i sofisti avevano infatti messo in luce il perenne mutamento del
mondo sensibile e la relatività della sensazione da individuo a
individuo. Sulla base di questi assunti o si nega la possibilità di una
vera conoscenza, cadendo nello scetticismo, oppure si deve individuare l'oggetto
della conoscenza e il suo organo in qualcosa di diverso dai sensibili e dai
sensi. Infatti, anche il
concetto socratico non può sussistere
solo nel pensiero del singolo individuo senza assumere quei caratteri di
transitorietà, relatività e caducità, propri di ogni
esperienza individuale. Esso deve invece valere universalmente per tutti,
esistendo in una sfera assoluta di realtà. Ecco dunque l'emergere di un
nuovo concetto di scienza come conoscenza di verità eterne e universali.
Ma il problema e la risposta non riguardano solo il campo etico, cui si era
attenuto Socrate; i concetti universali sono ugualmente necessari per orientarsi
nel mondo della natura. La ricerca platonica porta quindi all'individuazione di
due piani dell'essere: uno fenomenico e visibile, l'altro metafenomenico e
invisibile, puramente intelligibile che costituisce l'oggetto vero della
conoscenza, ovvero le
Idee. In tal modo
P. accetta e supera il
relativismo protagoreo e la dottrina eraclitea del perenne divenire, che vengono
confinate al solo mondo sensibile. ║
Struttura del mondo ideale: le
Idee platoniche non sono dunque semplici entità mentali, ma il vero
essere, ciò che il pensiero pensa una volta che si sia liberato dalla
gabbia del sensibile. Esse non sono altro, quindi, che l'essenza delle cose,
ciò che fa sì che ciascuna cosa sia quel è; sono norma e
modello del sensibile. Il mondo delle Idee, indicato nel
Fedro con il
nome di
iperuranio, è costituito da una molteplicità, in
quanto vi sono Idee di tutte le cose: non solo delle varie realtà
corporee, ma anche dei valori, di enti matematici, ecc. Ciascuna di esse
è concepita con i caratteri propri dell'essere eleatico:
immutabilità, incorruttibilità, eternità. Il mondo delle
Idee è quindi il mondo dell'essere, mentre quello sensibile,
caratterizzato da transitorietà, mutabilità e contingenza non
è altro che sintesi fra essere e non essere. Il rapporto fra i due mondi
viene concepito tramite i concetti di
metessi (partecipazione) e di
mimesi (imitazione): i sensibili hanno tanto essere quanto viene loro
partecipato dalle Idee, e queste risultano rispetto ad essi modelli. Le Idee
possiedono rispetto alle cose fenomeniche un carattere di universalità,
per cui ciascuna di esse si riferisce a una molteplicità di cose singole,
ma anche fra le Idee vi sono quelle più o meno universali a seconda della
quantità di determinazioni che contengono: esiste quindi una gerarchia
che va dall'Idea più universale, più estesa e nello stesso tempo
dotata di minor comprensione (ovvero meno determinazioni particolari), fino ad
arrivare a Idee di estensione sempre minore e comprensione maggiore. In questo
quadro rimangono ancora aperti due problemi sollevati dall'eleatismo: come
possano esistere i molti e come possa esistere il non essere. Nel
Parmenide P. mostra come l'unità non possa venir pensata in
maniera assoluta, a prescindere dalla molteplicità; nel
Sofista il
problema della molteplicità trova ulteriore chiarificazione tramite la
discussione sul non essere: Parmenide aveva sì ragione nel ritenere non
esistente il non essere inteso come negazione assoluta dell'essere, ma
ciò che egli non aveva messo in conto, e che esiste, è il non
essere come diversità o alterità. Ogni Idea, per essere ciò
che è, deve essere diversa da ogni altra, deve non essere ogni altra;
ogni Idea perciò ha in sé una data dose di essere, ma anche un
infinito non essere. Inoltre
P. ammette una sorta di quiete e movimento
nel mondo ideale: ciascuna Idea è in maniera immobile se stessa, ma
è anche in dinamico movimento verso le altre, in quanto partecipa di
altre o ne esclude ogni partecipazione. Il mondo ideale si configura quindi come
una struttura gerarchicamente organizzata in cui le Idee inferiori implicano
quelle superiori, fino al sommo della gerarchia che nella
Repubblica
viene individuato chiaramente nell'Idea di Bene. ║
La dottrina della
conoscenza: una prima chiara risposta al problema della conoscenza si trova
nel
Menone, dove
P., in chiara polemica con gli eristi, che
avevano sostenuto l'impossibilità del conoscere, formula per la prima
volta la dottrina della reminiscenza: la conoscenza è
anamnesi,
ossia il riaffiorare alla memoria di qualcosa che esiste da sempre nell'anima.
