PERCHÉ IN GRECIA?
Perché la
tradizione della ricerca filosofica è nata proprio in Grecia? È
una di quelle domande che non si può fare a meno di porsi, ma che non
hanno risposte precise, perché gli elementi di conoscenza di cui
disponiamo sono del tutto inadeguati alla complessità del problema. A
proposito della Grecia antica vale comunque la pena di osservare che le sue
peculiarità non si esauriscono nella nascita e nell'affermazione di una
mentalità razionale. Nel quadro generale delle civiltà antiche il
mondo greco, che comprendeva, oltre alla Grecia propriamente detta, le colonie
dell'Asia Minore (la Ionia) e quelle dell'Italia meridionale e della Sicilia (la
Magna Grecia), rappresentava un'eccezione sotto diversi punti di
vista.
Così, ad esempio, in campo politico, mentre l'Egitto e i
grandi imperi della Mesopotamia e della Persia erano amministrati da monarchie
accentratrici a carattere dispotico e sacro, il mondo greco, a partire dal IX o
dall'VIII secolo a.C., si era organizzato in una serie numerosa di
città-stato indipendenti (poleis), nelle quali i cittadini (o almeno una
parte di loro) avevano la possibilità di partecipare al Governo. Ne era
scaturita una varietà di regimi politici, che si sarebbe infine risolta
nella classica opposizione tra il modello democratico, prevalente in Atene e
nella Ionia, e quello aristocratico, che invece prevaleva in Sparta e nella
Magna Grecia.
Anche la cultura partecipava di questo particolare clima.
Mentre nel mondo orientale il sapere era monopolio delle caste sacerdotali,
chiuso nei templi, lontano dai sudditi, in Grecia, dove non esisteva una vera e
propria casta sacerdotale, si discuteva pubblicamente nelle piazze di arte, di
scienza e persino di religione.
A partire dal VII secolo a.C.
l'introduzione della scrittura alfabetica, relativamente semplice da apprendere,
aveva facilitato la diffusione e la socializzazione del sapere, e nel V secolo
in Atene gli scritti dei filosofi si potevano acquistare al mercato. La
circolazione di testi scritti era per forza di cose limitata, ma c'erano altri e
anche più efficaci canali di trasmissione delle idee, e in primo luogo la
recitazione e la rappresentazione delle opere di poeti e drammaturghi,
interpreti riconosciuti degli interessi, delle preoccupazioni e dei conflitti
delle comunità cittadine.
DIOGENE LAERZIO
Degli scritti dei filosofi presocratici ci
sono rimasti solo alcuni frammenti. Quel che conosciamo del loro pensiero deriva
in gran parte da testimonianze indirette e talvolta successive di parecchi
secoli. Tra queste fonti indirette la più importante è
probabilmente quella di Diogene Laerzio, uno scrittore greco del III secolo
a.C., che compilò una Raccolta delle vile e delle opinioni dei filosofi
dalle origini ai suoi tempi, che raccoglie una massa ingente di notizie relative
a un'ottantina di pensatori. L'opera ebbe larga fortuna durante il Rinascimento.
Gli studiosi moderni hanno generalmente espresso giudizi severi sulle
capacità critiche di Diogene Laerzio.
Nessuno però può
contestare il valore e il fascino della sua raccolta, che gran parte risiede
proprio nel fatto che l'autore, mostrandosi poco selettivo nei confronti delle
sue fonti di informazione, ha accolto una gran quantità di aneddoti e di
leggende che se non dicono molto sulle figure storiche dei filosofi, dicono
però moltissimo sull'immagine che di loro si erano fatti i posteri (e che
è ugualmente importante nella storia della cultura
occidentale).
LA SCUOLA IONICA
La più antica riflessione filosofica
di cui si abbia notizia si sviluppò agli inizi del VI secolo a.C. a
Mileto, la principale città della Ionia, la regione dell'Asia Minore
colonizzata da Greci di stirpe ionica, che fu centro di intensi scambi culturali
con le civiltà del Vicino Oriente.
Ai primi filosofi di Mileto,
Talete, Anassimandro e Anassimene, si dà tradizionalmente il nome di
«scuola ionica», anche se è difficile dire se e in quale misura
siano stati legati davvero da un rapporto di scuola. Il loro pensiero presenta
però alcune caratteristiche comuni, che giustificano questo appellativo.
La prima di tali caratteristiche è che tutti e tre concentravano la
propria attenzione sui fenomeni della natura e ne cercavano una spiegazione
nella natura stessa, a differenza di quanti facevano ricorso a un Dio presunto
autore del mondo. Per questo essi furono più tardi chiamati
«naturalisti».
L'aver escluso un intervento divino nella
formazione del mondo non vuol dire che i filosofi ionici fossero atei, ma
piuttosto che attribuivano alla natura stessa i caratteri della divinità:
l'eternità e soprattutto quella capacità di vita e di
trasformazione che li affascinava nell'incessante succedersi dei fenomeni.
È questo che intendeva Talete quando diceva che «tutto è
pieno di Dei».
Un'altra caratteristica comune ai tre è la
ricerca di un «principio» (in greco arché) da cui ritenevano
che fossero scaturite tutte le cose. Tale ricerca implicava la convinzione che
ci fosse un'unica spiegazione per l'infinita varietà dei fenomeni
naturali. Per dirla in un altro modo, essi ritenevano possibile ricondurre i
molti all'uno.
L'iniziatore della scuola, Talete, avanzò l'ipotesi
che questo principio unico fosse rappresentato dall'acqua. L'ipotesi riprendeva
alcune immagini delle mitologie mesopotamica, egiziana e greca nelle quali si
parlava di un caos primordiale, di solito rappresentato come una confusa massa
liquida. Ma oltre a «naturalizzare» l'evento della nascita
dell'universo, ossia oltre a sostituire i personaggi del mito con un elemento
materiale, quale appunto è l'acqua, Talete fondava la plausibilità
della sua teoria su osservazioni empiriche.
L'acqua, infatti, intesa come
umidità, permea ogni cosa, è la condizione della fertilità
della terra, è legata ad ogni fenomeno vitale: era ragionevole pensare ad
essa come all'elemento costitutivo di tutte le cose, come alla sostanza o
materia che assicura la persistenza del mondo. Secondo ipotesi correnti al suo
tempo, che Talete non aveva ragione di rifiutare, la Terra stessa avrebbe
galleggiato sull'acqua e sarebbe stata circondata dall'Oceano. La connessione
tra l'umidità e i fenomeni della generazione e della fertilità
aveva probabilmente suggerito a Talete anche l'idea che la vita avesse fatto la
sua comparsa nelle grandi distese d'acqua (l'ipotesi dell'evoluzione della vita
da primitive forme acquatiche fu poi formulata esplicitamente da
Anassimandro).
Infine, il ciclo dell'evaporazione dell'acqua e della caduta
delle piogge e più in generale la capacità dell'acqua di passare a
seconda della temperatura dallo stato solido a quello liquido e a quello gassoso
può aver fornito una chiave per interpretare le trasformazioni della
materia.
Così, il principio ipotizzato da Talete può essere
inteso in quattro significati diversi:
1) come origine del mondo (l'acqua -
diceva Talete - era prima di tutte le cose; le cose provengono
dall'acqua);
2) come causa (l'acqua genera tutte le cose le sostiene e le
alimenta);
3) come sostanza (le cose in ultima analisi sono fatte di acqua;
l'acqua è l'elemento comune di tutte le cose, ciò che rimane
immutabile nonostante l'apparente mutamento di ogni cosa);
4) come legge
(l'acqua trasformandosi in ghiaccio e in vapore costituisce il modello di tutte
le trasformazioni della materia).
Non è detto, naturalmente, che
Talete e i suoi immediati successori fossero consapevoli della diversità
di significati che il termine «principio» può assumere. Queste
distinzioni rappresentano piuttosto il «senno di poi», e cioè
il punto di vista dal quale si è più tardi
guardato.
Anassimandro, un concittadino di Talete poco più giovane
di lui, preferì porre come principio o arché non questa o quella
sostanza, ma qualcosa di indeterminato, di infinito e di eterno, a cui ogni cosa
- ed anche il mondo, inteso come insieme di tutte le cose finite e determinate -
farebbe periodicamente ritorno. Anassimandro lo chiamava apeiron, che in greco
significa «senza limiti» e che può essere interpretato come
materia informe, miscuglio di tutti i corpi e di tutti gli elementi, analogo al
caos di cui parlavano gli antichi miti cosmogonici.
Nella nozione di
principio Anassimandro sottolineava fortemente il significato di legge, norma o
guida delle cose. Anassimandro intendeva questa legge proprio come norma di
giustizia. La nascita degli infiniti esseri particolari e l'emergere delle
diverse qualità delle cose dall'indistinta uniformità dell'apeiron
costituiva infatti per Anassimandro una violazione del l'unità
originaria, e il periodico ritorno nel caos era una sorta di
«espiazione» per «l'ingiustizia» commessa nel
nascere.
Anassimene, un allievo di Anassimandro, tornò a pensare,
come Talete, a una materia definita, ma invece dell'acqua indicò quale
principio del mondo l'aria, che associava all'anima e all'atto del respirare:
«come l'anima, che è fatta d'aria, ci sostiene e ci governa,
così il soffio e l'aria abbracciano tutto il mondo». E poiché
aria, anima, soffio e respiro erano termini in qualche modo equivalenti,
è probabile che Anassimene immaginasse il mondo come qualcosa di animato,
che respira. Anche per Anassimene l'arché era insieme sostanza e legge
del mondo. Ma mentre Anassimandro intendeva questa legge come una legge morale
(la riparazione di un torto), per Anassimene era una legge fisica. L'aria,
infatti, produceva ogni cosa per via di semplici condensazioni e rarefazioni,
legate al gioco del freddo e del caldo: per condensazione si generavano l'acqua
e la terra (elementi freddi), per rarefazione il fuoco (elemento
caldo).
ANEDDOTI SU TALETE DI MILETO
Talete aveva fama di grande matematico e di
esperto astronomo. Gli sono stati attribuiti diversi teoremi di geometria e
numerose osservazioni di fenomeni celesti o atmosferici, ma nulla si sa di
sicuro in proposito.
Era diventato celebre prevedendo un'eclissi di Sole,
probabilmente quella del 585 a.C. Può darsi che in questa occasione abbia
utilizzato conoscenze e osservazioni raccolte in Egitto o in Babilonia. I
Babilonesi sapevano che ogni 223 cicli lunari (poco più di 18 anni) si
può produrre un'eclissi. Solo il caso però ha voluto che si
producesse davvero e che fosse visibile dalla Ionia.
Di Talete si racconta
anche che trovandosi in Egitto aveva escogitato un ingegnoso sistema per
calcolare l'altezza di una piramide: ne aveva misurato l'ombra nel momento in
cui per l'inclinazione del sole la lunghezza dell'ombra di un oggetto risultava
esattamente uguale alla sua altezza.
Talete era annoverato tra i Sette Savi
dell'antica Grecia, un gruppo di personaggi semileggendari a cui la tradizione
popolare ha attribuito una serie di laconiche sentenze (come quella scolpita
sull'ingresso del tempio di Apollo a Delfi: «conosci te stesso»), che
costituiscono una sorta di distillato dell'antica sapienza greca. Dei Sette Savi
esistono elenchi diversi, nei quali però Talete è sempre
presente.
Di loro la leggenda dice che erano legati da amicizia e stima
reciproche. Lo storico Diogene Laerzio riporta in proposito un aneddoto che,
come altri di questo genere, non ha probabilmente alcun fondamento reale, ma
vale come metafora della saggezza:
Si dice che alcuni giovani Ioni avessero
acquistato un giorno da certi pescatori il contenuto di una rete. Tirata su la
rete, però, ne usci fuori un tripode d'oro e subito scoppiò una
lite per stabilire a chi toccasse. Alla fine, per risolvere la questione, i
cittadini di Mileto mandarono a interrogare l'oracolo di Delfi, che rispose
così: «O Milesio vuoi interrogare Febo circa il tripode? E io ti
dico: appartiene a chi è più saggio di tutti». I cittadini di
Mileto lo consegnarono allora a Talete. Questi però lo inviò a un
altro dei Sette Savi, e questi ad un altro ancora fino a che giunse a Solone, il
quale infine dichiarò che il più saggio di tutti era il Dio e
rimandò il tripode a Delfi.
UN'ANTICA COSMOLOGIA SCIENTIFICA
La teoria di Anassimandro sulle origini
dell'universo riprendeva molte idee presenti nei miti cosmologici. Quello di
Anassimandro però non era più un racconto di eventi meravigliosi,
ma un tentativo di ricostruire in modo plausibile la storia del mondo. I miti
potevano essere accettati o rifiutati, ma non potevano essere discussi: la
teoria di Anassimandro imponeva invece la discussione, perché ogni sua
affermazione pretendeva di essere controllata alla luce della ragione e
dell'esperienza.
Secondo il mito, l'universo ordinato era nato per violenta
separazione dal caos originario. In Mesopotamia, ad esempio, il caos era
identificato con la dea Tiamat vinta ed uccisa dal giovane dio Marduk, il
fondatore ed il campione dell'ordine cosmico. Anche Anassimandro poneva
l'origine di tutte le cose nel caos ed anche per Anassimandro l'ordine (cosmo)
era qualcosa di divino, almeno nel senso che ai mondi usciti dal caos egli
attribuiva l'appellativo tradizionale di Dei. Ma la nascita del mondo (o meglio,
dei mondi) non era più la conseguenza di una lotta mortale tra
divinità rivali: era il risultato dell'azione di forze puramente
naturali.
Nei miti cosmologici il caos primordiale era generalmente
rappresentato come un'immensa massa di acque e di nubi agitata e squassata in
ogni parte da un incessante tumulto di tempeste. Nelle tempeste però
è possibile osservare il formarsi di vortici di aria o di trombe marine
in cui le parti più grandi e più pesanti si raccolgono al centro,
mentre quelle più piccole e più leggere vengono proiettate verso
la periferia. L'osservazione di questo fenomeno offrì ad Anassimandro un
modello adatto a spiegare, senza ricorrere all'intervento degli Dei, la
separazione degli elementi dalla materia caotica primordiale
(apeiron).
Anassimandro pensava che quando nel caos si forma un vortice,
gli elementi pesanti devono disporsi al centro e quelli leggeri alla periferia
(vale però la pena di notare che nella realtà accade esattamente
il contrario), realizzando così automaticamente una prima distinzione
nella materia primordiale.
Dal moto di rotazione del vortice sarebbe dunque
nata una massa globulare divisa in due strati concentrici: all'esterno una zona
calda e asciutta occupata dal fuoco, che è il più leggero degli
elementi, e all'interno una zona fredda e umida occupata dagli elementi
più pesanti, la terra e l'acqua.
In questa prima fase la terra e
l'acqua erano ancora mescolate in un'unica, enorme massa liquida. Ma l'azione
del fuoco circostante doveva trasformare gran parte dell'acqua in vapore, ossia
in aria. Quest'aria, premendo contro lo strato esterno caldo, lo sollevava e
veniva ad occupare tutta la zona intermedia fra la terra e il fuoco,
determinando la formazione dei cieli e degli astri. Gli astri infatti, secondo
Anassimandro, erano ispessimenti dell'aria che imprigionavano masse di fuoco
sfuggite alla corteccia esterna per effetto della violenta pressione dell'aria
stessa.
Mentre in tal modo nascevano i cieli, la terra, sempre per effetto
del calore esterno, si solidificava e tutta l'acqua che non si era trasformata
in vapore veniva a raccogliersi nelle sue cavità, formando i mari e gli
oceani. Anassimandro attribuiva alla Terra, come del resto al Sole e alla Luna,
la forma di una ruota, ossia di un cilindro, il cui diametro, secondo i suoi
calcoli, doveva essere tre volte più grande dell'altezza.
La figura
della ruota attribuita alla Terra ricorda quella dei miti mesopotamici, che
consideravano la Terra un disco piatto. Ancora una volta però,
riprendendo un'immagine del mito, Anassimandro cercava di darne una spiegazione
razionale: la forma cilindrica infatti poteva essere considerata una conseguenza
del particolare moto di rotazione del vortice cosmico.
Anche la comparsa
della vita sulla Terra e poi quella dell'uomo erano spiegate da Anassimandro
come un momento dell'evoluzione cosmica e senza farvi intervenire in alcun modo
gli Dei. Anassimandro immaginò che le prime forme di vita fossero
apparse, sotto l'azione del calore, nelle profondità dei mari.
Solo
in seguito questi antichi animali marini sarebbero passati a vivere sulle terre
emerse, modificandosi e adattandosi al nuovo ambiente.
La cosmologia di
Anassimandro abbracciava un arco evolutivo lunghissimo, dalla formazione dei
cieli alla comparsa dell'uomo. Questa evoluzione riguardava il nostro mondo, ma
Anassimandro era convinto che, lontanissimo da noi, immersi nella materia
caotica primordiale, esistessero altri mondi in evoluzione: tutto portava a
credere che nel caos si formassero continuamente innumerevoli vortici, ciascuno
dei quali poteva dare l'avvio ad un processo di formazione cosmica simile al
nostro. Nessuno di questi mondi poteva dirsi eterno. Eterna era solo la materia
informe, caotica, l'apeiron, da cui tutti i mondi erano usciti e a cui tutti,
prima o poi, sarebbero tornati.
PITAGORA
Grazie al teorema e alla tavola che portano
il suo nome, non c'è persona che non abbia sentito parlare di Pitagora
fin dai primi anni di scuola. Di questo popolare personaggio sappiamo
però ben poco, e non siamo neppure certi che sia esistito davvero. La
scuola pitagorica, infatti, che si diceva fondata da lui, lo venerava come una
specie di Dio e finì per costruire sul suo conto tante e tali leggende
che già nell'antichità risultava difficile distinguere il vero dal
falso. Se è esistito, Pitagora dovrebbe essere nato a Samo intorno al 570
a.C. Pare che sia stato a lungo in Italia, forse esule dalla patria per ragioni
politiche. A Crotone intorno al 530 a.C. avrebbe fondato la sua setta, che aveva
spiccati caratteri religiosi e che acquistò una grossa influenza politica
in tutta la Magna Grecia schierandosi decisamente contro il partito democratico,
che stava lottando per affermarsi. Una rivolta popolare avrebbe rovesciato alla
fine il potere dei Pitagorici in Crotone e pare che lo stesso Pitagora si sia
salvato a stento dalla furia degli avversari. La morte di Pitagora sarebbe
avvenuta a Metaponto nel 497 a.C.
Non meno incerto della biografia di
Pitagora è il suo pensiero, perché i suoi seguaci attribuivano al
maestro tutte le dottrine che professavano, da chiunque fossero state elaborate.
Quello che è certo è che le dottrine della setta, che erano
segrete (e che neppure tutti gli aderenti conoscevano per intero), consistevano
non tanto in un insegnamento filosofico-scientifico, quanto in un sistema di
precetti morali e di credenze religiose che avevano al centro il tema della
purificazione e della liberazione dell'anima.
Il nucleo principale delle
credenze pitagoriche era infatti rappresentato dalla dottrina della metempsicosi
secondo la quale l'anima di ogni uomo sta nel corpo come in una prigione ed
è condannata a reincarnarsi di continuo (cioè a trasmigrare da un
corpo all'altro) fino a quando una vita incontaminata non le permetta di
ricongiungersi finalmente all'anima universale. Per raggiungere questo obiettivo
i pitagorici si sottoponevano a pratiche ascetiche e a severe regole di vita
(che avevano anche l'effetto di rafforzare la solidarietà tra i membri
della setta, e quindi di accrescerne il peso nella vita sociale e
politica).
È in questo contesto religioso che vanno collocate anche
le ricerche matematiche e astronomiche dei Pitagorici. Il loro assunto
principale «tutto è numero, tutto è fatto di numeri»
significa che sotto l'apparente disordine delle cose solo il numero può
cogliere la presenza del divino, che è ordine, armonia, equilibrio,
razionalità. Ma questa capacità dei numeri e delle figure
geometriche di cogliere le ragioni segrete delle cose, va inteso sia nel senso
che essi costituiscono il principio del mondo (sono cioè la sostanza e il
modello di tutte le cose, come l'arché degli Ionici), sia nel senso che
sono la chiave mistica che apre all'iniziato le porte dell'universo.
Ai
numeri, infatti, e specialmente ai primi dieci, i Pitagorici avevano attribuito,
oltre alla capacità di esprimere grandezze, misteriose virtù
magiche e significati esoterici. Con i numeri, anzi, avevano costruito tutto un
complesso sistema di simboli imperniato sull'opposizione di pari e dispari, alla
quale erano ricondotte altre nove coppie di contrari, dal cui equilibrio sarebbe
derivato l'ordine e l'armonia dell'universo:
pari dispari
infinito finito
i molti l'uno
sinistra destra
femmina maschio
movimento quiete
curva retta
tenebre luce
male bene
rettangolo quadrato
I numeri, insomma, erano non
soltanto la misura delle cose, ma i simboli delle misteriose armonie e delle
energie divine che reggevano il mondo. Così, esistevano numeri più
o meno perfetti, più o meno efficaci magicamente, più o meno
venerabili. I numeri pari, ad esempio, (e tutti i termini ad essi collegati)
erano associati all'imperfezione e al male, e i dispari alla perfezione e al
bene. Ma il dieci era considerato perfetto, perché essendo la somma di 1
(l'unità, né pari, né dispari, ma, come dicevano i
Pitagorici, parimpari), di 2 (il primo numero pari), di 3 (il primo numero
dispari) e di 4 (il primo quadrato = 2 x 2), appariva il più adatto a
simboleggiare la totalità: «esso è grande - dicevano -.
compie e realizza ogni cosa, è principio e guida alla vita». Anche
il numero tre era perfetto (sebbene meno perfetto del dieci) perché,
dicevano, «ha principio, mezzo e fine».
Sul conto di
Pitagora si raccontavano una quantità di aneddoti, tendenti a presentarlo
come un essere eccezionale, simile a un Dio. Pare che fosse dotato di
ubiquità e che una volta si sia trovato alla stessa ora a Crotone e a
Metaponto. Un'altra volta, a teatro, mentre stava alzandosi in piedi, i presenti
ebbero modo di accorgersi che aveva una coscia (altri dicono un'anca) tutta
d'oro. Si diceva che avesse ucciso con un morso un terribile serpente velenoso
che infestava l'Etruria, e così via.
Naturalmente questo cumulo di
storie, e le singolari regole di vita che gli erano attribuite (non mangiare
carne, pesci rossi e triglie, ma soprattutto fave, perché le fave
somigliano ai testicoli, oppure perché per la loro natura
«ventosa» sono in qualche modo simili all'anima, che è
anch'essa aria...) hanno attirato sulla figura di Pitagora, a torto o a ragione,
lo scherno dei razionalisti.
Timone di Fliunte, un filosofo scettico del
III secolo a.C., dedicò a Pitagora versi durissimi:
...
Pitagora incline a dottrine da ciarlatano,
accalappiatore d'uomini, amante
dell'enfasi...
Senofane di Colofone, contemporaneo di Pitagora
impegnato nella polemica contro le superstizioni religiose, lo aveva preso in
giro per la sua teoria della metempsicosi:
... E raccontano che una
volta, passando, avesse avuto compassione di un cagnolino che veniva maltrattato
ed avesse detto queste parole:
- Smetti di batterlo, ché è
l'anima di un mio amico che ho riconosciuto dalla voce -...
IPSE DIXIT
Ipse dixit = «Lui lo ha detto». La
scuola pitagorica non solo venerava il maestro, ma ne assumeva le affermazioni
(o quelle che erano credute sue affermazioni) come criteri infallibili di
verità. «Lui lo ha detto» con questa espressione i Pitagorici
erano soliti troncare ogni discussione, dando per scontato che all'opinione del
maestro non si potesse obiettare nulla. I Pitagorici naturalmente parlavano
greco. La formula latina ipse dixit, diventata proverbiale per indicare il
principio di autorità, è quella adottata nel Medio Evo dai
filosofi scolastici, che però la riferivano ad
Aristotele.
METEMPSICOSI
«Metempsicosi» è una parola
di origine greca che indica il passaggio dell'anima da un corpo all'altro. Una
concezione del genere, tipica del pensiero della scuola pitagorica, parte dal
presupposto che l'anima sia indipendente dal corpo e che, quando questo muore,
possa sopravvivergli trasferendosi in un altro corpo di uomo o di animale o
addirittura in una pianta, in un oggetto, in un sasso, ecc. La credenza nella
metempsicosi si ritrova in molti popoli antichi, dagli Indiani ai Celti, dagli
Egiziani ai Greci, e si può collegare da un lato a un'esigenza di
giustizia (la trasmigrazione in un essere inferiore o superiore è di
solito considerata un'espiazione per le colpe commesse o un premio per i meriti
accumulati nella vita precedente), e dall'altro al desiderio di felicità
(la metempsicosi è anche il cammino verso la
beatitudine).
L'ARITMOGEOMETRIA
I Pitagorici hanno legato con successo
l'aritmetica alla geometria: in questa associazione la geometria apportava il
vantaggio della visione (la possibilità cioè di
«disegnare» gli enti matematici e di «vedere» le loro
relazioni), mentre l'aritmetica offriva la precisione dei suoi calcoli.
I
numeri erano rappresentati dai Pitagorici per mezzo di punti disposti in figure
geometriche, ed erano classificati a seconda delle figure a cui davano
luogo:
numeri lineari:

numeri
triangolari:

numeri quadrati:

numeri rettangolari:

numeri
cubici:

I
numeri lineari sono i numeri primi, che potendosi dividere solo per se stessi e
per l'unità, non si possono disporre né in forma di triangolo,
né di rettangolo.
I numeri triangolari risultano dalla somma
dei numeri interi consecutivi:
1
3 = 1 + 2
6 = 1 + 2 + 3
10 = 1 + 2 + 3 + 4 ecc.
I numeri quadrati risultano dalla somma
dei numeri dispari consecutivi; risultano anche dal prodotto dei numeri interi
per se stessi (sono cioè i quadrati dei numeri interi, come ancora oggi
li chiamiamo):
1 = 1 x 1
4 = 1 + 3 = 4 = 2 x 2
9 = 1 + 3 + 5 = 9 = 3 x 3
16 = 1 + 3 + 5 + 7 = 16 = 4 x 4
I numeri rettangolari risultano
dalla somma dei numeri pari consecutivi; risultano anche dal prodotto di due
numeri interi successivi:
2 = 1 x 2
6 = 2 + 4 = 6 = 2 x 3
12 = 2 + 4 + 6 = 12 = 3 x 4
20 = 2 + 4 + 6 + 8 = 20 = 4 x 5
I numeri cubici sono i cubi
(come ancora li chiamiamo) dei numeri interi e risultano dalla somma di tanti
numeri dispari successivi quanti sono i punti che costituiscono il lato del
cubo:
1 = 1 x 1 x 1
8 = 2 x 2 x 2 = 8 = 3 + 5
27 = 3 x 3 x 3 = 27 = 7 + 9 + 11
64 = 4 x 4 x 4 x 4 = 64 = 13 + 15 + 17 + 19
L'INFAUSTA SCOPERTA DEGLI IRRAZIONALI
Secondo il teorema di Pitagora in un
triangolo rettangolo l'area del quadrato costruito sull'ipotenusa è
uguale alla somma delle aree dei quadrati costruiti sui cateti. Egiziani e
Babilonesi conoscevano una regola, ad uso di architetti ed agrimensori, che in
pratica diceva la stessa cosa; per quanto se ne sa, però, nessuno di loro
ne ha mai dato la dimostrazione, che è poi quello che conta da un punto
di vista teorico. Tale dimostrazione fu invece fornita da Pitagora (o dai suoi
seguaci), anche se probabilmente in una forma diversa da quella che oggi
conosciamo (e che risale a Euclide, un matematico del III secolo a.C., di cui
dovremo tornare ad occuparci). Sempre lavorando sui triangoli rettangoli, i
Pitagorici fecero la loro scoperta più importante (e per certi aspetti
sconcertante): quella dei numeri irrazionali.
La nozione pitagorica di
misura implicava che, date due grandezze, l'una stesse nell'altra un numero
finito di volte, e cioè che il rapporto tra le due fosse espresso da un
numero intero o da una frazione. La diagonale di un quadrato è
l'ipotenusa di un triangolo rettangolo isoscele, e i lati del quadrato sono i
cateti del triangolo. Se il lato del quadrato è 1, l'area del quadrato
costruito sulla diagonale sarà 2. La lunghezza della diagonale
sarà allora la radice quadrata di 2, ossia quel numero che, elevato al
quadrato, dà 2.
Quale è questo numero? Non è un
intero, perché è certamente minore di 2 e maggiore di 1. Ma non
è neppure una frazione, perché non c'è alcuna frazione che
elevata al quadrato dia come risultato 2. Naturalmente è possibile
trovare una frazione prossima alla radice di 2, ma (basta fare la prova per
convincersene) è sempre possibile trovarne un'altra più vicina e
poi un'altra e un'altra ancora, e così all'infinito, senza mai giungere
davvero a quel valore. Il numero che cerchiamo non è né un intero
né un fratto: che numero è dunque? È un numero irrazionale.
Questa espressione però è solo un modo per dire che tra la
diagonale e il lato del quadrato non esiste misura (o «ragione»)
comune. Queste due grandezze, che sono con tutta evidenza grandezze finite, e
che geometricamente si possono costruire senza alcuna difficoltà, non
hanno una unità di misura comune, sono incommensurabili.
Gli
irrazionali sono sicuramente la più bella scoperta dei Pitagorici. Essa
però segnava anche la loro sconfitta: creava difficoltà
insormontabili (almeno per allora) all'associazione di aritmetica e geometria,
in cui avevano creduto come a un metodo generalmente valido nell'indagine
matematica, e incrinava seriamente la convinzione (di natura religiosa oltre che
filosofica) che ogni cosa fosse riconducibile a numero. Tutto è numero,
verrebbe voglia di dire, tranne il rapporto tra il lato e la diagonale del
quadrato!
NUMERI RAZIONALI E IRRAZIONALI
I numeri che adoperiamo abitualmente 1, 2,
3, 4 ecc. si chiamano naturali o cardinali. Possiamo rappresentarli come punti
di una retta. Scegliamo un punto qualsiasi della retta, chiamiamolo origine e
segniamolo con 0. Scegliamo poi un segmento di lunghezza qualsiasi e
riportiamolo più volte sulla retta, partendo dal punto 0 e muovendoci
sempre verso destra. Ai punti così individuati facciamo corrispondere i
numeri naturali 1, 2, 3, ecc.

I punti
segnati così sulla retta e i numeri naturali hanno le stesse
proprietà:
1) dati due punti (numeri) diversi è sempre noto
quale dei due precede l'altro (è minore dell'altro) e quale segue
(è maggiore):
2 < 5; 7 > 3;
2) tranne che per
lo 0, che non ha antecedenti, è sempre possibile dire di un punto
(numero) che è compreso tra due altri punti (numeri) che lo precedono e
lo seguono immediatamente:
2 < 3 < 4
Il campo dei
numeri naturali è infinito, ma solo verso destra: in altre parole, non
esiste un numero maggiore di tutti gli altri, ma esiste un numero minore di
tutti gli altri (lo 0). Se non si vuole uscire da questo campo, tra le quattro
operazioni fondamentali solo l'addizione e la moltiplicazione si possono
eseguire senza limiti: per effettuare la sottrazione, invece, occorre che il
minuendo (il numero da cui si sottrae) sia maggiore del sottraendo, e per
effettuare la divisione occorre che il dividendo (il numero da dividere) sia un
multiplo del divisore.
Per eseguire senza limiti la sottrazione bisogna
allargare il campo dei numeri naturali. Lo si può fare costruendo a
partire dall'origine (lo 0) e procedendo verso sinistra una nuova serie di
numeri: i numeri negativi.

Diventa
così possibile sottrarre un numero da un numero più
piccolo:
3 - 7 = -4
I numeri positivi e i numeri negativi
costituiscono l'insieme dei numeri interi.
Nel campo dei numeri interi la
divisione è ancora soggetta a limiti: perché il quoziente sia un
numero intero è necessario che il dividendo sia un multiplo del divisore.
Se si vuole eseguire tale operazione senza limiti bisogna allargare il campo dei
numeri interi, aggiungendo la serie dei numeri fratti:

Numeri interi e numeri fratti costituiscono l'insieme dei
numeri razionali. Una caratteristica dei numeri razionali è che possono
essere scritti tutti (anche gli interi) sotto forma di
frazione:

Cerchiamo ora di
rappresentare i numeri fratti come punti sulla nostra retta. È evidente
che essi staranno tra i punti corrispondenti ai numeri interi, e cioè che
1/2, per esempio, starà tra 0 e 1. Ma 0 non è l'immediato
antecedente di 1/2 e 1 non è l'immediato conseguente. Ma neppure 1/4 e
3/4 o 2/5 e 3/5 sono antecedenti o conseguenti immediati di 1/2. Il fatto
è che qualunque frazione si prenda, prossima quanto si vuole a 1/2,
sarà sempre possibile trovarne un'altra anche più
prossima.
In effetti tra due numeri razionali (come sono 1/4 e 1/2)
è sempre possibile inserire un terzo numero razionale (per esempio 2/5).
Questa caratteristica, che si chiama densità, rende l'insieme dei numeri
razionali completamente diverso dall'insieme dei numeri interi: tra due interi
consecutivi, infatti, non è possibile inserire un terzo intero.
