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Platone.

Filosofo greco. Nacque in una delle più illustri casate ateniesi: la famiglia del padre vantava di discendere dal mitico re Codro, mentre quella della madre si ricollegava al grande legislatore Solone; lo zio Crizia era una delle figure di spicco dei Trenta Tiranni. Secondo la tradizione, gli fu inizialmente imposto il nome del nonno, Aristocle; quello di P. gli fu dato come soprannome più tardi, in ragione della sua corporatura robusta e in particolar modo delle spalle larghe (platús: largo). Come membro dell'aristocrazia ateniese, P. ricevette un'educazione prevalentemente artistica e letteraria (musica, pittura, poesia); sembra che egli stesso abbia scritto diverse opere poetiche e drammatiche che distrusse dopo aver conosciuto Socrate. Si accostò alla filosofia tramite l'insegnamento dell'eracliteo Cratilo (V.), ma l'incontro decisivo fu quello con Socrate (408-407 a.C.), di cui fu per circa un decennio uno dei più stretti discepoli. Dopo l'incriminazione del maestro, fu tra quanti misero a disposizione i propri beni nel caso egli fosse stato condannato a una multa. Alla morte di Socrate (399 a.C.), andò esule con altri discepoli a Megara, presso Euclide. Secondo alcuni biografi, poco dopo avrebbe intrapreso un viaggio in Egitto, dove sarebbe entrato in contatto con i sacerdoti, acquisendone le conoscenze misterico-religiose. Tale tradizione, chiaramente ispirata dal desiderio di legare il pensiero greco a fonti orientali, in realtà è assai dubbia; si dice anche che durante un soggiorno a Cirene P. avrebbe conosciuto il matematico Teodoro. Certo è che P. fu in Atene fra il 391 e il 388 a.C., anno in cui intraprese un viaggio in Italia meridionale; a Taranto ebbe contatti con lo statista pitagorico Archita e, a Siracusa, si legò con Dione, parente del tiranno Dionigi I. Con l'aiuto di Dione, P. sperò di poter realizzare in Sicilia gli ideali etico-politici legati alla sua dottrina filosofica; ma l'ostilità del tiranno troncò sul nascere ogni sperimentazione: P. fu incarcerato e venduto come schiavo a Egina, dove fu riscattato da un certo Anniceride. Tornato ad Atene nel 387 a.C., vi fondò quella comunità, avente insieme tratti di scuola filosofica e di comunità religiosa che, avendo sede nel ginnasio dedicato all'eroe Academo, prese il nome di Accademia. Per i seguenti 20 anni P. si dedicò interamente alla scuola, approfondendo e rielaborando in modo del tutto originale gli insegnamenti socratici. Da sottolineare come, finché fu vivo P., la ricerca all'interno dell'Accademia fu sempre liberissima e svincolata da quel dogmatismo che si impose solo dopo la sua morte. Nel 367 a.C. P. tornò a Siracusa; morto Dionigi I, gli era succeduto il figlio Dionigi II che in un primo momento sembrò mostrare un grande interesse per le dottrine del filosofo e appoggiarne la realizzazione pratica. Intrighi e opposizioni di corte, tuttavia, fecero fallire anche questo tentativo: Dione fu esiliato e P. stesso venne trattenuto come prigioniero fino al 365 a.C. P. fu di nuovo in Atene dal 365 al 361 a.C., quando intraprese il terzo e ultimo viaggio in Sicilia. Nel tentativo di riconciliare Dione con Dionigi II, rischiò la sua stessa vita e solo l'intervento di Archita gli permise di tornare in patria. ║ Le opere. Forma, problemi di autenticità e cronologia: il corpus delle opere platoniche è formato dall'Apologia di Socrate, 34 Dialoghi e 13 Lettere. La scelta della forma dialogica per quasi tutti gli scritti (tranne l'Apologia e le Lettere) va ricondotta alla critica platonica nei confronti dello scritto, giudicato spesso incapace di comunicare la sapienza. Il dialogo, nella sua forma orale e, sia pure in minor misura in quella scritta, rispecchia meglio la natura del pensiero, concepito come colloquio dell'anima con se stessa, nonché l'andamento del metodo maieutico socratico (V. MAIEUTICA) mutuato e rielaborato da P. Alcune delle opere tramandate