Attraverso varie domande, Socrate riesce a far sì che uno schiavo, del
tutto ignaro di geometria, pervenga alla formulazione del teorema di Pitagora.
Ciò è possibile, perché l'anima dell'uomo è
pervenuta alla conoscenza della verità in una vita precedente e
può quindi ricordarla. Argomentazione che viene anche suffragata
dall'esposizione del mito orfico dell'immortalità dell'anima e della
metempsicosi. Un'ulteriore prova della reminiscenza
P. l'ha fornita nel
Fedone rifacendosi alle conoscenze matematiche: poiché tutti i
dati che l'esperienza ci fornisce non si adattano mai in modo perfetto alle
nozioni che noi abbiamo di uguaglianza, o di quadrato o di cerchio, ecc.
dobbiamo ammettere che fra le nostre conoscenze e i dati dell'esperienza esista
un dislivello. I sensi ci danno solo conoscenze imperfette ed è la nostra
mente che di fronte a questi dati, scavando dentro di sé, ritrova le
corrispondenti nozioni perfette. Lo stesso ragionamento è ripetibile,
secondo
P. per le varie nozioni estetiche ed etiche (bello, giusto,
buono, ecc.). La reminiscenza, mostrando che nella nostra anima è
presente un'intuizione originaria del vero, spiega la possibilità della
conoscenza, ma non spiega ancora tappe della conoscenza e il modo attraverso cui
arrivare ad essa. Il presupposto di tutta la gnoseologia platonica è che
la conoscenza sia proporzionale all'essere: ai diversi gradi dell'essere
corrispondono quindi altrettanti gradi di intelligibilità e di
conoscenza. La realtà fenomenica, in quanto intermedia fra essere e non
essere, sarà oggetto di una conoscenza a sua volta mediana fra scienza e
assoluta ignoranza (che riguarda propriamente il non essere). La maggior parte
delle persone si ferma a questa forma di conoscenza: ignorano il bello in
sé, il buono in sé e tutte le altre Idee, e si limitano a
conoscere cose belle o cose buone; senza esserne consapevoli conoscono solo
l'immagine del vero essere, e quindi vivono secondo
P. come in un sogno.
Questa forma di conoscenza che ritiene le immagini la vera realtà viene
chiamata da
P. opinione (
doxa). Nella
Repubblica,
P.
specifica ulteriormente che tanto l'opinione quanto la scienza
(
epistéme) hanno ciascuna due gradi: l'opinione si divide in
immaginazione (
eikasía), che riguarda le immagini sensibili delle
cose, e credenza (
pístis), che si riferisce alle cose sensibili
stesse; mentre la scienza si suddivide in conoscenza mediana
(
diánoia), che riguarda gli enti matematici, e in pura
intellezione (
nóesis), ovvero il contatto puro con le Idee. Il
passaggio dall'opinione alla scienza, dall'apparenza di sapere al sapere, viene
presentato da
P. come un processo di conversione
(
periagogé): si tratta di liberare il pensiero dal flusso
incessante del fenomenico e dargli modo di fissarsi sull'essere. Diverse sono le
strade indicate da
P. per operare tale conversione. Il primo passo
è di tipo negativo e già indicato da Socrate: bisogna sgomberare
l'animo da false credenze legate alla presunzione di sapere e alla
sensibilità. Nei primi dialoghi viene anche enfatizzata la via mistica,
legata alla concezione dualistica del reale e dell'uomo. Per rivolgere lo
sguardo della mente al piano trascendente bisogna abbandonare ogni attaccamento
al corporeo. Nel
Fedone è detto che l'anima deve cercare di
sfuggire il più possibile dal corpo: il vero filosofo desidera la morte e
la filosofia è definita un "esercizio di morte". L'elevazione
del pensiero al trascendente è anche possibile attraverso il sensibile e
attraverso ciò che esso lascia trasparire dell'intelligibile. È la
via dell'
eros, forza mediatrice fra uomo e divino per eccellenza,
illustrata da
P. nel
Simposio. Poiché, come è detto