La
densità propria dei numeri razionali complica non poco la loro
rappresentazione come punti di una retta. È facile capire in che senso i
numeri naturali e gli interi sono infiniti: la serie dei naturali è
infinita a destra dell'origine, e quella degli interi (positivi e negativi) a
destra e a sinistra. Ma i numeri razionali sono infiniti dovunque, perché
entro qualunque intervallo, per piccolo che sia, dobbiamo immaginare che cadano
un numero infinito di punti razionali.
Già questo non è
facile da intuire. Ma Pitagora e i suoi hanno fatto una scoperta ancora
più imbarazzante: non c'è alcuna frazione che possa esprimere il
valore di

, e cioè non c'è alcuna
frazione che, elevata al quadrato, dia come risultato 2. Il che vuol dire che
nonostante la loro densità, i punti corrispondenti ai numeri razionali
non coprono interamente la retta. Esiste un'altra serie infinita di numeri - i
numeri irrazionali - che giacciono sulla stessa retta senza sovrapporsi ai
numeri razionali: i due insiemi di numeri si incastrano, per così dire,
l'uno nell'altro.
FILOLAO E LA COSMOLOGIA PITAGORICA
Dopo quella di Anassimandro molte altre
teorie cosmologiche furono elaborate dagli scienziati dell'antichità. Per
quanto riguarda il problema delle origini c'era chi negava addirittura che il
mondo avesse mai avuto un inizio, ritenendo più probabile che fosse
sempre esistito un ordine cosmico. Ci si domandava anche se l'universo fosse
finito o infinito e se si dovesse ammettere l'esistenza di un solo mondo o (come
aveva sostenuto Anassimandro) di una pluralità di mondi. Ma accanto ai
grandi temi della cosmologia, l'interesse degli studiosi fu attirato in misura
crescente dai problemi astronomici propriamente detti (relativi cioè alla
forma, alle dimensioni e ai movimenti dei corpi celesti), che richiedevano
precise osservazioni e calcoli complicati. Qui, nonostante il grande interesse
delle loro teorie cosmologiche, gli Ionici non avevano prodotto che immagini
piuttosto ingenue, come quella che attribuiva alla Terra e agli astri una forma
cilindrica.
Pare che la sfericità della Terra sia stata sostenuta
per la prima volta dai Pitagorici. È probabile che i Pitagorici abbiano
adottato questa tesi per ragioni non propriamente «scientifiche». Per
loro infatti si trattava di un dogma religioso, nel senso che la sfera
soddisfaceva, con la sua forma compiuta, equilibrata, uguale in tutti i punti
della superficie, la loro idea di perfezione. Le prove della sfericità
della Terra sarebbero venute solo più tardi. Si trattava in ogni modo di
un progresso notevole. E fu proprio intorno all'assunto della sfericità
della Terra che si andò costruendo nella scuola pitagorica un vero e
proprio sistema astronomico. Di tale sistema conosciamo una versione piuttosto
tarda, attribuita a Filolao, anche lui un personaggio semileggendario, vissuto
(pare) nella seconda metà del V secolo a.C. a Crotone.
Secondo
Filolao, il centro dell'universo sarebbe occupato da un Fuoco (da non confondere
con il Sole!), intorno a cui ruoterebbero dieci corpi celesti, e cioè,
partendo dal più esterno:
1) la sfera delle stelle; 2) Saturno; 3)
Giove; 4) Marte; 5) il Sole; 6) Venere; 7) Mercurio; 8) la Luna; 9) la Terra;
10) l'Antiterra. Le distanze tra questi corpi celesti seguirebbero precise
proporzioni aritmetiche e musicali (i Pitagorici parlavano a questo proposito di
armonia delle sfere). L'Antiterra sarebbe invisibile perché ruoterebbe in
posizione esattamente opposta a quella della Terra. Anche il Fuoco centrale
sarebbe invisibile dal nostro emisfero, perché la Terra gli rivolgerebbe
sempre la stessa faccia, quella non abitata. È difficile dire
perché i Pitagorici abbiano escogitato l'esistenza dell'Antiterra e del
Fuoco centrale: forse perché così si portava a dieci, numero
perfetto, la serie dei corpi celesti.
Nel prevalere degli interessi
astronomici tra gli scienziati dell'antichità hanno avuto larga parte i
bisogni pratici legati all'agricoltura, alla navigazione, alla misurazione del
tempo e delle distanze, attività tutte per le quali era necessaria una
esatta conoscenza dei fenomeni celesti. Ma il cielo esercitava anche un fascino
di diversa natura. I moti degli astri hanno un carattere di periodicità
che colpisce la fantasia tanto più quanto più la nostra vita
dipende da certe caratteristiche alternanze: il succedersi del giorno e della
notte, il variare mensile delle fasi della Luna, il susseguirsi delle stagioni.
A questi fenomeni la vita dell'uomo nell'antichità era assai più
legata di quanto non lo sia oggi. Ma soprattutto, con la precisione e la
continuità dei suoi moti il cielo appariva una realtà nettamente
diversa da quella terrena: il cielo era l'immagine stessa
dell'immortalità e dell'ordine, la Terra il regno dell'instabilità
e dell'incertezza; lassù ogni evento si svolgeva secondo leggi
meravigliosamente costanti, quaggiù ogni cosa, e in primo luogo la vita
dell'uomo, sembrava abbandonata al caso. La coscienza di questo contrasto si era
espressa fin dai tempi più antichi sul terreno della religione con
l'adorazione degli astri e con l'identificazione del cielo come dimora
privilegiata degli Dei. Sul terreno della speculazione filosofica si espresse
nella convinzione, formulata per la prima volta dai Pitagorici, che tra cielo e
Terra vi fosse un'essenziale diversità di natura: diversa la materia di
cui l'uno e l'altra sono fatti, diverse le leggi che ne regolano gli
avvenimenti. Sulla Terra (ossia nel mondo sublunare, come si esprimevano i
Pitagorici) ogni cosa è soggetta al divenire, nasce, si corrompe e muore;
nei cieli (ossia nel mondo sopra lunare), invece, ogni cosa è
incorruttibile ed eterna.
L'idea pitagorica dell'opposizione Cielo-Terra
è quella che ha avuto maggiore fortuna nelle cosmologie antiche e sarebbe
stata abbandonata soltanto con Galilei e Newton, ossia dopo più di due
millenni. Al contrario cosmologi e astronomi antichi, con la sola eccezione di
Aristarco di Samo, uno studioso del III secolo a.C. di cui torneremo ad
occuparci, hanno lasciato subito cadere l'idea del moto della Terra, che sarebbe
riemersa (per affermarsi definitivamente) solo con Copernico, meno di cinque
secoli fa.
ERACLITO
Eraclito era nato ad Efeso, nella Ionia, e
fu attivo alla fine del VI secolo a.C. Fu detto «l'oscuro»
perché amava esprimersi per aforismi e paradossi non sempre facilmente
comprensibili. Non lo capiva bene neppure Socrate, uno dei più grandi
filosofi greci vissuto appena un secolo dopo di lui. Si racconta, che a chi gli
chiedeva che cosa ne pensasse di Eraclito, Socrate abbia risposto: - Quel che ne
ho capito è eccellente, e penso che lo sia anche quello che non ho
capito; ma per capirlo fino in fondo ci vorrebbe un palombaro -. Come dire che
il pensiero di Eraclito era così profondo da risultare
insondabile.
Questo gusto per le espressioni difficili è stato
interpretato come disprezzo per la gente comune, e attribuito all'educazione
aristocratica che aveva ricevuto. In effetti Eraclito giudicava gli uomini
generalmente incapaci di cogliere la razionalità delle cose, che pure
stava loro di fronte, e diceva che rispetto ad essa si comportavano come sordi o
dormienti: «assenti, pur essendo presenti».
Non ne faceva
però una questione di nascita o di condizione sociale: «a ogni uomo
- diceva - è concesso conoscere se stesso e pensare rettamente. A tutti
è comune la facoltà di pensare». Non ne faceva neppure una
questione di educazione. Riteneva anzi che «sapere molte cose non insegna a
pensare rettamente»: altrimenti, aggiungeva, avrebbero imparato a pensare
rettamente anche Esiodo o Pitagora, personaggi verso i quali era particolarmente
polemico per la quantità di nozioni inutili o false con cui, secondo lui,
avevano tentato di nascondere la propria ignoranza.
Eraclito può
essere considerato il quarto grande filosofo della Ionia non solo perché
era cittadino di Efeso, ma perché alcuni aspetti del suo pensiero lo
accomunano agli altri tre, Talete, Anassimandro e Anassimene. Anche Eraclito,
per esempio, applicava alla natura gli attributi della divinità e
combatteva il carattere superstizioso dei culti tradizionali. E anche lui, come
i primi filosofi ionici, era affascinato dalle incessanti trasformazioni che
avvengono in natura. Eraclito, anzi, indicava nel mutamento l'aspetto essenziale
del mondo, e lo interpretava, come già era stato suggerito dai primi
Ionici, quale effetto del gioco dei contrari, ossia delle opposte qualità
presenti nelle cose.
«Non ci si può bagnare due volte nello
stesso fiume», diceva Eraclito, intendendo che ogni cosa è come un
fiume, che in apparenza è sempre uguale a se stesso, ma in realtà
è fatto di acque sempre diverse. Tutto scorre (in greco panta rei), muta,
diventa altro da quello che era. Questo divenire era rappresentato da Eraclito
come fuoco, il più mobile di tutti gli elementi, che, analogamente ai
principi postulati dagli Ionici, si trasforma di continuo nelle altre sostanze e
che forse (il significato del frammento è incerto) torna periodicamente a
incendiare il mondo:
... Questo ordine cosmico, che è lo
stesso per tutti i mondi possibili, non lo ha fatto nessuno degli Dei, né
alcuno degli uomini, ma è sempre stato, è, e sarà sempre
fuoco vivo che a tempo debito (secondo necessità) si accende e a tempo
debito si spegne...
Il divenire si esprime secondo Eraclito nella
lotta e nella discordia. «Il conflitto è padre e re di tutte le
cose», diceva, attribuendo al conflitto qualità divine («padre
e re» sono gli attributi di Zeus). Anche il conflitto, però,
è una forma di collaborazione, di legame, di unione. La legge del mondo,
la ragione delle cose, il Logos, come lo chiama Eraclito, consiste appunto nella
connessione dei contrari, nella loro necessaria interdipendenza:
...
Non ci sarebbe armonia se non ci fossero suoni acuti e suoni gravi né ci
sarebbero creature se non ci fossero il maschio e la femmina, che sono
contrari.
Connessioni: intero-non intero, concorde-discorde,
armonico-disarmonico, e da tutte le cose l'uno e dall'uno tutte le cose.
Il fuoco: mancanza-sazietà, guerra-pace.
Il Dio:
giorno-notte, inverno-estate, guerra-pace, sazietà-fame. Ed egli assume
forme diverse come fa il fuoco, che, quando si mescola ai fumi odorosi del
sacrificio, prende nome dall'aroma di ciascuno di essi.
La malattia
rende dolce e gradita la salute, la fame la sazietà, la stanchezza il
riposo...
LOGOS
È la nozione forse più oscura
(e interessante) del pensiero di Eraclito. In greco logos significa
genericamente parola, discorso e se ne trovano le tracce in termini come logica,
cosmologia, ecc. Logos poteva assumere per estensione altri significati come ad
esempio «dottrina» (il contenuto di un discorso) o come
«misura». Era infine suscettibile di interpretazioni più
impegnative come ragione, verità, pensiero, intelligenza, e proprio
queste accezioni avrebbero finito col tempo per prevalere nel linguaggio
filosofico.
Non è chiaro in che senso la parola fosse adoperata da
Eraclito. La difficoltà si incontra proprio all'inizio del libro dove
Eraclito scriveva:
... Questo mio logos [discorso], benché
eterno, gli uomini non lo intendono mai, né prima di ascoltarlo,
né dopo; e sebbene tutto proceda secondo tale logos [verità,
ragione], che è la legge del mondo, essi sembrano non averne
esperienza...
Insomma logos poteva significare sia la dottrina di
Eraclito, (o addirittura il libro nel quale era esposta), sia la ragione interna
alle cose, e cioè la «legge del mondo». È probabile che
Eraclito volesse esprimere contemporaneamente entrambi i significati, oppure che
non li distinguesse affatto. Tutti gli antichi filosofi greci, da Talete a
Parmenide, assumono in maniera più o meno esplicita l'idea della perfetta
coincidenza tra il pensiero dell'uomo e la razionalità del
mondo.
LA SCUOLA ELEATICA
PARMENIDE
All'indirizzo di
pensiero di Eraclito che tradizionalmente si riassume nella nozione di
«divenire», si contrappose, pressappoco nello stesso periodo, quello
di Parmenide e della sua scuola. Parmenide e il suo discepolo Zenone erano di
Elea (o Velia), una città della Magna Grecia a Sud di Paestum, nei pressi
di Salerno. Entrambi svolsero un importante ruolo nella vita politica della
città quali esponenti del partito aristocratico. Zenone, poi, avrebbe
perso la vita complottando contro il tiranno che si era impadronito del
potere.
Eraclito aveva indicato nel gioco degli opposti la chiave per la
comprensione di tutte le cose. Poiché nulla resta uguale a se stesso,
ogni cosa è e insieme non è e in ogni processo i contrari si
integrano a vicenda: non c'è giorno senza notte, estate senza inverno,
pace senza guerra, abbondanza senza scarsità, e così
via.
Parmenide partiva invece dal presupposto che i contrari non solo non
si integrano, ma si escludono a vicenda:
... Due sole sono le vie
della ricerca che si possono concepire: l'una che l'essere è e non
può non essere, e questa è la via della persuasione perché
è accompagnata dalla verità; l'altra che il non-essere non
è ed è necessario che non sia, e questo, ti dico, è un
sentiero inaccessibile, perché il non-essere non puoi né
conoscerlo (è infatti impossibile), né esprimerlo...
In
altre parole, poiché pensare il nulla vuol dire non pensare, si
può pensare solo ciò che è, mentre ciò che non
è non può essere né pensato né espresso in alcun
modo. E poiché si pensa sempre e soltanto ciò che
è,
... la stessa cosa è pensare ed
essere...
Ma se il non-essere è impossibile, anche il
mutamento, il movimento, la molteplicità delle cose, la loro nascita e la
loro morte sono impossibili: sono vuote parole, semplici nomi a cui non
corrisponde nulla.
L'Essere di Parmenide è pieno e occupa spazio.
L'Essere, anzi, è lo spazio, nel senso che non c'è alcuna
differenza tra lo spazio e ciò che lo riempie. Lo spazio vuoto, infatti,
è una nozione priva di senso: è puro non-essere. Pur occupando
tutto lo spazio l'Essere di Parmenide non è infinito. Il carattere
inesauribile dell'infinito sembrava escludere la possibilità di
comprenderlo razionalmente e lo assimilava al non essere. L'essere è
dunque finito e dotato di forma: quella della sfera.
Pieno, finito,
sferico: parrebbero gli attributi di un corpo, e cioè di un ente
materiale. Ma sulla natura corporea dell'Essere gli interpreti di Parmenide non
si sono mai messi d'accordo: in fondo, è stato detto, pieno può
essere sinonimo di autosufficiente; finito può essere sinonimo di
perfetto (se per infinito si intende il non-finito); e sferico è una
metafora che sta per compiuto e omogeneo:
... Esso è compiuto
tutto intorno - dice infatti Parmenide -, simile alla massa di una rotonda
sfera, che dal centro preme in ogni parte con ugual forza...
D'altra
parte che l'Essere non fosse corporeo non significa che fosse incorporeo.
Probabilmente Parmenide non si era neppure posto un simile problema, dato che la
distinzione di corporeo e incorporeo, di materia e spirito, non si era ancora
affacciata chiaramente alla riflessione filosofica.
Corporeo o no, l'Essere
immutabile, immobile, indivisibile, perfettamente omogeneo era per Parmenide la
sola cosa esistente e il solo possibile oggetto di pensiero. E in effetti, dice
esplicitamente Parmenide, l'unico pensiero possibile è pensare che
l'Essere è. Con il che anche il pensiero sembrava immobilizzarsi, in
perfetta antitesi al logos che Eraclito immaginava scorrere incessantemente da
un termine all'altro della realtà.
E le infinite cose di cui sembra
fatto il nostro mondo? E le loro continue trasformazioni, che Eraclito aveva
rappresentato nell'immagine del fuoco eternamente vivo? Secondo Parmenide e i
suoi discepoli si trattava di pure illusioni, fantasmi generati dai sensi. La
verità è unica - dicevano gli Eleati - ed è quella che ci
è mostrata dalla ragione. Quelli che vorrebbero filosofare, ma non hanno
il coraggio di respingere la testimonianza dei sensi sono «uomini a due
teste»: ammettono l'esistenza dell'inesistente e pretendono di pensare
l'impensabile.
ESSERE, ONTOLOGIA, METAFISICA
La parola «essere» è uno
dei termini - chiave del pensiero occidentale. È stata usata in molti
significati diversi e almeno in parte la suggestione che ha esercitato sui
filosofi, da Parmenide in poi, è legata proprio alla sua
ambiguità. Innanzi tutto occorre distinguere il verbo dal sostantivo.
Come verbo può essere adoperato in senso relativo o in senso assoluto. In
senso relativo serve da copula, ossia è il legame tra il soggetto e il
predicato di una proposizione: «Pietro è giovane», «I cani
sono mammiferi», «Charles Chaplin è Charlot» ecc. In senso
assoluto equivale invece ad «esistere»: «L'Essere è».
Come sostantivo (qui lo scriviamo con la E maiuscola appunto per distinguerlo
dal verbo) può indicare sia il fatto di essere (l'esistenza) sia
ciò che esiste (l'ente). L'ente, poi, può indicare sia ciò
che esiste realmente (è una «cosa», in latino = res) sia
ciò che esiste solo nel pensiero (i numeri, ad esempio, che sono enti
matematici).
«Ontologia» (dal greco on, ontos, participio
presente del verbo greco einai, che significa «essere» e da logos =
«discorso») è la disciplina filosofica che si occupa
specificamente dell'«Essere in quanto Essere» (secondo la formula
usata da Aristotele) e cioè dei caratteri comuni a tutti gli esseri.
Tutti gli esseri, infatti, spirituali o materiali che siano, hanno alcune
proprietà generali come l'esistenza, la possibilità, la durata,
ecc.: lo studio di tali proprietà è appunto ciò che si
chiama «ontologia». Il termine è relativamente recente essendo
entrato nel linguaggio filosofico non più di tre o quattro secoli
fa.
Un sinonimo di ontologia, più antico e più usato,
è il termine «metafisica», dal greco tà metà
tà physikà che alla lettera vuol dire «ciò che sta
dopo la fisica». Il termine è stato usato dal filosofo greco
Andronico di Rodi (primo secolo a.C.) per indicare un gruppo di scritti che
nell'ordinamento complessivo delle opere di Aristotele veniva dopo quelle che
trattavano di argomenti naturali o «fisici». Il contenuto delle opere
aristoteliche indicate con il termine «metafisica», costituito dalle
ragioni, dalle cause, dalle connessioni e dalle proprietà ultime
dell'Essere in generale, ha finito per stabilire il significato del termine
stesso. Se la botanica si occupa delle piante, la zoologia degli animali, e
così via, la metafisica (o ontologia) studiando l'Essere in generale
studia il fondamento comune di tutte le scienze particolari: per essere una
pianta, un animale, ecc. bisogna innanzi tutto «essere» ed è
appunto scopo della metafisica capire che cosa voglia dire.
Il fatto che la
metafisica si occupi del fondamento comune di tutte le scienze le ha garantito
una posizione di particolare prestigio fra le discipline filosofiche,
soprattutto quando il suo oggetto non è stato inteso semplicemente come
l'Essere in generale, ma come Essere divino, come Dio; da ontologia, allora, la
metafisica diventa teologia. Il tratto comune tra ontologia e teologia è
costituito dal fatto che l'esistenza e la natura di Dio fornisce la ragione o
spiegazione ultima del modo d'essere delle cose: dall'idea che ci facciamo di
Dio (se ce ne facciamo una) dipende l'idea che abbiamo del mondo. Così,
se si concepisce Dio come un essere infinitamente buono (come avviene, per
esempio, nella teologia cristiana), preoccupato della sorte delle sue creature,
si finirà inevitabilmente per trovare nella realtà i segni della
sua sollecitudine e per scoprire nelle cose un ordine
provvidenziale.
LA BEN ROTONDA VERITŔ
Dell'opera Sulla natura, che Parmenide
scrisse in versi, non restano che pochi frammenti. Uno dei frammenti più
lunghi è il proemio del poema, che offre un'immagine simbolica assai
suggestiva dell'avventura del filosofo: Parmenide, condotto su un carro tirato
da cavalle e attorniato da fanciulle che indicano la strada, oltrepassate le
tenebrose «case della notte», giunge a un tempio luminoso che è
la dimora della Dea:
... E benigna la Dea m'accolse, e mi prese la
destra
e così parlò dicendomi queste parole:
- O giovane
condotto da guide immortali
che vieni alla nostra casa portato dalle
cavalle,
sii il benvenuto! Poiché non fu un avverso destino
a
mandarti per questa via (che è invero lontana dall'orma
dell'uomo),
ma la legge divina e la giustizia. Ma ora devi imparare ogni
cosa
e il cuore che non trema della ben rotonda verità
e le
opinioni dei mortali, in cui non è vera certezza...
La Dea
dunque si accinge a insegnare a Parmenide sia la verità unica ed eterna,
sia le molteplici e contraddittorie opinioni degli uomini. Alcuni commentatori
hanno interpretato questi versi nel senso che Parmenide avrebbe ammesso, accanto
alla conoscenza razionale (che ha per oggetto la verità), una conoscenza
sensibile (il cui oggetto è l'opinione), anche se come conoscenza di
grado inferiore (in essa infatti «non è vera
certezza»).
È più probabile però che Parmenide
avvicinasse verità e opinioni come termini antitetici, incompatibili
l'uno con l'altro, intendendo che l'affermazione della prima è per
ciò stesso la negazione delle seconde.
La conoscenza non si
raggiunge, secondo Parmenide, indagando il mondo ingannevole della natura, come
avevano cercato di fare i filosofi ionici, ma attraverso un'illuminazione
intellettuale che (come fa la Dea nel poema) rivela tutt'intera la
verità.
Legato al culto solare del Dio Apollo, Parmenide aveva del
sapere una concezione estremamente aristocratica e postulava una profonda
frattura tra sapere profano (le opinioni del volgo) e la verità
accessibile solo a pochi eletti: una posizione destinata a tornare più
volte nella storia del pensiero occidentale.
ZENONE
Zenone era nato intorno al 490 a.C. ed era
legatissimo a Parmenide, di cui era più giovane di circa venticinque
anni. In un dialogo (intitolato appunto Parmenide) Platone rievoca la visita
fatta ad Atene dai due amici verso la metà del V secolo. Il dialogo
platonico non può essere assunto come sicura fonte storica, ma offre
un'immagine di Zenone, intento a discutere le sue tesi paradossali con i
filosofi ateniesi e divertito dall'imbarazzo che esse avevano suscitato, che
è gustosa e probabilmente veritiera. Particolarmente interessanti sono le
motivazioni che, secondo Platone, avrebbero spinto Zenone a scrivere il suo
libro:
... Questo mio libro vuol essere una difesa della dottrina di
Parmenide contro coloro che pretendono di metterla in ridicolo e dicono che,
ammessa la tesi che tutto è uno, ne deriva una serie di conseguenze
ridicole e contraddittorie. Questo libro vuole insomma polemizzare con quanti
sostengono l'esistenza del molteplice, e vuol rendere loro la pariglia e anche
più, dimostrando che l'ipotesi della molteplicità se la si
sviluppa fino in fondo porta a conclusioni anche più ridicole di quella
dell'unità del tutto...
In sostanza quel che stava a cuore a
Zenone era dimostrare non tanto la verità della dottrina di Parmenide,
quanto l'inconsistenza delle dottrine che le si opponevano. Come avrebbe detto
Timone di Fliunte:
... La lingua di Zenone ha forza grande e tenace a
difendere le tesi più opposte e trova a ridire su tutto...
Gli
argomenti di Zenone erano diretti a negare oltre alla molteplicità, il
movimento, e sono appunto questi ultimi i più noti. I principali
sono:
Quello detto della dicotomia (= «divisione in due»):
è impossibile arrivare alla fine di un percorso; prima di arrivarci,
infatti, bisogna arrivare alla metà del percorso; e prima di arrivare
alla metà, bisogna arrivare alla metà della metà, e
così via, all'infinito.
Quello detto di Achille e la tartaruga: se
Achille dà alla tartaruga un piccolo vantaggio iniziale, non gli
sarà più possibile raggiungerla; quando avrà raggiunto il
punto di partenza della tartaruga, infatti, la tartaruga si sarà spostata
un poco più avanti, e quando Achille avrà raggiunto questo secondo
punto, la tartaruga sarà avanzata ancora di un poco, e così via,
all'infinito.
Quello detto della freccia: una freccia scoccata dall'arco in
ogni istante del suo velocissimo moto occupa un luogo che è esattamente
uguale a sé; ma ciò che occupa un luogo uguale a sé non si
muove e perciò la freccia è immobile in tutti gli infiniti istanti
del suo moto (la freccia non si muove nel luogo in cui è, perché
ci sta e dunque non si muove, ma non si muove neppure in un luogo in cui non
è, appunto perché non c'è).
MORTE DI ZENONE
Pare che Zenone sia morto sotto la tortura
per non rivelare i nomi dei partecipanti ad una congiura che aveva organizzato
contro il tiranno della sua città. Diodoro Siculo, uno storico del primo
secolo a.C. racconta così l'episodio:
«Poiché la sua
patria era ridotta in dura servitù dal tiranno Nearco, ordì una
congiura contro di lui. Essendo stato scoperto e sottoposto a tortura, a Nearco
che voleva sapere i nomi dei complici rispose: - Oh, se potessi comandare al mio
corpo così come sono padrone della mia lingua! - Il tiranno allora gli
fece infliggere tormenti ancora maggiori e Zenone per un po' resistette; poi
volle tentare di liberarsi dalla tortura e nello stesso tempo di vendicarsi del
tiranno architettando questo piano. Quando la corda della macchina di tortura fu
arrivata al punto della maggior tensione, fingendo di esalare l'ultimo respiro
per la sofferenza, gridò: - Basta! diro tutta la verità! - Poi,
non appena allentarono le corde, chiese che il tiranno gli si avvicinasse per
ascoltare le sue parole da solo, poiché molte delle cose che gli avrebbe
detto era meglio che restassero segrete. Il tiranno gli si avvicino pieno di
gioia ed accostò l'orecchio alla bocca di Zenone, il quale lo
addentò e vi ficcò i denti. I servi accorsero subito e inflissero
ogni supplizio al torturato per fargli aprire la bocca, ma quegli la serrava
ancora di più. E infine, non potendo vincere la forza d'animo di
quell'uomo lo trafissero nel fianco perché disserrasse i denti. E con
questo stratagemma si liberò dei tormenti e ebbe dal tiranno la prevista
punizione».
EMPEDOCLE E ANASSAGORA
Le tesi eleatiche dell'Essere colpivano per
il loro rigore, ma insieme sconcertavano per la drasticità con cui
liquidavano come pura illusione il divenire, la molteplicità e in
generale il mondo dell'esperienza sensibile. I principali filosofi greci del V
secolo a.C., Empedocle, Anassagora e Democrito, concentrarono la propria
riflessione sul dilemma Essere-divenire e ne proposero delle soluzioni per certi
aspetti simili: tutti e tre infatti attribuivano le caratteristiche dell'Essere
non ad un unico ente, ma ad una molteplicità di principi costituenti
dell'Essere, e interpretavano il divenire come effetto della loro unione e della
loro separazione.
Empedocle era un influente cittadino di Agrigento ed
esponente del partito democratico, ma soprattutto un famoso medico e mago. Sul
suo conto circolavano già in antico una quantità di aneddoti, per
lo più poco attendibili. Si diceva per esempio che avesse resuscitato una
donna dopo trenta giorni dalla morte e che riuscisse con certe sue arti a
controllare le tempeste.
Empedocle individuava i principi costituenti
l'Essere nei quattro elementi (o sostanze semplici), la terra, l'aria, l'acqua e
il fuoco, che già i filosofi ionici avevano individuato come forme o come
componenti della materia. Rispetto agli Ionici, però, per i quali l'acqua
si confondeva con l'umido e con lo stato fluido, il fuoco con il caldo e il
secco, la terra con lo stato solido, e così via, Empedocle distingueva
nettamente le sostanze dai loro attributi, che erano anch'essi in numero di
quattro, essendo rappresentati dalle due coppie di opposti caldo-freddo e
umido-secco.
Secondo Empedocle, i quattro elementi dell'Essere mescolandosi
in diverse proporzioni danno origine alle sostanze complesse di cui sono fatte
tutte le cose esistenti in natura. Mescolanze e separazioni avverrebbero per
azione di due forze cosmiche contrapposte, l'Amore e l'Odio (con terminologia
moderna potremmo chiamarli attrazione e repulsione), destinate a prevalere
nell'universo in fasi alterne. Quando il dominio dell'Amore è assoluto, i
quattro elementi si trovano uniti in un miscuglio perfettamente omogeneo:
è la fase che Empedocle chiama lo Sfero, «la più beata delle
divinità», quando l'Essere gode «della sua solitudine
avvolgente». In questo stadio di assoluta quiete, non può esserci
né Terra né Cielo né altro perché ogni cosa si
confonde nel Tutto.
È solo quando l'Odio rompe l'uniformità
dello Sfero che le cose cominciano ad emergere nella loro particolarità.
D'altra parte anche l'assoluta prevalenza dell'Odio, che determina la totale
separazione dei quattro elementi, rende impossibile l'esistenza delle cose.
L'universo quale lo conosciamo è insomma il risultato dell'equilibrio
delle due forze cosmiche.
Anche Anassagora cercava di spiegare il divenire
delle cose come effetto di unioni e separazioni degli elementi che le
costituiscono. Questi elementi, però, erano rappresentati non da un certo
numero di sostanze diverse l'una dall'altra, come quelle indicate da Empedocle,
ma da un numero infinito di corpuscoli invisibili (chiamati semi delle cose),
ciascuno dei quali sarebbe, sia pure in proporzioni diverse, un miscuglio di
tutte le sostanze: Aristotele li avrebbe chiamati omeomerie (da hòmoios =
«simile» e mèros = «parte»). «Ogni sostanza -
diceva Anassagora - partecipa in una certa misura di tutte le sostanze e in ogni
cosa vi è un po' di ogni altra cosa». Così, ad esempio, il
fuoco è presente in tutti i corpi, e quello che chiamiamo fuoco è
semplicemente un aggregato di corpuscoli nei quali le qualità del fuoco
sono prevalenti.
Nell'affiancare ai quattro elementi della tradizione
ionica i due principi dell'Amore e dell'Odio Empedocle aveva dato una prima
formulazione dell'antitesi di materia (principio passivo, inerte) e di forza o
energia (principio attivo), che in precedenza non erano mai state chiaramente
distinte. Anche Anassagora accettava l'assunto dell'assoluta inerzia della
materia. Posta una tale ipotesi, però, per spiegare il movimento
Anassagora faceva ricorso ad un principio immateriale, la Mente o Spirito (in
greco: Nous). Come Empedocle aveva introdotto la distinzione tra materia ed
energia, così Anassagora inaugurava l'opposizione di materia e spirito.
Fino a quel momento, infatti, i filosofi greci avevano concepito la materia come
qualcosa di animato (e quindi di vivo) e insieme avevano pensato all'anima come
a qualcosa di materiale (anche se fatta di una materia particolarmente sottile,
affine all'aria).
L'EVOLUZIONE DELLE FORME VIVENTI SECONDO EMPEDOCLE
L'idea di una evoluzione delle forme viventi
si era affacciata già alla mente dei filosofi ionici, in particolare di
Anassimandro. Empedocle formulò in proposito una curiosa ipotesi.
Immaginava che tutti gli organismi viventi fossero costituiti da unità
funzionali come gambe, braccia, occhi, teste e così via, che all'inizio
avevano un'esistenza separata e che solo in un secondo momento, sotto la spinta
dell'Amore, avevano preso ad unirsi a caso le une con le altre. Da queste
associazioni casuali erano nati organismi di ogni tipo, alcuni dei quali (quelli
attualmente esistenti) si erano rivelati vitali e si erano riprodotti, mentre
gli altri, meno adatti alla sopravvivenza, erano progressivamente
scomparsi.
L'interesse di questa curiosa teoria sta tutto nell'aver
immaginato un meccanismo evolutivo che, almeno nei suoi principi generalissimi,
non è poi troppo dissimile da quello ipotizzato nel secolo scorso da
Charles Darwin: la comparsa casuale di innumerevoli forme di vita e la
successiva eliminazione delle forme meno efficienti.
Diogene Laerzio
racconta che Empedocle era stato iniziato alle setta pitagorica e poi espulso
per averne divulgato le dottrine. La notizia è tutt'altro che sicura, ma
effettivamente Empedocle professava una sorta di religione assai vicina a quella
pitagorica (credeva ad esempio nella metempsicosi) e si conoscono alcuni suoi
versi in onore di Pitagora.
La leggenda più nota riguarda la sua
fine: si sarebbe gettato nel cratere dell'Etna perché, convinto di essere
immortale, sperava di indurre in questo modo i suoi concittadini a riconoscerlo
e a onorarlo come un Dio.
