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ITINERARI - IDEE - IL PENSIERO OCCIDENTALE

PERCHÉ IN GRECIA?

Perché la tradizione della ricerca filosofica è nata proprio in Grecia? È una di quelle domande che non si può fare a meno di porsi, ma che non hanno risposte precise, perché gli elementi di conoscenza di cui disponiamo sono del tutto inadeguati alla complessità del problema. A proposito della Grecia antica vale comunque la pena di osservare che le sue peculiarità non si esauriscono nella nascita e nell'affermazione di una mentalità razionale. Nel quadro generale delle civiltà antiche il mondo greco, che comprendeva, oltre alla Grecia propriamente detta, le colonie dell'Asia Minore (la Ionia) e quelle dell'Italia meridionale e della Sicilia (la Magna Grecia), rappresentava un'eccezione sotto diversi punti di vista.
Così, ad esempio, in campo politico, mentre l'Egitto e i grandi imperi della Mesopotamia e della Persia erano amministrati da monarchie accentratrici a carattere dispotico e sacro, il mondo greco, a partire dal IX o dall'VIII secolo a.C., si era organizzato in una serie numerosa di città-stato indipendenti (poleis), nelle quali i cittadini (o almeno una parte di loro) avevano la possibilità di partecipare al Governo. Ne era scaturita una varietà di regimi politici, che si sarebbe infine risolta nella classica opposizione tra il modello democratico, prevalente in Atene e nella Ionia, e quello aristocratico, che invece prevaleva in Sparta e nella Magna Grecia.
Anche la cultura partecipava di questo particolare clima. Mentre nel mondo orientale il sapere era monopolio delle caste sacerdotali, chiuso nei templi, lontano dai sudditi, in Grecia, dove non esisteva una vera e propria casta sacerdotale, si discuteva pubblicamente nelle piazze di arte, di scienza e persino di religione.
A partire dal VII secolo a.C. l'introduzione della scrittura alfabetica, relativamente semplice da apprendere, aveva facilitato la diffusione e la socializzazione del sapere, e nel V secolo in Atene gli scritti dei filosofi si potevano acquistare al mercato. La circolazione di testi scritti era per forza di cose limitata, ma c'erano altri e anche più efficaci canali di trasmissione delle idee, e in primo luogo la recitazione e la rappresentazione delle opere di poeti e drammaturghi, interpreti riconosciuti degli interessi, delle preoccupazioni e dei conflitti delle comunità cittadine.

DIOGENE LAERZIO

Degli scritti dei filosofi presocratici ci sono rimasti solo alcuni frammenti. Quel che conosciamo del loro pensiero deriva in gran parte da testimonianze indirette e talvolta successive di parecchi secoli. Tra queste fonti indirette la più importante è probabilmente quella di Diogene Laerzio, uno scrittore greco del III secolo a.C., che compilò una Raccolta delle vile e delle opinioni dei filosofi dalle origini ai suoi tempi, che raccoglie una massa ingente di notizie relative a un'ottantina di pensatori. L'opera ebbe larga fortuna durante il Rinascimento. Gli studiosi moderni hanno generalmente espresso giudizi severi sulle capacità critiche di Diogene Laerzio.
Nessuno però può contestare il valore e il fascino della sua raccolta, che gran parte risiede proprio nel fatto che l'autore, mostrandosi poco selettivo nei confronti delle sue fonti di informazione, ha accolto una gran quantità di aneddoti e di leggende che se non dicono molto sulle figure storiche dei filosofi, dicono però moltissimo sull'immagine che di loro si erano fatti i posteri (e che è ugualmente importante nella storia della cultura occidentale).