nel
Fedro, l'Idea della Bellezza, contemplata dall'anima durante la sua
vita presso gli dei, è rimasta fra tutte particolarmente impressa, il suo
trasparire nel sensibile infiamma l'anima che è presa dal desiderio di
ritornare presso la sua sede originaria. E poiché il Bello per la cultura
greca coincide col Bene, o comunque è parte di esso,
eros è
forza che eleva al Bene. L'Amore ha varie tappe che portano a vari gradi di
Bene, e vero amante è colui che sa percorrerle tutte fino ad arrivare
all'idea di Bene in sé. Al grado più basso è l'amore
fisico, che è desiderio di possedere un corpo bello al fine di generare
nel bello; salendo nella scala troviamo l'amore spirituale, quello per le arti,
la giustizia, le leggi, le pure scienze. Alla sommità della scala
d'amore, c'è la visione del Bello in sé, dell'Assoluto. Altra
strada attraverso cui esercitare le facoltà dell'anima a elevarsi dal
sensibile è la matematica in quanto studio astratto, svincolato da ogni
uso pratico e sensibile. Il ragionamento geometrico-matematico infatti si serve
di figure sensibili; esse però non ne sono il vero oggetto, ma solo
l'immagine: pur servendosi di un quadrato disegnato il ragionamento si svolge
sul quadrato in sé. Le discipline geometrico-matematiche sono dunque
conoscenze concettuali, ma non sono ancora verità e scienza: esse infatti
partono da conoscenze non dimostrate, assunte come evidenti, e a partire da
queste costruiscono le loro dimostrazioni. Il sapere che ne deriva non è
quindi incontrovertibile, ma solo ipotetico. Il vero sapere, ciò che
costituisce scienza con carattere di stabilità e assolutezza, è
proprio solo di pochi uomini, i filosofi, e consiste nella
dialettica.
L'intelletto, abbandonato ogni retaggio sensibile, coglie le pure Idee con i
loro legami di partecipazione ed esclusione fino a risalire alla suprema idea.
Nel
Fedro i procedimenti della dialettica vengono così esposti:
"ricondurre ad un'unica forma ciò che è molteplice e
disseminato" (
sunagoghé) e "smembrare l'oggetto in
specie, seguendo le nervature naturali" (
diáiresis). La
dialettica non è altro che il cogliere, basandosi sull'intuizione
intellettuale, il mondo ideale nella sua struttura. ║
Arte e
retorica: la filosofia con
P. rivendica a sé un ruolo
totalizzante nella
paidéia (educazione) dell'uomo greco; si
completa così quel processo, iniziato fin dalla nascita della filosofia,
quando essa aveva confinato la spiegazione mitica del mondo al campo
dell'invenzione e dell'immaginazione. È in questo contesto che vanno
lette le critiche platoniche verso le due tradizionali forme di sapere e di
educazione della cultura antica: l'arte e, in primo luogo, la poesia, e la
retorica. L'opposizione platonica in entrambi i casi si basa sul valore di
verità di questi due presunti saperi, che risulta nullo in quanto essi
non rispettano la gerarchia dei valori della realtà.
P., nello
Ione, definisce la poesia una "divina follia", paragonandola a
un magnete in grado di attrarre l'animo umano. Ma appunto perché follia,
essa non si configura come conoscenza e manifestazione della verità e,
rivolgendosi alle forze passionali dell'uomo, si oppone al compito razionale
della filosofia. Celeberrima è la presa di posizione contenuta nel libro
X della
Repubblica: l'arte in quanto mira a imitare il mondo sensibile, a
sua volta imitazione di quello intelligibile, risulta imitazione di
un'imitazione, copia di terzo grado. Inoltre essa dà una rappresentazione
antropomorfica del divino, attribuendo a esso passioni indegne della natura
suprema. Essa quindi non disvela il vero all'uomo, né lo educa: gli
artisti perciò non meritano diritto di cittadinanza nello Stato ideale.