AMICIZIA TRA PERICLE E ANASSAGORA
Anassagora era nato a Clazomene, nella
Ionia, intorno al 499 a.C., ma visse per oltre trent'anni ad Atene, dove era
stato chiamato da Pericle, capo del partito democratico che allora governava la
città. Ad Atene Anassagora, che faceva parte degli intimi di Pericle,
entrò in relazione con gli uomini più illustri del suo tempo,
dallo scultore Fidia, al tragediografo Euripide, al filosofo Archelao, maestro
di Socrate, e forse conobbe lo stesso Socrate.
Plutarco, uno storico greco
del I secolo d.C., autore delle Vite parallele, una celebre raccolta di
biografie riunite in coppie (un personaggio greco e uno romano), nella vita di
Pericle ricorda così l'amicizia tra i due:
... Chi visse
più strettamente a contatto di Pericle e contribuì a fargli
assumere un abito di serietà e a dotarlo di una mentalità
più nobile di quella corrente tra gli uomini politici, chi, insomma,
portò alle maggiori altezze la grandezza del suo carattere fu Anassagora
di Clazomene, dai contemporanei soprannominato Nous (Mente), forse per
l'ammirazione che suscitavano le sue eccezionali capacità nel campo delle
scienze della natura, o forse perché fu il primo a suggerire quale
principio ordinatore dell'universo non il caso o la necessità, ma una
mente pura e semplice, la quale mette insieme le particelle di materia tra loro
simili, selezionandole dalla gran massa di tutte le sostanze nella quale si
trovano mescolate.
Pericle apprese da quest'uomo, per il quale nutriva una
straordinaria ammirazione, la scienza degli astri e le più alte
speculazioni, e, a quanto pare, imparò da lui non solo un modo di pensare
elevato e una maniera di esprimersi elegante, priva di volgarità o
sciatterie, ma anche l'impassibilità dei lineamenti, che non si
allentavano mai al sorriso, la grazia del portamento, il modo di drappeggiare la
veste, che non si scomponeva neppure quando parlando si accalorava, il tono
sempre uguale della voce, ed altri atteggiamenti del genere, che riempivano di
stupore tutti quelli che lo avvicinavano [...]
Ma non furono solo questi i
frutti che Pericle trasse dalla sua familiarità con Anassagora. Sembra
che imparasse anche ad essere superiore ai terrori superstiziosi che i fenomeni
celesti provocano in chi non ne conosce le cause, e, timoroso della potenza
degli Dei, resta turbato per pura ignoranza. All'ignoranza rimediano le scienze
naturali, che sostituiscono la superstizione impulsiva e piena di paure con una
forma di venerazione degli Dei fatta di fiduciosa
attesa...
L'autorità di Pericle in Atene era immensa, ma
fondata sul consenso dei cittadini, i quali, sotto il suo governo, godettero
delle libertà democratiche in misura altrove sconosciuta. Questo consenso
poteva venir meno in qualsiasi momento e doveva essere ogni volta riconquistato.
Nel 432 a.C. Pericle attraversò un momento difficile e i suoi amici
subirono attacchi di ogni genere. Alcuni di loro (tra cui Anassagora) furono
accusati tra l'altro di empietà e ateismo.
Nei confronti di
Anassagora l'accusa si fondava sul fatto che invece di riconoscere la natura
divina degli astri, li studiava come banali fenomeni fisici: aveva formulato una
teoria delle eclissi e sosteneva pubblicamente che il Sole era un sasso
infuocato, e che la Luna, da quello che si poteva vedere, appariva così
simile alla Terra, con valli e montagne, da far supporre che fosse anche
abitata. In tutto questo non c'era molto di nuovo. La novità era che
qualcuno potesse essere processato per questo.
Gli avversari di Pericle che
proposero e fecero approvare il decreto che assimilava ateismo e astronomia e
puniva entrambi come reati appartenevano come Pericle al partito democratico, di
cui anzi rappresentavano l'ala estrema. Non c'è da stupirsi troppo che
proprio da loro partisse una tale iniziativa, né che vicende del genere
si siano ripetute più volte nella città che era la patria della
democrazia greca: dopo Anassagora, infatti, sarebbero stati vittime del
fanatismo religioso in Atene Protagora (in un momento però in cui il
regime democratico era sospeso e il potere era stato assunto da un'assemblea di
quattrocento cittadini scelti tra i più ricchi), Socrate, Aristotele. La
democrazia è sicuramente il migliore dei sistemi politici sperimentati
dall'uomo, ma non è detto che la maggioranza al governo sia sempre
tollerante.
Non si sa bene se Pericle sia poi riuscito a fare assolvere
Anassagora dal tribunale o se semplicemente lo abbia fatto fuggire. Sta di fatto
che il filosofo fu costretto ad abbandonare Atene per Lampsaco, dove
fondò una scuola e dove morì poco dopo, nel 428
a.C.
LA TACCAGNERIA DI PERICLE
A differenza di Anassagora, che, dice
Plutarco, «per seguire le sue meditazioni aveva lasciato in abbandono la
casa e ridotto la sua terra a una brughiera incolta, buona solo come pascolo di
pecore», Pericle era molto ricco e sapeva amministrare molto bene il suo
patrimonio. Anche se c'era in lui una punta di spilorceria (in casa si viveva
alla giornata e con le spese ridotte all'osso), normalmente Pericle provvedeva
ai bisogni dell'amico. Una volta, però, racconta Plutarco,
...
in un momento in cui Pericle era assorbito in altre occupazioni e non aveva
tempo di badare a lui, il filosofo, ormai vecchio, si mise a letto con il capo
velato, deciso a lasciarsi morir di fame. Non appena seppe la cosa, Pericle si
precipitò costernato da Anassagora e lo scongiurò in tutti i modi
di desistere dal suo proposito, compiangendo non tanto lui, quanto se stesso,
perché avrebbe dovuto rinunciare ai lumi di un consigliere così
saggio. Quando lo sentì dire queste cose il vecchio si scoprì il
volto e gli rispose: - Ma caro Pericle, chi ha bisogno di una lucerna, vi versa
dell'olio ogni tanto...-
DEMOCRITO
La costruzione forse più affascinante
della filosofia greca fino a Socrate è la dottrina atomistica proposta
nel V secolo a.C. da Leucippo di Mileto (di cui si sa molto poco) ed elaborata
nella forma che ci è nota da Democrito di Abdera. Nel secolo successivo
sarebbe stata ripresa con poche modifiche da Epicuro e dalla sua scuola. Per
circa due millenni la maggioranza dei dotti ha preferito come teoria generale
della realtà quella di Aristotele, ma le tesi atomistiche non sono state
mai dimenticate e al tempo di Galilei hanno costituito un ingrediente
fondamentale nel sorgere della scienza moderna.
Democrito, uno dei
più importanti filosofi greci, contemporaneo di Socrate, era nato ad
Abdera, in Tracia, intorno al 460 a.C. ed è morto intorno al 370. Ha
scritto opere di matematica, fisica, etica, musica, ma della sua vasta
produzione non restano che i titoli, qualche frammento e le testimonianze di
suoi contemporanei e di alcuni seguaci.
Per Democrito tutte le cose sono
costituite da atomi separati gli uni dagli altri da spazi vuoti. Gli atomi sono
piccolissime particelle di materia assolutamente compatte, impenetrabili (atomo
in greco significa appunto «indivisibile», da a privativo e dal verbo
témno = «taglio»), indeformabili, che si muovono continuamente
nel vuoto, più o meno come fanno i corpuscoli di polvere che si vedono in
un raggio di sole.
Muovendosi nel vuoto gli atomi si urtano, rimbalzano,
cambiano velocità e direzione. Questi urti ripetuti finiscono per
provocare delle correnti vorticose dove gli atomi si addensano e si aggregano.
Gli atomi sono eterni, ossia non hanno né principio, né fine e
anche il loro movimento non ha mai avuto inizio e non finirà mai. I
vortici al contrario si formano e si dissolvono in continuazione e con loro si
formano e si dissolvono tutti i corpi esistenti nel nostro mondo (e negli altri
infiniti mondi possibili).
I corpi, però, che sono costituiti di
atomi, contengono anche innumerevoli spazi vuoti. L'esistenza di questi vuoti fa
si che i corpi siano divisibili (quando si taglia una mela con un coltello la
lama penetra avanzando nel vuoto che c'è tra atomo e atomo); allo stesso
modo l'assenza di vuoto negli atomi (ossia la loro assoluta compattezza) spiega
perché siano fisicamente indivisibili.
La materia (gli atomi) e lo
spazio (il vuoto) sono i soli due principi postulati dalla teoria atomistica.
Entrambi sono eterni, e immutabili, come l'Essere di Parmenide. Ma entrambi sono
infiniti, a differenza dell'Essere di Parmenide: gli atomi sono infiniti di
numero e lo spazio è illimitato. La materia di cui sono fatti gli atomi
è la stessa ovunque, esattamente come nell'Essere di Parmenide, dato che
la sua unica qualità è di occupare spazio e cioè di essere
il pieno in contrapposizione al vuoto.
Gli atomi sono dunque omogenei (dal
greco homogenes, composto di homo = «lo stesso» e génos =
«genere»), ma non sono affatto uguali, in quanto differiscono l'uno
dall'altro per forma, grandezza e posizione. Le differenze esistenti tra i corpi
possono derivare soltanto dalla diversità nel numero, nella forma, nella
grandezza o nella collocazione degli atomi di cui ciascun corpo è
costituito. Forma, grandezza, posizione sono differenze quantitative, nel senso
che possono essere espresse in numeri e figure geometriche. Tra i corpi
però percepiamo anche differenze di altro genere: colori, odori, sapori,
ecc. Secondo Democrito queste differenze (che chiameremo qualitative per
distinguerle dalle altre) non esistono realmente, ma sono prodotte dai nostri
organi di senso quando entrano in contatto con i corpi stessi. In altre parole,
forma, grandezza e posizione sono attributi della materia (o, come anche si
può dire, sono qualità primarie delle cose), mentre colori, odori,
sapori sono qualità sensibili (o qualità secondarie), che noi
percepiamo nei corpi, ma che non corrispondono a nulla di
reale.
INFINITO
La parola latina infinitum, così come
il suo equivalente greco apeiron, voleva dire letteralmente «senza
fine» (nel senso di «senza confine», ma anche di «senza
definizione») e poteva assumere due valori esattamente opposti, a seconda
che prevalesse il significato di «non finito» (e perciò
imperfetto), oppure quello di «privo di limiti» (di cui non si
può concepire nulla di più grande, e perciò perfettissimo).
L'assenza di limiti poteva essere riferita alla qualità (nel senso di
informe o indefinito) oppure alla quantità (secondo il significato oggi
corrente del termine «infinito»); in questo secondo caso poteva essere
riferita all'estensione (infinitamente grande o infinitamente piccolo) oppure al
numero.
Greci e Latini avvertivano con difficoltà la differenza tra
«non finito» e «privo di limiti» e spesso attribuivano
all'uno i caratteri dell'altro. L'apeiron di Anassimandro, che è la prima
esplicita formulazione della nozione di infinito, conserva per intero
l'ambiguità del termine: è senza limiti in relazione sia alla
qualità (indefinito), sia alla quantità (infinito per estensione e
per numero, giacché l'apeiron è illimitato e contiene un numero
infinito di mondi). Anassimene postulava invece un principio infinito in ordine
all'estensione, ma definito in ordine alla qualità:
l'aria.
L'associazione dell'infinito con l'imperfezione è stata
esplicitamente formulata dai Pitagorici: per loro l'infinito era il male, il
principio stesso del disordine. Ma la radicale negazione dell'infinito doveva
venire da Parmenide e da Zenone per i quali non solo l'infinito non esisteva, ma
non si poteva neppure concepire. Anche in seguito i filosofi classici (salvo
poche eccezioni) preferirono negare la realtà dell'infinito e immaginare
l'universo come un mondo chiuso.
Solo gli atomisti, e quindi Democrito,
accettarono l'idea di un universo senza limiti tornando anzi a ipotizzare (come
già aveva fatto Anassimandro) un'infinita pluralità di
mondi.
IL CASO E LA NECESSITŔ
Quasi all'inizio della Divina Commedia
(precisamente nel quarto canto dell'Inferno) Dante racconta il suo incontro con
le anime degli antichi filosofi greci che stanno nel Limbo. Tra loro Dante
vede
... Democrito che 'l mondo a caso pone...
In
verità questo verso di Dante ripete a distanza di secoli un giudizio che
circolava frequentemente nell'età classica e tra gli stessi contemporanei
di Democrito. Ma in che senso si può dire che Democrito pone il mondo
«a caso»?
Per Democrito tutte le cose nascono da combinazioni di
atomi. Ma gli atomi si combinano insieme non perché siano guidati da un
Dio o da una forza intelligente come la Mente immaginata da Anassagora,
né perché esista tra di loro una relazione di amore-odio come
quella immaginata da Empedocle: unioni e separazioni sono semplici conseguenze
meccaniche degli innumerevoli urti a cui gli atomi sono soggetti nel loro
movimento.
Questo eterno movimento degli atomi a sua volta non ha alcuno
scopo, né alcuna direzione determinata. Democrito, infatti, assume che
gli atomi si muovono, e che si muovono a caso (cioè in tutte le
direzioni), semplicemente perché non c'è nessuna ragione per
immaginare che debbano stare fermi o che debbano muoversi solo in certe
direzioni e non in altre.
Il mondo, dunque, è posto «a
caso», nel senso che non ha alcuno scopo e non rientra in alcun disegno
«razionale» (come sarebbe invece se lo si immaginasse prodotto dalla
volontà di un Dio o dall'azione di una forza intelligente, come la Mente
di cui parlava Anassagora). Ma escludere qualsiasi disegno divino non significa
affatto negare l'esistenza nella natura di una razionalità, di un ordine
e di leggi. Al contrario, nella dottrina atomistica il Caso coincide con la
Necessità.
Ammessa l'esistenza degli atomi e del vuoto, infatti,
tutto il resto scaturisce di conseguenza, secondo una ragione rigorosa. Proprio
per questo, per spiegare l'esistenza e la razionalità del mondo non
è più necessario ricorrere all'intervento di un Dio o all'azione
di una forza intelligente: nella dottrina atomistica l'uno e l'altra sono
diventate ipotesi inutili.
LA MEDICINA ANTICA
Nei poemi omerici le frequenti descrizioni
di ferite, fratture o contusioni risultano così precise da far supporre
un corpo ormai consolidato di conoscenze e pratiche mediche, almeno in relazione
ai traumi da combattimento. La medicina non era ancora però una
professione specializzata: nell'Iliade si parla di guaritori, non di medici e lo
stesso Asclepio (più noto con il nome latino di Esculapio) era ricordato
come eccellente guaritore Macaone, ma non ancora come il Dio della
medicina.
La nascita del culto di Esculapio è più tarda e
coincise, nei santuari a lui dedicati, con una prima professionalizzazione della
pratica medica, nella quale per altro la guarigione del malato era affidata
all'azione congiunta di tecniche magiche, di metodi terapeutici di origine
empirica, di forme di esaltazione religiosa e di
autosuggestione.
L'esercizio della medicina restò a lungo una
prerogativa dei sacerdoti e delle sacerdotesse, sebbene nei santuari di
Esculapio fossero ospitati anche medici «laici», che erano
contemporaneamente al servizio del Dio e dei malati. Le scuole mediche
prosperavano nelle vicinanze dei templi dove il grande afflusso di malati
permetteva agli allievi di farsi una ricca esperienza: nel V secolo a.C. c'erano
scuole a Crotone, Cirene di Rodi, Cnido e Coo.
Alla scuola di Coo è
legato il nome di uno dei più grandi medici di tutti i tempi: Ippocrate.
Nato a Coo intorno al 460 a.C. e morto a Larissa dopo il 375, Ippocrate è
considerato non a torto il fondatore della medicina classica. Egli si
impadronì delle conoscenze accumulate dalle generazioni precedenti non
solo in Grecia, ma in Egitto e in Mesopotamia, le emancipò dalle pratiche
magiche e religiose con cui erano mescolate nelle scuole sacerdotali, e le
organizzò in una vera e propria disciplina scientifica.
A Ippocrate
sono state attribuite una quantità di opere mediche (il cosiddetto Corpus
hippocraticum) tutte scritte tra il V e il IV secolo a.C., nessuna delle quali
però può essere considerata sua con sicurezza. Negli scritti detti
ippocratici si trovano accurate descrizioni delle malattie e indicazioni
terapeutiche largamente ispirate al buon senso. Il criterio di fondo è
che la guarigione è opera della natura stessa e che il medico deve
limitarsi a collaborare con essa. Un'idea ricorrente è che le azioni
terapeutiche devono avere qualità opposte a quelle degli agenti della
malattia: le malattie da raffreddamento si curano con il caldo, le indigestioni
con il digiuno e le purghe, e così via.
Dal punto di vista del
metodo le caratteristiche fondamentali della scuola ippocratica erano l'assoluta
priorità assegnata nella pratica medica all'osservazione diretta del
malato (e cioè a quello che sarà chiamato l'approccio clinico alla
malattia) e l'attenzione per la malattia come evento complesso. La malattia
nella tradizione ippocratica era considerata un'alterazione dell'intero
organismo e non di una sua parte isolata, ed anzi, più in generale,
un'alterazione dell'equilibrio tra il singolo organismo e l'ambiente esterno
(clima, venti, natura del suolo e dell'acqua, ecc., ma anche consuetudini
sociali e rapporti interpersonali).
Sulla nozione di equilibrio (o armonia)
era fondata anche la teoria degli umori che considerava gli organismi umani come
combinazioni di quattro fluidi: sangue, flegma, bile nera e bile gialla.
L'armonia degli umori era la condizione che garantiva la salute, mentre ogni
loro scompenso era causa di malattie.
La teoria umorale si ricollegava alla
dottrina degli elementi di Empedocle (e di Aristotele). Stabiliva infatti
precise corrispondenze tra i quattro umori del corpo umano e i quattro elementi
dell'Essere (e le qualità rispettive): il sangue, che si riteneva
prodotto dal cuore, era messo in relazione con il fuoco (e il caldo), il flegma,
prodotto dal cervello, con la terra (e il freddo), la bile gialla, prodotta dal
fegato, con l'aria (e il secco), e la bile nera, prodotta dalla milza, con
l'acqua (e l'umido).
La combinazione degli umori non avveniva in tutti gli
organismi nelle stesse proporzioni ed anzi la teoria umorale individuava diversi
tipi umani caratterizzati da miscele o temperamenti diversi dei fluidi vitali:
il sanguigno, il collerico, il flemmatico, il melanconico. Come i temperamenti,
anche le malattie venivano raggruppate in classi diverse a seconda che a
causarle fosse stata la sovrabbondanza di sangue, di flegma, di bile gialla o di
bile nera. Più pericolosi venivano considerati gli eccessi di bile (causa
di pazzia) e gli eccessi di flegma (causa di epilessia).
La teoria umorale,
soprattutto nella formulazione che ne avrebbe dato Galeno nel secondo secolo
d.C., doveva ispirare le ricerche mediche in Occidente per oltre un millennio e
influenzare, direttamente o indirettamente, le discipline psicologiche e
antropologiche: non è un caso che la terminologia relativa agli umori
è penetrata nel linguaggio comune, dove è ancora usata
correntemente. La pratica del salasso, così diffusa fino al secolo
scorso, trovava il suo fondamento teorico nella dottrina degli umori, nel senso
che era il rimedio indicato contro l'eccesso di sangue. Per converso quella
stessa pratica forniva alla teoria umorale abbondanti materiali di osservazione
che sembravano confermarla.
L'Iliade ricorda Esculapio come un eccellente guaritore
ESCULAPIO
Secondo Esiodo Asclepio (in latino
Esculapio) era figlio di Apollo, il dio del Sole, e della ninfa Coronide. Aveva
appreso la medicina dal centauro Chirone (il maestro di Achille e di Giasone) ed
era diventato così bravo in questa disciplina che sarebbe riuscito a
resuscitare i morti. Questa sua abilità metteva però in pericolo
l'ordine del mondo quale era stato definito una volta per tutte e Zeus fu
costretto a intervenire folgorandolo. In Esiodo e Omero, dunque, Esculapio non
era ancora un Dio, ma un mortale. Il culto di Esculapio come Dio della medicina
nacque in Tessaglia, ma si diffuse presto in tutto il mondo greco. In Roma fu
introdotto solo nel III secolo a.C. Era consuetudine che coloro che erano
guariti da una malattia sacrificassero ad Esculapio un gallo: il gallo annuncia
il nuovo giorno, così come la guarigione è l'annuncio di una nuova
vita.
CLAUDIO GALENO
Nato a Pergamo, in Asia Minore, nel 129 d.C.
studiò medicina prima nella sua città natale, poi a Smirne e
infine ad Alessandria. Nel 157 tornò a Pergamo dove divenne, tra l'altro,
medico del collegio dei gladiatori, il che gli permise di esercitare e di
perfezionare la sua abilità di chirurgo. Nel 161 o 162 si stabilì
a Roma dove divenne celebre. Nel 166, in coincidenza di una gravissima epidemia
di peste, lasciò la capitale dell'impero per esservi richiamato poco dopo
quale medico dell'imperatore Marco Aurelio. Morì nel 201.
Oltre ad
alcune centinaia di trattati di medicina, igiene e farmacologia (molti dei quali
perduti), Galeno ha scritto diverse opere di filosofia, logica e retorica e tra
l'altro un Trattato sulla dimostrazione scientifica di cui purtroppo non restano
che frammenti. Le sue opere più famose, il Metodo terapeutico e l'Arte
medica nota l'una come Ars magna e l'altra come Ars parva, sono state una specie
di Bibbia per i medici del Medio Evo. È a Galeno che si deve la classica
formulazione della teoria degli umori e il suo collegamento alla fisica
aristotelica dei quattro elementi: fuoco, aria, terra, acqua, e delle quattro
qualità: caldo, freddo, secco, umido, che in sostanza si rifaceva alle
teorie di Empedocle. Filosoficamente Galeno era un eclettico, ossia non aderiva
a nessuna scuola in particolare, ma sceglieva tra i diversi sistemi di pensiero
le dottrine che gli apparivano più probabili. I pensatori che lo hanno
maggiormente influenzato sono stati Platone, Aristotele e gli
Stoici.
TEMPERAMENTO
Temperare vuol dire «mescolare in
giuste proporzioni» e quindi anche moderare, mitigare e simili. Nella
parola «temperamento», usata correntemente per indicare l'insieme
delle caratteristiche fisiche e soprattutto psichiche di una persona, il
significato originario è proprio quello di miscela. Secondo la teoria
umorale, infatti, dalla quale il termine è entrato nel linguaggio comune,
il temperamento di ciascuno è dato dalla peculiare proporzione in cui si
combinano i fluidi vitali.
La teoria elencava quattro temperamenti, a
seconda dell'umore prevalente. Il temperamento sanguigno, è
caratterizzato da complessione pletorica (ossia da sovrabbondanza di sangue),
aspetto florido e corpulento, faccia rubiconda, carattere esuberante ed
espansivo. Il temperamento flemmatico (dal greco phlegma =
«infiammazione»), caratterizzato da lentezza di riflessi e da
indolenza (la flemma, al femminile, significa appunto eccesso di pacatezza),
prende nome dal flegma, l'umore biancastro freddo e vischioso associato al
cervello. ll temperamento collerico prende nome dalla bile (in greco
cholé = «bile», «fiele»), mentre quello malinconico,
caratterizzato da frequenti stati di depressione, apprensione, angoscia, prende
nome dalla bile nera o atra bile (in greco melas = «nero» e
cholé= «bile»). Bile e atra bile erano probabilmente lo stesso
umore: la bile infatti è gialla se fresca, ma all'aria assume un colore
scuro.
I SOFISTI
Il termine «sofista» ha oggi
esclusivamente un significato negativo: sofista o sofistico è chi in una
discussione vuole aver ragione a tutti i costi e ricorre a cavilli e a
sottigliezze capziose. In origine però «sofista» era
l'appellativo dell'uomo dotto, sapiente, abile nel parlare e nel fare (che
è appunto il significato del verbo sophizestai); e Sofisti vollero
chiamarsi coloro che, nel V secolo a.C., presero a girare da una città
all'altra della Grecia offrendosi come maestri ai giovani disposti a pagare per
imparare la «pazienza» (sophia) di cui si dicevano portatori. Proprio
questa loro abitudine di farsi pagare fu una delle ragioni per le quali il
termine «sofista» finì con l'assumere una connotazione
negativa: erano degli educatori, si, ma prezzolati. Un'altra ragione della
cattiva fama che si sono fatti sta nel contenuto del loro insegnamento, che nei
confronti della tradizione religiosa appariva pericolosamente spregiudicato, se
non addirittura fonte esplicita di ateismo e di miscredenza. Un'ultima e
decisiva ragione è il discredito che Platone gettò a piene mani su
di loro, indicandoli come mistificatori e falsi dialettici, maestri solo
nell'arte di contraddire. Platone, però, pensava soprattutto ai Sofisti
della seconda generazione, suoi contemporanei e spesso allievi, come lui, di
Socrate; nei confronti dei primi grandi sofisti (come Protagora o Gorgia
entrambi nati nel secondo decennio del quinto secolo) non mancò, invece,
di esprimere apprezzamento.
I Sofisti non costituivano propriamente una
«scuola» filosofica e non avevano un nucleo comune di dottrine: il
contenuto dell'insegnamento che impartivano variava dall'uno all'altro. Tutti
però si dichiaravano «maestri di virtù» e come tali
rivendicavano un'importante funzione sociale. Nella Grecia delle
città-stato, spesso rette da regimi democratici o comunque a larga
partecipazione di cittadini, la virtù che insegnavano era in primo luogo
la virtù politica, e cioè l'abilità dialettica, la
capacità di orientare l'opinione della gente e di dominare le assemblee.
Talvolta questa capacità era intesa in senso meramente tecnico e
strumentale, come semplice arte oratoria; altre volte, invece, adombrava
qualcosa di più complesso e di più difficilmente definibile, che
oggi chiameremo «cultura», e cioè quella somma di nozioni, di
valori e di esperienze che permette di capire e di farsi capire, di orientarsi
nelle situazioni più diverse, di cogliere agevolmente la sostanza dei
problemi. In ogni caso era nel sapere (e non nella nascita o nella forza) che i
Sofisti indicavano il solo titolo legittimo all'esercizio del
potere.
È facile capire come in questa prospettiva eminentemente
politica e sociale l'insegnamento dei Sofisti destinasse solo scarsa attenzione
ai problemi della natura, dell'ordine cosmico, dell'origine del mondo. Questo
relativo disinteresse per questo genere di problemi che, come nel caso di
Anassagora, potevano indurre la ragione a penetrare negli inviolabili recinti
del sacro, avrebbe dovuto tranquillizzare i conservatori religiosi. In qualche
caso ebbe proprio questo effetto. Ma in generale il disinteresse per le cose
della religione appariva l'anticamera dello scetticismo e qualche volta lasciava
trasparire il disprezzo. Protagora dichiarava di non saper nulla degli Dei, e di
non poter dire né che esistessero, né che non esistessero; e
aggiungeva (forse con una punta di sarcasmo) che all'accertamento della cosa si
opponeva «l'oscurità del soggetto e la brevità della vita
umana». Prodico di Ceo (pressappoco coetaneo di Socrate e di Democrito, e
perciò di una ventina d'anni più giovane di Protagora) spiegava la
nascita della religione nella storia dell'umanità come effetto
dell'ingenua divinizzazione prima delle forze e delle manifestazioni benefiche
della natura, e poi delle arti e delle tecniche utili alla vita
associata.
A parte lo specifico problema religioso, i Sofisti apparivano in
ogni campo seminatori di dubbi. Di certo, se non scetticismo (che è
sfiducia nella possibilità di arrivare comunque ad una verità), i
Sofisti diffondevano un certo relativismo, un atteggiamento, cioè, di
diffidenza verso asserzioni drastiche e principi assoluti, e di attenzione per
la molteplicità degli approcci e dei punti di vista possibili nel
trattare qualsiasi questione. Confluivano in questo atteggiamento esperienze
diverse: quella tutta interiore dell'ambiguità del destino umano,
rilevata con forza già dai grandi tragici greci a partire proprio dai
tradizionali miti religiosi, che costituivano il materiale narrativo delle loro
tragedie; quella del diverso significato e del diverso valore, messo in luce da
storici e viaggiatori, che le stesse, identiche cose assumono presso popoli
diversi o in circostanze diverse (sicché, ad esempio, mangiare carne
umana è considerato un delitto orribile in Grecia, e un'ottima cosa tra
gli Antropofagi); quella, emergente soprattutto dalla pratica giudiziaria, delle
contrastanti versioni che di uno stesso fatto possono essere date (per esempio
dai testimoni o dalle parti in causa), tutte parziali, ma anche, in qualche
modo, tutte «vere».
La coscienza che per ogni esperienza esistono
due possibili discorsi in contrasto tra di loro e che questi due discorsi
opposti sono entrambi veri era il punto di partenza di tutta la riflessione di
Protagora. Al malato - diceva - i cibi «risultano» disgustosi e lo
«sono» davvero, mentre per l'uomo sano «sono» buoni,
perché così li sente. Non avrebbe alcun senso dire che il malato
ha torto e il sano ha ragione, o che questo «sa» (è sapiente) e
quello «non sa» (è ignorante). Hanno ragione entrambi, ciascuno
in rapporto alla propria condizione.
... L'uomo è misura di
tutte le cose, di quelle che sono per ciò che sono e di quelle che non
sono per ciò che non sono...
La materia è fluttuante e
le sensazioni dell'uomo (di ciascun uomo) mutano continuamente: il fluire delle
sensazioni determina l'essere delle cose. Non si può dire che la
sensazione dell'uomo sano sia «vera» e che quella del malato sia
«falsa», giacché tutte le sensazioni sono vere. Ma l'uomo
può dominare le sue esperienze e cioè può trasformare le
condizioni dell'esperienza: come la condizione del sano è preferibile a
quella del malato, così tra due discorsi contrastanti ce n'è
sempre uno migliore dell'altro; e come rientra nelle competenze del medico
trasformare lo stato di malattia in quello di salute, così è
compito e abilità del Sofista (ossia del saggio) far prevalere il
discorso migliore.
Più vicino a posizioni scettiche, almeno in un
certo momento della sua vita, fu l'altro grande rappresentante della sofistica,
Gorgia di Lentini, che era stato allievo di Empedocle. Morto ultracentenario
intorno al 390 a.C., Gorgia indicava il segreto della sua longevità nella
sua indipendenza di spirito e si vantava di non aver mai fatto nulla per adulare
o compiacere qualcuno. Pare che in gioventù, come allievo di Empedocle,
si fosse occupato di studi naturalistici e che in un secondo momento avesse
attraversato la cosiddetta «crisi eristica» (eristica, da erizein =
«contendere», è l'arte di disputare mediante sottigliezze
capziose, secondo il significato deteriore del termine «sofistica»),
che è documentata dal celebre trattato Sul non ente, ovvero sulla natura
(un titolo che era davvero tutto un programma). Rifacendosi al modello della
dialettica di Zenone, Gorgia tentava di dimostrare, confutando gli argomenti di
chi sosteneva il contrario, 1) che nulla esiste; 2) che se qualche cosa esiste,
non si può conoscere; 3) che se qualcosa esiste e si può
conoscere, non può essere comunicata ad altri.
Resta il dubbio se
questo trattato intendesse davvero essere una manifestazione di nichilismo
filosofico (dal latino nihil = «nulla»: radicale negazione della
realtà e confutazione dei sistemi filosofici che pretendono di darne
un'interpretazione) o se semplicemente volesse essere un'esercitazione
dialettica, un modello di argomentazione paradossale. Questa seconda ipotesi
sembra più probabile: in effetti Gorgia è soprattutto ricordato
dagli antichi come un abilissimo retore, capace, dice Platone, «di far
apparire grandi le cose piccole e piccole le grandi con la sola forza del suo
discorso». Ma con la retorica, ossia l'arte della persuasione (dall'antica
radice rhe = «dire»), si torna alla fondamentale ispirazione politica
di tutta la sofistica.
PROTAGORA
Le notizie sulla vita di Protagora, sono
piuttosto incerte: era nato ad Abdera, in Tracia, intorno al 486 a. C. Da
Platone (che, nonostante la sua avversione per i sofisti, nutriva grande
ammirazione per Protagora tanto da dedicargli uno dei suoi Dialoghi) sappiamo
che si recò in Sicilia e più di una volta ad Atene, dove strinse
amicizia anche con Pericle. Lo storico greco Diogene Laerzio riferisce di molti
scritti di Protagora tra i quali si distingue per importanza il trattato
intitolato La Verità: gli altri sono oggi generalmente considerati come
diverse sezioni di una stessa opera in due libri, intitolata Antilogie (dal
greco antilogìa = «contraddizione»). La prima di queste sezioni
era costituita dallo scritto Intorno agli dei, di cui è stato tramandato
il celebre frammento:
... Quanto agli dei, non ho modo di constatare
né che sono, né che non sono, opponendosi a ciò molte cose:
l'oscurità del soggetto e la brevità della vita
umana...
Proprio a causa di questa affermazione, Protagora fu
accusato, nel 411 a.C., di empietà ed ateismo dal tribunale ateniese, il
quale ordinò che tutti i suoi scritti fossero radunati nell'agorà
e bruciati. In seguito alla condanna, forse bandito dalla città di Atene
o forse in fuga, morì nel naufragio dell'imbarcazione che lo portava in
Sicilia.
«CHI HA UCCISO EPITIMO DI FARSALO?»