LA SCUOLA IONICA

La più antica riflessione filosofica di cui si abbia notizia si sviluppò agli inizi del VI secolo a.C. a Mileto, la principale città della Ionia, la regione dell'Asia Minore colonizzata da Greci di stirpe ionica, che fu centro di intensi scambi culturali con le civiltà del Vicino Oriente.
Ai primi filosofi di Mileto, Talete, Anassimandro e Anassimene, si dà tradizionalmente il nome di «scuola ionica», anche se è difficile dire se e in quale misura siano stati legati davvero da un rapporto di scuola. Il loro pensiero presenta però alcune caratteristiche comuni, che giustificano questo appellativo. La prima di tali caratteristiche è che tutti e tre concentravano la propria attenzione sui fenomeni della natura e ne cercavano una spiegazione nella natura stessa, a differenza di quanti facevano ricorso a un Dio presunto autore del mondo. Per questo essi furono più tardi chiamati «naturalisti».
L'aver escluso un intervento divino nella formazione del mondo non vuol dire che i filosofi ionici fossero atei, ma piuttosto che attribuivano alla natura stessa i caratteri della divinità: l'eternità e soprattutto quella capacità di vita e di trasformazione che li affascinava nell'incessante succedersi dei fenomeni. È questo che intendeva Talete quando diceva che «tutto è pieno di Dei».
Un'altra caratteristica comune ai tre è la ricerca di un «principio» (in greco arché) da cui ritenevano che fossero scaturite tutte le cose. Tale ricerca implicava la convinzione che ci fosse un'unica spiegazione per l'infinita varietà dei fenomeni naturali. Per dirla in un altro modo, essi ritenevano possibile ricondurre i molti all'uno.
L'iniziatore della scuola, Talete, avanzò l'ipotesi che questo principio unico fosse rappresentato dall'acqua. L'ipotesi riprendeva alcune immagini delle mitologie mesopotamica, egiziana e greca nelle quali si parlava di un caos primordiale, di solito rappresentato come una confusa massa liquida. Ma oltre a «naturalizzare» l'evento della nascita dell'universo, ossia oltre a sostituire i personaggi del mito con un elemento materiale, quale appunto è l'acqua, Talete fondava la plausibilità della sua teoria su osservazioni empiriche.
L'acqua, infatti, intesa come umidità, permea ogni cosa, è la condizione della fertilità della terra, è legata ad ogni fenomeno vitale: era ragionevole pensare ad essa come all'elemento costitutivo di tutte le cose, come alla sostanza o materia che assicura la persistenza del mondo. Secondo ipotesi correnti al suo tempo, che Talete non aveva ragione di rifiutare, la Terra stessa avrebbe galleggiato sull'acqua e sarebbe stata circondata dall'Oceano. La connessione tra l'umidità e i fenomeni della generazione e della fertilità aveva probabilmente suggerito a Talete anche l'idea che la vita avesse fatto la sua comparsa nelle grandi distese d'acqua (l'ipotesi dell'evoluzione della vita da primitive forme acquatiche fu poi formulata esplicitamente da Anassimandro).
Infine, il ciclo dell'evaporazione dell'acqua e della caduta delle piogge e più in generale la capacità dell'acqua di passare a seconda della temperatura dallo stato solido a quello liquido e a quello gassoso può aver fornito una chiave per interpretare le trasformazioni della materia.
Così, il principio ipotizzato da Talete può essere inteso in quattro significati diversi:
1) come origine del mondo (l'acqua - diceva Talete - era prima di tutte le cose; le cose provengono dall'acqua);
2) come causa (l'acqua genera tutte le cose le sostiene e le alimenta);
3) come sostanza (le cose in ultima analisi sono fatte di acqua; l'acqua è l'elemento comune di tutte le cose, ciò che rimane immutabile nonostante l'apparente mutamento di ogni cosa);
4) come legge (l'acqua trasformandosi in ghiaccio e in vapore costituisce il modello di tutte le trasformazioni della materia).
Non è detto, naturalmente, che Talete e i suoi immediati successori fossero consapevoli della diversità di significati che il termine «principio» può assumere. Queste distinzioni rappresentano piuttosto il «senno di poi», e cioè il punto di vista dal quale si è più tardi guardato.
Anassimandro, un concittadino di Talete poco più giovane di lui, preferì porre come principio o arché non questa o quella sostanza, ma qualcosa di indeterminato, di infinito e di eterno, a cui ogni cosa - ed anche il mondo, inteso come insieme di tutte le cose finite e determinate - farebbe periodicamente ritorno. Anassimandro lo chiamava apeiron, che in greco significa «senza limiti» e che può essere interpretato come materia informe, miscuglio di tutti i corpi e di tutti gli elementi, analogo al caos di cui parlavano gli antichi miti cosmogonici.
Nella nozione di principio Anassimandro sottolineava fortemente il significato di legge, norma o guida delle cose. Anassimandro intendeva questa legge proprio come norma di giustizia. La nascita degli infiniti esseri particolari e l'emergere delle diverse qualità delle cose dall'indistinta uniformità dell'apeiron costituiva infatti per Anassimandro una violazione del l'unità originaria, e il periodico ritorno nel caos era una sorta di «espiazione» per «l'ingiustizia» commessa nel nascere.
Anassimene, un allievo di Anassimandro, tornò a pensare, come Talete, a una materia definita, ma invece dell'acqua indicò quale principio del mondo l'aria, che associava all'anima e all'atto del respirare: «come l'anima, che è fatta d'aria, ci sostiene e ci governa, così il soffio e l'aria abbracciano tutto il mondo». E poiché aria, anima, soffio e respiro erano termini in qualche modo equivalenti, è probabile che Anassimene immaginasse il mondo come qualcosa di animato, che respira. Anche per Anassimene l'arché era insieme sostanza e legge del mondo. Ma mentre Anassimandro intendeva questa legge come una legge morale (la riparazione di un torto), per Anassimene era una legge fisica. L'aria, infatti, produceva ogni cosa per via di semplici condensazioni e rarefazioni, legate al gioco del freddo e del caldo: per condensazione si generavano l'acqua e la terra (elementi freddi), per rarefazione il fuoco (elemento caldo).