Analoga è la condanna verso la retorica, che pretende di persuadere senza
avere alla base nessuna reale conoscenza. La dialettica coltivata dai sofisti
è rivolta a persuadere per puro interesse pratico e non per amore della
ricerca della pura verità. Essa, ignorando i rapporti oggettivi fra le
Idee, sfocia così nell'eristica (da
erízo: contendo), arte
del convincere a ogni costo. ║
L'anima e il suo destino:
poiché l'anima umana può conoscere cose immutabili ed eterne, essa
deve avere una natura a loro affine; quindi, come l'oggetto della conoscenza (le
Idee) è immutabile ed eterno, così lo è anche l'anima.
Questa è in sintesi una delle tre dimostrazioni dell'immortalità
dell'anima contenute nel
Fedone.
P. introduce all'interno
dell'uomo quel dualismo che caratterizza l'intera sua concezione del reale.
L'anima è un brandello di divino intrappolato a causa di una colpa
originaria entro la materialità del corpo, che ne costituisce un vero e
proprio carcere. Non solo l'anima è immortale ma, come richiede la
dottrina della reminiscenza, essa preesiste alla sua unione con il corpo. Se
l'anima è immortale e divina e la vita terrena non è che uno stato
di prigionia, una volta riacquistata coscienza della sua origine e del suo
destino essa desidera ritornare presso la sua sede originaria. La morale
platonica assume, così, toni nettamente mistico ascetici di chiara
impronta orfico-pitagorica. Da essi, infatti,
P. riprende il concetto di
metempsicosi: ovvero la credenza che l'anima possa reincarnarsi,
attraversando diverse esistenze corporee, umane e animali. L'esito della
reincarnazione dipende dal comportamento morale dell'anima nella vita
precedente: più essa si attacca ai valori corporei, più basso,
nella gerarchia biologica, sarà l'essere cui è destinata a
reincarnarsi. Se invece esercita quelle facoltà che meglio corrispondono
alla sua natura divina, distaccandosi dal corpo, essa potrà tornare
all'originaria sede sopraceleste. Da qui l'importanza pratica della filosofia,
vista come metodo supremo di purificazione dell'anima. Il rigido dualismo del
Fedone viene successivamente mitigato da
P. che, per spiegare
l'interazione anima-corpo, introduce una tripartizione dell'anima, che porta al
suo interno elementi (sia pur subordinati) pratico-passionali, prima
esclusivamente confinati alla sfera corporea: agli impulsi vitali elementari
corrisponde un'anima appetitiva, alle passioni più nobili, quali il
coraggio, corrisponde un'anima irascibile e infine alla parte veramente divina
corrisponde l'anima intellettiva. Su tale tripartizione, che trova la sua
visualizzazione nel mito della biga alata del
Fedro, si baserà la
struttura dello Stato esposta nella
Repubblica. ║
Lo Stato:
la filosofia non ha per
P. una finalità meramente contemplativa o
riguardante esclusivamente il singolo; essa può e deve diventare la
struttura stessa della convivenza civile. L'interesse platonico per la
comunità politica, facendo spazio alla vita terrena e alle sue
necessità, viene quindi ad attenuare in parte il suo rigorismo ascetico,
e mostra la dimensione pratica della filosofia. Già nel
Gorgia
è evidente la tesi per cui vera filosofia e vera politica coincidono.