Tipica espressione della ricerca sofistica
è la discussione tra Protagora e Pericle, di cui dà notizia
Plutarco (e che, a detta dello stesso Plutarco, si sarebbe protratta per
un'intera giornata), a proposito della morte di un giovane, Epitimo di Farsalo,
trafitto per errore durante una gara di lancio del giavellotto.
Si trattava
di stabilire chi avesse effettivamente provocato la morte di Epitimo, se il
giavellotto, l'atleta che lo aveva lanciato, o i commissari di gara che non
avevano preso adeguate misure di sicurezza.
A pensarci bene, tutte e tre le
risposte sono giuste, o, meglio, la risposta giusta cambia a seconda della
persona a cui viene rivolta la domanda.
Se il quesito viene posto a un
medico legale (e cioè sotto il profilo della dinamica reale degli
avvenimenti) la risposta non può che essere: il giavellotto. Se è
posto a un giudice (e cioè sotto il profilo della responsabilità
penale) la risposta non può che essere: l'atleta.
Se posto al
direttore dei giochi (e cioè sotto il profilo delle responsabilità
amministrative) la risposta non può che essere: i commissari di
gara.
SOCRATE
Socrate è nato nel 469 ad Atene ed
è morto, giustiziato per ateismo, nel 399 a.C. Bruttissimo ma
affascinante, pieno di amici e ancora più di nemici, Socrate girava le
strade di Atene seminando nei giovani stimolanti dubbi filosofici e sgretolando
la sicumera di quanti professavano presuntuose certezze.
Socrate non ha mai
scritto nulla, anche perché riteneva di non avere nulla da tramandare ai
posteri, salvo forse un certo modo di affrontare i problemi; e questo modo, che
consisteva in una caratteristica tecnica di dialogare (ossia di discutere per
via di domande e risposte), si poteva insegnare ai giovani solo parlando con
loro, interrogandoli e costringendoli a interrogarsi incessantemente su ogni
cosa.
Così, però, per conoscere il pensiero di Socrate
dobbiamo rifarci a quello che ne hanno scritto i contemporanei, e in primo luogo
Senofonte (autore, tra l'altro, dei Detti memorabili di Socrate) e Platone
(autore dei Dialoghi), che erano stati suoi allievi ed amici. Ma le
testimonianze che ci sono rimaste coincidono solo in parte. Senofonte, ad
esempio, dà un'esposizione assai superficiale dell'insegnamento
socratico, mentre Platone, che superficiale non era, spinge il suo amore per il
maestro al punto di nascondersi dietro di lui: nei Dialoghi il protagonista
è quasi sempre Socrate, ma è difficile capire quando i discorsi
che gli sono attribuiti riflettono davvero il suo pensiero e quando invece
esprimono le idee di Platone.
In ogni caso la grandezza di Socrate non
è legata ad alcuna dottrina. Per lui filosofare non significava costruire
teorie generali dell'universo sul genere di quelle proposte dai filosofi
naturalisti. Almeno in questo Socrate condivideva l'atteggiamento dei Sofisti,
che, scettici circa la possibilità di conoscere qualcosa di sicuro
intorno al mondo, ritenevano più producente occuparsi dell'uomo e della
società.
Ma anche in questo campo, ossia nel campo della politica o
della morale, Socrate non aveva teorie definite. Si limitava ad esprimere
l'esigenza di una definizione rigorosa di nozioni come il bene e il male, il
giusto e l'ingiusto, la santità e l'empietà, che tutti assumono
come valori (ossia come criteri per giudicare le proprie azioni e quelle degli
altri), ma sul cui significato ben pochi hanno riflettuto seriamente. Quanto a
lui, si guardava bene dal formulare quelle definizioni che pretendeva dagli
altri: la ricerca della definizione gli interessava molto di più della
definizione stessa.
A questo proposito Socrate diceva che il suo compito
era simile a quello delle levatrici: come le levatrici erano solitamente scelte
in Atene tra le donne sterili, così lui, Socrate, era sterile
intellettualmente, ossia incapace di produrre verità. Ma come le
levatrici sono in grado di aiutare la donna gravida a partorire, così lui
era in grado di far venire alla luce la verità che ogni uomo ha dentro di
sé, e che ognuno potrebbe attingere da solo, senza bisogno di guide e
maestri, se soltanto fosse disposto a interrogare con sincerità la
propria coscienza.
Socrate, dunque, faceva pubblica professione di
ignoranza: «questo solo so di sapere: - diceva - che non so niente».
Nello stesso tempo, però, sosteneva di essere più sapiente di
tutti i cosiddetti sapienti, perché questi, di cui aveva lungamente messo
alla prova le conoscenze, credevano di sapere tutto e non sapevano nulla, mentre
lui non sapeva nulla, ma almeno sapeva di non sapere.
L'ignoranza ostentata
da Socrate era insomma una provocazione (si parla di «ironia
socratica») diretta contro quanti, presumendo di conoscere la
verità, la insegnavano, la predicavano, e ne facevano, per così
dire, commercio: sacerdoti, maghi, indovini e cattivi maestri d'ogni sorta,
compresi naturalmente molti uomini politici. Fingendo di voler essere istruito
da loro, Socrate li induceva ad esibire la propria «mercanzia» e
così aveva agio di dimostrare, al termine di assillanti interrogatori,
che si trattava solo di volgare paccottiglia.
Già questo
atteggiamento di Socrate, mentre entusiasmava i giovani per quello che aveva di
dissacrante, doveva riuscire assai indisponente per chi ne rimaneva vittima. Ma
la cosa forse più irritante in lui era la pretesa di demolire
verità comunemente e pacificamente accettate, senza avere alcuna nuova
verità da proporre al posto delle vecchie.
I benpensanti di tutte le
epoche sono intellettualmente troppo pigri per rinunciare a certezze
precostituite e per cercare da soli la verità. Socrate urtava la
suscettibilità dei benpensanti del suo tempo non tanto perché
confutava le loro antiche credenze (anche molti sofisti lo facevano, ed erano
per lo più non solo tollerati, ma onorati per la loro abilità
dialettica), quanto perché non aveva una sua verità da esibire e
da «vendere». La sua filosofica ignoranza era ciò che lo
rendeva irriducibilmente diverso dagli altri e perciò, anche,
potenzialmente pericoloso: agli occhi dei benpensanti era un
miscredente.
SOCRATE E IL CONCETTO
In senso generale il concetto è la
nozione che la mente si fa di una cosa (per es., «il concetto di
bello») oppure di una serie di cose (per es., «il concetto di
albero», che comprende tutti gli alberi esistenti, esistiti o immaginari).
Più precisamente il concetto è l'insieme dei caratteri capaci di
definire senza equivoci una cosa o una serie di cose.
Nel Vocabolario della
lingua italiana di Nicola Zingarelli alla voce «Albero» si trova la
seguente definizione: «ogni pianta con fusto eretto e legnoso che nella
parte superiore si ramifica». Il concetto di albero, dunque, secondo lo
Zingarelli, comprende quattro caratteri, e cioè: 1) pianta, 2) legnosa,
3) d'alto fusto, 4) con rami.
L'insieme dei caratteri che costituiscono la
definizione si dice comprensione del concetto (il concetto di albero comprende
quattro caratteri). L'insieme delle cose che possono essere definite da quei
caratteri si dice estensione del concetto. Minore è la comprensione di un
concetto, maggiore è la sua estensione e viceversa. Il concetto di albero
ha una comprensione maggiore del concetto di pianta (perché comprende tre
caratteri in più: legnoso, d'alto fusto e ramificato), ma ha
un'estensione minore (perché il concetto di pianta si estende non solo
agli alberi, ma anche ai cespugli, alle erbe, ecc.).
Aristotele dice di
Socrate che fu l'inventore del concetto. È un'affermazione che richiede
qualche precisazione. Senza dubbio Socrate esigeva dai suoi interlocutori che
dessero una definizione rigorosa di ciò di cui parlavano. Ma, in primo
luogo, a Socrate non interessavano affatto i concetti del tipo
«cavallo» o «albero», ossia i concetti che si estendono ad
un'intera classe di cose, e si preoccupava di definire solo cose come «il
bene», «il giusto», «il santo», «il
coraggio», «la temperanza», ecc. In secondo luogo, Socrate con la
sua tecnica del dialogo ha indicato una strada per la formulazione di concetti e
per la costruzione di una scienza fondata su definizioni rigorose, ma non ha mai
intrapreso davvero una tale costruzione, preferendo indirizzare i propri sforzi
alla confutazione del falso sapere.
PROCESSO A SOCRATE
Socrate fu condannato a morte sotto l'accusa
di corrompere i giovani insegnando loro cose contrarie alla religione dello
Stato. Si dice di solito che tale accusa era infondata, che Socrate
probabilmente credeva negli Dei e che, in ogni caso, era troppo rispettoso delle
leggi dello Stato, per non rispettare anche le credenze e i culti che queste
leggi imponevano agli Ateniesi. Può darsi che sia vero. Di sicuro gli
accusatori di Socrate sbagliavano quando (forse per malafede, ma più
probabilmente per stupidità) attribuivano a Socrate le dottrine di
Anassagora sulla costituzione dei corpi celesti, verso le quali Socrate aveva
sempre dimostrato il più assoluto disinteresse.
Ciò non
toglie, però, che gli accusatori di Socrate, coscienziosi paladini della
religione e della morale, avevano capito la cosa essenziale: e cioè che
una filosofia come quella di Socrate - un esame costante della propria
coscienza, un dialogo continuo con gli altri, la revisione incessante delle
certezze raggiunte era incompatibile con qualsiasi «verità»
ufficiale, non importa se di natura religiosa, morale o politica.
Ci si
può chiedere come mai un processo condotto di fronte a un tribunale
popolare nel pieno rispetto delle garanzie che il regime democratico ateniese
assicurava ad ogni cittadino abbia potuto confermare simili accuse e concludersi
con una condanna a morte. Come si è visto, però, non era la prima
volta, e non sarebbe stata l'ultima, che in Atene l'accusa di ateismo veniva
rivolta a dei filosofi. Per di più la democrazia ateniese era stata
umiliata dalla gravissima sconfitta subita nella guerra contro Sparta, e ancor
più di recente aveva dovuto subire il regime detto dei Trenta Tiranni,
una breve ma crudele esperienza di governo aristocratico: forse era troppo
debole e insicura per fare a meno di «verità» ufficiali, e per
sopportare irritanti manifestazioni di individualismo.
Come racconta
Platone nell'Apologia di Socrate («apologia» in greco significa
appunto difesa) Socrate si difese in modo ammirevole durante il processo:
rivendicò i propri meriti di pensatore e di uomo onesto, mostrò la
povertà morale e intellettuale dei suoi detrattori, sfidò
l'assemblea che doveva giudicarlo ad assumersi la responsabilità di
mandarlo a morte. Probabilmente il processo si sarebbe concluso senza alcuna
condanna, o con una condanna assai meno severa, se soltanto Socrate si fosse
mostrato più conciliante: quel che gli avversari volevano era la sua
umiliazione, non la sua morte. Ma Socrate parlò con disprezzo di quanti,
imputati di fronte all'assemblea, tentavano di commuoverla con pianti e
preghiere, e lasciò intendere che un tribunale che anziché
dispensare giustizia pretendeva di concedere grazie tradiva la sua funzione.
Infine proclamò la volontà di continuare a fare quel che aveva
sempre fatto, e che - diceva - gli era ordinato da quel Dio (o
«demone», come preferiva chiamarlo) a cui non aveva mai disobbedito:
la sua coscienza. Con ciò lasciava intendere che anche la democrazia ha i
suoi limiti e che le questioni di coscienza non si possono rimettere al voto di
un'assemblea.
Socrate fu riconosciuto colpevole. Al momento di proporre,
secondo la procedura allora in uso, una pena alternativa a quella di morte
richiesta dall'accusa, Socrate riuscì ad inasprire ancora di più i
suoi giudici chiedendo inaspettatamente di essere non punito, ma onorato quale
benefattore della patria. - Cittadini di Atene! - disse - se proprio devo avere
quel che merito, allora mi ci vuole un premio! - Il risultato fu che l'assemblea
votò per la pena di morte con una maggioranza ancora più
consistente di quella, piuttosto striminzita, che in precedenza aveva
riconosciuto la colpevolezza di Socrate. Mentre Socrate attendeva in carcere
l'esecuzione della sentenza, gli amici - come racconta Platone nel Critone -
trovarono il modo di farlo fuggire, forse con la tacita connivenza delle
autorità, per le quali la morte di un personaggio così noto era
sicuramente imbarazzante. Ma quando tutto sembrava pronto, Socrate
rifiutò di lasciare il carcere. Fuggire voleva dire violare le leggi di
Atene sotto le quali aveva liberamente scelto di vivere, e cioè
comportarsi in modo incoerente e opportunistico, come si vantava di non aver mai
fatto. Fuggire avrebbe anche significato piegarsi a quei compromessi che
già durante il processo gli erano stati offerti, e che aveva
sdegnosamente respinto per inchiodare i suoi concittadini alle
responsabilità che si erano assunti processandolo:
... E
così, - aveva detto allora - io me ne vado a pagare il mio debito di
morte, condannato da voi; e i miei accusatori se ne andranno a pagare il loro
debito di iniquità e di infamia, condannati dalla verità. Io mi
tengo la mia pena, e quelli si terranno la loro. E forse è bene che la
cosa sia andata così; credo che sia la misura giusta per
tutti...
Il Fedone, il dialogo che Platone ha dedicato al tema
dell'immortalità dell'anima, si conclude con il racconto delle ultime ore
di Socrate. Condannato a darsi la morte bevendo la cicuta, Socrate affronta la
separazione dal proprio corpo senza emozione: una volta morto, quel corpo non
gli apparterrà più, gli diventerà del tutto
estraneo.
... Io, miei cari, non riesco a persuadere Critone che sono
io questo Socrate che parla e dispone con ordine le sue parole; lui crede che io
sia quello che di qui a poco vedrà morto, e naturalmente mi domanda come
deve seppellirmi. [...] Io, quando avrò bevuto il veleno, non
rimarrò con voi, ma partirò e me n'andrò via lontano da
qui, beato tra i beati, [...] Critone stia con l'animo quieto, e vedendo arso il
mio corpo e sepolto, non si affligga per me come s'io stessi soffrendo pene
tremende, e non dica, al mio funerale, ch'egli mette in mostra Socrate, lo porta
via, lo seppellisce. [...] Via, fatti animo, e non dire più che
seppellirai me: dì che seppellirai il mio cadavere...
La morte
è sempre, anche, la liberazione dai condizionamenti del corpo.
Nel
caso di Socrate, poi, è una riaffermazione estrema di libertà: la
morte diventa così una sorta di guarigione. Per questo, morendo, Socrate
raccomanda di sacrificare un gallo ad Esculapio, come facevano quelli che
scampavano ad una grave malattia.
... Ed egli passeggiava: e quando
disse che le gambe gli si appesantivano, si mise a giacere supino; perché
così gli aveva detto di fare l'uomo che gli aveva portato il veleno. E
questi dopo un poco lo toccò e gli esaminò i piedi e le gambe; e
poi, premendo un piede, gli domandò se sentiva. E Socrate rispose di no.
E quello di nuovo gli premette le gambe, e, scorrendo in su con la mano, ci
faceva vedere come si stesse raffreddando e irrigidendo. E di nuovo lo
toccò, e ci disse che quando il freddo fosse giunto al cuore, allora
sarebbe morto. Già le parti di giù attorno al ventre erano fredde,
ed ecco, scoprendosi, perché si era coperto, disse queste parole, e
furono le ultime: - Critone, dobbiamo un gallo a Esculapio: dateglielo, e non ve
ne dimenticate -. - Sì - disse Critone - sarà fatto: ma vedi se
hai altro da dire -. A questa domanda egli non rispose più. Ma, dopo un
poco, si mosse; l'uomo lo scopri; ed egli restò con gli occhi aperti e
fissi. E Critone, veduto ciò, gli chiuse le labbra e gli
occhi...
DIALETTICA
Dialettica e dialogo derivano (come
dialetto) dal greco dialègein = «parlare»,
«discorrere», e dialègesthai = «conversare».
Dialettica è l'arte di disputare ossia di esaminare un problema per mezzo
della discussione, per via di domande e risposte. Aristotele indicava in Zenone
di Elea l'iniziatore di questo metodo, ripreso poi dai Sofisti. Il suo massimo
rappresentante è stato senza dubbio Socrate. Per Platone la dialettica
esprimeva l'autentico atteggiamento del filosofo, sempre aperto al dialogo e
sempre disposto a rimettere in discussione le proprie certezze. In Platone
emerge però anche un altro importante significato della parola: la
dialettica è la capacità di individuare le idee che sono legate
fra di loro da quelle che non lo sono. Essere e non-essere, ad esempio, al
contrario di quanto affermavano gli Eleati che ne facevano due opposti
irriducibili sono indissolubilmente legati giacché ogni idea è se
stessa proprio in quanto non è nessuna delle altre: il non-essere,
allora, è un concetto relativo, che esprime semplicemente la nozione di
diversità di un'idea dalle altre, nella quale diversità consiste
appunto l'identità dell'idea con se stessa.
MAIEUTICA
«Maieutica» è in greco
l'arte della levatrice. Il termine è entrato stabilmente nel linguaggio
filosofico per merito di Socrate, che, figlio di una levatrice diceva di
svolgere per le anime lo stesso ruolo che sua madre svolgeva per le donne
gravide. Come le levatrici non partoriscono, ma aiutano a partorire, così
Socrate non produceva sapere, ma con le sue domande aiutava le anime a far
venire alla luce quella verità che era maturata in loro. Ancora oggi il
termine ha lo stesso significato: si dicono ad esempio maieutici quei metodi
educativi che non impongono conoscenze già fatte, ma guidano gli allievi
a cercare da sé le soluzioni dei problemi.
IL CONFLITTO TRA FILOSOFIA E RELIGIONE
Come abbiamo visto, l'accusa di
empietà e ateismo era stata elevata per la prima volta in Atene contro
Anassagora. Si era trattato di un episodio chiaramente legato allo scontro
politico allora in corso all'interno del partito democratico tra l'ala moderata,
rappresentata da Pericle, protettore di Anassagora, e quella estrema, che aveva
promosso l'accusa. Quell'episodio aveva però segnato una svolta
importante nella storia della cultura greca, perché aveva messo
clamorosamente in luce la possibilità di un conflitto tra religione e
filosofia, che fino a quel momento (anche per la fortunata assenza in Grecia di
una vera e propria casta sacerdotale dotata di prestigio sufficiente ad
influenzare il potere politico) avevano convissuto senza troppi problemi.
I
filosofi greci, a cominciare dagli Ionici, nel tentativo di comprendere
razionalmente quei processi che le antiche teogonie avevano simbolicamente
raffigurato nelle imprese degli Dei, avevano (per così dire)
«naturalizzato» i miti della religione. Ma poi avevano indagatola
natura con spirito religioso: che espressioni come «il Dio» o simili
servissero a indicare la natura e le sue leggi non era soltanto un modo di dire.
Quei filosofi, in verità, erano così poco atei, che spesso si
presentavano come riformatori religiosi, nell'intento di epurare il culto degli
Dei dalle vecchie superstizioni (Eraclito, Senofane), oppure con l'ambizione di
introdurre nuovi riti e nuove credenze (Pitagora). Alcuni di loro avevano
adottato un linguaggio volutamente oscuro, enfatico, simile a quello degli
oracoli (Eraclito, Parmenide). Altri si erano detti ispirati dagli Dei
(Parmenide) o addirittura si erano spacciati per Dei o semidei (Pitagora,
Empedocle).
In sostanza, almeno fino al V secolo a.C. nessuno aveva
immaginato che ci potesse essere un'opposizione di principio tra filosofia e
religione. Nessuno, anzi, era mai arrivato a porre una consapevole e rigorosa
distinzione tra le due. Gradualmente, però, questa pacifica coesistenza
era entrata in crisi per effetto congiunto del crescente scetticismo degli
uomini colti e dell'insofferenza dei tradizionalisti nei confronti dei risultati
talvolta sconcertanti della ricerca filosofica. Il processo ad Anassagora non
è stato la causa di tale crisi; ne è stato però un sintomo
evidente, ed ha segnato l'inizio di una pratica persecutoria di cui hanno fatto
le spese, con conseguenze più o meno gravi, Protagora, Socrate e
Aristotele. Platone, preoccupato per la frattura tra religione e filosofia che
si andava approfondendo dopo l'uccisione di Socrate e che alla luce delle sue
tendenze conservatrici doveva apparirgli particolarmente pericolosa,
tentò di riconciliare credenze tradizionali e ricerca scientifica,
superstizione e ragione, suggestioni misteriche e pensiero speculativo; ma la
cosa poteva riuscirgli solo a patto di tornare a chiudere la speculazione nel
recinto della teologia, e cioè solo dando ragione in qualche modo agli
avversari.
Al conflitto tra religione e ragione Plutarco ha dedicato una
pagina interessante, che sottolinea tra l'altro come tra gli studi filosofici
fossero proprio le ricerche astronomiche a suscitare maggiore
sospetto:
... Anche il popolino è in grado di capire che
l'eclissi di Sole è provocata in qualche modo dalla Luna; ma la Luna che
cosa incontra per oscurarsi, e come fa, da piena che era, a perdere la luce
all'improvviso e a emettere luminescenze d'ogni colore? Non era facile venire a
capo del problema, tanto che lo si riteneva un fenomeno miracoloso, e segnale di
grandi sciagure mandate da Dio.
Il primo a esporre per iscritto la teoria
più chiara e spregiudicata sui periodi lunari fu Anassagora, ma egli non
aveva l'autorità che viene a uno scrittore dal tempo e la sua teoria era
poco nota, ed anzi ancora segreta.
Solo poche persone la conoscevano e se
la tramandavano con un certo sospetto, anzi che con fiducia. Gli scienziati o
astrologhi, come li chiamavano, non erano visti di buon occhio dalla gente
comune, perché riducevano l'azione di Dio nel mondo a cause naturali e
irrazionali, a forze imprevedibili e a un determinismo assoluto.
Protagora
fu mandato in esilio per questo motivo - Anassagora evitò per poco il
carcere grazie all'intervento di Pericle - e Socrate benché non avesse
alcun rapporto con questo genere di studi, perse ugualmente la vita a causa
delle sue idee.
Solo più tardi la gloria radiosa di Platone,
proveniente dalla sua vita non meno che dall'aver subordinato le leggi fisiche a
quelle divine o trascendenti, spazzò via il sospetto da cui erano
circondati questi studi e apri alle scienze una via per diffondersi tra la
gente...
CINICI E CIRENAICI
Sulle orme di Socrate sono sorte diverse
scuole che da lui riprendevano soprattutto il modello di una filosofia espressa
più con le azioni che con gli scritti e fatta più di pratiche di
vita che di dottrine. Le più importanti fra queste scuole furono quella
dei Cinici, fondata da Antistene (c. 436 - c. 366 a.C.), che era stato allievo
di Gorgia oltre che di Socrate, e quella dei Cirenaici, fondata da Aristippo di
Cirene (c. 435 - c. 366 a.C.).
Per i Cinici (dal greco kynikòs =
«canino»: erano detti così per alludere alla loro vita
randagia, o forse al loro spirito mordace) la virtù consisteva nel vivere
secondo natura, ossia nella massima semplicità possibile. Rinunciare al
superfluo riducendo le proprie esigenze alla soddisfazione dei soli bisogni
elementari era tra l'altro, secondo i Cinici, la condizione per conservare la
libertà (autàrkheia = «autarchia»,
«autosufficienza») del filosofo; quella libertà, cioè,
che è necessaria al filosofo per contestare non solo a parole, ma nei
fatti, le frottole, le ipocrisie, le vacuità della cosiddetta vita
civile. Il loro rabbioso disprezzo per le convenzioni sociali è stato
largamente ripagato dai conformisti, la cui ostilità verso questi laceri
e irritanti filosofi traspare ancora nel significato negativo che ha finito per
assumere il termine «cinismo», che nell'uso corrente sta a indicare
una forma di rivoltante indifferenza verso i valori, gli entusiasmi o le
sofferenze degli altri.
Tra i filosofi cinici il più popolare, sia
per la stravaganza dei suoi atteggiamenti, sia per il rigore delle sue idee,
è sicuramente Diogene di Sinope. Diogene era assertore di una forma
estremistica di comunismo, e predicava oltre alla comunione dei beni, quella
delle donne e dei figli. Praticava l'indigenza per dimostrare l'inutilità
della maggior parte dei beni considerati indispensabili in società e a
forza di rinunce si era ridotto a vivere in una botte coperto solo di un
mantello. L'unica suppellettile che si era concesso era una tazza per bere; ma
rinunciò anche a questa quando vide un ragazzo raccogliere l'acqua da una
fonte con le mani chiuse a coppa.
I Cirenaici prendono nome da Cirene, la
città della Libia dove Aristippo, amico e allievo di Socrate, dopo la
morte di questi aveva fondato la sua scuola. Mentre Antistene, caposcuola dei
Cinici, condannava drasticamente la ricchezza in nome della virtù,
Aristippo apprezzava il denaro e gli agi che questo poteva assicurare, tanto
che, allontanandosi dall'esempio di Socrate, si faceva pagare dai suoi allievi.
Come Antistene, però, anche Aristippo poneva al di sopra di tutto
l'autonomia e la libertà: le ricchezze, diceva, valgono per servirsene,
non per porsi al loro servizio, per possederle, non per esserne posseduti. I
Cirenaici sono stati i primi teorici dell'edonismo (dal greco hedoné =
«piacere»), ossia della dottrina che fa del piacere (fisico e morale)
il fine e la norma della vita umana. Non tutti i filosofi cirenaici credevano
però che il piacere si potesse davvero raggiungere o che, raggiunto, lo
si potesse godere durevolmente. Ma il piacere poteva anche essere concepito come
semplice assenza e soprattutto come cessazione del dolore. In questa direzione,
una versione particolarmente pessimistica dell'edonismo cirenaico fu
rappresentata nel IV secolo a.C. da Egesia, che insisteva sulla necessità
di sottrarsi al dolore comunque, magari col suicidio (fu detto per questo
«Persuasore di morte»). Sempre nell'ambito della scuola cirenaica una
tendenza radicale, per certi aspetti affine alla contestazione dei Cinici, fu
espressa sul finire del IV secolo a.C. da Teodoro l'Ateo, assertore di una
assoluta libertà sessuale, e negatore dei valori della religione e della
patria, cari ai conservatori. Per Teodoro la felicità non consisteva
tanto nel piacere fisico (che anzi relegava, come il dolore, tra le cose
indifferenti), quanto in quello morale: nella serenità dello spirito e
nella gioia che scaturisce dall'esercizio quotidiano della
giustizia.
DIOGENE E ALESSANDRO MAGNO
È notissimo l'aneddoto dell'incontro
di Diogene con Alessandro Magno. Plutarco, nella vita di Alessandro, lo racconta
così:
... Un congresso di diverse città greche
convocato sull'Istmo votò di compiere una spedizione contro i Persiani
insieme ad Alessandro e lo nominò comandante supremo.
Molti uomini
politici e di cultura andarono ad incontrarlo e a congratularsi con lui e
Alessandro sperò che anche Diogene di Sinope facesse altrettanto, dal
momento che viveva a Corinto. Invece il filosofo non faceva il minimo conto di
lui e se ne stava tranquillo nel sobborgo di Craneo. Alessandro andò
allora da Diogene e lo trovò sdraiato al sole. Diogene a sentire tanta
gente che veniva verso di lui, si sollevò un poco da terra e
guardò in volto Alessandro. Questi lo salutò affettuosamente e gli
domandò se c'era qualcosa che potesse fare per lui. - Oh, sì -
rispose Diogene - Dovresti spostarti un po' dal sole -.
Dicono che
Alessandro rimase molto colpito e ammirato dalla fierezza e dalla grandezza di
quell'uomo.
Quando fu per ripartire, mentre intorno a lui la gente derideva
Diogene e se ne faceva beffe, disse: - Io invece, se non fossi Alessandro,
vorrei proprio essere Diogene -...
PLATONE
Nato nel 428 a.C., Platone apparteneva ad
una delle più illustri famiglie di Atene. Alcuni suoi parenti furono
coinvolti nel governo aristocratico dei Trenta Tiranni (404-403 a.C.). Anche il
giovane Platone era stato invitato a parteciparvi, ma rifiutò
perché disapprovava le violenze di cui i Trenta Tiranni si stavano
rendendo colpevoli. Con la caduta dei Trenta e con il ritorno della democrazia
Platone parve nuovamente incline a prender parte alla vita pubblica, ma di
lì a poco sopraggiunse l'evento che lo allontanò per sempre dal
regime democratico: il processo e la condanna di Socrate.
Platone
coltivò per tutta la vita progetti di riforma politica a carattere
aristocratico, che tentò anche di realizzare appoggiandosi, tra l'altro,
ai tiranni di Siracusa, Dionigi il vecchio, e il figlio di questi, Dionigi il
giovane. Con entrambi i rapporti furono burrascosi. Il primo fini per
consegnarlo agli abitanti di Egina, che, essendo in guerra con Atene, lo
catturarono e lo vendettero come schiavo: per sua fortuna l'acquirente lo
restituì immediatamente a libertà. Il secondo oscillò
sempre nei confronti di Platone tra ammirazione e sospetto e a due riprese lo
trattenne presso di sé in stato di più o meno larvata
prigionia.
L'evento decisivo nella vita di Platone fu comunque l'amicizia
con Socrate, che incontrò intorno ai vent'anni. Pur svolgendo una ricerca
del tutto originale, la fedeltà di Platone al pensiero di Socrate si
riconosce facilmente nell'adozione del dialogo come forma prevalente delle sue
opere e soprattutto nella concezione della filosofia come ricerca continua, mai
compiuta.
In effetti Platone, se pure costruiva sistemi e dottrine, in cui
spesso i suoi seguaci hanno cercato di rinchiuderlo, non mancava mai di
rimetterli in discussione, di sottolinearne la problematicità, di cercare
soluzioni alternative a quelle già indicate, secondo il più
genuino insegnamento socratico. Gli studiosi di Platone hanno abbandonato il
tentativo di definire «un» sistema di Platone e oggi sono piuttosto
interessati a ricostruire lo svolgimento del suo pensiero, individuandone le
fasi successive.
Ma già stabilire l'ordine in cui i vari dialoghi
sono stati scritti non è facile. Sulla base soprattutto di considerazioni
stilistiche si sono individuati nell'opera di Platone tre periodi. Nel primo
Platone era impegnato principalmente nella difesa della figura e del pensiero di
Socrate; risalgono a questo periodo, tra gli altri, l'Apologia di Socrate, il
Critone e l'Eutifrone. Al secondo periodo, nel quale sono emersi alcuni temi
tipicamente platonici, come la teoria delle idee e il modello di una
società politica perfetta, appartengono il Fedone, il Convito, la
Repubblica, ecc.
L'ultimo periodo è per certi aspetti il più
interessante, perché rappresenta una fase di ripensamento delle idee
precedentemente elaborate; ad esso appartengono, tra gli altri, il Teeteto, il
Timeo e Le leggi, che è sicuramente l'ultimo dialogo composto da Platone.
Oltre all'Apologia di Socrate, che non è propriamente un dialogo, l'opera
di Platone è costituita da trentaquattro dialoghi e dodici lettere; non
tutti i dialoghi sono però ritenuti autentici e delle lettere solo la VII
e l'VIII sono attribuibili con certezza a Platone.
LA TEORIA DELLE IDEE
Secondo l'insegnamento di Socrate, da una
serie di cose che presentano lo stesso carattere è sempre possibile
risalire alla definizione di tale carattere. Così, da una serie di cose
che diciamo belle (una ragazza, un paesaggio, un brano di musica, ecc.) è
sempre possibile risalire al concetto di bellezza.
Ma quale tipo di
esistenza dobbiamo attribuire alla bellezza? Esiste solo nelle cose che diciamo
belle? oppure solo nella nostra mente che giudica le cose belle o brutte?
oppure, ancora, esiste indipendentemente dalle cose e dalla nostra mente,
sicché se noi scomparissimo e con noi scomparissero tutte le cose belle,
la bellezza continuerebbe in qualche modo a esistere? Socrate probabilmente non
si era neppure posto un problema del genere. In Platone, invece, questo doveva
diventare il tema centrale della sua ricerca. A questo tema, tra l'altro, egli
ricollegava le antiche questioni dell'Essere e del Divenire, dell'Uno e dei
Molti, per le quali Socrate aveva mostrato scarsissimo interesse.
Le
infinite cose di cui abbiamo esperienza, diceva in sostanza Platone, le
conosciamo davvero solo se le definiamo, se ne formuliamo il concetto: vedo
tanti cavalli, ma comprendo che cosa sono (e soprattutto riesco a comunicarlo
agli altri) solo se raccolgo le impressioni avute alla vista di quei cavalli
sotto l'idea generale di Cavallo, ossia, solo se riesco a definire la
qualità di esser cavallo (la cavallinità, come la si potrebbe
chiamare).
I cavalli di cui ho esperienza sono tanti e tutti diversi l'uno
dall'altro; io però posso pensare il Cavallo in generale, privo
cioè di tutte quelle particolarità che fanno ogni cavallo diverso
dagli altri. Anzi, riconosco che un certo animale è un cavallo proprio
perché questo animale somiglia all'idea di cavallo che è in me, e
partecipa in qualche modo della cavallinità che ho definito nella mia
mente. La cavallinità, allora, esprime non tanto l'essere di ogni
cavallo, quanto il suo dover essere; è il modello perfetto di Cavallo,
rispetto al quale i molti cavalli di cui ho esperienza non sono che
approssimative imitazioni; è l'essenza unica immutabile e necessaria del
Cavallo contrapposta all'esistenza casuale e precaria dei cavalli di cui ho
esperienza, che non solo sono tutti diversi l'uno dall'altro, ma sono anche
sempre diversi da sé (nel senso che ciascuno di loro è soggetto al
divenire, muta incessantemente, non è mai ciò che era, ed è
infine destinato a morire).