sotto il nome di P. furono giudicate spurie già nell'antichità (Erissia, Alcione, Sisifo, Assioco, Demodoco, Del giusto, Delle virtù, Epinomide) e quindi escluse dalla sistemazione data agli scritti platonici dal grammatico Trasillo (I sec.): egli suddivise i 36 titoli ritenuti autentici in nove tetralogie in base ad approssimativi criteri contenutistici; è questo l'ordinamento tuttora seguito dalle edizioni critiche: 1) Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone; 2) Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico; 3) Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro; 4) Alcibiade primo e secondo, Ipparco, Amanti; 5) Teagete, Carmide, Lachete, Liside; 6) Eutidemo, Protagora, Gorgia, Memone; 7) Ippia maggiore e minore, Ione, Menesseno; 8) Clitofonte, Repubblica, Timeo, Crizia; 9) Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere. La critica moderna ha molto discusso sull'autenticità delle Lettere, giudicando generalmente autentiche solo la VII e l'VIII. Riguardo ai dialoghi, vengono ritenuti spuri Alcibiade primo, Teagete, Clitofonte e Minosse. I problemi di cronologia, particolarmente rilevanti per un pensiero come quello platonico in continua evoluzione, sono stati risolti, oltre che sulla base di criteri contenutistici o di riferimenti interni a eventi storici, con il metodo "stilometrico". Il primo passo è stato quello di individuare nelle Leggi, ultimo scritto platonico secondo la testimonianza di Aristotele, una serie di tratti stilistici caratterizzanti (iato, particelle, stilemi, ecc.). Dall'esame della presenza o meno di tali parametri negli altri scritti si è ricavata, con buona approssimazione, la collocazione temporale di essi. La periodizzazione generalmente accettata, pur con qualche differenza, è la seguente: 1) Scritti giovanili o socratici (396-388 circa): Apologia di Socrate, Critone, Ipparco, Ippia minore, Alcibiade primo, Protagora, Eutifrone, Liside, Carmide, Lachete, Ippia maggiore, Ione, Menesseno. In essi P. riproduce, in maniera pressoché fedele, il metodo d'insegnamento socratico, mostrando la problematicità di ciò che in apparenza è dato come conosciuto. 2) Dialoghi della maturità (scritti fra il primo e il secondo viaggio in Sicilia): Gorgia, Menone, Eutidemo, Cratilo, Repubblica, Fedone, Simposio, Fedro. In questa fase si fa sempre più forte la polemica antisofistica e insieme giunge a compimento la teoria delle Idee. 3) Dialoghi della vecchiaia: Teeteto, Parmenide, Sofista, Politico, Filebo, Timeo, Crizia, le Leggi e le Lettere. Questa fase è caratterizzata da un ripensamento critico delle dottrine in precedenza elaborate per risolvere problematiche rimaste ancora aperte. Socrate, protagonista di tutte le altre opere, appare qui più raramente e, quando appare, figura chiaramente come personaggio, portavoce e interprete di dottrine altrui. ║ Dai dialoghi socratici all'elaborazione della dottrina delle idee: il pensiero platonico non è costituito da un rigido sistema monolitico, quanto da un insieme di problemi, gnoseologici, metafisici ed etici, sviluppatosi gradualmente e gradualmente modificatosi. Nei primi dialoghi, definiti dalla critica "aporetici" (in quanto non si giunge mai a una conclusione definitiva), P. è ancora pienamente impegnato ad approfondire le problematiche socratiche: identità fra virtù e scienza, insegnabilità della virtù, carattere attrattivo della virtù sulla volontà, che si configura quindi come un premio in se stessa (eudemonismo), intellettualismo etico. Il fulcro dell'indagine è quindi esclusivamente di carattere morale; lo scopo è di determinare intelligibilmente il "che cos'è" la cosa o la qualità in questione: l'Eutidemo tratta della pietà, il Liside dell'amicizia, il Carmide della saggezza, il Lachete del coraggio, l'Ippia minore della veracità. È proprio attraverso l'approfondimento del pensiero socratico che P. viene a trovarsi di fronte al problema della conciliazione fra esperienza e