ANEDDOTI SU TALETE DI MILETO

Talete aveva fama di grande matematico e di esperto astronomo. Gli sono stati attribuiti diversi teoremi di geometria e numerose osservazioni di fenomeni celesti o atmosferici, ma nulla si sa di sicuro in proposito.
Era diventato celebre prevedendo un'eclissi di Sole, probabilmente quella del 585 a.C. Può darsi che in questa occasione abbia utilizzato conoscenze e osservazioni raccolte in Egitto o in Babilonia. I Babilonesi sapevano che ogni 223 cicli lunari (poco più di 18 anni) si può produrre un'eclissi. Solo il caso però ha voluto che si producesse davvero e che fosse visibile dalla Ionia.
Di Talete si racconta anche che trovandosi in Egitto aveva escogitato un ingegnoso sistema per calcolare l'altezza di una piramide: ne aveva misurato l'ombra nel momento in cui per l'inclinazione del sole la lunghezza dell'ombra di un oggetto risultava esattamente uguale alla sua altezza.
Talete era annoverato tra i Sette Savi dell'antica Grecia, un gruppo di personaggi semileggendari a cui la tradizione popolare ha attribuito una serie di laconiche sentenze (come quella scolpita sull'ingresso del tempio di Apollo a Delfi: «conosci te stesso»), che costituiscono una sorta di distillato dell'antica sapienza greca. Dei Sette Savi esistono elenchi diversi, nei quali però Talete è sempre presente.
Di loro la leggenda dice che erano legati da amicizia e stima reciproche. Lo storico Diogene Laerzio riporta in proposito un aneddoto che, come altri di questo genere, non ha probabilmente alcun fondamento reale, ma vale come metafora della saggezza:
Si dice che alcuni giovani Ioni avessero acquistato un giorno da certi pescatori il contenuto di una rete. Tirata su la rete, però, ne usci fuori un tripode d'oro e subito scoppiò una lite per stabilire a chi toccasse. Alla fine, per risolvere la questione, i cittadini di Mileto mandarono a interrogare l'oracolo di Delfi, che rispose così: «O Milesio vuoi interrogare Febo circa il tripode? E io ti dico: appartiene a chi è più saggio di tutti». I cittadini di Mileto lo consegnarono allora a Talete. Questi però lo inviò a un altro dei Sette Savi, e questi ad un altro ancora fino a che giunse a Solone, il quale infine dichiarò che il più saggio di tutti era il Dio e rimandò il tripode a Delfi.