Ma da dove viene l'idea di Cavallo, o quella di
Bellezza, o le infinite altre idee che ci consentono di pensare le cose?
Platone, che contrapponeva le idee alle cose pressappoco come Parmenide
contrapponeva l'Essere al Divenire e l'Uno ai Molti, era portato ad attribuire
alle idee un'esistenza del tutto autonoma dalle cose. E infatti, se l'idea
è perfetta e le cose sono imperfette, è difficile immaginare che
la prima dipenda dalle seconde. D'altra parte le idee non hanno alcun bisogno
delle cose, nel senso che sono pensabili di per sé: si potrebbe pensare
la bellezza anche se tutte le cose belle fossero morte o non fossero mai nate (e
lo stesso vale per la cavallinità in relazione ai cavalli).
Le idee
insomma, per Platone, esistono prima delle cose. Platone, però,
attribuiva alle idee un'esistenza indipendente anche dalla mente umana, nel
senso che le idee esisterebbero ugualmente anche se tutti gli uomini fossero
morti (o non fossero mai nati).
Per dirla con altre parole, le idee non
esistono perché l'uomo le pensa, ma, al contrario, l'uomo pensa
perché ci sono le idee. Le idee, insomma, non sono entità mentali,
ma sostanze che esistono fuori della mente umana e prima che la mente possa
pensarle.
Platone immaginava a questo proposito che le idee costituissero
un mondo a sé, il mondo iperuranio (che in greco vuol dire «posto al
di là del cielo»), gerarchicamente organizzato. L'idea del Bene, la
più nobile di tutte, di cui le altre idee partecipano in diversa misura,
occuperebbe la posizione più elevata, seguita immediatamente dalla
Bellezza, dalla Verità e dalla Simmetria, e poi dalla Saggezza, dalla
Giustizia, dalla Temperanza, dal Coraggio, e via via da tutte le altre. Il
nostro mondo sarebbe la creazione di un artista divino, il Demiurgo (una parola
che in greco vuol dire «artigiano»), il quale avrebbe formato tutte le
cose prendendo come modello le idee.
Anche gli uomini, secondo Platone,
hanno un'origine divina. La loro anima è immortale, preesiste al corpo e
quindi ha avuto diretta conoscenza del mondo delle idee o addirittura (ma le
opinioni di Platone sono in proposito piuttosto oscillanti) partecipa della loro
natura.
È comunque questa preesistenza dell'anima che rende
possibile la conoscenza. L'anima conserva il ricordo del mondo iperuranio, anche
se offuscato dalle passioni del corpo in cui si è incarnata: se gli
uomini riconoscono che un cavallo è un cavallo, è perché
riescono a far emergere dal fondo della propria anima la nozione della
cavallinità; se riescono a distinguere un'azione giusta da un'azione
malvagia, è perché hanno in se stessi l'idea di
giustizia.
Conoscere, per Platone, non è scoprire qualcosa di nuovo,
ma ricordare.
PLATONE E IL MITO
Gli antichi miti cosmogonici tentavano di
dare per mezzo di immagini e racconti, e cioè in chiave essenzialmente
poetica, una spiegazione del mondo e della vita. Aristotele diceva a questo
proposito che per i problemi che avevano affrontato (se non per il modo di
affrontarli) anche i creatori di miti erano «filosofi».
La
nascita di un'autentica tradizione filosofico-scientifica, ossia il radicarsi di
un costume di ricerca razionalmente orientata, ha modificato questa antica
affinità tra costruttori di miti e filosofi e ha portato ad una
progressiva divaricazione tra mito, ossia la spiegazione in forma di racconto, e
logos, ossia la spiegazione in forma di ragionamento. Il mito, tuttavia, non
è scomparso mai del tutto dalla filosofia ed ancora oggi ci sono
indirizzi di pensiero (la psicoanalisi, per esempio) che fanno ampio uso di miti
e di «favole filosofiche».
Platone ha utilizzato la forma del
mito tutte le volte in cui il linguaggio della ragione gli è parso
inadeguato ad esprimere la ricchezza o la complessità dei problemi che
veniva affrontando. Un racconto che attraverso la suggestione delle immagini
facesse intuire le possibili soluzioni di un problema gli sembrava preferibile
al puro e semplice silenzio. Ma l'ambiguità del mito, ossia l'indefinita
possibilità di reinterpretarne i significati, poteva costituire
addirittura un pregio se serviva a sottolineare il carattere «aperto»
della ricerca filosofica.
È proprio qui, forse, che Platone si
allontanava di più dall'insegnamento di Socrate. Anche Socrate non
esauriva mai la sua ricerca, ma in mancanza di certezze preferiva tacere: della
sua ignoranza si vantava pubblicamente. Socrate amava il dubbio e detestava le
confuse sentenze della tradizione mitologica e religiosa: era morto per aver
gettato discredito su questa tradizione. Platone invece, da buon conservatore,
amava la «verità», ma nel senso che Socrate apprezzava meno:
l'amava nel senso che non sapeva rinunciare a proclamarla, magari soltanto nelle
incerte e provvisorie forme del mito.
Il più noto dei miti platonici
è forse quello della caverna, con il quale Platone ha cercato di
suggerire quali rapporti potessero esistere tra idee e cose, tra il mondo
sensibile e il mondo iperuranio. Gli uomini, dice Platone, sono come prigionieri
incatenati sin dalla nascita sul fondo di una caverna, con le spalle rivolte
all'imbocco. Sulla parete della caverna, come su uno schermo, vedono muoversi
delle ombre e poiché non hanno mai conosciuto nulla di diverso scambiano
le ombre per cose reali. Solo chi riesce a liberarsi delle catene, a voltarsi
verso la luce e ad uscire dalla caverna si convince che le ombre sono semplici
riflessi degli oggetti che stanno fuori.
La caverna rappresenta la nostra
condizione di uomini; le ombre rappresentano le cose del nostro mondo; il mondo
esterno è l'Iperuranio e gli oggetti che vi si trovano rappresentano le
idee; l'inganno di cui sono vittime i prigionieri, che scambiano le ombre per
oggetti reali, è la metafora della conoscenza sensibile; lo sforzo che si
compie per liberarsi dalle catene rappresenta la ricerca
filosofica.
Platone conclude il suo mito sottolineando come il prigioniero
che riesce a uscire dalla caverna (e cioè il filosofo) vi
rientrerà per amore dei suoi compagni, ai quali si sforzerà di
rivelare la verità.
Come si vede anche da questo mito, Platone
riprendeva molti temi della filosofia eleatica, a cominciare dalla drastica
svalutazione dell'esperienza sensibile. C'era però una differenza
importante: per Parmenide l'esistenza delle cose (dei Molti e del Divenire)
è illusoria, mentre per Platone le cose esistono davvero, anche se
soltanto come imitazioni delle idee. Nel mito della caverna le cose sono
rappresentate dalle ombre che si agitano sulle pareti; ma le ombre esistono,
anche se come semplici riflessi, e i prigionieri che le stanno a guardare le
vedono davvero. Il loro errore consiste solo nel credere che tutta la
realtà si esaurisca in quelle ombre.
L'IMMORTALITŔ DELL'ANIMA
L'assunto dell'esistenza di una
realtà parallela e superiore a quella sensibile è alla base della
tesi dell'immortalità dell'anima proposta da Platone nel Fedone. Nel
dialogo il personaggio di Socrate, che è raffigurato mentre affronta gli
ultimi momenti della sua vita, permette a Platone di esemplificare
l'atteggiamento del vero filosofo di fronte alla morte: per chi in vita ha
cercato continuamente la verità attraverso il sapere filosofico, la morte
non può che essere una liberazione e una gioia. In vita infatti, il
filosofo trova nel suo corpo, nelle sue debolezze, nelle sue fastidiose
necessità, nelle passioni che ne nascono, un ostacolo alla sua
libertà, un intralcio alla riflessione. La morte libera l'uomo dalla
schiavitù del corpo, permette all'anima di raggiungere la completa
autonomia. Socrate attende serenamente la morte, perché
...
questo appunto è lo studio e l'esercizio proprio dei filosofi, sciogliere
e separare l'anima dal corpo.
L'«ascesi» (che in greco
significa appunto «esercizio»), esprime dunque quell'aspirazione del
filosofo alla speculazione pura, distaccata, al di là di ogni
condizionamento materiale, che si realizza compiutamente solo con la morte. Il
presupposto di questa serena considerazione della morte è naturalmente la
convinzione che l'anima sopravviva al corpo e che mantenga inalterate, dopo il
trapasso, le sue capacità intellettive. La dottrina platonica
dell'immortalità dell'anima fa riferimento alla tradizione culturale che
contemplava la metempsicosi, vale a dire la reincarnazione dell'anima dei morti
nei vivi: più in generale Platone partecipava del grande sogno, presente
anche nel pensiero orientale, di un'esistenza universale regolata da un processo
circolare, in cui niente si esaurisce e niente va perduto. La dimostrazione
platonica dell'immortalità dell'anima è basata sulla teoria detta
della «generazione dei contrari», cioè sulla relazione di
dipendenza che intercorre tra una qualità e il suo contrario. Quando ci
troviamo a pensare, per esempio, la qualità di «caldo» come
potremmo non fare riferimento al suo contrario? Se possiamo comprendere
«caldo», infatti, è solo perché conosciamo
«freddo», e a sua volta questo ci è noto grazie alla nostra
esperienza di «caldo»: pensare l'uno senza l'altro è
impossibile.
La generazione dei contrari è un legame circolare e
senza fine: dove uno finisce, comincia l'altro, il precedente non potrebbe
esistere senza il seguente, e viceversa. Allo stesso modo dobbiamo considerare
la vita e la morte, e se dai morti si generano i vivi, dobbiamo concludere che
in qualche luogo anche i morti (vale a dire le loro anime)
sopravvivono.
È per questo che l'apprendimento si deve in
realtà intendere come un progressivo recupero delle conoscenze che erano
già in possesso dell'anima prima della nostra nascita.
Dal momento
in cui cominciamo a fare uso dei sensi, esprimiamo immediatamente e
continuamente giudizi che ci permettono di distinguere o di accomunare quello
che ci circonda: questo però può voler dire soltanto che esistono
delle realtà assolute o «in sé», precedenti ai nostri
giudizi, che conosciamo già al momento della nascita (sono idee innate) e
che costituiscono le premesse della nostra capacità di giudicare. Platone
parla di «uguale in sé», di «bello» o di «brutto
in sé», di «buono» o di «cattivo in sé»:
il bello, il brutto o l'uguale in sé altro non sono che le rispettive
idee assolute di quelle qualità, l'indispensabile riferimento da cui
abbiamo ricavato la comprensione del mondo in cui viviamo.
VERITŔ E OPINIONE
In Platone il fondamentale dualismo
ontologico idee-cose si rifletteva sul piano gnoseologico (dal greco
gnòsis = «conoscenza»: la gnoseologia è dunque la
dottrina della conoscenza) nel dualismo verità-opinione.
L'idea che
collega queste due antinomie è che solo di ciò che è
immutabile ed eterno è possibile una conoscenza vera, mentre ciò
che è generato (e che è destinato a morire) può essere
soltanto oggetto di opinioni. Nella Repubblica, uno dei più importanti
dialoghi di Platone, il tema è sviluppato in una lunga argomentazione, di
cui riportiamo solo le battute essenziali.
- Su, rispondi a questa
domanda: chi conosce, conosce qualcosa o niente?
- Conosce qualcosa
-.
- Qualcosa che è o qualcosa che non è?
- Qualcosa che
è. Come potrebbe conoscere una cosa che non è?
- Ecco dunque
un punto fermo: ciò che è in maniera perfetta, è
perfettamente conoscibile, e ciò che assolutamente non è, è
completamente inconoscibile -.
- Sono perfettamente d'accordo -.
-
Bene, ma se una cosa è tale da essere e non essere nello stesso tempo,
non sarà intermedia tra ciò che assolutamente è e
ciò che non è in alcun modo?
- Certo, è intermedia
-.
- Ora, se la conoscenza si riferisce a ciò che è e la
totale ignoranza a ciò che non è, per questa forma intermedia di
esistenza, sempre che esista, non dovremo cercare qualcosa di intermedio tra
l'ignoranza e la scienza?
- Senza dubbio -.
- E l'opinione, seconda
te, è qualcosa?
- Certo -.
- È la stessa cosa che la
scienza o è qualcosa di diverso?
- Qualcosa di diverso -.
- E
allora l'opinione si riferisce ad alcune cose e la scienza ad altre, ciascuna
secondo il proprio potere -.
- È proprio così
-.
[...]
- E se il conoscibile è ciò che è,
l'opinabile non sarà diverso da ciò che è?
- Sicuro,
sarà diverso -.
- Ma allora l'opinione riguarda ciò che non
è? o è impossibile avere un'opinione senza riferirla ad un
oggetto?
- È impossibile -.
[...]
- Allora l'opinione non
corrisponde né a ciò che non è, né a ciò che
è, non è né conoscenza, né ignoranza -.
-
Così pare -.
[...]
- E non ti sembra che l'opinione sia
più oscura della conoscenza ma più luminosa dell'ignoranza?
-
Sicuro!
- L'opinione insomma è una via di mezzo tra conoscenza e
ignoranza
- Sì, certo -.
- Ma non abbiamo detto prima che se
una cosa risultasse, per così dire, essere e non essere allo stesso
tempo, sarebbe intermedia tra ciò che assolutamente è e ciò
che non è affatto? e che una cosa di questo genere non potrebbe essere
né oggetto di scienza, né di ignoranza, ma di qualcosa che fosse a
sua volta intermedia tra le due?
- Giusto -.
- Bene, quella che
chiamiamo opinione non è risultata appunto intermedia tra le
due?...
PLATONE E LA GEOMETRIA
Pur non essendo un matematico e tanto meno
un grande matematico, Platone era affascinato dai matematici e, a sua volta, li
sapeva affascinare. Archita di Taranto (c. 430 - c. 360) il pitagorico a cui
è attribuita la dimostrazione dell'impossibilità di esprimere i
numeri irrazionali con numeri frazionari subì l'influsso di Platone e
pare che desse un'interpretazione idealistica del pitagorismo, attribuendo una
natura soprasensibile ai numeri. Allievi e collaboratori dell'Accademia furono
poi i due maggiori matematici del tempo, Teeteto (c. 414-369), a cui Platone
dedicò un dialogo, e Eudosso di Cnido (c. 408 - c. 355) che era povero in
canna e fu aiutato da Platone, con il quale pare abbia fatto anche un viaggio in
Egitto. La costruzione dei cinque poliedri regolari che Platone nel Timeo
associava ai cinque elementi era stato opera di Teeteto, mentre Eudosso aveva
trovato un metodo rigoroso, e cioè non puramente empirico, il cosiddetto
«metodo di esaustione», per trovare la lunghezza, l'area o il volume
di figure curve.
L'interesse di Platone per la matematica e in particolare
per la geometria si spiega anche con l'evidente analogia tra l'insieme degli
enti matematici e geometrici e il mondo delle idee: entrambi si rivelano
all'intelletto, ma non ai sensi. La verità di un ente geometrico sta
infatti tutta nella sua definizione. Le cose hanno proprietà matematiche
(si possono contare, misurare, ecc.), ma non sono numeri; rappresentano delle
approssimazioni alle figure geometriche, ma non sono figure geometriche. Non
esistono oggetti perfettamente triangolari o perfettamente circolari. Un
triangolo o un cerchio si possono disegnare con la massima precisione, ma sono
sempre un'approssimazione rispetto al triangolo o al cerchio definito dalla
matematica. I punti e le linee tracciati su un foglio, per quanto sottili, hanno
uno spessore, che la definizione di punto e di linea esclude esplicitamente. In
generale ogni figura che si vede o si disegna o si costruisce materialmente non
è che un'imitazione, più o meno riuscita, del corrispondente ente
geometrico. Come tale non interessa affatto il matematico, che al massimo
può servirsene come sussidio per aiutare la propria immaginazione o
quella degli allievi con la percezione sensibile delle figure. Anzi, anche
quest'uso di sussidi visivi o meccanici (come racconta lo storico Plutarco) era
capace di mandare in bestia Platone, che vi vedeva un attentato alla purezza
immacolata della geometria.
«Gli iniziatori della meccanica, scrive
Plutarco, scienza oggi seguita con interesse e a tutti nota, furono Eudosso ed
Archita, i quali comunicarono un grande fascino alla geometria mediante
l'eleganza dei suoi procedimenti. Essi diedero ai problemi che non offrivano
possibilità di soluzione con un procedimento soltanto logico e verbale il
sostegno di schemi visivi e meccanici. Ad esempio nella soluzione del problema
di due rette medie proporzionali, elemento necessario alla composizione di molte
figure, entrambi gli scienziati ricorsero a mezzi meccanici, servendosi delle
medie proporzionali che certi strumenti ricavano da linee curve e da segmenti.
Platone rimase indignato da questo modo di procedere e polemizzò coi due
matematici, quasiché distruggessero e corrompessero ciò che vi era
di buono nella geometria: in tal maniera essa abbandonava infatti i concetti
astratti per scendere nel mondo sensibile, ed usava anch'essa oggetti che
richiedevano ampiamente un grossolano lavoro manuale. La meccanica fu
così separata e si staccò dalla geometria; per molto tempo la
filosofia l'ignorò, ed essa divenne una delle arti
militari».
ATOMI E POLIEDRI
Oggi sappiamo che molte sostanze (i
cristalli) solidificano in forme di poliedri. I cristalli constano di gruppi di
atomi che si dispongono nello spazio secondo particolari strutture o
«reticoli».
I reticoli più diffusi sono il cubico centrato
(vedi figura), dove gli atomi occupano i vertici e il centro del cubo, il cubico
a facce centrate (vedi figura), dove gli atomi occupano il vertice e il centro
delle facce, e l'esagonale compatto (vedi figura).
I solidi di Platone
IL TIMEO
Il Timeo è il dialogo in cui Platone
espone le sue idee su quella che oggi chiamiamo scienza. Dialogo per modo di
dire, giacché parla sempre Timeo, un ricco, nobile e soprattutto dotto
cittadino di Locri in Calabria e (a parte l'introduzione in cui si accenna al
mito dell'Atlantide che sarà poi l'oggetto del Crizia) gli altri tre
interlocutori, che sono Socrate, il tiranno Crizia e il generale siracusano
Ermocrate si limitano a brevi battute. Il Timeo non fu mai molto popolare, sia
perché noioso in confronto ad altri dialoghi che sono veri dialoghi, sia
perché inferiore, nella sua parte naturalistica, alle opere di
Aristotele, sia infine perché poco apprezzato dallo stesso Platone, che
riteneva più importanti altri suoi dialoghi (e soprattutto la Repubblica,
di cui Timeo e Crizia erano una specie di seguito) e che, soprattutto,
attribuiva alle teorie sulla natura lo status epistemologico (dal greco
epistème = «scienza») piuttosto basso di «favole
verosimili». Si legge infatti nel Timeo:
... Molti hanno detto
molte cose intorno agli Dei [la parola «Dei» indicava comunemente gli
astri e le forze della natura] e intorno all'origine dell'universo [...]. Se i
nostri discorsi non risulteranno meno verosimili di quelli di chiunque altro,
dovremo starcene contenti [giacché] intorno a queste cose conviene
accettare una favola verosimile e non cercare oltre...
Ma anche se
poco compreso, o poco apprezzato, il Timeo è a suo modo un capolavoro
scientifico. O, se si vuole, antiscientifico. Antiscientifica è
senz'altro la prima parte, non solo per via del mito di Atlantide ma soprattutto
per l'animismo che la pervade: il mondo, infatti, è concepito come un
immenso animale, copiato da Dio sul modello dell'Animale Perfetto, che
naturalmente è un'idea e (quel che conta) è l'anima del mondo, non
il suo corpo.
... E tale fu il criterio del Dio: primo, che il tutto
fosse, per quanto possibile un vivente perfetto, costituito di parti perfette, e
poi [...] che fosse anche immune da vecchiezza e malattia...
Ma a
partire dal capitolo XVII, la musica cambia. E, tanto per cominciare, alle due
realtà di cui aveva parlato in precedenza, il modello intelligibile (le
idee) e l'immagine sensibile del modello (le cose), Platone ne aggiunge una
terza, «difficile e oscura», «il ricettacolo di tutto ciò
che si genera», la «nutrice» o «madre» (come anche la
chiama), la materia, o forse lo spazio, o forse entrambe le cose, e insomma quel
qualcosa di primordiale che preesisteva all'azione ordinatrice del Demiurgo.
È in questo ammettere (sia pure contro voglia) l'esistenza della materia,
qualcosa di fondamentale è cambiato nel pensiero di Platone. Sarà
forse l'influenza del giovane e ambizioso Aristotele? È comunque a questo
punto che si trovano le idee più interessanti del Timeo.
Già
nel capitolo VII Platone aveva cercato di dimostrare che gli elementi devono
essere quattro perché, diceva, i volumi stanno come i cubi, ma tra un
cubo di volume a
3, e uno di volume b
3 possiamo inserire
ancora due parallelepipedi di volumi a²b e ab². Ora approfondendo il
ragionamento, anzi modificandolo radicalmente, Platone associa gli elementi, non
più ai parallelepipedi, ma ai poliedri regolari, che erano la grande
scoperta matematica del suo tempo. A loro volta i poliedri sono generati tutti
da due triangoli rettangoli: quello che è metà di un equilatero e
quello isoscele. Sicché ogni cosa è fatta di triangoli.
I
poliedri sono atomi. Platone non usa mai questa parola, sia perché la
usava Democrito, che lui detesta, sia perché i poliedri possono scomporsi
e trasformarsi l'uno nell'altro come non potevano fare gli atomi di Democrito.
Ma ai poliedri affida proprio la funzione di atomi di costituenti ultimi della
materia.
Gli atomi di terra sono cubi:
... perché dei
quattro elementi la terra è il più immobile, e dei corpi il
più plasmabile: ed è soprattutto necessario che tale sia quel
corpo che ha le basi più solide...
Gli altri elementi si
rifanno al triangolo metà di un equilatero. Gli atomi più leggeri,
quelli di fuoco, sono tetraedri (scherzando possiamo osservare che le molecole
di metano sono davvero tetraedri, e il fuoco si fa col metano!); gli atomi
d'aria sono ottaedri e quelli d'acqua, più grossi e pesanti, icosaedri. E
il dodecaedro? Bè, non serve a niente ma «Dio se ne giovò per
decorare l'Universo». Il fuoco scotta con le punte pungenti delle sue
piramidi. Ma non può sciogliere la terra, e invece l'acqua può:
perché la terra ha dei pori, attraverso i quali i piccoli tetraedri del
fuoco passano senza danno, mentre i grossi icosaedri dell'acqua sfondano i pori
e disintegrano la struttura cubica.
L'ultima parte del Timeo è
dedicata alla fisiologia e contiene la teoria della respirazione e della
circolazione e la teoria delle sensazioni. E alla fine c'è perfino una
teoria dell'evoluzione: una teoria regressiva, in cui gli animali derivano
dall'uomo, per degenerazione o degradazione. Dagli uomini codardi discendono le
donne, e dagli uomini stupidi le bestie: i più leggeri generano uccelli,
e gli altri i mammiferi, e se sono ancora più stupidi, i rettili; i
più stupidi di tutti, infine, generano i pesci, le ostriche e gli altri
animali acquatici.
Gli animali si trasformano tra loro, passando da una
specie all'altra, secondo la perdita o l'acquisto d'intelligenza o di
stoltezza.
Il discorso platonico fu rivisitato nel Rinascimento, ed ebbe
una notevole parte nella rivoluzione scientifica del Seicento, soprattutto
perché univa la teoria della natura alla matematica. Senz'altro le nostre
idee del mondo sono vicine a quelle di Democrito, Epicuro e Lucrezio e
lontanissime da quelle di Platone. Eppure anche noi, come Platone, amiamo la
matematica e tendiamo a credere, forse senza motivo, che quelle teorie
scientifiche che hanno una forma matematica più bella abbiano anche
più probabilità di descrivere correttamente il mondo
fisico.
LA STRUTTURA DEI SOLIDI
... e le specie (i poliedri regolari) prodotte ora col ragionamento distribuiamole in fuoco, terra, acqua e aria. E
alla terra diamo la figura cubica: perché delle quattro specie la terra
è la più immobile e dei corpi il più plasmabile. Ed
è soprattutto necessario che tale sia quel corpo che ha le basi
più salde... (Platone, Timeo, XXI, 55 d-e)
... la cosa
principale è sistemare quanti più ioni positivi sia possibile
intorno a uno ione negativo e viceversa. I solidi ionici tendono a
cristallizzare in strutture come quella del cloruro di sodio e quella del
cloruro di cesio... (Ziman, Principio della teoria dei solidi)
...
Per quanto l'oro possa essere il re dei metalli, ha una struttura cristallina
comunissima: la struttura cubica compatta [...] La maggior parte dei metalli
cristallizza o nel cubico compatto o nell'esagonale compatto... (Moore, Sette
stati solidi)
Confrontando il passo del Timeo con le altre citazioni,
tratte da alcuni moderni trattati di fisica dei solidi, scopriamo che da un
certo punto di vista la concezione della struttura della materia non è
poi cambiata gran che in ventitré secoli. La tradizionale distinzione dei
corpi in solidi, liquidi e gas (terra, acqua e aria dicevano gli antichi)
è sempre valida. Bisogna solo aggiungere il plasma (che in fondo si
potrebbe assimilare a quello che nell'antichità si chiamava fuoco).
Platone fa corrispondere i quattro elementi, fuoco, terra, aria e acqua alle
quattro «specie», cioè ai quattro poliedri regolari: tetraedro,
cubo, ottaedro e icosaedro. E le ragioni per cui agli atomi della terra
attribuisce la forma cubica non sono troppo diverse da quelle per cui Ziman
attribuisce le strutture cubiche del cloruro di sodio e del cloruro di cesio ai
cristalli ionici: in entrambi i casi è un problema d'impacchettamento e
di stabilità.
Da un altro punto di vista il cambiamento è
totale. Per Platone il mondo sensibile, essendo generato e non eterno, non
poteva essere oggetto di scienza, ma al più di opinione. Così,
Platone attribuiva alla fisica il valore di «favola verosimile», e
nulla più: un valore che oggi giudichiamo decisamente troppo modesto.
Bisogna ammettere però che al tempo di Platone non c'era alcun modo
sicuro di studiare la struttura dei solidi. Questa situazione, anzi, è
rimasta sostanzialmente inalterata fino al lavoro di Max von Laue e di William
L. Bragg sui raggi X che ha reso possibile, a partire dal 1912-13, lo studio
microscopico delle strutture cristalline. Sono dunque solo alcuni decenni che
abbiamo smesso di raccontare favole verosimili sulla materia...
Da un altro
punto di vista ancora, il modo in cui fu letto per duemila anni il Timeo deve
essere considerato totalmente diverso dal modo in cui oggi si legge un libro di
fisica. In verità nessuno ci capì niente. Ancora oggi passi come
quello citato sono ignorati nei manuali di storia della filosofia. Noi adesso
capiamo e apprezziamo il Timeo, ma lo capiamo anacronisticamente, perché
sappiamo come le cose sono andate a finire. In effetti il modo in cui il Timeo
tratta il rapporto tra matematica e fisica, se non è esattamente il modo
moderno, non ne è però troppo lontano: anche oggi la matematica
precede la fisica: il discorso fisico viene dopo, a riempire di contenuti
materiali una struttura matematica preesistente.
IDEA
Come sappiamo, il termine «idea»
è legata al greco idèin = «vedere»; «idea»
è insomma l'aspetto o la forma visibile di una cosa, la sua immagine
ottica. E richiamandosi a questo significato, ma insieme allontanandosi
decisamente da esso che Platone dà il nome di «idee» ai modelli
perfetti, eterni e immutabili delle cose. Le idee sono le essenze delle cose,
più reali delle cose stesse, visibili (di qui, appunto, il nome)
all'occhio della ragione (che non sbaglia) e non a quello dei sensi (sempre
soggetti ad errore).
DUALISMO/MONISMO
Si dicono dualistiche le dottrine che in
rapporto ad un qualsiasi problema (ma in particolare nella spiegazione della
realtà) ammettono due principi contrapposti e irriducibili come Bene e
Male, Corpo e Anima, Materia e Spirito, ecc.
Il dualismo si distingue sia
dal monismo (dal greco monos = «unico», «solo»), ossia dalle
dottrine che riducono la molteplicità dei fenomeni ad un unico principio
fondamentale, sia dal pluralismo, ossia dalle dottrine che ammettono una
molteplicità di principi.
Un rigoroso esempio di monismo è
rappresentato dalla dottrina di Parmenide secondo la quale solo l'Essere e, e la
molteplicità è pura illusione. Dottrine pluralistiche sono invece
quelle di Empedocle, di Anassagora e di Democrito.
La filosofia platonica
è una tipica filosofia dualistica, incentrata sull'opposizione di idee e
cose, anima e corpo, ragione e sensibilità, ecc.
ANIMA
L'italiano (e latino) «anima»
corrisponde al greco psyché (da cui «psiche», e tutti i
composti di «psico-») ed ha la stessa radice del greco ànemos =
«vento», «corrente d'aria», analogo al grecopnéumo =
«soffio», che è il nome che i filosofi presocratici davano al
principio che dava vita a tutte le cose, e al latino spiritus (=
«spirito», che nell'uso corrente conserva il significato di
«respiro» solo nell'espressione «rendere lo spirito» =
esalare l'ultimo respiro). Anche l'ebraico ruach (= «spirito») vuol
dire «soffio», «vento» e simili.
COSMOLOGIA E TEOLOGIA
Socrate non credeva che lo studio del mondo
naturale potesse mai arrivare a conclusioni certe e aveva rinunciato ad
occuparsene; pare anzi che considerasse questo genere di ricerche (e
l'astronomia in particolare) una pura perdita di tempo. Platone in proposito non
era molto più fiducioso di Socrate, ma non rinunciava ad avere una sua
opinione in fatto di cosmologia e di fisica: in mancanza di conoscenze certe,
diceva, è sempre possibile formulare delle «favole verosimili»
in grado di suggerire almeno quale posto sia riservato nel gran disegno
dell'Essere alle realtà naturali.
Come la maggioranza dei filosofi
naturalisti che lo avevano preceduto, Platone ammetteva che il mondo fosse
uscito dal caos primordiale, ma mentre quelli avevano considerato il passaggio
dal caos al cosmo come un processo affatto naturale, Platone lo attribuiva
all'opera di un Dio, tornando così a una soluzione di tipo
mitico-religioso. Per di più, mentre i filosofi naturalisti avevano
studiato gli astri come oggetti fisici (ed alcuni, come Anassagora, avevano per
questo affrontato l'accusa di ateismo), Platone tornava a riconoscerne la natura
divina, nel tentativo di riconciliare la filosofia con le superstizioni
correnti. Più che di cosmologia, o di filosofia della natura, si dovrebbe
forse parlare, per Platone, di teologia. Di sicuro in questa enfasi religiosa
agiva la suggestione delle dottrine pitagoriche a cui Platone, specialmente nei
suoi ultimi anni, si volse con grande interesse. Tanto per Platone quanto per i
Pitagorici la razionalità del mondo (o, per meglio dire, del disegno che
il Demiurgo aveva seguito nel formare il mondo) consisteva in una struttura di
tipo geometrico-matematico; ma per entrambi la «razionalità»
della matematica stava più nel suo significato magico-teologico, che
nella sua capacità di esprimere l'elemento quantitativo delle
cose.
Platone immaginava che l'intera struttura dell'universo fosse
riconducibile a due specie di triangoli rettangoli, quella dei triangoli uguali
alla metà di un quadrato e quella dei triangoli uguali alla metà
di un triangolo equilatero.
Triangoli
Da questi triangoli si generano i poliedri regolari, quattro dei quali erano associati ai
quattro elementi materiali. Così, il fuoco era costituito da tetraedri,
l'aria da ottaedri, l'acqua da icosaedri e la terra da cubi.
Il quinto
poliedro regolare, il dodecaedro, formava un quinto elemento o quintessenza (che
i Pitagorici avevano chiamato etere), che era la sostanza dei cieli,
contrapposti (ancora una volta secondo un'indicazione pitagorica) al mondo
terrestre (o, come anche si diceva, «sublunare»).
Poliedri regolari
L'universo nel suo insieme aveva forma sferica,
perché la sfera, uguale a se stessa in ogni punto della sua superficie,
era (secondo un'idea comune a Pitagorici ed Eleati) figura perfetta, e
perciò la sola adatta ad esprimere la totalità e la compiutezza
dell'universo. Come la sfera era figura perfetta, così il moto circolare
era il moto perfetto. E poiché i cieli, secondo il pregiudizio
pitagorico, erano perfetti (o «divini»), i moti dei corpi celesti
dovevano essere circolari e perfettamente uniformi. In verità le
osservazioni astronomiche mostravano che i movimenti del Sole e dei pianeti non
erano né uniformi, né circolari. Ma per Platone quel che contava
era il disegno razionale del mondo, non i dati dell'osservazione, e se questi
contraddicevano quel disegno, tanto peggio per loro:
... Noi diciamo
bugie quando, parlando di queste divinità che sono il Sole e la Luna e le
altre stelle, diciamo che non seguono un corso uniforme e perfetto e li
chiamiamo pianeti [la parola in greco significa «errante»,
«vagabondo»]. In verità essi seguono sempre lo stesso cammino
che è circolare. Le deviazioni da questo cammino sono soltanto
apparenti...