ragione. I valori (bene, giustizia, virtù, ecc.) oggetto della ricerca socratica non possono avere quei caratteri di stabilità e universalità loro richiesti, se non vengono concepiti con tratti diversi da quelli del fenomenico. Eraclito e i sofisti avevano infatti messo in luce il perenne mutamento del mondo sensibile e la relatività della sensazione da individuo a individuo. Sulla base di questi assunti o si nega la possibilità di una vera conoscenza, cadendo nello scetticismo, oppure si deve individuare l'oggetto della conoscenza e il suo organo in qualcosa di diverso dai sensibili e dai sensi. Infatti, anche il concetto socratico non può sussistere solo nel pensiero del singolo individuo senza assumere quei caratteri di transitorietà, relatività e caducità, propri di ogni esperienza individuale. Esso deve invece valere universalmente per tutti, esistendo in una sfera assoluta di realtà. Ecco dunque l'emergere di un nuovo concetto di scienza come conoscenza di verità eterne e universali. Ma il problema e la risposta non riguardano solo il campo etico, cui si era attenuto Socrate; i concetti universali sono ugualmente necessari per orientarsi nel mondo della natura. La ricerca platonica porta quindi all'individuazione di due piani dell'essere: uno fenomenico e visibile, l'altro metafenomenico e invisibile, puramente intelligibile che costituisce l'oggetto vero della conoscenza, ovvero le Idee. In tal modo P. accetta e supera il relativismo protagoreo e la dottrina eraclitea del perenne divenire, che vengono confinate al solo mondo sensibile. ║ Struttura del mondo ideale: le Idee platoniche non sono dunque semplici entità mentali, ma il vero essere, ciò che il pensiero pensa una volta che si sia liberato dalla gabbia del sensibile. Esse non sono altro, quindi, che l'essenza delle cose, ciò che fa sì che ciascuna cosa sia quel è; sono norma e modello del sensibile. Il mondo delle Idee, indicato nel Fedro con il nome di iperuranio, è costituito da una molteplicità, in quanto vi sono Idee di tutte le cose: non solo delle varie realtà corporee, ma anche dei valori, di enti matematici, ecc. Ciascuna di esse è concepita con i caratteri propri dell'essere eleatico: immutabilità, incorruttibilità, eternità. Il mondo delle Idee è quindi il mondo dell'essere, mentre quello sensibile, caratterizzato da transitorietà, mutabilità e contingenza non è altro che sintesi fra essere e non essere. Il rapporto fra i due mondi viene concepito tramite i concetti di metessi (partecipazione) e di mimesi (imitazione): i sensibili hanno tanto essere quanto viene loro partecipato dalle Idee, e queste risultano rispetto ad essi modelli. Le Idee possiedono rispetto alle cose fenomeniche un carattere di universalità, per cui ciascuna di esse si riferisce a una molteplicità di cose singole, ma anche fra le Idee vi sono quelle più o meno universali a seconda della quantità di determinazioni che contengono: esiste quindi una gerarchia che va dall'Idea più universale, più estesa e nello stesso tempo dotata di minor comprensione (ovvero meno determinazioni particolari), fino ad arrivare a Idee di estensione sempre minore e comprensione maggiore. In questo quadro rimangono ancora aperti due problemi sollevati dall'eleatismo: come possano esistere i molti e come possa esistere il non essere. Nel Parmenide P. mostra come l'unità non possa venir pensata in maniera assoluta, a prescindere dalla molteplicità; nel Sofista il problema della molteplicità trova ulteriore chiarificazione tramite la discussione sul non essere: Parmenide aveva sì ragione nel ritenere non esistente il non essere inteso come negazione assoluta dell'essere, ma ciò che egli non aveva messo in conto, e che esiste, è il non essere come diversità o alterità. Ogni Idea, per essere ciò che è, deve essere diversa da ogni altra, deve non essere ogni altra; ogni Idea perciò ha in sé una data dose di essere, ma anche un infinito non essere. Inoltre P. ammette una sorta