UN'ANTICA COSMOLOGIA SCIENTIFICA

La teoria di Anassimandro sulle origini dell'universo riprendeva molte idee presenti nei miti cosmologici. Quello di Anassimandro però non era più un racconto di eventi meravigliosi, ma un tentativo di ricostruire in modo plausibile la storia del mondo. I miti potevano essere accettati o rifiutati, ma non potevano essere discussi: la teoria di Anassimandro imponeva invece la discussione, perché ogni sua affermazione pretendeva di essere controllata alla luce della ragione e dell'esperienza.
Secondo il mito, l'universo ordinato era nato per violenta separazione dal caos originario. In Mesopotamia, ad esempio, il caos era identificato con la dea Tiamat vinta ed uccisa dal giovane dio Marduk, il fondatore ed il campione dell'ordine cosmico. Anche Anassimandro poneva l'origine di tutte le cose nel caos ed anche per Anassimandro l'ordine (cosmo) era qualcosa di divino, almeno nel senso che ai mondi usciti dal caos egli attribuiva l'appellativo tradizionale di Dei. Ma la nascita del mondo (o meglio, dei mondi) non era più la conseguenza di una lotta mortale tra divinità rivali: era il risultato dell'azione di forze puramente naturali.
Nei miti cosmologici il caos primordiale era generalmente rappresentato come un'immensa massa di acque e di nubi agitata e squassata in ogni parte da un incessante tumulto di tempeste. Nelle tempeste però è possibile osservare il formarsi di vortici di aria o di trombe marine in cui le parti più grandi e più pesanti si raccolgono al centro, mentre quelle più piccole e più leggere vengono proiettate verso la periferia. L'osservazione di questo fenomeno offrì ad Anassimandro un modello adatto a spiegare, senza ricorrere all'intervento degli Dei, la separazione degli elementi dalla materia caotica primordiale (apeiron).
Anassimandro pensava che quando nel caos si forma un vortice, gli elementi pesanti devono disporsi al centro e quelli leggeri alla periferia (vale però la pena di notare che nella realtà accade esattamente il contrario), realizzando così automaticamente una prima distinzione nella materia primordiale.
Dal moto di rotazione del vortice sarebbe dunque nata una massa globulare divisa in due strati concentrici: all'esterno una zona calda e asciutta occupata dal fuoco, che è il più leggero degli elementi, e all'interno una zona fredda e umida occupata dagli elementi più pesanti, la terra e l'acqua.
In questa prima fase la terra e l'acqua erano ancora mescolate in un'unica, enorme massa liquida. Ma l'azione del fuoco circostante doveva trasformare gran parte dell'acqua in vapore, ossia in aria. Quest'aria, premendo contro lo strato esterno caldo, lo sollevava e veniva ad occupare tutta la zona intermedia fra la terra e il fuoco, determinando la formazione dei cieli e degli astri. Gli astri infatti, secondo Anassimandro, erano ispessimenti dell'aria che imprigionavano masse di fuoco sfuggite alla corteccia esterna per effetto della violenta pressione dell'aria stessa.
Mentre in tal modo nascevano i cieli, la terra, sempre per effetto del calore esterno, si solidificava e tutta l'acqua che non si era trasformata in vapore veniva a raccogliersi nelle sue cavità, formando i mari e gli oceani. Anassimandro attribuiva alla Terra, come del resto al Sole e alla Luna, la forma di una ruota, ossia di un cilindro, il cui diametro, secondo i suoi calcoli, doveva essere tre volte più grande dell'altezza.
La figura della ruota attribuita alla Terra ricorda quella dei miti mesopotamici, che consideravano la Terra un disco piatto. Ancora una volta però, riprendendo un'immagine del mito, Anassimandro cercava di darne una spiegazione razionale: la forma cilindrica infatti poteva essere considerata una conseguenza del particolare moto di rotazione del vortice cosmico.
Anche la comparsa della vita sulla Terra e poi quella dell'uomo erano spiegate da Anassimandro come un momento dell'evoluzione cosmica e senza farvi intervenire in alcun modo gli Dei. Anassimandro immaginò che le prime forme di vita fossero apparse, sotto l'azione del calore, nelle profondità dei mari.
Solo in seguito questi antichi animali marini sarebbero passati a vivere sulle terre emerse, modificandosi e adattandosi al nuovo ambiente.
La cosmologia di Anassimandro abbracciava un arco evolutivo lunghissimo, dalla formazione dei cieli alla comparsa dell'uomo. Questa evoluzione riguardava il nostro mondo, ma Anassimandro era convinto che, lontanissimo da noi, immersi nella materia caotica primordiale, esistessero altri mondi in evoluzione: tutto portava a credere che nel caos si formassero continuamente innumerevoli vortici, ciascuno dei quali poteva dare l'avvio ad un processo di formazione cosmica simile al nostro. Nessuno di questi mondi poteva dirsi eterno. Eterna era solo la materia informe, caotica, l'apeiron, da cui tutti i mondi erano usciti e a cui tutti, prima o poi, sarebbero tornati.