I dati dell'esperienza sensibile, secondo Platone, sono
incerti o approssimativi. Delle nostre percezioni, infatti, possiamo fidarci
fino a un certo punto. Le conclusioni a cui giunge la ragione sono invece
incontrovertibili. Se vogliamo salvare i fenomeni (dal greco phainòmenon,
participio presente di phàinesthai = «apparire»:
«ciò che appare» e quindi «ciò che è oggetto
di esperienza»), ossia se non vogliamo considerarli pure e semplici
allucinazioni, dobbiamo poterli ricondurre alle verità di ragione, ossia
scoprire in essi una qualche possibilità di accordo con l'immagine del
mondo a cui arriviamo per via di pura speculazione.
EUDOSSO E LE SFERE
La regolarità di certi fenomeni
celesti si è sempre imposta con affascinante evidenza e in antico ha
avuto un ruolo anche più importante di oggi nell'esperienza quotidiana
perché l'uomo comune non poteva che affidarsi ad essa per scandire i
propri ritmi di vita. Ma filosofi e scienziati scoprirono assai presto che
quella decantata regolarità, solo a studiarla con un po' di attenzione,
poneva molti e difficili problemi.
Chiunque, ad esempio, è in grado
di accorgersi che la successione delle stagioni si ripete ogni anno con
immutabile periodicità e non è difficile rilevare che le
variazioni stagionali sono legate alle diverse posizioni che, nel corso
dell'anno e in rapporto alle altre stelle, il Sole viene successivamente a
occupare nella volta celeste. Ma determinare con esattezza la durata dell'anno,
ossia il tempo impiegato dal Sole per ritornare in una data posizione, richiede
l'esecuzione di osservazioni ripetute e di calcoli complicati. In Egitto e in
Mesopotamia già in epoche molto antiche si era giunti a calcolare la
durata dell'anno con una approssimazione che, almeno in relazione alle
necessità pratiche dell'agricoltura o dell'amministrazione, appariva
soddisfacente. Ma una misurazione più precisa fu opera degli astronomi
greci, e fu ottenuta in epoca piuttosto tarda, nel II secolo a.C., quando
Ipparco di Nicea, giovandosi di una straordinaria esperienza in fatto di
osservazioni celesti, riuscì a calcolare la durata del moto annuale del
Sole con un errore di appena sei minuti e mezzo. Ciò che si è
detto per il moto apparente del Sole vale per molti altri fenomeni celesti e si
può facilmente immaginare la massa di problemi che gli scienziati greci
dovettero affrontare per avere una nozione precisa di quella regolarità
che tanto li affascinava.
Ogni giorno l'intera volta celeste sembra
compiere una rotazione intorno al proprio asse: l'estremità
settentrionale di questo asse, ossia il polo Nord celeste è molto vicino
alla Stella Polare, sicché nel corso di 24 ore tutte le stelle sembrano
girare intorno ad essa. Durante questa rotazione le stelle lontane conservano
sempre la stessa posizione l'una rispetto all'altra e vengono perciò
dette «stelle fisse». Al contrario il Sole, la Luna, i pianeti non
solo partecipano alla rotazione quotidiana della volta celeste, ma ogni giorno
cambiano la propria posizione rispetto alle stelle fisse. Sono cioè astri
mobili (il termine «pianeta» viene dal greco planétes che
significa «vagante», «errante»), ciascuno dei quali compie
in un periodo determinato un certo tragitto nella volta celeste. Questi
movimenti sono piuttosto complicati.
Prendiamo ad esempio i cinque pianeti
visibili ad occhio nudo, che sono i soli conosciuti fin dall'età
più remota: Saturno, Giove, Marte, Venere e Mercurio. La velocità
con cui ciascuno di essi si sposta nella volta celeste non è affatto
uniforme in ogni punto del percorso e il percorso stesso non è
perfettamente circolare, ma interrotto a tratti da movimenti a forma di laccio:
visto dalla Terra ogni pianeta sembra rallentare ogni tanto il proprio corso,
fermarsi, tornare indietro per un certo tratto, fermarsi di nuovo, riprendere la
primitiva direzione di marcia e proseguire in essa fino a una nuova fermata e
così via.
Come abbiamo visto, secondo Platone i moti dei corpi
celesti non potevano che essere conformi alla loro natura divina, e cioè
dovevano essere circolari e uniformi. Se non apparivano tali, era compito
dell'astronomo spiegare come da moti semplici e regolari potesse nascere
l'apparenza di moti complicati e irregolari. Più in generale (sempre
secondo Platone) in casi del genere era compito del filosofo della natura
approntare gli strumenti concettuali (specialmente di tipo
matematico-geometrico) necessari a mettere d'accordo i dati (sempre incerti e
approssimativi) dell'esperienza con l'immagine «razionale» (e dunque
necessaria) del mondo.
Eudosso, un allievo di Platone, escogitò un
modo per «salvare i fenomeni» secondo il precetto platonico, ossia per
conciliare i dati dell'osservazione con le verità di ragione. Egli
costruì un modello geometrico per mezzo del quale movimenti molto
complicati, come quelli del Sole, della Luna e dei pianeti, erano scomposti in
un certo numero di movimenti elementari dotati di velocità uniformi e di
traiettorie circolari. Per ogni pianeta Eudosso immaginò un sistema di
sfere concentriche nel quale ciascuna sfera ruotava con una sua velocità
costante intorno a un asse dotato di una certa inclinazione. Il moto di ogni
sfera si trasmetteva alla sfera più interna, sicché la più
interna di tutte, nella quale Eudosso immaginava che fosse infisso l'astro,
ruotava con un movimento che era la somma dei movimenti di tutte le sfere
precedenti. In questo modo si potevano ricostruire teoricamente i moti apparenti
dei pianeti, del Sole e della Luna ed era possibile calcolare a tavolino oltre
alla posizione che ogni astro mobile avrebbe occupato nella sfera celeste in un
qualsiasi momento, la direzione e la velocità del moto. Per ottenere
previsioni sempre più precise (sino a far coincidere i dati osservati con
le posizioni degli astri calcolate a tavolino) sarebbe stato infatti sufficiente
(almeno in teoria) aggiungere qualche sfera in più al sistema.
Se si
lascia ad esempio una macchina fotografica puntata a lungo verso l'obiettivo
aperto, si ottiene una fotografia che mostra il moto apparente delle stelle, che
sembrano tracciare dei cerchi concentrici. Le stelle sembrano ruotare nella
direzione opposta a quella in cui ruota realmente la Terra. Questo moto
apparente fu studiato fin dall'antichità come un moto reale. Ben presto
ci si accorse che una stella, la Stella Polare, appare ferma. In realtà
compie un giro così piccolo che a occhio nudo quasi sfugge. Così
la Stella Polare divenne un prezioso punto di riferimento per orientarsi di
notte.
ARISTOTELE
Aristotele era nato a Stagira (oggi Stavro),
una città della penisola calcidica, nel 384 a.C. Suo padre era medico del
re di Macedonia, e con questa corte Aristotele mantenne stretti rapporti per
tutta la vita. Rimasto orfano in giovane età, a diciott'anni fu mandato
dal tutore ad Atene per completare la sua istruzione. Qui conobbe Platone di cui
fu discepolo e collaboratore per circa un ventennio.
Quando Platone
morì, nel 347 a.C., alla direzione dell'Accademia venne chiamato
Speusippo, nipote di Platone, che rappresentava un indirizzo pitagoreggiante
assai lontano dagli orientamenti di Aristotele. Aristotele allora, che tra
l'altro cominciava a sentirsi a disagio in Atene, dove, nonostante la sua
ventennale permanenza, era sempre considerato uno straniero ed era anzi guardato
con sospetto per i suoi legami con la corte macedone, si trasferì prima
ad Asso, nell'Asia Minore, sede di una sorta di succursale dell'Accademia
platonica, poi a Mitilene, nell'isola di Lesbo.
Nel 342 a.C. Filippo, re di
Macedonia, affidò ad Aristotele l'educazione del figlio Alessandro, che
poco dopo, morto il padre nel 336, salì al trono appena ventenne. L'anno
successivo Aristotele fece ritorno ad Atene, che era ormai entrata nell'orbita
della potenza macedone, e vi fondò una sua scuola, il Liceo, così
chiamata perché situata vicino al tempio di Apollo Licio, alla periferia
della città.
L'amicizia con Alessandro Magno (che però
conobbe alti e bassi), e soprattutto quella con alcuni collaboratori del re,
mise a disposizione di Aristotele e dei suoi allievi ingenti mezzi di ricerca e
ricchissimi materiali di studio. La preziosa raccolta di libri messa insieme da
Aristotele fu probabilmente la prima grande biblioteca
dell'antichità.
Alla morte di Alessandro Magno, nel 323 a.C., il
partito antimacedone tornò a prevalere in Atene e Aristotele si
trovò di nuovo circondato da ostilità e sospetto. Alla fine venne
accusato di empietà, come era già accaduto ad Anassagora, a
Protagora e a Socrate. A differenza di Socrate, Aristotele preferì
sottrarsi al processo, per evitare - disse - che si commettesse un altro delitto
contro la filosofia. Affidata la direzione del Liceo a Teofrasto, si
rifugiò a Calcide, nell'Eubea, dove morì l'anno
seguente.
SOSTANZE E ACCIDENTI
Platone ebbe in Aristotele un allievo
fedelissimo e un critico molto fermo. L'affetto e la stima per il maestro, con
il quale aveva lavorato per quasi vent'anni, non impedì infatti ad
Aristotele di esprimere un netto dissenso nei confronti del platonismo. Come
ebbe a dire con una frase che è diventata proverbiale, Platone gli era
caro, ma la verità gli stava ancora più a cuore (Amicus Plato, sed
magis amica veritas: è la formula con la quale le parole di Aristotele
sono diventate proverbiali nel mondo latino).
La teoria delle idee
suscitava molte obiezioni e il primo a rendersene conto era stato proprio
Platone. Nel Parmenide, per esempio, che è un dialogo della
maturità, si trovano considerazioni come questa: se una cosa partecipa in
qualche modo dell'idea (e cioè se un fuoco partecipa dell'idea del fuoco,
o un uomo dell'idea di uomo), bisogna ammettere che tra l'idea e la cosa ci sia
una certa affinità o somiglianza o comunque un legame; ma se c'è
affinità tra idea e cosa, ci sarà anche un'idea di tale
affinità, e cioè un'idea che abbracci sia l'idea che la cosa; ma
se c'è questa seconda idea, dovrà essercene una terza che abbracci
le prime due e la cosa, e così via.
Sebbene consapevole delle
difficoltà della sua dottrina, alla domanda che cosa fosse più
reale, la bellezza o le cose belle, Platone avrebbe sempre risposto: la
bellezza. Aristotele adottò il punto di vista opposto: la bellezza
(l'idea, la forma universale) non è niente al di fuori delle cose belle
(gli individui). Le cose, invece, sono tutto, almeno nel senso che, ancor prima
di essere belle o brutte, sono, ossia esistono, e se non esistessero non
potrebbero neppure essere belle o brutte.
In altre parole, solo l'individuo
è sostanza (esiste), mentre l'universale separato dalle cose non è
che astrazione. D'altra parte le cose esistono solo in quanto hanno una forma; e
la forma è ciò che definisce la natura di una cosa e la fa essere
ciò che veramente è. In questo senso la forma (che è
universale) è sostanza delle cose. Per Aristotele, insomma, la sostanza
è l'individuo; ma anche l'universale (la forma) è, a suo modo,
sostanza.
Cerchiamo di capire che cosa Aristotele intendesse dire,
confortandoci con il pensiero che in questo stesso tentativo il pensiero
occidentale si è affaticato per secoli e secoli. L'individuo, secondo
Aristotele, è sostanza nel senso che è il soggetto a cui si
riferiscono tutte le qualità. Di lui si può dire che fa qualcosa o
che ha questa o quella qualità («Socrate è brutto»,
«il vestito che indosso è di lana», «Melampo è
molto affettuoso»), oppure che appartiene ad una certa classe di cose
(«Socrate è un uomo», «Melampo è un cane»), o
infine che gli è successo qualcosa («Socrate è vecchio»,
«il mio vestito è liso»).
L'individuo è sostanza
anche nel senso che muta, ossia che può assumere via via qualità
diverse, senza però smettere di essere se stesso. Socrate può
essere prima giovane e poi vecchio, ma è sempre Socrate. Il cane Melampo
può perdere il pelo, ma anche spelacchiato resta sempre Melampo. Il mio
vestito di lana è liso, ma si tratta dello stesso vestito che quand'era
nuovo faceva un figurone.
Come si può conciliare la persistenza
delle sostanze individuali con il fatto che esse assumono successivamente
qualità diverse? Aristotele distingueva a questo proposito attributi
essenziali, che definiscono il «vero essere» di un soggetto (il suo
essere necessario), e attributi accidentali, che possono esserci oppure no.
Socrate può essere giovane o vecchio, allegro o triste, sano o malato
(qualità accidentali), ma deve essere «animale razionale»,
perché nell'essenza di Socrate è sicuramente compreso l'attributo
dell'appartenenza alla specie umana, e «animale razionale» è
precisamente la definizione della specie «uomo».
Dove passa
esattamente il confine tra ciò che è essenziale e ciò che
non lo è? La bruttezza e la saggezza di Socrate, ad esempio,
sembrerebbero essenziali non meno del suo essere uomo, nel senso che un Socrate
bello e stupido non sarebbe più Socrate.
Senonché per
Aristotele l'essenza di una cosa (il suo essere necessario) non è
ciò che la rende diversa da ogni altra della stessa specie, ma semmai
ciò che la rende simile: quell'insieme di attributi che ne definiscono
senza incertezza l'appartenenza ad una specie determinata.
I caratteri
più propriamente individuali sono invece meri
accidenti.
L'individuo, allora, è sì sostanza, ma solo in
quanto è costituito da una forma, che in definitiva è un concetto
di specie, e che è anch'essa sostanza.
Per distinguerle Aristotele
chiamava «sostanze prime» le sostanze individuali e «sostanze
seconde» le forme sostanziali.
Gli scritti di Aristotele che oggi
conosciamo sono quelli detti «esoterici», riservati cioè agli
allievi e ai collaboratori diretti, mentre quelli «essoterici»,
destinati cioè al pubblico, sono andati perduti. I primi, che erano
rimasti nascosti per oltre tre secoli in una cantina, quando furono riscoperti e
pubblicati nel I secolo a.C., fecero perdere molto del loro interesse agli
scritti essoterici, che passarono in secondo piano e alla lunga furono
dimenticati. La pubblicazione fu affidata all'erudito e filosofo Andronico di
Rodi il quale sistemò le opere di Aristotele in quattro gruppi: il primo,
noto complessivamente col nome di Organon (= «strumento»), è
costituito da scritti di logica; il secondo da scritti di «fisica»,
ossia di scienze naturali, astronomia, biologia, ecc.; il terzo, noto come
Metafisica (che vuol dire semplicemente «i libri che vengono dopo quelli di
fisica») che riguarda argomenti detti appunto, dopo di allora,
«metafisici»; l'ultimo che riunisce gli scritti di morale, politica,
retorica, ecc.
FORMA E MATERIA
Per Platone solo le idee (ossia le essenze
immutabili, inalterabili, eterne) potevano essere oggetto di scienza, mentre di
ciò che è soggetto a divenire (e che perciò ha un'esistenza
aleatoria, in quanto può essere e non essere) non era possibile avere
conoscenze certe, ma al più opinioni plausibili. Anche per questo Platone
aveva prediletto la matematica, che si occupa di enti immutabili e puramente
intellegibili.
Anche secondo Aristotele si poteva avere scienza solo di
ciò che è universale e necessario, ma non considerava affatto il
divenire come qualcosa di accidentale o di aleatorio. Al contrario esso
costituiva per Aristotele un attributo essenziale delle cose, nel senso che,
secondo l'antica indicazione pitagorica, la corruttibilità era
proprietà necessaria degli esseri sublunari, così come
l'incorruttibilità lo era degli esseri celesti.
Del divenire si
poteva dunque avere scienza, e Aristotele si impegnò proprio in quei
settori della ricerca, come la botanica, la zoologia, ecc. che erano, per
così dire, dominati dal mutamento. In un certo senso, anzi, la nozione di
organismo vivente (che nasce, cresce, si corrompe e muore) servì ad
Aristotele come modello e chiave di interpretazione di qualsiasi fenomeno e
della realtà in generale. Si può dire a questo proposito che se la
concezione di Democrito (e poi di Epicuro) era ispirata a un modello meccanico e
quella dei Pitagorici e di Platone a un modello matematico, il modello a cui si
ispirava Aristotele era essenzialmente di tipo biologico (detto anche
«organicistico»).
Fare scienza non poteva voler dire altro per
Aristotele che spiegare il mutamento, e cioè risalire alla genesi delle
cose, individuare le cause che fanno essere le cose quelle che sono.
«Crediamo di non conoscer nulla - diceva - se prima non abbiamo posto il
perché di ciascuna cosa». Di perché, ossia di cause,
Aristotele ne elencava quattro: la causa materiale, la causa formale, la causa
efficiente e la causa finale. Il che equivaleva a dire che conosciamo davvero
una cosa solo quando sappiamo 1) di che cosa è fatta, 2) come è
fatta, 3) da che cosa è stata prodotta e 4) a che cosa serve (ossia quale
è il suo scopo).
È chiaro che il termine «causa»
aveva per Aristotele un significato molto più esteso di quello attuale.
Oggi, infatti, chiameremmo «causa» (senza altre specificazioni), solo
quella che Aristotele chiamava «causa efficiente» e cioè
l'evento che produce un dato effetto o che mette in moto un processo.
La
causa finale è l'obiettivo a cui tende un processo. Al contrario di
Democrito, ma in accordo su questo con Platone, Aristotele riteneva che nel
divenire operasse sempre uno scopo, e indagava nelle cose il fine, ossia
l'intenzione che le fa essere quello che sono. Una spiegazione del genere oggi
sarebbe ammissibile solo in relazione ad azioni o comportamenti coscienti. Ci
possiamo domandare: «a quale scopo il maggiordomo ha gettato dalla finestra
la marchesa?», ma non ci chiederemmo mai: «a quale scopo il corpo
della marchesa è precipitato sul selciato?». Aristotele invece se lo
domandava. Qui, nonostante il suo distacco dalle dottrine del maestro,
Aristotele restava profondamente platonico; e qui, soprattutto, si poneva in
totale, inconciliabile antitesi con l'atomismo democriteo, che aveva escluso
dalla sua spiegazione del mondo come assolutamente superflua l'idea di un fine o
di un disegno.
La causa materiale, ossia la materia, e ciò da cui si
trae una cosa. È il legno di cui è fatto il tavolo o l'argento di
cui è fatta la coppa, ma con questa precisazione: che il legno e
l'argento esistono sempre e soltanto nella forma di un oggetto, perché in
sé non sono nulla. Il legno che non ha ancora assunto la forma del tavolo
ha pur sempre una forma: ad esempio quella di un albero. Ciò che
può diventare un tavolo, è potenzialmente un tavolo, ma
attualmente è un'altra cosa (per esempio un albero).
La causa
formale è il «progetto» della cosa, è ciò che
dà una forma alla materia. La forma è in atto ciò che la
materia era solo in potenza. Ogni trasformazione (= «cambiamento di
forma») è un passaggio dalla potenza all'atto. Prendiamo un seme. A
guardarlo non sapremmo proprio dire che cosa possa diventare. Se però lo
mettiamo sotto terra si gonfia, si apre, diventa un germoglio, poi una piantina,
infine un albero. Il seme, dunque, era in potenza un albero. Prendiamo ora
l'albero perfettamente sviluppato. È venuto fuori da quel seme, ma ha i
caratteri comuni a tutti gli altri alberi e guardandolo pensiamo: «ecco un
albero» (ossia richiamiamo alla mente l'idea di Albero). Quel seme, dunque,
non solo era in potenza quel tale albero che poi abbiamo visto crescere, ma
aveva in sé la forma-Albero, che è la stessa per tutti gli alberi
del mondo (è universale).
Aristotele avrebbe detto che l'azione di
porre il seme nella terra è la causa efficiente di tutto il processo (lo
ha avviato rendendo possibile la crescita); che l'albero nella pienezza del suo
sviluppo ne è la causa finale; che il seme (che è in potenza il
futuro albero) ne è la causa materiale; e che l'universale (la
forma-Albero) ne è la causa formale.
LA FISICA DI ARISTOTELE
I Pitagorici e Platone avevano attribuito al
mondo una struttura matematica e avevano immaginato che solo attraverso la
matematica il mondo potesse essere compreso; nonostante il valore
prevalentemente magico-teologico di tali asserzioni, la loro fisica era di tipo
quantitativo. Anche gli atomisti erano sostenitori di una fisica di tipo
quantitativo, nel senso che consideravano reali solo gli aspetti misurabili
delle cose, ossia la forma, la dimensione e il peso.
Aristotele, che si
opponeva al platonismo pitagoreggiante e ancora più radicalmente
all'atomismo, costruì una fisica essenzialmente qualitativa, nella quale
cioè la quantificazione dei fenomeni, i procedimenti di misura e il
calcolo avevano un ruolo secondario rispetto all'interesse primario della
definizione delle essenze, e della classificazione delle cose in base alle loro
qualità.
Questo carattere prevalentemente qualitativo delle teorie
fisiche rimase largamente prevalente nella scienza europea sino all'età
di Galileo, sino a quando cioè una nuova sintesi dottrinale (in parte
legata proprio alla ripresa di tesi platoniche e soprattutto atomistiche) non
riuscì a sostituire vantaggiosamente i sistemi costruiti sul modello
aristotelico.
Aristotele riprendeva nella sostanza la teoria degli elementi
di Empedocle, che elencava quattro qualità o attributi fondamentali di
tutte le cose: il caldo, il freddo, l'umido e il secco. Dalla combinazione di
queste qualità nascono i quattro elementi, acqua, aria, terra e fuoco,
come si vede nella figura.
La teoria degli elementi di Empedocle
La sostituzione di una qualità all'altra produce la
trasformazione di un elemento in un altro; così, se il freddo si
sostituisce al caldo, il fuoco diventa terra e l'aria acqua, e se il secco si
sostituisce all'umido, l'aria diventa fuoco e l'acqua terra.
I quattro
elementi costituiscono la materia dei corpi sublunari, mentre i corpi celesti
sono fatti di un quinto elemento, l'etere (o «quintessenza»),
già ipotizzato dai Pitagorici. Con la nozione di etere Aristotele
riprendeva dai Pitagorici la concezione di una assoluta diversità di
natura tra Cielo e Terra. Diversi per la loro costituzione materiale, i corpi
celesti e quelli terrestri erano dotati anche di moti diversi.
Il moto
circolare non ha inizio o fine e perciò, secondo Aristotele, è
conforme alla natura incorruttibile ed eterna dei cieli. Il moto rettilineo,
invece, che ha un inizio e una fine, come ha inizio e fine ogni cosa che sta
sotto la sfera della Luna, è conforme alla natura delle sostanze
terrestri. Il fuoco, l'aria, l'acqua e la terra, hanno però tendenze e
proprietà diverse rispetto al moto: il fuoco e l'aria sono leggeri, e
cioè si muovono verso l'alto; l'acqua e la terra sono pesanti, e
cioè si muovono verso il basso.
Un corpo si muove di moto naturale
quando segue la tendenza propria dell'elemento di cui è fatto, o, se
è fatto di un miscuglio di elementi, dell'elemento che prevale sugli
altri. Così, un corpo fatto prevalentemente di aria si muove di moto
naturale se si sposta verso l'alto. Non tutti i movimenti che avvengono nel
mondo sublunare sono però naturali. Esistono anche i moti
«violenti», prodotti da forze che costringono i corpi a spostarsi in
direzioni diverse da quelle che seguirebbero per natura: una pietra, che
è fatta di terra, si muove spontaneamente verso il basso e può
muoversi verso l'alto solo se c'è una spinta esterna capace di
soverchiare la sua naturale tendenza a cadere.
In ogni movimento occorre
distinguere il corpo che viene mosso (il mobile) dal motore che lo muove. Il
motore può essere interno al corpo, come accade negli organismi animali
(nei quali il motore è appunto l'anima) o esterno ad esso, come accade in
un carro tirato da buoi. In ogni caso il moto violento dura finché il
motore agisce direttamente sul corpo: un carro tirato da buoi cessa di muoversi
quando i buoi vengono staccati o smettono di tirare.
Questa tesi di
Aristotele incontrava delle difficoltà soprattutto nel caso dei
proiettili, dove il moto continua anche quando il mobile si è staccato da
suo motore. Facciamo l'esempio di un giavellotto lanciato da un atleta. Se
l'atleta è il motore, fin dall'inizio del suo movimento il giavellotto se
ne separa; il motore dovrebbe perciò cessare di agire e il giavellotto,
liberatosi dal moto violento che gli è comunicato dall'atleta, dovrebbe
riprendere il suo naturale moto di caduta. Come mai prosegue invece nella sua
traiettoria?
Gli atomisti avevano immaginato la materia come un insieme di
infiniti atomi fluttuanti nel vuoto infinito. Aristotele invece (ed è
questo un altro essenziale aspetto della sua fisica) rifiutava assolutamente il
vuoto, ritenendolo, come Parmenide, una nozione contraddittoria (vuoto =
non-pieno = non-materia = non-essere). Senonché era opinione comune che
il movimento fosse impossibile nel pieno, e infatti Parmenide, negando il vuoto
aveva negato anche il movimento. Aristotele dovette dunque provarsi a salvare il
movimento dimostrandone la possibilità nel pieno (e
l'impossibilità nel vuoto). Vediamo come c'è riuscito.
Il
giavellotto scagliato dall'atleta deve attraversare un mezzo continuo (ossia
senza vuoti): l'aria. Questo mezzo esercita una certa resistenza, ossia si
oppone al moto, che infatti è destinato prima o poi a cessare. Ma
è proprio questo mezzo, secondo Aristotele, che, almeno per un certo
tempo, mantiene il giavellotto in moto. Quando il giavellotto si stacca
dall'atleta l'aria affluisce con violenza nel punto di separazione, dove
altrimenti si formerebbe un vuoto (il che, per definizione, è
impossibile). Questo afflusso di aria esercita una nuova spinta sul giavellotto
e lo fa avanzare ancora un po'. Ma questo nuovo avanzamento fa affluire altra
aria dietro il giavellotto e così via, fino a che la resistenza che
l'aria oppone al moto del giavellotto non neutralizza del tutto la spinta che
essa stessa le fornisce.
L'aria, ossia il mezzo in cui si muove, è
dunque il vero motore del giavellotto e agisce su di essa per tutta la durata
del moto, mentre l'atleta non le ha fornito altro che la spinta iniziale.
È evidente allora che se invece dell'aria ci fosse il vuoto, il
giavellotto non potrebbe mantenersi in moto dopo essersi separato
dall'atleta.
Questa dottrina che spiegava in modo plausibile i moti detti
«violenti», parve per molto tempo conforme all'esperienza oltre che
alla ragione. Per dimostrarne l'erroneità sarebbe stato necessario
precisare in termini quantitativi i dati dell'esperienza, e cioè misurare
con esattezza le traiettorie percorse dai proiettili e le velocità del
moto nei diversi punti della traiettoria.
ESSENZA, SOSTANZA
«Sostanza» viene dal latino
substantia, che a sua volta corrisponde alla parola greca hypòstasis
(ipostasi), e vuol dire alla lettera «ciò che sta sotto». Il
termine sta dunque innanzi tutto ad indicare il fondamento delle cose,
ciò che sta sotto alle cose quali appaiono. Sostanza è poi
ciò che resta uguale a se stesso anche nel mutamento e che perciò
costituisce il supporto permanente delle qualità che viene
successivamente ad assumere. La sostanza, insomma, è il soggetto del
mutamento. Sostanza è infine ciò che esiste di per sé,
senza presupporre altro e senza dipendere da altro. Le idee di Platone sono
sostanze appunto nel senso che hanno un'esistenza separata dalle cose e non
hanno alcun bisogno delle cose per esistere.
In tutti questi significati
(che sono evidentemente legati l'uno all'altro) l'arché dei filosofi
ionici era sostanza: l'acqua, l'aria o l'apeiron erano infatti il fondamento
comune di tutte le cose erano il soggetto di ogni trasformazione, e non
presupponevano nulla all'infuori di sé, poiché erano il principio
ingenerato ed eterno di ogni cosa. L'arché degli Ionici non era
però solo sostanza, perché era anche causa e legge dell'universo.
L'uso del termine sostanza in relazione alla filosofia di Aristotele presenta
qualche difficoltà aggiuntiva. Con la parola substantia, infatti,
è stato sempre tradotto in latino quello che Aristotele chiamava ousia,
non hypòstasis. In verità, a ousia corrisponde in latino il
termine essentia («essenza»), che però è entrato
nell'uso molto più tardi. Così, nel mondo latino si è
creata qualche confusione a proposito dei due termini.
Come abbiamo visto
Aristotele distingue sostanza (ousia) prima da sostanza seconda. Sostanza prima
è l'essere individuale che è il soggetto per eccellenza:
poiché ha degli attributi, ma non è esso stesso un attributo,
l'essere individuale può comparire in una proposizione solo come
soggetto, mai come predicato. Sostanze seconde sono invece i nomi di specie, che
designano un'intera classe di cose, come uomo, albero, mammifero, ecc. Essi
possono comparire in una proposizione sia come soggetti sia come predicati: si
può dire infatti «il mammifero è un animale», ma si
può anche dire «l'uomo è un mammifero».
I nomi di
specie sono sostanze solo in un significato estensivo del termine, primo
perché non hanno (a differenza delle idee di Platone, che sono vere
sostanze) un'esistenza separata dagli individui concreti e poi perché,
per definizione, non sono suscettibili di mutamento (i singoli cani possono
nascere, crescere, invecchiare morire, ma il concetto di cane non può
cambiare mai), mentre le sostanze in senso proprio sono appunto i soggetti del
mutamento.
MATERIA
In latino materia è un termine legato
a mater che significa «madre», ma anche, nel linguaggio dei contadini
e degli agronomi, «sostanza materna», ossia quella parte del tronco
degli alberi da cui escono i polloni. Così, in latino materia, oltre ai
significati che ha anche in italiano, vuol dire «legno» o, per meglio
dire, «legname da costruzione». Più o meno lo stesso accade con
il termine greco hyle, che vuol dire materia, ma anche legname (è infatti
legato al latino silva e all'italiano selva). Il nesso originario è
chiaro: materia è il legno con cui si possono costruire degli oggetti e,
per estensione, è la sostanza di cui sono fatte tutte le cose.
Prima
di Aristotele la nozione di materia aveva già una lunga storia
dall'arché degli lopici, ai quattro elementi di Empedocle, ai semi di
Anassagora, agli atomi di Democrito. Questa nozione si era venuta precisando
anche in relazione a ciò che di volta in volta veniva indicato come
contrario o diverso da essa. Empedocle aveva contrapposto la materia (i quattro
elementi) all'energia (l'Amore-Odio); Anassagora l'aveva contrapposta allo
Spirito (Nous); Parmenide e Democrito, definendola come pieno, l'avevano
contrapposta al vuoto. Erano emersi così, per contrapposizioni
successive, gli attributi della materia: l'inerzia (Empedocle e Anassagora), la
pienezza, ossia il fatto di occupare spazio e avere estensione (Parmenide e
Democrito) e naturalmente (su questo erano tutti d'accordo, da Talete a
Democrito) l'eternità, il fatto cioè di non essere mai stata
generata e di essere indistruttibile.
Con Platone tutta la tradizionale
prospettiva di ricerca era cambiata e la nozione di materia era diventata
improvvisamente «difficile e oscura». Per Platone esisteva la materia?
Nel Timeo, a dispetto delle difficoltà che trovava in una simile ipotesi,
accennava a un terzo principio oltre le idee e le cose: qualcosa di preesistente
all'opera del Demiurgo, «ricettacolo di tutto ciò che si
genera», che parrebbe proprio la materia primordiale. Ma è difficile
capire quale genere di esistenza le attribuisse.
Nel linguaggio filosofico
il termine materia (hyle) ha comunque acquistato un preciso significato tecnico
solo con Aristotele. Aristotele però, assai più vicino
all'impostazione platonica che a quella dei naturalisti, concepiva la materia in
un modo tutto particolare, e, tanto per cominciare, negava che fosse sostanza.
Materia per Aristotele era ciò da cui si può fare una cosa
dandogli una forma. Materia è il seme rispetto all'albero, ma è
anche l'albero rispetto al tavolo che ne ricaverà il falegname. Siccome
poi nulla vieta che del tavolo si faccia legna da ardere, ciò che
attualmente è tavolo (esiste nella forma del tavolo) è in potenza
il fuoco che lo divorerà. Se il legno è la materia del tavolo, il
tavolo e la materia della futura combustione.