di quiete e movimento nel mondo ideale: ciascuna Idea è in maniera immobile se stessa, ma è anche in dinamico movimento verso le altre, in quanto partecipa di altre o ne esclude ogni partecipazione. Il mondo ideale si configura quindi come una struttura gerarchicamente organizzata in cui le Idee inferiori implicano quelle superiori, fino al sommo della gerarchia che nella Repubblica viene individuato chiaramente nell'Idea di Bene. ║ La dottrina della conoscenza: una prima chiara risposta al problema della conoscenza si trova nel Menone, dove P., in chiara polemica con gli eristi, che avevano sostenuto l'impossibilità del conoscere, formula per la prima volta la dottrina della reminiscenza: la conoscenza è anamnesi, ossia il riaffiorare alla memoria di qualcosa che esiste da sempre nell'anima. Attraverso varie domande, Socrate riesce a far sì che uno schiavo, del tutto ignaro di geometria, pervenga alla formulazione del teorema di Pitagora. Ciò è possibile, perché l'anima dell'uomo è pervenuta alla conoscenza della verità in una vita precedente e può quindi ricordarla. Argomentazione che viene anche suffragata dall'esposizione del mito orfico dell'immortalità dell'anima e della metempsicosi. Un'ulteriore prova della reminiscenza P. l'ha fornita nel Fedone rifacendosi alle conoscenze matematiche: poiché tutti i dati che l'esperienza ci fornisce non si adattano mai in modo perfetto alle nozioni che noi abbiamo di uguaglianza, o di quadrato o di cerchio, ecc. dobbiamo ammettere che fra le nostre conoscenze e i dati dell'esperienza esista un dislivello. I sensi ci danno solo conoscenze imperfette ed è la nostra mente che di fronte a questi dati, scavando dentro di sé, ritrova le corrispondenti nozioni perfette. Lo stesso ragionamento è ripetibile, secondo P. per le varie nozioni estetiche ed etiche (bello, giusto, buono, ecc.). La reminiscenza, mostrando che nella nostra anima è presente un'intuizione originaria del vero, spiega la possibilità della conoscenza, ma non spiega ancora tappe della conoscenza e il modo attraverso cui arrivare ad essa. Il presupposto di tutta la gnoseologia platonica è che la conoscenza sia proporzionale all'essere: ai diversi gradi dell'essere corrispondono quindi altrettanti gradi di intelligibilità e di conoscenza. La realtà fenomenica, in quanto intermedia fra essere e non essere, sarà oggetto di una conoscenza a sua volta mediana fra scienza e assoluta ignoranza (che riguarda propriamente il non essere). La maggior parte delle persone si ferma a questa forma di conoscenza: ignorano il bello in sé, il buono in sé e tutte le altre Idee, e si limitano a conoscere cose belle o cose buone; senza esserne consapevoli conoscono solo l'immagine del vero essere, e quindi vivono secondo P. come in un sogno. Questa forma di conoscenza che ritiene le immagini la vera realtà viene chiamata da P. opinione (doxa). Nella Repubblica, P. specifica ulteriormente che tanto l'opinione quanto la scienza (epistéme) hanno ciascuna due gradi: l'opinione si divide in immaginazione (eikasía), che riguarda le immagini sensibili delle cose, e credenza (pístis), che si riferisce alle cose sensibili stesse; mentre la scienza si suddivide in conoscenza mediana (diánoia), che riguarda gli enti matematici, e in pura intellezione (nóesis), ovvero il contatto puro con le Idee. Il passaggio dall'opinione alla scienza, dall'apparenza di sapere al sapere, viene presentato da P. come un processo di conversione (periagogé): si tratta di liberare il pensiero dal flusso incessante del fenomenico e dargli modo di fissarsi sull'essere. Diverse sono le strade indicate da P. per operare tale conversione. Il primo passo è di tipo negativo e già indicato da Socrate: bisogna sgomberare l'animo da false credenze legate alla presunzione di sapere e alla sensibilità. Nei primi dialoghi viene anche enfatizzata la via mistica, legata alla concezione dualistica del reale e dell'uomo. Per rivolgere lo sguardo della