Nella
Repubblica,
P. traccia il quadro dello Stato ideale
basandosi sulla tripartizione dell'anima: lo Stato platonico è infatti
diviso nelle tre classi dei filosofi che, contemplando le Idee, lo dirigono; dei
guardiani, che lo difendono militarmente; degli artigiani, che ne assicurano la
sussistenza dal punto di vista economico-produttivo. Si ha perfetta coincidenza
fra le virtù che presiedono le tre parti dell'anima e le classi dello
Stato: sapienza, valore, temperanza; su tutte opera la giustizia che assicura
l'equilibrio fra le tre, portando l'ordine sia nella sfera politica sia in
quella morale. La perfezione dell'anima coincide quindi non con la negazione
ascetica delle passioni, quanto con la subordinazione delle facoltà
inferiori a quelle superiori. Analogamente nello Stato coloro che più
sono vicini alla verità devono governare gli altri. All'aristocrazia del
sangue
P. sostituisce un'aristocrazia del sapere, in grado di organizzare
la vita comune nel modo migliore sia per fini terreni sia ultraterreni. In
quanto portatore di valori assoluti, lo Stato platonico estenderà le sue
direttive e la sua organizzazione in tutti i settori, anche sulla
proprietà e la famiglia stabilendone l'abolizione. Su tali tematiche
P. tornerà in vecchiaia con maggior realismo nel
Politico e
nelle
Leggi. Qui, abbandonata l'utopia del governo dei filosofi, sostiene
non solo la necessità di una legislazione scritta per il buon
funzionamento dello Stato, ma si pronuncia anche a favore di una forma di
governo a metà fra democrazia e monarchia. ║
Il cosmo: il
mondo sensibile è immagine, copia di quello ideale.
P., nel
Timeo, spiega che tale rapporto è il risultato dell'azione di un
dio personale: il
Demiurgo (artefice) ha tratto il mondo dal caos,
forgiandolo secondo il modello del "Vivente in sé". Il Demiurgo
non crea dal nulla, ma trae il mondo da una sorta di materia prima,
assolutamente informe, la
chora; essa si configura come regno della
necessità, eternamente coesistente al mondo intelligibile e al Demiurgo.
Essendo la sfera la più perfetta delle figure geometriche, il mondo ha
forma sferica ed è dotato di moto circolare; esso si presenta come una
sorta di grande organismo dotato di anima e corpo. Il corpo è
rappresentato dai quattro elementi (terra, aria, acqua, fuoco) ai quali il
Demiurgo dà una struttura di carattere geometrico; quanto all'anima, che
abbraccia il tutto e lo vivifica, è forgiata secondo precisi rapporti
matematici. La nozione di un Dio personale, artefice del cosmo, e la concezione
di una struttura aritmo-geometrica della natura saranno elementi che avranno
molto seguito nelle forme di platonismo posteriori a
P. stesso. ║
Le dottrine non scritte:
P. ebbe sempre un atteggiamento critico
nei confronti della scrittura. Nel
Fedro sostiene che essa faciliti il
fraintendimento da parte del destinatario e sia intrinsecamente incapace di
esprimere le dottrine filosofiche più importanti. Coerentemente con
queste prese di posizione, nella
Lettera VII dichiara di non aver mai
messo per iscritto la sua vera dottrina. Diverse testimonianze indirette
(Aristotele, Alessandro di Afrodisia, Simplicio) sembrano avvalorare tale
affermazione, attestando l'esistenza di un
corpus dottrinale che
P. avrebbe esposto solo oralmente; particolarmente celebre sarebbe stata
una sua lezione
Sul bene, in cui
P. avrebbe indicato nei numeri i
principi di tutte le cose. Basandosi su questi dati, a partire dagli anni
Sessanta la Scuola di Tubinga ha indicato in questo insegnamento orale la vera
filosofia di
P. Secondo studiosi quali H.J. Krämer , K. Gaiser,
Th.A. Szlezàk, seguiti in Francia da P. Hadot e in Italia da G. Reale, il
significato profondo del pensiero platonico sarebbe da ricercare nelle dottrine
orali, rispetto alle quali i dialoghi sarebbero esclusivamente introduttivi. In
base a tale ricostruzione e reinterpretazione del pensiero platonico, esso
appare meno legato a quello di Socrate e più direttamente dipendente dal
pensiero presocratico e in modo particolare pitagorico:
P., infatti,
sarebbe giunto alla dottrina delle Idee partendo dal problema dei principi e non
da quello del concetto. Nelle sue dottrine orali, infatti,
P. avrebbe
concepito sia il mondo sensibile che quello intelligibile come il risultato
dell'azione di due principi supremi: l'
Uno e la
Diade. L'Uno,
identificantesi con il Bene, risulta principio di ordine e unità, mentre
la Diade corrisponde al disordine e alla molteplicità (Atene 428 o 427
a.C. - 348 o 347 a.C.).