«Materia», allora,
è un termine che ha solo valore relativo. Una cosa, per Aristotele,
è materia in relazione alla forma che è destinata ad assumere e
non c'è materia se non in rapporto a una forma. La materia è il
sostrato delle trasformazioni, perché è appunto ciò che
può cambiare forma. Ma «la» materia in assoluto (ossia
totalmente priva di forma) non esiste, non può esistere e non si
può neppure pensare. Se non c'è materia senza forma, non
c'è neppure, almeno in linea di principio, forma senza materia. E infatti
ciò che davvero esiste è l'individuo, la cosa singola, che
è unità indissolubile (sinolo, dice Aristotele con un termine
greco che significa «tutt'insieme») di materia e forma.
Materia e
forma non sono per questo equivalenti. Mentre la materia senza forma è
impensabile, la forma totalmente priva di materia non lo è affatto: essa
infatti non è altro che il concetto delle cose, ciò che delle cose
si pensa, l'intellegibile per definizione.
Ed è per questo che
Aristotele riconosce alla forma in qualche modo dignità di sostanza (e
sia pure di sostanza seconda).
CLASSE, GENERE, SPECIE
La parola «specie» (che viene
dalla radice indoeuropea spek = «osservare») ha il suo corrispondente
greco in èidos (legato a idèin = «vedere») opposto a
génos = «genere» (dalla radice indoeuropea gene =
«generare»). Sia il genere sia la specie sono classi (dal latino
classis = «gruppo, categoria» forse connesso a clamare, nel
significato di chiamare, convocare e simili), ossia insiemi di oggetti che
possiedono uno o più caratteri comuni. Il genere ha però
un'estensione maggiore della specie (una specie è una parte di un
genere). La «differenza specifica» è quel carattere (o insieme
di caratteri) che differenzia una specie dalle altre specie dello stesso genere.
Naturalmente tutte le specie che appartengono allo stesso genere hanno in comune
un certo numero di caratteri (i caratteri appunto che definiscono quel genere
particolare). Classificare vuol dire ordinare oggetti in gruppi o classi in
funzione delle loro somiglianze o delle loro differenze. Poiché ciascuno
percepisce a modo suo somiglianze e differenze, parrebbe che in ogni
classificazione debba esserci un alto tasso di arbitrio. Per Aristotele, invece,
la classificazione, se costruita rigorosamente esprime le «vere»
relazioni esistenti tra le cose. Le cose (ossia gli individui) sono definiti
necessariamente e univocamente dall'appartenenza ad una specie e a un genere,
nel senso che, mentre le differenze puramente individuali sono accidentali, la
loro vera natura (ossia l'essenza, il loro essere necessario) è data
dall'insieme dei caratteri che hanno in comune con tutte le cose della stessa
specie, e tra questi caratteri c'è, naturalmente, quello
dell'appartenenza a un dato genere.
LA DEDUZIONE
Di una cosa di cui possiamo dire che
è, possiamo dire anche altre cose: che ha certi caratteri o
proprietà (per esempio che è bella o brutta), che si trova in un
certo luogo (a scuola, in piazza, sul tavolo di cucina, ecc.) e in un certo
tempo (adesso, ieri, trent'anni fa, ecc.), che sta compiendo una certa azione
(corre, cade, galleggia, ecc.), oppure che sta in certi rapporti con altre cose
(è maggiore o minore di un'altra, ecc.), e così via. Questi modi
di descrivere le cose sono detti da Aristotele categorie. Categoria (dal verbo
che in greco significa «affermare, enunciare, imputare») è
ciò che si afferma di un soggetto: è, cioè, il predicato di
una proposizione. Quando usiamo le categorie per qualificare o descrivere una
cosa formuliamo infatti delle proposizioni (ossia dei giudizi). Se vogliamo
descrivere Socrate utilizzando la categoria di bello/brutto diremo:
«Socrate è bello» oppure «Socrate è brutto». I
giudizi possono essere veri o falsi: per esempio (almeno a detta di quelli che
lo hanno conosciuto) l'affermazione «Socrate è bello» è
falsa, e l'affermazione «Socrate è brutto» è
vera.
Unendo fra di loro diversi giudizi si ottiene un ragionamento, che
può essere di tipo deduttivo o di tipo induttivo. Il primo, che
Aristotele chiamava sillogismo (in greco è l'esatto equivalente di
«deduzione»), è quello in cui, poste alcune premesse, ne deriva
necessariamente una conclusione. Nella sua forma classica è costituito da
tre giudizi concatenati fra di loro come in questo esempio:
1) Tutti gli uomini È la cosiddetta "premessa maggiore",
sono mortali cioè un'affermazione di carattere ge-
nerale (riguarda tutti gli uomini).
2) Socrate è un uomo; È la cosiddetta "premessa minore",
cioè un'affermazione di carattere par-
ticolare (riguarda un unico soggetto).
dunque
3) Socrate è mortale. Conclusione.
Nella prima proposizione un'intera classe di soggetti (tutti
gli uomini) viene assegnata ad una classe ancora più ampia (i mortali,
che comprendono gli uomini, ma anche i cammelli, i leoni, i somari, ecc.). Nella
seconda proposizione un individuo (Socrate) è assegnato alla classe meno
ampia. Nella conclusione si constata semplicemente che se un soggetto (Socrate)
appartiene alla classe meno ampia (gli uomini) deve appartenere anche alla
classe più ampia che comprende la prima. La classe meno ampia (gli
uomini) è un concetto presente in entrambe le premesse: si chiama termine
medio del sillogismo.
L'ordine delle proposizioni nel sillogismo non
può essere modificato a capriccio. Se, per esempio, avessimo posto come
premesse le due affermazioni: «Tutti gli uomini sono mortali»,
«Socrate è mortale», non potremmo assolutamente concludere che
Socrate è un uomo, perché Socrate potrebbe anche essere un
cammello, un leone o un qualsiasi altro essere vivente. Il sillogismo ha le sue
leggi e una di queste è appunto che non si può assegnare ad una
classe (per esempio: «gli uomini») un soggetto di cui sappiamo
soltanto che appartiene ad una classe ancora più larga (per esempio:
«i mortali»).
Esempio illustrato di sillogismo
LOGICA
Nel linguaggio comune la parola
«logica» indica la capacità di condurre in modo corretto un
ragionamento (ad esempio: «Parmenide possiede una logica ferrea»)
oppure la coerenza di un discorso, di un comportamento, di un processo (ad
esempio: «la logica degli avvenimenti»).
In filosofia
«logica» è la dottrina delle strutture, delle forme e delle
leggi del pensiero. È insomma quella parte della filosofia che non si
occupa dell'oggetto (o contenuto) dei giudizi, ma solo del modo in cui essi sono
formulati; non si occupa del fatto che essi corrispondano o meno alla
realtà, ma solo della loro correttezza formale. Così, ad esempio,
la proposizione «piove», che descrive un fatto di esperienza, ed
è vera o falsa a seconda che piova davvero oppure che sia bel tempo, non
interessa la logica; appartiene invece alla logica la proposizione «piove o
non piove», che esprime una alternativa logicamente necessaria, e che
è vera in ogni caso, qualunque tempo faccia.
Altro discorso riguarda
il sillogismo aristoteliano:
«Tutti gli uomini sono mortali; Socrate
è un uomo; dunque Socrate è mortale»
non è vero
in relazione a Socrate, ma soltanto come esempio, modello o schema di
ragionamento. Possiamo mutare il contenuto del sillogismo senza che cambi la sua
struttura.
«Tutti i cani sono mortali; Boby è un cane; dunque
Boby è mortale»
è un sillogismo identico al precedente,
anche se è cambiato il soggetto di cui si parla.
Al posto dei
soggetti Socrate e Boby, e delle classi «uomini», «cani»,
«mortali» potremmo adoperare dei simboli, per esempio delle lettere
dell'alfabeto. Il nostro sillogismo sarebbe allora formulato
così:
tutti gli A sono B
C è A
dunque
C
è B
La logica classica ha individuato alcuni principi o leggi
fondamentali del pensiero:
1) Principio d'identità.
Si
esprime dicendo che «ciò che è è e ciò che non
è non è». In simboli si esprime così: A = A, dove A
può essere sia un concetto, sia una proposizione.
2) Principio
di non contraddizione.
Si esprime dicendo che «il contrario del vero
è falso». Aristotele lo espresse in questo modo: «È
impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo e sotto il medesimo
punto di vista, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto»; il che
vuol dire che non è possibile affermare e insieme negare la stessa
cosa.
3) Principio del terzo escluso.
È stato formulato
sia come parte del principio di non contraddizione sia come principio autonomo.
Si esprime dicendo che «di due proposizioni che si contraddicono a vicenda
una è vera e l'altra è falsa», oppure che «se due
proposizioni si contraddicono a vicenda, la verità o la falsità
dell'una implica la falsità o la verità dell'altra».
Si
può anche esprimere dicendo che «A è uguale o non è
uguale a B, e non esiste altra possibilità». Così, ad
esempio, o Socrate è un uomo o Socrate non è uomo, ma tra le due
affermazioni non vi sono alternative.
I principi di identità,
di non contraddizione e del terzo escluso sono stati considerati dalla logica
classica come leggi assolute del pensiero. La logica moderna tende invece a
considerarli come semplici regole del procedimento deduttivo. Contro tutti e tre
sono state sollevate in diversi tempi delle obiezioni.
La critica
più pertinente al principio di identità è che esso non
svolge alcuna funzione nel nostro pensare perché non consente alcun
ampliamento delle nostre conoscenze.
Il principio di non contraddizione
è stato messo in discussione alla fine del Settecento da Immanuel Kant.
Secondo Kant esistono proposizioni contraddittorie, o «antinomie», che
si escludono a vicenda, ma che, prese separatamente, possono essere assunte come
ugualmente vere.
La ragione, secondo Kant, si trova in una antinomia quando
cerca di afferrare il concetto di mondo come totalità: poiché la
totalità è al di fuori di qualsiasi esperienza possibile, rimane e
rimarrà sempre un oggetto inconoscibile, e l'uomo non avrà mai la
possibilità di decidere quale di due proposizioni contraddittorie che la
riguardano sia la vera e quale la falsa. Così, secondo Kant, non è
possibile decidere se il mondo ha avuto un inizio nel tempo oppure no, se
avrà o no una fine, se è finito o infinito, ecc.
Quanto al
principio del terzo escluso, agli inizi del Novecento sono apparse, in
contraddizione con la logica classica, fondata sul binomio vero-falso, logiche a
tre valori (oltre a «vero» e «falso» anche
«possibile», «indeterminato», ecc.) o a più di tre
valori. L'introduzione di un terzo valore (la nozione di possibilità)
implica l'ammissibilità di proposizioni che non sono né
definitivamente vere né definitivamente false.
Non ha senso, per
esempio, chiedersi se la proposizione «domani pioverà» è
vera o falsa: essa è, oggi, semplicemente
indeterminata.
IL MERLO DAL BECCO ROSSO
Come si è visto la deduzione (o
sillogismo) è il ragionamento che parte da una proposizione di carattere
generale (tutti gli uomini sono mortali) per arrivare ad una proposizione di
carattere particolare (Socrate è mortale). C'è da domandarsi ora
come è possibile porre le premesse di un sillogismo, ossia, nel nostro
esempio, come si fa a sapere in anticipo che tutti gli uomini sono mortali.
È qui che entra in gioco l'induzione. Mentre la deduzione va dal generale
al particolare, l'induzione fa il percorso inverso, dal particolare al generale:
se in un grandissimo numero di casi si è constatato che gli uomini
muoiono, è legittimo pensare che tutti gli uomini siano mortali.
Naturalmente, se fossimo riusciti a constatare anche solo in un caso il
contrario, quella proposizione sarebbe irrimediabilmente falsa; ma è
giusto considerarla vera finché è confermata da tutti i casi a
nostra conoscenza.
Su questo tutti è però necessario
intendersi: «tutti i casi a nostra conoscenza» possono costituire un
numero grandissimo ma si tratta pur sempre di un numero finito di casi; quando
diciamo «tutti gli uomini sono mortali» intendiamo invece non solo
tutti gli uomini di cui sappiamo per esperienza che sono morti, ma anche tutti
quelli che sono ancora vivi, e tutti quelli che non sono ancora nati, e insomma
un numero infinito di uomini. Questa è la più importante
caratteristica del ragionamento induttivo, che è fondato sull'esperienza,
rispetto alla deduzione (o sillogismo) che è un procedimento puramente
razionale: mentre nella conclusione di un sillogismo non c'è nulla di
più di quel che è già implicito nelle premesse, l'induzione
amplia la nostra conoscenza, nel senso che estende a un'intera classe di cose,
costituita da un numero infinito di soggetti («gli uomini») le
qualità che sono state verificate su un numero limitato di soggetti,
ossia su un semplice campione di quella classe («tutti gli uomini di cui
abbiamo potuto constatare la morte»). È evidente però che
occorre stare molto attenti nel costruire a questo modo «leggi» o
principi di valore universale.
Con qualche approssimazione possiamo
assumere il procedimento induttivo, di cui Aristotele ha dato solo una prima
teorizzazione, quale modello generalissimo dei procedimenti delle scienze
empiriche, (dal greco en = «in» epeirìa =
«esperienza»: le scienze cioè fondate sull'esperienza). Il fine
che si propongono le scienze empiriche sembra essere appunto quello di formulare
leggi che definiscano le proprietà delle cose e le modalità dei
fenomeni osservati. Il termine «legge» è entrato da tanto tempo
nell'uso corrente, che non vale davvero la pena di cambiarlo. Esso tuttavia
è improprio, perché suggerisce l'idea di un Dio legislatore che
avrebbe stabilito le regole a cui la natura deve obbedire. Come abbiamo visto,
nelle antiche fantasie mitologiche sulle origini e sulla struttura dell'universo
il termine aveva proprio questo significato e lo ha conservato in tutte le
teorie che in un modo o nell'altro accettano l'ipotesi di un Dio autore del
mondo. Ma anche quando una visione scientifica del mondo ha prevalso su quella
teologica e l'idea di un Dio legislatore è stata abbandonata, è
rimasta la convinzione che la natura «debba» comportarsi in accordo
con quanto stabilito dalla scienza, ossia che le cosiddette «leggi»
della natura scoperte dalla scienza siano necessarie e irrevocabili. Il che non
è affatto vero ed esprime una fiducia «dogmatica» (ossia assai
poco scientifica) nella scienza. Per convincersene basta pensare a come tali
leggi vengono formulate. Prendiamo un caso molto semplice: quello del becco dei
merli. Tutti sappiamo (anche se parecchi lo sanno solo per averlo sentito dire,
perché non hanno mai visto un merlo) che il becco dei merli è
giallo. Il pensiero teologico direbbe: «Dio ha voluto che i merli avessero
il becco giallo». Il pensiero dogmatico direbbe: «un merlo non
può non avere il becco giallo». Il pensiero critico cerca di capire
quali sono i fondamenti della «legge» secondo la quale tutti i merli
dovrebbero avere il becco giallo e constata che, in effetti, sono state
effettuate lunghe e accurate indagini in tutte le parti del mondo, senza aver
mai trovato un merlo con un becco di colore diverso. Ciò però non
lo porta ad escludere che un giorno possa saltar fuori da qualche parte un merlo
dal becco rosso o verde o azzurro, giacché non è mai stata
dimostrata l'impossibilità di un simile evento. La verità delle
leggi del tipo «tutti i merli hanno il becco giallo» è una
verità provvisoria, buona fino a prova contraria. Non bastano cento o
mille o un milione di merli, tutti con il loro bravo becco giallo, per
assicurarci che non ce ne sono stati e che non ce ne saranno mai con il becco di
un altro colore; basterebbe invece un solo merlo con il becco rosso per mandare
all'aria la nostra legge. In realtà la scienza va a caccia proprio di
merli con il becco rosso. La scienza, cioè, si interessa di più a
un solo caso capace di dimostrare la falsità di una legge già
accettata come vera, che non di tutti gli innumerevoli casi che sembrano
confermarla. È in questo modo, infatti, che la conoscenza fa dei
progressi.
GIUDIZI, PREDICATI, ATTRIBUTI
In generale il termine «giudizio»
indica l'atto mentale (o il suo risultato) attraverso il quale distinguiamo il
vero dal falso, il bello dal brutto, il buono dal cattivo, ecc.
A queste
distinzioni corrispondono rispettivamente un giudizio conoscitivo (es.: il fuoco
brucia), un giudizio estetico (es.: La Gioconda è un capolavoro), un
giudizio etico (es.: Claudio è un poco di buono), ecc.
A questa
definizione di giudizio si possono ricondurre i significati particolari in cui
il termine e impiegato: opinione o parere (il giudizio degli esperti); la
sentenza di un tribunale o anche il procedimento che porta alla sentenza
(giudizio di primo grado); la capacità di comportarsi in modo assennato e
prudente (un uomo di giudizio, l'età del giudizio); la facoltà di
formulare giudizi, ossia di farsi delle opinioni (avere il giudizio
sicuro).
In senso più strettamente logico si intende per giudizio
l'atto mentale che afferma o nega un «predicato» (o
«attributo») di un soggetto.
Nel giudizio i due termini, soggetto
e predicato, sono legati insieme dalla copula, solitamente espressa da una forma
del verbo essere (è/non è).
Per esempio: Socrate (soggetto)
è (copula) mortale (predicato). Tradizionalmente i giudizi si dividono in
analitici e sintetici.
I primi (a cui appartengono, ad esempio, i giudizi
della matematica) sono quelli in cui il predicato è già
implicitamente contenuto nel soggetto e l'analisi non fa che renderlo esplicito.
Così, nel giudizio Il triangolo ha tre lati, il predicato («ha tre
lati») è già contenuto nel soggetto («il
triangolo»), poiché nessuna figura può essere un triangolo
senza avere tre lati (un triangolo con un numero di lati diverso da tre sarebbe
una contraddizione in termini).
Un discorso si dice tautologico (dal greco
tautòs = «lo stesso» e logos = «discorso»), quando
ripete nelle conclusioni affermazioni già contenute nelle premesse.
Così definita, una tautologia, per quanto vera non porta alcun progresso
alla conoscenza (ad es. «Il bene è il bene» è una
definizione tautologica, vera, ma che non dice nulla. Al massimo (come è
stato detto da Kant) un discorso o una definizione tautologica (per es. «Il
triangolo ha tre angoli») può esprimere con più chiarezza
ciò che è già contenuto in un concetto in modo implicito.
È questo, appunto, il campo della conoscenza analitica.
Si dice che
una proposizione è una tautologia anche quando è sempre vera,
indipendentemente dalla verità o falsità degli elementi che la
compongono.
«A = A» e «A o non A» (che potrebbe essere
«piove o non piove») sono proposizioni sempre vere, e cioè
tautologiche. In questo senso tutte le proposizioni logiche, le deduzioni, le
operazioni matematiche fanno parte della classe delle tautologie.
I giudizi
sintetici sono quelli in cui il predicato non è implicito nel soggetto e
i due termini possono essere connessi tra di loro solo sulla base
dell'esperienza.
Se per esempio diciamo: «Socrate è
seduto», il fatto di essere seduto non è contenuto nel concetto di
Socrate (il quale può stare benissimo in piedi senza generare alcuna
contraddizione) e per stabilire la verità dell'affermazione non possiamo
che constatare se lo sia davvero o no.
Un'altra distinzione tradizionale
divide i giudizi in giudizi di fatto e giudizi di valore: mentre i primi si
limitano a descrivere uno stato di cose (es.: Oggi piove), i secondi esprimono
una valutazione o una presa di posizione (es.: Che brutta giornata! rientrano in
questa categoria i giudizi morali, i giudizi estetici, ecc.).
EUCLIDE E ARCHIMEDE
Nel 332 a.C. Alessandro Magno aveva fondato
Alessandria, la città destinata in breve tempo a soppiantare Atene nel
ruolo di capitale intellettuale del mondo antico. Alla morte di Alessandro
l'Egitto era caduto nelle mani di uno dei suoi generali, Tolomeo, che, come
Alessandro, aveva avuto Aristotele come maestro. Tolomeo aveva voluto dotare la
città di un istituto di ricerca e di insegnamento, il Museo, costruito
sul modello del Liceo di Aristotele, ma su scala molto più ampia: aveva
un organico di un centinaio di insegnanti e studiosi e disponeva di uno zoo, di
un orto botanico, di un osservatorio astronomico e di una biblioteca che contava
(pare) quasi mezzo milione di papiri. Il Museo di Alessandria restò in
vita con alterne fortune per diversi secoli, ma nei suoi primi duecento anni
costituì un punto di riferimento obbligato per qualsiasi uomo di
scienza.
Fu proprio in Alessandria che, intorno al 300 a.C., nacque l'opera
che costituisce tuttora, probabilmente, il testo scientifico più diffuso
nel mondo: gli Elementi di Euclide. Negli Elementi non c'era molto di originale.
Essi raccoglievano in tredici libri (altri due furono aggiunti da matematici
posteriori ad Euclide) proposizioni e dimostrazioni geometriche provenienti da
fonti diverse, e soprattutto da Eudosso e Teeteto. Il grande titolo di merito di
Euclide stava però nel metodo usato nel sistemare la materia, in forza
del quale la verità di ogni teorema geometrico era ricondotta, secondo le
regole aristoteliche della dimostrazione, o a proposizioni la cui verità
non aveva bisogno di dimostrazione perché universalmente evidente
(assiomi e postulati) o ad altri teoremi già dimostrati in
precedenza.
Per far questo Euclide aveva dapprima selezionato un certo
numero di definizioni (relative agli enti geometrici primitivi, punto, retta,
piano, spazio, sul tipo: il punto è ciò che non ha parti) e di
enunciati di base, universalmente evidenti, di cui cinque relativi agli enti
geometrici primitivi (sul tipo: tutti gli angoli retti sono uguali tra loro) e
cinque di carattere generale (sul tipo: l'intero è maggiore delle parti).
Anche se sulla validità del quinto postulato, quello delle parallele,
sorsero presto (e forse già in Euclide) dei dubbi, la sistemazione
euclidea della geometria risultò una costruzione singolarmente coerente,
unitaria, elegante, tale da realizzare compiutamente l'ideale aristotelico di
una scienza integralmente deduttiva. Per oltre due millenni gli Elementi hanno
rappresentato nel mondo occidentale un modello insuperato di chiarezza e di
rigore.
Se gli Elementi sono stati il prototipo dell'opera di scienza, il
siracusano Archimede (287-212 a.C.) è stato sicuramente il prototipo
dello scienziato. Versatile e geniale inventore (costruì i micidiali
apparati che permisero ai Siracusani di resistere validamente all'assedio dei
Romani), la tradizione gli ha attribuito tutti i tratti, anche comici, della
figura convenzionale dello studioso: tanto assorbito dalle sue meditazioni da
dimenticarsi di mangiare o da non accorgersi di essere minacciato da un nemico
(che poi, di fatti, lo avrebbe ucciso), e così poco preoccupato delle
convenienze da abbandonarsi a inconsulte manifestazioni di esultanza, come gli
accadde quando, avendo scoperto, mentre stava facendo il bagno, che un corpo
immerso in un liquido riceve una spinta verso l'alto pari al peso del liquido
spostato, si slanciò tutto nudo per le strade gridando - Eureka, eureka!
- (e cioè, in greco: - Ho trovato, ho trovato! -).
Anche Archimede
aveva studiato in Alessandria dove aveva conosciuto allievi e successori di
Euclide, come Eratostene di Cirene (284-192 a.C.), direttore della Biblioteca
annessa al Museo e come Conone, con i quali, tornato a Siracusa, si mantenne in
corrispondenza. Pare che al periodo alessandrino risalga l'invenzione della vite
detta, appunto, «di Archimede», un semplice e ingegnoso apparato per
sollevare l'acqua. Era un meccanico di straordinaria abilità e
costruì, oltre alle macchine belliche di cui abbiamo fatto cenno, una
quantità di apparecchi di ogni genere, tra cui diversi strumenti per
l'osservazione astronomica e un planetario che riproduceva con notevole
precisione i movimenti apparenti degli astri.
Per questa sua propensione
per le costruzioni meccaniche e per le molte applicazioni pratiche della
matematica che gli sono attribuite, Archimede è stato spesso contrapposto
ad Euclide, che era invece rappresentante di una concezione tutta contemplativa
e formalistica della scienza. In realtà, Archimede non teneva in alcun
conto le proprie invenzioni e non era secondo a nessuno nell'apprezzare il
carattere «puro» e disinteressato della ricerca. Come matematico
seguiva il modello deduttivo della geometria euclidea. Pare però che
ignorasse la condanna platonica dell'uso, nelle costruzioni geometriche, di
sussidi materiali e meccanici (a parte la riga e il compasso, per i quali
Platone, chissà perché, faceva un'eccezione) e che ricercasse per
via sperimentale la soluzione dei problemi e solo in un secondo momento,
conosciuto il risultato, ne fornisse una dimostrazione rigorosa.
In questa
sua spregiudicatezza metodologica è stato visto un segno di
modernità e l'espressione della sua sostanziale diversità rispetto
alla tradizione rappresentata da Euclide. Per un moderno (ha scritto il
matematico scozzese Eric T. Bell) tutto è lecito, non solo, come dice il
proverbio, in guerra e in amore, ma anche in matematica. Per gli antichi,
invece, la matematica era un curioso gioco, che si doveva giocare osservando
strettamente le regole fissate da Platone. Archimede non si faceva scrupoli di
questo genere e aggrediva i problemi con tutti gli strumenti a sua disposizione.
Dopo di lui l'ossequio servile per i precetti e per le manie di Platone sarebbe
stato un effettivo fattore di freno della ricerca matematica.
ASSIOMA, POSTULATO
Assioma (dal greco àxios =
«degno»), è una proposizione evidente di per sé, che non
ha bisogno di essere dimostrata e che serve come punto di partenza per la
dimostrazione di altre proposizioni. Si distingue dal postulato (dal latino
postulo = «chiedo») che è una proposizione che si assume per
vera non perché la sua verità sia intrinsecamente evidente, ma
perché tale verità è richiesta da altre proposizioni che, a
loro volta, appaiono incontestabili. Assiomi e postulati si distinguono dalle
ipotesi, che sono proposizioni assunte come vere solo provvisoriamente, in vista
cioè di un controllo che ne stabilisca la verità o la
falsità.
LA SCUOLA PERIPATETICA
Al Liceo di Aristotele venne dato anche il
nome di peripatòs (e peripatetici venivano chiamati i discepoli di
Aristotele), a causa dei viali lungo i quali maestro e allievi discorrevano
passeggiando (peripatòs significa infatti
«passeggiata»).
A differenza dell'Accademia platonica, dove era
in grande onore la matematica, nel Liceo si coltivavano soprattutto ricerche di
biologia, zoologia, botanica, mineralogia, ecc., quelle, cioè che oggi
chiameremmo «scienze naturali». Dato questo particolare indirizzo, si
capisce facilmente quanto importante fosse il favore di Alessandro Magno e dei
suoi funzionari soprattutto in relazione alla raccolta di un abbondante
materiale di studio. A quanto si racconta, Aristotele riservava il mattino al
lavoro con gli allievi più preparati o che da più tempo seguivano
le sue ricerche, e dedicava il pomeriggio alle discussioni con un più
vasto pubblico di frequentatori. La tradizione chiama «esoterico» o
«interno» l'insegnamento del mattino e «pubblico» o
«esterno» quello del pomeriggio. Questo però non significa che
Aristotele considerasse segreta, al modo dei Pitagorici, una parte delle sue
dottrine: si trattava di una semplice distinzione funzionale tra corsi di
diverso livello.
Alla morte di Aristotele la direzione della scuola
peripatetica fu assunta da Teofrasto (c. 372-287 a.C.), uno studioso con forti
interessi scientifici ed eruditi, autore di numerosi scritti di etica e di
metafisica ma soprattutto di botanica, metereologia, scienze naturali in genere.
Teofrasto riuscì a consolidare l'immagine del Liceo come istituto di
ricerca, acquisendo nuovi terreni e nuovi edifici e sistemandovi le raccolte
avviate da Aristotele e arricchite di libri, oggetti esotici e curiosi, piante
ecc. Quando un suo allievo, Demetrio di Falero, filosofo ma anche politico
ambizioso, fu nominato governatore di Atene per conto dei Macedoni, il Liceo
diventò una specie di istituzione ufficiale, sostenuta con fondi
pubblici. Fu lo stesso Demetrio che, passato al servizio di Tolomeo I Sotero, re
d'Egitto, suggerì la costruzione in Alessandria del Museo e della
Biblioteca sul modello del Liceo.
Gli studiosi raccolti nel Museo erano
pagati dallo Stato, ma non pare che fossero tenuti a svolgervi regolari corsi di
lezioni: potevano quindi dedicarsi per intero alla ricerca.
Erano distinti
in due gruppi: i filologi (grammatici, storici, eruditi) e i filosofi. Quelli
designati "filosofi", però, più che di metafisica e di morale si
occupavano di matematica, di astronomia, di scienze naturali.
Questo
indirizzo era in parte dovuto all'influenza esercitata sull'attività del
Museo da un altro discepolo di Teofrasto, Stratone di Lampsaco, che era alla
corte di Tolomeo in qualità di educatore del figlio del re, il futuro
Tolomeo II Filadelfo. Gli interessi scientifici di Stratone, infatti, erano
orientati, ancora più che in Teofrasto, verso la ricerca
empirico-naturalistica (Aristarco di Samo, l'astronomo famoso per l'elaborazione
di un'ipotesi eliocentrica del mondo, fu uno dei suoi allievi). Il legame tra il
Museo di Alessandria e il Liceo di Atene fu ribadito nel 287 a.C., quando, morto
Teofrasto, Stratone fu chiamato a succedergli nella direzione della scuola
peripatetica.
LO SCETTICISMO
Scepsi (in greco sképsis, derivato di
skèptesthai = «osservare») significa ricerca, dubbio, e
«scetticismo», anche nel linguaggio comune, sta a indicare
incredulità, diffidenza, mancanza di fiducia. In filosofia
«scetticismo» sta a indicare un atteggiamento di dubbio sistematico,
che nega la possibilità di conoscere il reale, ma con questo non pretende
affatto di affermare l'impossibilità di conoscerlo. Lo scetticismo si
oppone al «dogmatismo» (dal greco dògma = «opinione»,
«dottrina», anche nel senso specifico di «principio
incontestabile», derivato da dokèin = «pensare»), che
è l'atteggiamento di chi non ammette opposizioni o dubbi su quanto
afferma, o di chi afferma qualcosa senza sufficiente fondamento. Ma per gli
scettici, che negano la possibilità di qualsiasi affermazione, chiunque
affermi qualcosa lo fa senza fondamento, sicché per loro qualunque
filosofia all'infuori di quella scettica è dogmatica.
Il fondatore
dello scetticismo antico è tradizionalmente considerato Pirrone di Elide
(c. 365 - c. 275 a.C.), che non ha lasciato alcuno scritto, ma che ci è
noto attraverso l'opera di un suo discepolo, Timone di Fliunte (c. 325 - c. 230
a.C.), che abbiamo già ricordato per le frecciate lanciate contro alcuni
filosofi dogmatici. Pirrone, come poi Epicuro e gli Stoici, partiva da un
assunto di ordine pratico: assumeva, cioè, la felicità come scopo
dell'uomo e la identificava (anche qui restando nella tradizione) nella mancanza
di turbamento o atarassia. Ma per arrivare all'imperturbabilità del
filosofo, secondo Pirrone, bisogna superare lo sconcerto prodotto in noi
dall'inafferrabilità del reale; ogni cosa, diceva, è incerta e di
fronte all'impossibilità di discernere con sicurezza le cose il solo
atteggiamento ragionevole è l'aphasìa (composto di a- privativo e
phànai = «parlare»), ossia il silenzio, il rifiuto di affermare
o negare qualsiasi cosa. Altri scettici dopo di lui invece di afasia avrebbero
parlato di epoché, ossia di sospensione del giudizio (dal verbo
epèchein = «trattenere»), ma si tratta di concetti molto
simili.
Senonché, come ebbe ad osservare, tra gli altri, anche
Carneade (c. 219 - c. 129 a.C.: è il filosofo di cui don Abbondio nei
Promessi Sposi cercava di ricordare chi diavolo fosse), il dubbio degli scettici
non può che essere un dubbio radicale, una negazione che si ritorce, in
un certo senso, contro se stessa: se non possiamo mai affermare di sapere
qualcosa con certezza, non possiamo neppure affermare che sappiamo di non
sapere. Anche Carneade non ha lasciato nulla di scritto, sicché
conosciamo il suo pensiero solo attraverso testimonianze molto posteriori e in
particolare quella di Sesto Empirico (c. 180 - c. 220 d.C.), l'ultimo dei grandi
filosofi scettici dell'antichità. Sesto Empirico (che era un medico,
professione a cui allude, appunto, l'appellativo di «empirico») ha
espresso la radicalità del dubbio scettico con un'immagine indubbiamente
efficace: lo scetticismo, ha detto, è come la purga, che insieme agli
umori espelle dal corpo anche se stessa.
L'EPICUREISMO
Epicuro nacque a Samo nel 341 a.C. da padre
ateniese. Quando, sui diciott'anni, venne ad Atene, Aristotele insegnava al
Liceo e Senocrate dirigeva l'Accademia platonica. Epicuro però, che aveva
cominciato a occuparsi di filosofia giovanissimo, era contrario sia agli
aristotelici, sia ai platonici, e finì, a poco più di trent'anni,
col fondare una propria scuola, detta «il Giardino» perché
aveva sede in una casa con giardino, che poi Epicuro lasciò in
eredità ai discepoli. Cosa insolita nella Grecia del tempo, alle riunioni
del Giardino erano ammessi anche gli schiavi e le donne.