mente al piano trascendente bisogna abbandonare ogni attaccamento al corporeo. Nel Fedone è detto che l'anima deve cercare di sfuggire il più possibile dal corpo: il vero filosofo desidera la morte e la filosofia è definita un "esercizio di morte". L'elevazione del pensiero al trascendente è anche possibile attraverso il sensibile e attraverso ciò che esso lascia trasparire dell'intelligibile. È la via dell'eros, forza mediatrice fra uomo e divino per eccellenza, illustrata da P. nel Simposio. Poiché, come è detto nel Fedro, l'Idea della Bellezza, contemplata dall'anima durante la sua vita presso gli dei, è rimasta fra tutte particolarmente impressa, il suo trasparire nel sensibile infiamma l'anima che è presa dal desiderio di ritornare presso la sua sede originaria. E poiché il Bello per la cultura greca coincide col Bene, o comunque è parte di esso, eros è forza che eleva al Bene. L'Amore ha varie tappe che portano a vari gradi di Bene, e vero amante è colui che sa percorrerle tutte fino ad arrivare all'idea di Bene in sé. Al grado più basso è l'amore fisico, che è desiderio di possedere un corpo bello al fine di generare nel bello; salendo nella scala troviamo l'amore spirituale, quello per le arti, la giustizia, le leggi, le pure scienze. Alla sommità della scala d'amore, c'è la visione del Bello in sé, dell'Assoluto. Altra strada attraverso cui esercitare le facoltà dell'anima a elevarsi dal sensibile è la matematica in quanto studio astratto, svincolato da ogni uso pratico e sensibile. Il ragionamento geometrico-matematico infatti si serve di figure sensibili; esse però non ne sono il vero oggetto, ma solo l'immagine: pur servendosi di un quadrato disegnato il ragionamento si svolge sul quadrato in sé. Le discipline geometrico-matematiche sono dunque conoscenze concettuali, ma non sono ancora verità e scienza: esse infatti partono da conoscenze non dimostrate, assunte come evidenti, e a partire da queste costruiscono le loro dimostrazioni. Il sapere che ne deriva non è quindi incontrovertibile, ma solo ipotetico. Il vero sapere, ciò che costituisce scienza con carattere di stabilità e assolutezza, è proprio solo di pochi uomini, i filosofi, e consiste nella dialettica. L'intelletto, abbandonato ogni retaggio sensibile, coglie le pure Idee con i loro legami di partecipazione ed esclusione fino a risalire alla suprema idea. Nel Fedro i procedimenti della dialettica vengono così esposti: "ricondurre ad un'unica forma ciò che è molteplice e disseminato" (sunagoghé) e "smembrare l'oggetto in specie, seguendo le nervature naturali" (diáiresis). La dialettica non è altro che il cogliere, basandosi sull'intuizione intellettuale, il mondo ideale nella sua struttura. ║ Arte e retorica: la filosofia con P. rivendica a sé un ruolo totalizzante nella paidéia (educazione) dell'uomo greco; si completa così quel processo, iniziato fin dalla nascita della filosofia, quando essa aveva confinato la spiegazione mitica del mondo al campo dell'invenzione e dell'immaginazione. È in questo contesto che vanno lette le critiche platoniche verso le due tradizionali forme di sapere e di educazione della cultura antica: l'arte e, in primo luogo, la poesia, e la retorica. L'opposizione platonica in entrambi i casi si basa sul valore di verità di questi due presunti saperi, che risulta nullo in quanto essi non rispettano la gerarchia dei valori della realtà. P., nello Ione, definisce la poesia una "divina follia", paragonandola a un magnete in grado di attrarre l'animo umano. Ma appunto perché follia, essa non si configura come conoscenza e manifestazione della verità e, rivolgendosi alle forze passionali dell'uomo, si oppone al compito razionale della filosofia. Celeberrima è la presa di posizione contenuta nel libro X della Repubblica: l'arte in quanto mira a imitare il mondo sensibile, a sua volta imitazione di quello intelligibile, risulta imitazione di un'imitazione, copia di terzo grado. Inoltre essa dà una