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Pessimismo.

(da pessimo). Termine di origine moderna, usato per la prima volta da S.T. Coleridge in una sua lettera del 1795, per indicare in genere lo stato peggiore delle cose. Ebbe in Inghilterra notevole diffusione, per lo più con valore soggettivo, senza una reale connotazione psicologica o filosofica. • Psicol. - Disposizione psicologica o stato d'animo che induce a considerare cose, persone, eventi nel loro aspetto peggiore, a concepire il mondo e la vita come fondamentalmente negativi. Può essere considerata una sorta di scontentezza cronica nonché una forma nevrotica o caratteriale; intesa quale sopravvalutazione degli ostacoli, è una delle componenti dello stato depressivo. • Filos. - Dottrina filosofica che considera pessima ogni cosa: tutto è male e il mondo è il peggiore dei mondi possibili. Si oppone, perciò, alla concezione ottimistica leibniziana, per la quale, al contrario, il mondo attualmente esistente è il migliore dei mondi possibili, in quanto anche le imperfezioni rispondono a una finalità complessiva. Il filosofo che maggiormente contribuì a dare del termine p. una connotazione filosofica, fu A. Schopenhauer. Tuttavia il p. filosofico inteso come valutazione negativa sia del mondo terreno (p. empirico) sia della realtà tutta (p. metafisico), sia della natura dell'uomo, fondamentalmente egoistica (p. morale), sia della sua effettiva possibilità conoscitiva (p. gnoseologico), percorre tutta la storia della filosofia. ║ Nell'antichità un esempio di p. filosofico è quello elaborato all'interno della scuola cirenaica (IV sec. a.C.): Egesia di Cirene converte l'edonismo in p., al punto da asserire che, poiché il piacere, fine ultimo della vita, è impossibile da raggiungere, la vita vale quanto la morte, in quanto inevitabilmente dolorosa. Tipica dell'antichità greco-romana, è una forma di p. empirico, basata su un sistema etico-religioso tendenzialmente dualistico in cui il male si contrappone al bene, il mondo inferiore, identificato con il sensibile e razionale, si contrappone a un mondo superiore, intuito o misticamente intravisto, ma unica vera realtà: è questa la posizione platonica e aristotelica, ma anche manichea e gnostica. Nella tarda antichità, in Occidente, si reagisce a tali concezioni con l'affermarsi di una tendenza monistica che ha sempre carattere ottimistico, in quanto riafferma l'unità di tutta la realtà. Pertanto il Cristianesimo, per quanto pessimistico nella sua esperienza della realtà terrena, è fondamentalmente ottimistico nella sua concezione della realtà trascendente: anche nel Medioevo, dunque, permane il p. empirico. Nel Rinascimento, come già nell'antichità, l'edonismo, risorto come richiamo ai valori terreni, finisce con il congiungersi al p. e allo scetticismo. Ma il problema metafisico è posto nel XVIII sec. da I. Kant: l'ottimismo illuministico di tipo leibniziano inizia a vacillare proprio nella stessa morale kantiana, per la quale si riconosce che istintivamente l'uomo tende a violare la legge morale, cioè tende al male, e tuttavia la legge morale deve avere un senso, per il fatto stesso che esiste nella coscienza, ossia è comunque data la possibilità che l'uomo le corrisponda perfettamente. Il problema è ripreso da F.W. Schelling nel suo Ricerche filosofiche sull'essenza della libertà umana (1809): anche Dio è dotato di una natura, ossia di un fondamento oscuro, abissale e caotico, e solo nel suo superamento diventa veramente libero e personale, cioè diventa Dio. Il male, quindi, è necessario perché Dio si manifesti come tale superandolo nella creazione, la vera manifestazione dello spirito e dell'amore divino; ma tale superamento non implica la scomparsa definitiva del male ma, al contrario, comporta anche nell'uomo, discendente divino, la tendenza al male, al caos, per quanto altrettanto superabile nella continua tensione creativa. Il p. metafisico è definitivamente definito in A. Schopenhauer: se la creazione schellinghiana è una reazione a una natura cieca e oscura, allora la realtà tutta deriva da tale potenza irrequieta e instabile, perennemente insoddisfatta, la volontà. Infatti l'essenza delle cose è il bisogno, ossia quello stato di incompletezza e di irrequietezza che cerca costantemente di colmarsi, ricadendo in una continua insoddisfazione: tale stato di bisogno è doloroso, perciò la vita stessa è fonte inesauribile di dolore e inestinguibile è la volontà di vivere. Il dolore può essere superato solo con la riduzione o la negazione del bisogno attraverso una vita ascetica. Tale concezioni furono influenzate dalla diffusione in Occidente del Buddhismo e in genere della filosofia indiana, che fin dall'epoca vedica aveva posto il problema del male e del suo possibile superamento o liberazione (V. MOKSA). La filosofia del XX sec. ha particolarmente insistito sul problema della condizione umana, mettendone spesso in evidenza i lati negativi con toni sconsolati; basti ricordare E. Hartmann, M. Heidegger, K. Jaspers, J.-P. Sartre, A. Camus. Le filosofie esistenziali, intimistiche, ritenendo insuperabile l'estraneazione dell'uomo nella società, ricercano nella profondità dell'Io il superamento dell'estraneazione. A proposito delle filosofie che tendono a proporre all'uomo di ripiegarsi nella propria intimità, al di fuori della storia e della vita associata, R. Cantoni osserva (Umano e Disumano, 1958) che elemento comune a tutte le forme di comportamento evasivo è un giudizio pessimistico nei confronti della realtà, considerata brutta, triste, mortificante, penosa, colpevole, per cui occorre evitarla o neutralizzarla. Questa filosofia si contrappone perciò all'Umanesimo.