Anche se Epicuro
affermava di non aver avuto maestri e ostentava scarso rispetto per gli altri
pensatori, la sua filosofia non era particolarmente originale. Per quello che
riguardava la scienza della natura, infatti, Epicuro non faceva che riprendere
le teorie di Democrito, mentre per quello che riguardava la dottrina morale
della felicità come valore supremo della vita si ispirava largamente,
oltre che allo stesso Democrito, all'edonismo dei Cirenaici.
Da Democrito
però Epicuro si differenziava, oltre che per alcune marginali (e non
sempre felici) correzioni apportate alla teoria degli atomi, anche (e
soprattutto) per il valore solo strumentale che attribuiva alla scienza della
natura. Per Epicuro infatti essa non serviva che a liberare gli uomini da quelle
superstiziose fantasticherie che sono causa di turbamento e di
infelicità: l'ossessione della morte, la paura degli Dei, l'attesa
angosciosa di una vita ultraterrena, il mistero
dell'aldilà:
... se non fossimo turbati dal sospetto e dal
timore delle cose celesti, - diceva, - se non temessimo che la morte possa
essere per noi qualcosa, e se non ci pesasse ignorare i limiti dei dolori e dei
piaceri, non avremmo bisogno di una scienza della natura...
Un
esempio di questa funzione rassicurante e consolatoria che Epicuro attribuiva
alla filosofia è dato dalla nota dimostrazione della non
temibilità della morte:
... il più orribile dei mali,
la morte, non è nulla per noi, giacché quando noi siamo, la morte
non c'è, e quando la morte è, noi non ci siamo
più...
Anche se non negava esplicitamente l'esistenza degli
Dei, la filosofia di Epicuro era tutta un'esortazione a liberarsi degli oscuri
miti e delle assurde credenze della religione, mediante il corretto uso della
ragione e la conoscenza delle vere cause dei fenomeni naturali. Negli ambienti
intellettuali questa indicazione fu largamente raccolta tanto in Grecia, quanto
nel mondo romano. Per secoli, anzi, la figura di Epicuro ha continuato a
incarnare l'opposizione del razionalismo materialistico ad ogni forma di
superstizione.
Riconoscendo alla filosofia la funzione, più pratica
che teorica, di antidoto della paura, Epicuro rischiava però di
sottovalutare gravemente la ricerca disinteressata della verità ed anzi
di bloccarla del tutto. Un'indagine disinteressata (ossia non preconcetta, che
non pretende di conoscere in anticipo le conclusioni a cui arriverà) deve
rischiare (anche se si tratta di un'eventualità estremamente remota) di
trovare alla fine conferma proprio di quelle angosciose fantasticherie, delle
quali ci si vorrebbe liberare.
Questa è forse una delle ragioni
della scarsa produttività scientifica della scuola epicurea, che pure
continuò a fiorire per secoli: agli Epicurei non interessava davvero
scoprire verità nuove, perché non avevano alcuna intenzione di
rinunciare alle confortanti opinioni del maestro. Così, i più
inflessibili avversari della superstizione finivano paradossalmente per fare
della scienza un uso per certi aspetti superstizioso!
Se scarsi sono i
risultati raggiunti dalla scuola epicurea sul terreno scientifico, di altissimo
valore sono invece quelli raggiunti nel campo della divulgazione da uno dei suoi
più illustri seguaci, il poeta latino Lucrezio, che nel primo secolo a.C.
ha dedicato un poema di straordinaria bellezza, il De rerum natura (La Natura),
alla fedele esposizione della filosofia di Epicuro. Epicuro è raffigurato
da Lucrezio come l'eroe che ha liberato l'umanità dalla tirannide della
religione:
... Mentre la vita umana si trascinava in terra
apertamente e vergognosamente oppressa dal peso della religione, che mostrava il
suo volto dall'alto dei cieli incombendo sui mortali con il suo orribile
aspetto, per primo un greco - un uomo, un mortale! - osò levare contro di
lei i suoi occhi e resisterle; né le spaventose dicerie circa gli Dei,
né i fulmini, né il cielo stesso con i suoi minacciosi brontolii
riuscirono a fermarlo, ché anzi non fecero che eccitare ancora di
più il suo ardore e il suo desiderio di forzare per primo i ben serrati
chiavistelli delle porte della Natura.
E alla fine il vigore esuberante del
suo animo ha trionfato: ha superato le fiammeggianti barriere del nostro
universo e tutto l'infinito ha esplorato con la mente e col pensiero, e
dall'infinito è poi tornato vittorioso per darci conto del possibile e
dell'impossibile, e della ragione che ad ogni cosa assegna determinate
facoltà e limiti precisi...
Quella di Epicuro fu una tipica
morte «filosofica». Sentendo prossima la fine volle scrivere una
lettera all'amico Idomeneo a cui diceva tra l'altro che la gioia che gli aveva
procurato il ricordo delle loro antiche conversazioni filosofiche aveva
compensato efficacemente gli orribili dolori procurati dal calcolo alla vescica
che, impedendogli di urinare, lo stava conducendo a morte. Volle poi immergersi
in una vasca di bronzo piena di acqua calda e, chiesta una coppa di vino, la
bevve d'un fiato. Infine spirò, non senza aver raccomandato agli amici i
suoi insegnamenti.
L'EDONISMO DEGLI EPICUREI
Nell'uso corrente il termine
«epicureo», oltre a indicare in senso proprio il seguace della
dottrina di Epicuro, vuol dire anche uomo gaudente, voluttuoso, che fa dei
piaceri del corpo l'unica o la principale ragione di vita. I due significati
sono naturalmente legati fra di loro, ma il secondo non rende affatto giustizia
al primo. Come talvolta accade, il linguaggio comune ha conservato nel
significato dispregiativo della parola un'antica calunnia ai danni di Epicuro e
dei suoi seguaci: di essere cioè dei predicatori di dissolutezze.
La
verità è ben altra. Epicuro era dichiaratamente un edonista, ma,
come ebbe più volte occasione di precisare, il piacere di cui parlava era
piuttosto liberazione dal dolore e la felicità che invitava gli uomini a
conquistare era più serenità d'animo che benessere
fisico:
... quando diciamo che il fine è il piacere, non
intendiamo il piacere dei gaudenti e dei dissoluti, come credono certuni che,
ignoranti o prevenuti, non ci capiscono; intendiamo invece l'assenza di dolore
fisico e di sofferenze morali. Giacché non sono certo i pranzi e le
feste, o l'amore di giovinetti e di donne, o i pesci e gli altri cibi che si
trovano sulle mense raffinate, che rendono dolce la vita, ma piuttosto quel
sobrio giudizio che permette di discernere le ragioni di ogni scelta e di
scacciare le idee sbagliate che riempiono gli animi di angoscia...
La
felicità consiste nella soddisfazione dei bisogni. Ma ci sono bisogni e
bisogni: alcuni (quelli che riguardano il benessere del corpo e la
serenità dell'anima) sono naturali, altri invece sono fittizi,
artificiali, indotti dalla moda, o dall'ambizione di gareggiare con altri, o da
altre irragionevoli motivazioni. L'uomo prudente evita con cura di crearsi
bisogni superflui, si attiene al necessario, valuta i suoi desideri in funzione
dei valori primari della salute del corpo e della tranquillità
dell'anima:
... ogni piacere è di per sé un bene.
Ciò non vuol dire però che si debba andar dietro a qualsiasi
piacere. Allo stesso modo ogni dolore è di per sé un male, il che
non significa però che ogni dolore sia da scansare. Bisogna saper
giudicare i piaceri e i dolori dall'utile o dal danno che se ne ricava; molte
volte infatti il bene si risolve in male e il male in bene...
L'uomo
prudente, saggio (oggi diremmo «di buon senso»), non lo spensierato
gaudente o il dissoluto, è quello che sa davvero apprezzare il piacere,
è il vero edonista:
... esser liberi dai desideri è un
gran bene non perché ci si debba sempre accontentare di poco, ma
perché, se il molto non c'è, il poco ci basti; siamo del resto
persuasi che sia in grado di apprezzare di più l'abbondanza chi meno ne
sente il bisogno...
Virtù e piacere, ragionevolezza e
felicità sono una cosa sola:
... Non c'è vita piacevole
che non sia saggia, bella, giusta; e non c'è vita saggia, bella e giusta
che non sia piacevole. Perché in verità le virtù sono
connaturate al piacere e la felicità è inseparabile dalla
virtù...
LO STOICISMO
Qualche tempo dopo l'apertura del Giardino
di Epicuro, arrivò in Atene dall'isola di Cipro Zenone di Cizio (c. 333 -
c. 263 a.C.), che prese ad insegnare filosofia presso un portico decorato dal
celebre pittore Polignoto; da stoà, che in greco significa
«portico», alla dottrina di Zenone e a quella dei suoi seguaci e
continuatori è stato dato il nome di «stoicismo».
Lo
stoicismo era una corrente eclettica, che condivideva la tendenza, già
presente nell'epicureismo e frequente nelle scuole filosofiche dell'età
ellenistica e romana, a conciliare diversi indirizzi di pensiero e a costruire
nuove dottrine scegliendo e combinando insieme elementi di sistemi filosofici
preesistenti.
La fisica stoica, ad esempio, basata sull'idea di un mondo
dotato di anima, vero e proprio essere vivente, governato dalla provvidenza,
ineluttabilmente trascinato al fine segnato dal destino, permeato dal
fuoco-logos divino e soggetto a cicli successivi di morte e di rinascita (e
cioè a periodiche conflagrazioni cosmiche col conseguente ritorno di
tutte le cose al caos originario), era un suggestivo miscuglio di motivi
eraclitei, pitagorici, platonici, ecc., con elementi tratti dalle religioni e
dalle filosofie orientali.
In linea di principio lo stoicismo si poneva
come alternativa radicale all'epicureismo. Così la fisica degli Stoici,
con il suo impianto finalistico e la sua insistenza sulla presenza del divino
nel mondo, era l'esatta negazione del determinismo rigoroso della teoria
atomistica, che Epicuro aveva ripreso da Democrito. Quanto alla dottrina morale,
mentre gli Epicurei, che si ispiravano ai Cirenaici, erano indicati come i
«filosofi del piacere», gli Stoici si rifacevano ai Cinici e si
proclamavano «filosofi del dovere».
Proprio sul terreno
dell'etica, però, l'opposizione tra i due indirizzi era assai meno
marcata di quanto potrebbe sembrare. Stoici ed Epicurei concordavano infatti
nell'identificare felicità e virtù, saggezza e libertà
morale (intesa come indipendenza del saggio dai bisogni materiali e dalle
suggestioni dei sensi). Gli Stoici parlavano a questo proposito di apatia
(assenza di passioni), mentre gli Epicurei preferivano rifarsi al concetto
democriteo di atarassia (imperturbabilità), ma gli uni e gli altri
predicavano in sostanza una forma di rigoroso autocontrollo.
Le differenze
erano piuttosto di accento, di stile: aperto, comprensivo, sorridente quello
degli Epicurei; severo, drammatico, con qualche propensione per l'enfasi eroica
e gli atteggiamenti statuari quello degli Stoici.
La frugalità
consigliata da Epicuro era già un ideale riservato a pochi, perché
fondato su quel buon senso che difficilmente diventa senso comune. Ma ancor
più aristocratico era il disprezzo ostentato dagli Stoici per i bisogni
del corpo e per le passioni dell'anima: il loro senso del dovere si spingeva
sino all'elogio del suicidio, che era approvato come estrema forma di difesa
contro la malvagità e la volgarità del mondo.
DUE ILLUSTRI VITTIME DI NERONE: SENECA E PETRONIO
Il filosofo latino Lucio Anneo Seneca nacque
a Cordova, probabilmente verso il 4 a. C., ma ancora bambino si trasferì
a Roma, dove intraprese gli studi di grammatica e di retorica. Più che
alle cosiddette artes liberales, però, Seneca si dedicò alla
filosofia, aderendo all'indirizzo stoico, di cui sviluppo in particolare le
dottrine morali. Seguendo gli insegnamenti dello stoicismo, Seneca si propose
una condotta di vita esemplare, anche se, in verità, non mancò di
cedere alle lusinghe del potere quel tanto che era necessario per diventare un
personaggio di rilievo nella corte imperiale. A lui Agrippina, moglie
dell'imperatore Claudio, volle affidare l'educazione di suo figlio Nerone, che
evidentemente non trasse gran frutto dai suoi insegnamenti, visto che come
imperatore è passato alla storia per le sue efferatezze, tra cui
l'assassinio della madre e l'incendio di Roma. Tacito, lo storico latino autore
degli Annali, ci descrive Seneca, ormai settantenne che, accusato da Nerone di
avere partecipato ad una congiura contro di lui, riceve l'ordine di
suicidarsi:
... per nulla turbato, chiese che gli fosse portato il
testamento. Al rifiuto del centurione, si rivolse agli amici: - A voi,
poiché mi è vietato riconoscere i vostri servigi, lascio l'unico
dono che mi resta e che è tuttavia il maggior bene, l'esempio della mia
vita -. [...] E vedendoli piangere, ora con un tranquillo ragionare, ora con
parole severe, li richiamava alla fermezza: - Dove son finiti dunque i precetti
della nostra filosofia e le regole di comportamento contro le avversità
sempre incombenti che per tanti anni abbiamo fatto oggetto delle nostre
meditazioni? -...
Un'altra illustre vittima di Nerone fu lo scrittore
Petronio, il raffinato autore del Satyricon, un'opera parte in prosa e parte in
poesia che, facendo la parodia di diversi generi letterari dai romanzi d'amore
ai poemi eroici e raccontando le grottesche avventure di due amanti, costituisce
uno straordinario documentario della società volgare e godereccia degli
arricchiti, degli avventurieri e dei parassiti. Anche Petronio era un
personaggio importante della corte imperiale nella quale lo stesso Nerone gli
aveva riconosciuto il ruolo incomparabile di arbiter elegantiae, ossia di
arbitro del gusto. Tacito, sempre negli Annali, ci racconta il suo suicidio:
accusato, come Seneca, di congiura, Petronio decise di togliersi la vita senza
neppure attendere l'ordine imperiale. La sua morte, così come quella di
Seneca, rispecchia lo stile con cui aveva sempre affrontato la vita.
Senonché, mentre Seneca era uno stoico, Petronio era un
epicureo:
... quasi a capriccio, si fece prima recider le vene, poi
se le fece richiudere, poi nuovamente aprire, conversando con gli amici senza
affettazione di austerità o d'eroismo; né volle da essi gravi
discorsi sulla immortalità dell'anima o massime filosofiche, ma poesie
leggere e versi scherzosi. [...] Sedette a mensa, e si abbandonò al
sonno, perché la morte, sebbene subita a forza, sembrasse coglierlo a
caso.
Nel suo testamento non scrisse parola di adulazione né per
Nerone, né per Tigellino, né per altri potenti, come facevano di
solito coloro che stavano per morire, ma annotò accuratamente le infamie
dell'imperatore...
APATIA, ATARASSIA, ECLETTISMO
«Apatia» (composto del prefisso a-
con valore privativo e del greco pàthos = «passione») è
l'indifferenza del saggio alle passioni e al dolore; gli stoici indicavano con
questa parola la serenità conseguente al disprezzo per i bisogni del
corpo e per le suggestioni dei sensi.
«Atarassia» (composto dal
prefisso a- con valore privativo e da tàraxis = «turbamento»)
significa «assenza di turbamento» e dunque
«imperturbabilità». Democrito usava questo termine per indicare
la tranquillità d'animo, che risulta dalla capacità di godere con
misura dei piaceri della vita secondo un ideale di equilibrio e di armonia.
Negli Epicurei significava essenzialmente assenza di dolore e di
paura.
«Eclettismo» (dal verbo greco eklégein =
«scegliere») è l'indirizzo che tende a conciliare scuole di
pensiero diverse scegliendo da ciascuna di esse principi o dottrine particolari
e ricombinandoli insieme in un nuovo sistema che dovrebbe assommare i pregi
(ossia gli elementi di verità) presenti nei sistemi precedenti.
Di
fatto una simile operazione si presenta di solito come semplice giustapposizione
di dottrine già espresse cd è caratteristica di epoche e di
ambienti dotati di scarsa originalità di pensiero. Nel linguaggio comune
la parola ha anche un valore positivo e sta a indicare la capacità di una
persona di coltivare con successo interessi diversi.
MATERIALISMO E ILOZOISMO
Il termine «materialismo» designa
tutte quelle dottrine che individuano nella materia il solo e unico fondamento
della realtà. Il materialismo è insomma una forma di monismo, che
nega l'esistenza autonoma di sostanze spirituali e riduce tutti i fenomeni a
modi di essere della materia. Gli si oppongono lo spiritualismo e l'idealismo,
che sostengono invece il primato dello Spirito (o delle Idee) sulla materia,
considerata come principio di degradazione della realtà o addirittura
come non-essere, come non-realtà.
Il termine materialismo è
piuttosto recente: è infatti entrato nell'uso all'incirca tre secoli fa.
Ma già nell'antichità classica c'era almeno una dottrina
coerentemente materialistica: l'atomismo di Democrito. Come si è visto,
Democrito poneva come principio di tutte le cose gli atomi, particelle materiali
invisibili e indivisibili, che si muovono senza alcuno scopo nel vuoto infinito
e che, cozzando casualmente tra di loro, si uniscono secondo pure combinazioni
meccaniche e danno vita a infiniti mondi (e agli infiniti corpi che
costituiscono ciascuno dei mondi esistenti). Da questa concezione materialistica
del mondo Democrito traeva una gnoseologia materialistica (ossia una dottrina
materialistica della conoscenza): la conoscenza è possibile in quanto
dagli oggetti si staccano sottili pellicole materiali che colpiscono i nostri
organi di senso producendo così le sensazioni.
Al materialismo si
collega il meccanicismo (dal greco mechané = «macchina») ossia
quella corrente di pensiero che interpreta l'universo sul modello di una grande
macchina e che spiega i fenomeni naturali facendo ricorso unicamente alle
nozioni di materia e di movimento. Quando (come nel caso di Democrito) tutti i
fenomeni della natura (non solo quelli fisici, ma anche quelli psichici:
sensazioni, pensieri, passioni, ecc.) sono ricondotti a movimenti di materia,
meccanicismo e materialismo si identificano. Una spiegazione materialistica e
meccanicistica della realtà non ha alcun bisogno di divinità o di
enti soprannaturali, e perciò di solito coincide con l'ateismo (termine
greco composto da a- privativo e theòs = «Dio»). Simile a
meccanicismo è «determinismo» (dal verbo
«determinare» nel senso di produrre, provocare, causare), che è
la dottrina secondo cui ogni evento è prodotto secondo leggi necessarie e
tutti i fenomeni sono collegati da rapporti causali (anche se non si tratta
necessariamente di cause meccaniche).
Il compito del filosofo materialista
è la ricerca dei «meccanismi» della natura, ossia delle leggi
che regolano in modo necessario i movimenti della materia. La teoria di
Democrito, ad esempio, spiegava il mondo attraverso una stretta concatenazione
causale: l'aggregazione degli atomi (che dà vita ai corpi ed è una
forma di movimento) si genera per effetto di quei vortici (altra forma di
movimento), che sono conseguenza delle innumerevoli collisioni (altra forma di
movimento) prodotte dal moto disordinato degli atomi: un movimento,
quest'ultimo, che è originario (ossia non prodotto da altra causa, ma
insito nella materia) ed è la causa prima di ogni altro evento.
Le
teorie di Democrito sono state riprese nel mondo greco da Epicuro e in quello
latino da Lucrezio. Per Epicuro gli atomi non vagano a caso nello spazio, ma
secondo una specie di regola; alcuni di loro subiscono una deviazione (in greco
parénklisis, che Lucrezio traduce in latino con clinamen =
«inclinazione»), e appunto tale deviazione determina l'incontro e
l'aggregazione degli atomi. Epicuro tentava in questo modo di rispondere alla
principale obiezione rivolta alla teoria di Democrito: se tutto si muove a caso,
come mai gli atomi non si uniscono in aggregazioni casuali (prive di regole), ma
danno invece vita a forme coerenti e organizzate? Il clinamen avrebbe dovuto
rappresentare appunto quel criterio di organizzazione della materia, che
sembrava mancare nella teoria di Democrito. Si trattava però di una
escogitazione poco felice: da un lato non spiegava nulla di più di quanto
già non facesse il moto degli atomi in ogni direzione previsto da
Democrito; dall'altro anziché salvaguardare il rigoroso meccanicismo di
Democrito, ne smarriva o oscurava l'ispirazione fondamentale, ossia l'intuizione
dell'essenziale identità di caso e necessità.
Non esattamente
materialisti, appunto perché privi della nozione di causalità
meccanica, erano altri sistemi filosofici dell'antichità classica, che
pure facevano della natura il loro principale oggetto di ricerca. Così,
ad esempio, i naturalisti presocratici (Ionici, Eleati, ecc.) concepivano la
sostanza primordiale come qualcosa, sì, di corporeo, ma non di inerte. La
sostanza del mondo, infatti, era per loro intrinsecamente dotata di forza; e
questa forza non era semplice energia meccanica (come quella che Democrito
attribuiva agli atomi perennemente in moto), ma una sorta di energia vitale, o
addirittura di principio razionale, logos (ragione), nous (mente), ecc., capace
di agire in modo cosciente o intenzionale (in funzione, dunque, di un fine). Per
questo tipo di teorie si parla di «vitalismo» o, meglio, di
«ilozoismo» (dal greco hyle = «natura» e zoé =
«vita»: «dottrina che considera la natura come dotata di
vita»), il termine ilozoismo è stato coniato tra Sei e Settecento,
ossia pressappoco nello stesso periodo di «materialismo».
Al
determinismo o meccanicismo dei materialisti si contrappone il finalismo o
«teleologia» (dal greco télos = «fine»,
«scopo»), ossia la concezione che tende a spiegare le cose con le loro
presunte finalità e trova dovunque un elemento intenzionale, un disegno
provvidenziale, un significato morale. Si potrebbe dire che mentre il
meccanicismo spiega ogni evento con ciò che lo ha preceduto, il finalismo
lo spiega con ciò che viene dopo. Sono proposizioni di sapore
teleologico: «Il mondo è fatto per l'uomo», «Il Sole
esiste per illuminare la Terra», «La peste è un castigo di
Dio» e simili. A proposito di questo genere di «spiegazioni»
Voltaire, uno dei maggiori (e dei più spiritosi) scrittori del
Settecento, ebbe a dire che nel quadro di una concezione teleologica del mondo
non sarebbe irragionevole sostenere che Dio ha dotato l'uomo di un naso per
permettergli di portare gli occhiali.
Teleologia non va confusa con
«teologia» (dal greco théos = «Dio»), che è la
dottrina che tratta di Dio (della sua esistenza, dei suoi attributi, ecc.). A
parte l'assonanza, la confusione è resa più facile dal fatto che
ogni teleologia rinvia a una qualche teologia, in quanto presuppone l'esistenza
di divinità o di intelligenze capaci di governare il mondo secondo un
preciso disegno. Così, l'idealismo di Platone, che tendeva ad escludere
dalla propria visione la stessa nozione di materia, parlava di un'«anima
del mondo» e in chiave apertamente teleologica (e teologica) indicava
nell'idea di Sommo Bene il principio regolatore dell'universo. Seguendo (almeno
in questo) l'ispirazione platonica, Aristotele negava alla materia un'esistenza
autonoma dalla forma (e cioè non la riconosceva come sostanza). Il
modello assunto da Aristotele per l'interpretazione della realtà era
l'organismo vivente e il suo vitalismo conservava un preminente carattere
teleologico: nell'interpretazione della realtà fisica le cause finali non
solo venivano affiancate alle cause efficienti (le sole ammissibili da un punto
di vista deterministico), ma finivano per vedersi attribuire un ruolo
preminente. Anche gli Stoici si collegavano a questo modo di intendere la
realtà: parlavano di un principio vitale, o «anima del mondo»,
che consideravano permeare ogni cosa e che identificavano nel fuoco, e di una
«provvidenza» che avrebbe governato l'universo secondo un preciso
sistema di fini.
ARISTARCO E TOLOMEO
La cosmologia antica restò a lungo
fedele, almeno nella sua ispirazione centrale, al sistema del mondo quale era
stato definito da Platone, Eudosso ed Aristotele: la Terra, sferica, immobile al
centro dell'Universo; la sfera delle stelle fisse, animata da un moto di
rotazione tale da farle compiere ogni giorno un giro su se stessa, all'ultimo
confine del mondo - in mezzo i sette pianeti (Sole e Luna compresi) dotati di
moti complicati, che però erano riconducibili a movimenti semplici,
circolari e uniformi, tramite opportune combinazioni di sfere
concentriche.
Eudosso aveva calcolato che per descrivere tutti i moti
celesti (quello giornaliero della volta celeste, comune a tutti gli astri, e
quelli propri del Sole, della Luna e dei pianeti) fossero necessarie ventisei
sfere. Gli astronomi successivi, e in particolare Aristotele, ne avevano
aumentato sensibilmente il numero nel tentativo di eliminare ogni discrepanza
tra i valori osservati e quelli teorici. Senonché il sistema delle sfere
concentriche era intrinsecamente incompatibile con l'esperienza e perfino con
alcune elementari e ben note osservazioni: postulava ad esempio che i pianeti
fossero sempre alla stessa distanza dal centro, ossia dalla Terra, mentre il
diametro apparente di alcuni di loro (Venere e Marte in primo luogo) variava
vistosamente nel tempo, facendo supporre che anche la loro distanza variasse in
proporzione. Così, il modello delle sfere concentriche di Eudosso, dopo
essere stato più volte rimaneggiato, e pur restando una sorta di ideale a
cui astronomi e cosmologi avrebbero cercato di adeguarsi sino in età
moderna, finì con l'essere sostituito o integrato da nuovi artifici
descrittivi come gli «eccentrici» e gli «epicicli».
Gli
eccentrici sono orbite planetarie circolari, il cui centro non coincide con il
centro della Terra; gli epicicli sono orbite planetarie circolari di piccolo
raggio il cui centro ruota a sua volta lungo un'orbita circolare di raggio
maggiore, detta «deferente». Gli uni e gli altri riuscivano a
descrivere i moti planetari in maniera più aderente ai risultati delle
osservazioni di quanto non facessero le sfere di Eudosso, ma la loro funzione
era in sostanza la stessa: ricondurre movimenti apparentemente disordinati come
quelli dei pianeti a moti circolari e uniformi, secondo l'antico precetto
pitagorico-platonico. Si trattava in ogni caso di semplici modelli geometrici,
destinati a interpretare da un punto di vista matematico il moto apparente degli
astri. Restava perciò da stabilire quale fosse il loro moto
reale.
Prendiamo ad esempio i moti apparenti del Sole. È il Sole che
ogni giorno si muove intorno alla Terra determinando l'alternarsi del giorno e
della notte, o è la Terra che ruota intorno al proprio asse offrendo ai
raggi del Sole una metà della propria superficie mentre l'altra
metà è immersa nell'ombra? E ancora: è il Sole che
effettivamente si sposta lungo la volta celeste compiendo in un anno un giro
intero, o è la Terra che compie una rivoluzione annua intorno al Sole?
Nel primo caso occorre immaginare che la Terra sia al centro dell'Universo
(ipotesi geocentrica), nel secondo occorre invece immaginare che vi sia il Sole
(ipotesi eliocentrica). La semplice osservazione dei fenomeni celesti non
consentiva di decidere in un senso o nell'altro, giacché quei fenomeni
trovavano spiegazioni ugualmente soddisfacenti in entrambe le ipotesi.
Gli
astronomi dell'antichità costruirono tanto modelli geocentrici (come
quello di Eudosso), quanto modelli eliocentrici dell'universo. Eliocentrico era,
ad esempio, quello proposto da Aristarco di Samo nel III secolo a.C., che poneva
il Sole al centro della sfera delle stelle fisse e attribuiva alla Terra un
duplice movimento: quello annuale di rivoluzione intorno al Sole e quello
quotidiano di rotazione intorno al proprio asse. Aristarco, però, non
ebbe praticamente seguaci nell'antichità e la concezione geocentrica
finì con l'essere adottata da tutti. Sino a Copernico e a Galileo (e
cioè sino a un'epoca molto vicina a noi) essa parve anzi la sola
razionalmente e moralmente accettabile. Se, infatti, dal punto di vista
matematico i modelli geocentrici e quelli eliocentrici erano equivalenti, dal
punto di vista filosofico e religioso le cose stavano assai
diversamente.
Come abbiamo visto, le concezioni cosmologiche degli antichi
tendevano a mettere in risalto l'opposizione profonda tra il nostro mondo e il
mondo celeste: la Terra era il luogo naturale di tutto quanto è
corruttibile, mentre il Cielo, immortale e incorruttibile, era la sede stessa
della divinità. Facendo muovere la Terra nei cieli come un qualsiasi
altro pianeta, si sarebbe fatta cadere questa opposizione: la Terra sarebbe
stata soggetta alle stesse leggi, costituita delle stesse sostanze, e avrebbe
avuto la stessa natura dei corpi celesti. Come qualcuno già al tempo di
Aristarco fece minacciosamente notare, la teoria eliocentrica rassomigliava
pericolosamente a una bestemmia.
C'erano però anche considerazioni
di natura strettamente scientifica che facevano apparire assai improbabile il
sistema eliocentrico. Una in particolare, che chiameremo «della parallasse
stellare», merita di essere ricordata. La parallasse è lo
spostamento apparente che un oggetto subisce rispetto ad altri oggetti che lo
circondano quando lo osserviamo da due punti di vista distanti tra di loro. Se
la Terra si muovesse intorno al Sole, compirebbe una grande orbita nel cielo;
osservando le stelle da punti opposti (e quindi molto lontani fra di loro)
dell'orbita terrestre dovremmo notare nelle costellazioni celesti degli
spostamenti ossia delle deformazioni dovute appunto alla lontananza dei punti di
vista. Queste deformazioni non sono mai state rilevate, sicché o si
esclude il movimento della Terra intorno al Sole, o si ammette che le stelle
fisse si trovino ad una distanza incommensurabile da noi, talmente grande da
annullare gli effetti dello spostamento dei nostri punti di osservazione
sull'orbita terrestre. Questa seconda ipotesi, però, appariva poco
probabile sia perché suggeriva l'idea di un universo infinito
(comunemente considerata inaccettabile) sia perché era in contrasto con
le valutazioni correnti delle grandezze celesti (comprese quelle effettuate
dallo stesso Aristarco che, misurando le distanze del Sole e della Luna, aveva
ottenuto valori nettamente inferiori a quelli reali).
La fortuna
dell'immagine geocentrica dell'universo è rimasta per secoli legata
all'Almagesto di Claudio Tolomeo, un astronomo alessandrino vissuto nel secondo
secolo d.C. Almagesto è la forma latinizzata del titolo con cui l'opera,
dimenticata in Occidente fino al XII secolo, circolò nel mondo arabo: il
titolo originale era semplicemente Raccolta matematica. Tolomeo vi aveva
riunito, organizzandole in un sistema perfettamente coerente, completo e
particolareggiato, tutte le conoscenze astronomiche dell'antichità:
qualcosa di simile a quel che aveva fatto Euclide nella geometria con gli
Elementi. Si trattava di un manuale in tredici libri destinato a matematici
esperti: una sua parte consistente era dedicata appunto ai procedimenti
matematici (in primo luogo trigonometrici) necessari allo studio
dell'astronomia. Il grosso dell'opera era dedicato all'analisi dei moti del Sole
(con l'illustrazione tra l'altro, dei metodi per il calcolo dell'anno tropico)
della Luna e dei cinque pianeti allora conosciuti. Tutti i moti celesti erano
interpretati come combinazioni di cerchi, ma, per meglio accordare questo tipo
di modelli alla grande precisione ormai raggiunta dalle osservazioni
astronomiche, Tolomeo aveva aggiunto agli eccentrici e agli epicicli gli
equanti, una costruzione piuttosto complicata consistente in un cerchio (per lo
più eccentrico) la cui velocità di rotazione risultava uniforme
non rispetto al centro, ma a un punto, detto appunto equante, giacente sulla
retta che unisce perigeo e apogeo del pianeta preso in considerazione.
Dal
punto di vista dell'interpretazione fisica dei fenomeni celesti Tolomeo si
atteneva alla cosmologia di Aristotele, e pare che condividesse anche la
convinzione aristotelica dell'esistenza reale delle sfere celesti. Non è
sicuro però che Tolomeo ipotizzasse un sistema di sfere solide
(cristalline) come quello che, ereditato dagli astronomi arabi, è stato
poi comunemente indicato in Occidente come «sistema tolemaico» (e che
si ritrova, in versione cristiana, nella Divina Commedia di Dante). Una grave
obiezione di natura fisica alla sistemazione tolemaica riguardava
l'escogitazione dell'equante: l'equante, infatti, introducendo l'idea di moti
celesti non perfettamente uniformi rispetto al proprio centro, violava una delle
regole fondamentali della fisica tradizionale. L'equante fu spesso motivo di
imbarazzo per gli astronomi delle età successive e anche Copernico
avrebbe indicato nella eliminazione degli equanti uno dei più evidenti
vantaggi del suo sistema. Nel complesso tuttavia l'opera di Tolomeo offriva una
teoria perfettamente soddisfacente della costituzione del mondo, la sola
veramente plausibile. E anche se nello studio dei moti planetari poteva emergere
qualche discrepanza tra i dati dell'osservazione e i valori calcolati in base ai
modelli matematici proposti nell'Almagesto, questi stessi modelli, con le loro
inesauribili combinazioni di cerchi, apparivano indefinitivamente suscettibili
di perfezionamento.