rappresentazione antropomorfica del divino, attribuendo a esso passioni indegne della natura suprema. Essa quindi non disvela il vero all'uomo, né lo educa: gli artisti perciò non meritano diritto di cittadinanza nello Stato ideale. Analoga è la condanna verso la retorica, che pretende di persuadere senza avere alla base nessuna reale conoscenza. La dialettica coltivata dai sofisti è rivolta a persuadere per puro interesse pratico e non per amore della ricerca della pura verità. Essa, ignorando i rapporti oggettivi fra le Idee, sfocia così nell'eristica (da erízo: contendo), arte del convincere a ogni costo. ║ L'anima e il suo destino: poiché l'anima umana può conoscere cose immutabili ed eterne, essa deve avere una natura a loro affine; quindi, come l'oggetto della conoscenza (le Idee) è immutabile ed eterno, così lo è anche l'anima. Questa è in sintesi una delle tre dimostrazioni dell'immortalità dell'anima contenute nel Fedone. P. introduce all'interno dell'uomo quel dualismo che caratterizza l'intera sua concezione del reale. L'anima è un brandello di divino intrappolato a causa di una colpa originaria entro la materialità del corpo, che ne costituisce un vero e proprio carcere. Non solo l'anima è immortale ma, come richiede la dottrina della reminiscenza, essa preesiste alla sua unione con il corpo. Se l'anima è immortale e divina e la vita terrena non è che uno stato di prigionia, una volta riacquistata coscienza della sua origine e del suo destino essa desidera ritornare presso la sua sede originaria. La morale platonica assume, così, toni nettamente mistico ascetici di chiara impronta orfico-pitagorica. Da essi, infatti, P. riprende il concetto di metempsicosi: ovvero la credenza che l'anima possa reincarnarsi, attraversando diverse esistenze corporee, umane e animali. L'esito della reincarnazione dipende dal comportamento morale dell'anima nella vita precedente: più essa si attacca ai valori corporei, più basso, nella gerarchia biologica, sarà l'essere cui è destinata a reincarnarsi. Se invece esercita quelle facoltà che meglio corrispondono alla sua natura divina, distaccandosi dal corpo, essa potrà tornare all'originaria sede sopraceleste. Da qui l'importanza pratica della filosofia, vista come metodo supremo di purificazione dell'anima. Il rigido dualismo del Fedone viene successivamente mitigato da P. che, per spiegare l'interazione anima-corpo, introduce una tripartizione dell'anima, che porta al suo interno elementi (sia pur subordinati) pratico-passionali, prima esclusivamente confinati alla sfera corporea: agli impulsi vitali elementari corrisponde un'anima appetitiva, alle passioni più nobili, quali il coraggio, corrisponde un'anima irascibile e infine alla parte veramente divina corrisponde l'anima intellettiva. Su tale tripartizione, che trova la sua visualizzazione nel mito della biga alata del Fedro, si baserà la struttura dello Stato esposta nella Repubblica. ║ Lo Stato: la filosofia non ha per P. una finalità meramente contemplativa o riguardante esclusivamente il singolo; essa può e deve diventare la struttura stessa della convivenza civile. L'interesse platonico per la comunità politica, facendo spazio alla vita terrena e alle sue necessità, viene quindi ad attenuare in parte il suo rigorismo ascetico, e mostra la dimensione pratica della filosofia. Già nel Gorgia è evidente la tesi per cui vera filosofia e vera politica coincidono. Nella Repubblica, P. traccia il quadro dello Stato ideale basandosi sulla tripartizione dell'anima: lo Stato platonico è infatti diviso nelle tre classi dei filosofi che, contemplando le Idee, lo dirigono; dei guardiani, che lo difendono militarmente; degli artigiani, che ne assicurano la sussistenza dal punto di vista economico-produttivo. Si ha perfetta coincidenza fra le virtù che presiedono le tre parti dell'anima e le classi dello Stato: sapienza, valore, temperanza; su tutte opera la giustizia che assicura l'equilibrio fra le