PITAGORA

Grazie al teorema e alla tavola che portano il suo nome, non c'è persona che non abbia sentito parlare di Pitagora fin dai primi anni di scuola. Di questo popolare personaggio sappiamo però ben poco, e non siamo neppure certi che sia esistito davvero. La scuola pitagorica, infatti, che si diceva fondata da lui, lo venerava come una specie di Dio e finì per costruire sul suo conto tante e tali leggende che già nell'antichità risultava difficile distinguere il vero dal falso. Se è esistito, Pitagora dovrebbe essere nato a Samo intorno al 570 a.C. Pare che sia stato a lungo in Italia, forse esule dalla patria per ragioni politiche. A Crotone intorno al 530 a.C. avrebbe fondato la sua setta, che aveva spiccati caratteri religiosi e che acquistò una grossa influenza politica in tutta la Magna Grecia schierandosi decisamente contro il partito democratico, che stava lottando per affermarsi. Una rivolta popolare avrebbe rovesciato alla fine il potere dei Pitagorici in Crotone e pare che lo stesso Pitagora si sia salvato a stento dalla furia degli avversari. La morte di Pitagora sarebbe avvenuta a Metaponto nel 497 a.C.
Non meno incerto della biografia di Pitagora è il suo pensiero, perché i suoi seguaci attribuivano al maestro tutte le dottrine che professavano, da chiunque fossero state elaborate. Quello che è certo è che le dottrine della setta, che erano segrete (e che neppure tutti gli aderenti conoscevano per intero), consistevano non tanto in un insegnamento filosofico-scientifico, quanto in un sistema di precetti morali e di credenze religiose che avevano al centro il tema della purificazione e della liberazione dell'anima.
Il nucleo principale delle credenze pitagoriche era infatti rappresentato dalla dottrina della metempsicosi secondo la quale l'anima di ogni uomo sta nel corpo come in una prigione ed è condannata a reincarnarsi di continuo (cioè a trasmigrare da un corpo all'altro) fino a quando una vita incontaminata non le permetta di ricongiungersi finalmente all'anima universale. Per raggiungere questo obiettivo i pitagorici si sottoponevano a pratiche ascetiche e a severe regole di vita (che avevano anche l'effetto di rafforzare la solidarietà tra i membri della setta, e quindi di accrescerne il peso nella vita sociale e politica).
È in questo contesto religioso che vanno collocate anche le ricerche matematiche e astronomiche dei Pitagorici. Il loro assunto principale «tutto è numero, tutto è fatto di numeri» significa che sotto l'apparente disordine delle cose solo il numero può cogliere la presenza del divino, che è ordine, armonia, equilibrio, razionalità. Ma questa capacità dei numeri e delle figure geometriche di cogliere le ragioni segrete delle cose, va inteso sia nel senso che essi costituiscono il principio del mondo (sono cioè la sostanza e il modello di tutte le cose, come l'arché degli Ionici), sia nel senso che sono la chiave mistica che apre all'iniziato le porte dell'universo.
Ai numeri, infatti, e specialmente ai primi dieci, i Pitagorici avevano attribuito, oltre alla capacità di esprimere grandezze, misteriose virtù magiche e significati esoterici. Con i numeri, anzi, avevano costruito tutto un complesso sistema di simboli imperniato sull'opposizione di pari e dispari, alla quale erano ricondotte altre nove coppie di contrari, dal cui equilibrio sarebbe derivato l'ordine e l'armonia dell'universo:

  pari              dispari
  infinito           finito
  i molti             l'uno
  sinistra           destra
  femmina           maschio
  movimento          quiete
  curva               retta
  tenebre              luce
  male                 bene
  rettangolo       quadrato

I numeri, insomma, erano non soltanto la misura delle cose, ma i simboli delle misteriose armonie e delle energie divine che reggevano il mondo. Così, esistevano numeri più o meno perfetti, più o meno efficaci magicamente, più o meno venerabili. I numeri pari, ad esempio, (e tutti i termini ad essi collegati) erano associati all'imperfezione e al male, e i dispari alla perfezione e al bene. Ma il dieci era considerato perfetto, perché essendo la somma di 1 (l'unità, né pari, né dispari, ma, come dicevano i Pitagorici, parimpari), di 2 (il primo numero pari), di 3 (il primo numero dispari) e di 4 (il primo quadrato = 2 x 2), appariva il più adatto a simboleggiare la totalità: «esso è grande - dicevano -. compie e realizza ogni cosa, è principio e guida alla vita». Anche il numero tre era perfetto (sebbene meno perfetto del dieci) perché, dicevano, «ha principio, mezzo e fine».

Sul conto di Pitagora si raccontavano una quantità di aneddoti, tendenti a presentarlo come un essere eccezionale, simile a un Dio. Pare che fosse dotato di ubiquità e che una volta si sia trovato alla stessa ora a Crotone e a Metaponto. Un'altra volta, a teatro, mentre stava alzandosi in piedi, i presenti ebbero modo di accorgersi che aveva una coscia (altri dicono un'anca) tutta d'oro. Si diceva che avesse ucciso con un morso un terribile serpente velenoso che infestava l'Etruria, e così via.
Naturalmente questo cumulo di storie, e le singolari regole di vita che gli erano attribuite (non mangiare carne, pesci rossi e triglie, ma soprattutto fave, perché le fave somigliano ai testicoli, oppure perché per la loro natura «ventosa» sono in qualche modo simili all'anima, che è anch'essa aria...) hanno attirato sulla figura di Pitagora, a torto o a ragione, lo scherno dei razionalisti.
Timone di Fliunte, un filosofo scettico del III secolo a.C., dedicò a Pitagora versi durissimi:

... Pitagora incline a dottrine da ciarlatano,
accalappiatore d'uomini, amante dell'enfasi...

Senofane di Colofone, contemporaneo di Pitagora impegnato nella polemica contro le superstizioni religiose, lo aveva preso in giro per la sua teoria della metempsicosi:

... E raccontano che una volta, passando, avesse avuto compassione di un cagnolino che veniva maltrattato ed avesse detto queste parole:
- Smetti di batterlo, ché è l'anima di un mio amico che ho riconosciuto dalla voce -...