tre, portando l'ordine sia nella sfera politica sia in quella morale. La perfezione dell'anima coincide quindi non con la negazione ascetica delle passioni, quanto con la subordinazione delle facoltà inferiori a quelle superiori. Analogamente nello Stato coloro che più sono vicini alla verità devono governare gli altri. All'aristocrazia del sangue P. sostituisce un'aristocrazia del sapere, in grado di organizzare la vita comune nel modo migliore sia per fini terreni sia ultraterreni. In quanto portatore di valori assoluti, lo Stato platonico estenderà le sue direttive e la sua organizzazione in tutti i settori, anche sulla proprietà e la famiglia stabilendone l'abolizione. Su tali tematiche P. tornerà in vecchiaia con maggior realismo nel Politico e nelle Leggi. Qui, abbandonata l'utopia del governo dei filosofi, sostiene non solo la necessità di una legislazione scritta per il buon funzionamento dello Stato, ma si pronuncia anche a favore di una forma di governo a metà fra democrazia e monarchia. ║ Il cosmo: il mondo sensibile è immagine, copia di quello ideale. P., nel Timeo, spiega che tale rapporto è il risultato dell'azione di un dio personale: il Demiurgo (artefice) ha tratto il mondo dal caos, forgiandolo secondo il modello del "Vivente in sé". Il Demiurgo non crea dal nulla, ma trae il mondo da una sorta di materia prima, assolutamente informe, la chora; essa si configura come regno della necessità, eternamente coesistente al mondo intelligibile e al Demiurgo. Essendo la sfera la più perfetta delle figure geometriche, il mondo ha forma sferica ed è dotato di moto circolare; esso si presenta come una sorta di grande organismo dotato di anima e corpo. Il corpo è rappresentato dai quattro elementi (terra, aria, acqua, fuoco) ai quali il Demiurgo dà una struttura di carattere geometrico; quanto all'anima, che abbraccia il tutto e lo vivifica, è forgiata secondo precisi rapporti matematici. La nozione di un Dio personale, artefice del cosmo, e la concezione di una struttura aritmo-geometrica della natura saranno elementi che avranno molto seguito nelle forme di platonismo posteriori a P. stesso. ║ Le dottrine non scritte: P. ebbe sempre un atteggiamento critico nei confronti della scrittura. Nel Fedro sostiene che essa faciliti il fraintendimento da parte del destinatario e sia intrinsecamente incapace di esprimere le dottrine filosofiche più importanti. Coerentemente con queste prese di posizione, nella Lettera VII dichiara di non aver mai messo per iscritto la sua vera dottrina. Diverse testimonianze indirette (Aristotele, Alessandro di Afrodisia, Simplicio) sembrano avvalorare tale affermazione, attestando l'esistenza di un corpus dottrinale che P. avrebbe esposto solo oralmente; particolarmente celebre sarebbe stata una sua lezione Sul bene, in cui P. avrebbe indicato nei numeri i principi di tutte le cose. Basandosi su questi dati, a partire dagli anni Sessanta la Scuola di Tubinga ha indicato in questo insegnamento orale la vera filosofia di P. Secondo studiosi quali H.J. Krämer , K. Gaiser, Th.A. Szlezàk, seguiti in Francia da P. Hadot e in Italia da G. Reale, il significato profondo del pensiero platonico sarebbe da ricercare nelle dottrine orali, rispetto alle quali i dialoghi sarebbero esclusivamente introduttivi. In base a tale ricostruzione e reinterpretazione del pensiero platonico, esso appare meno legato a quello di Socrate e più direttamente dipendente dal pensiero presocratico e in modo particolare pitagorico: P., infatti, sarebbe giunto alla dottrina delle Idee partendo dal problema dei principi e non da quello del concetto. Nelle sue dottrine orali, infatti, P. avrebbe concepito sia il mondo sensibile che quello intelligibile come il risultato dell'azione di due principi supremi: l'Uno e la Diade. L'Uno, identificantesi con il Bene, risulta principio di ordine e unità, mentre la Diade corrisponde al disordine e alla molteplicità (Atene 428 o 427 a.C. - 348 o 347 a.C.).