IPSE DIXIT

Ipse dixit = «Lui lo ha detto». La scuola pitagorica non solo venerava il maestro, ma ne assumeva le affermazioni (o quelle che erano credute sue affermazioni) come criteri infallibili di verità. «Lui lo ha detto» con questa espressione i Pitagorici erano soliti troncare ogni discussione, dando per scontato che all'opinione del maestro non si potesse obiettare nulla. I Pitagorici naturalmente parlavano greco. La formula latina ipse dixit, diventata proverbiale per indicare il principio di autorità, è quella adottata nel Medio Evo dai filosofi scolastici, che però la riferivano ad Aristotele.

METEMPSICOSI

«Metempsicosi» è una parola di origine greca che indica il passaggio dell'anima da un corpo all'altro. Una concezione del genere, tipica del pensiero della scuola pitagorica, parte dal presupposto che l'anima sia indipendente dal corpo e che, quando questo muore, possa sopravvivergli trasferendosi in un altro corpo di uomo o di animale o addirittura in una pianta, in un oggetto, in un sasso, ecc. La credenza nella metempsicosi si ritrova in molti popoli antichi, dagli Indiani ai Celti, dagli Egiziani ai Greci, e si può collegare da un lato a un'esigenza di giustizia (la trasmigrazione in un essere inferiore o superiore è di solito considerata un'espiazione per le colpe commesse o un premio per i meriti accumulati nella vita precedente), e dall'altro al desiderio di felicità (la metempsicosi è anche il cammino verso la beatitudine).

L'ARITMOGEOMETRIA

I Pitagorici hanno legato con successo l'aritmetica alla geometria: in questa associazione la geometria apportava il vantaggio della visione (la possibilità cioè di «disegnare» gli enti matematici e di «vedere» le loro relazioni), mentre l'aritmetica offriva la precisione dei suoi calcoli.
I numeri erano rappresentati dai Pitagorici per mezzo di punti disposti in figure geometriche, ed erano classificati a seconda delle figure a cui davano luogo:


numeri lineari:

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numeri triangolari:

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numeri quadrati:
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numeri rettangolari:

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numeri cubici:

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I numeri lineari sono i numeri primi, che potendosi dividere solo per se stessi e per l'unità, non si possono disporre né in forma di triangolo, né di rettangolo.

I numeri triangolari risultano dalla somma dei numeri interi consecutivi:

 
 1
 3 = 1 + 2
 6 = 1 + 2 + 3
10 = 1 + 2 + 3 + 4 ecc.

I numeri quadrati risultano dalla somma dei numeri dispari consecutivi; risultano anche dal prodotto dei numeri interi per se stessi (sono cioè i quadrati dei numeri interi, come ancora oggi li chiamiamo):

 1 = 1 x 1
 4 = 1 + 3 = 4 = 2 x 2
 9 = 1 + 3 + 5 = 9 = 3 x 3
16 = 1 + 3 + 5 + 7 = 16 = 4 x 4

I numeri rettangolari risultano dalla somma dei numeri pari consecutivi; risultano anche dal prodotto di due numeri interi successivi:

 
 2 = 1 x 2
 6 = 2 + 4 = 6 = 2 x 3
12 = 2 + 4 + 6 = 12 = 3 x 4
20 = 2 + 4 + 6 + 8 = 20 = 4 x 5

I numeri cubici sono i cubi (come ancora li chiamiamo) dei numeri interi e risultano dalla somma di tanti numeri dispari successivi quanti sono i punti che costituiscono il lato del cubo:

 
 1 = 1 x 1 x 1
 8 = 2 x 2 x 2 = 8 = 3 + 5
27 = 3 x 3 x 3 = 27 = 7 + 9 + 11
64 = 4 x 4 x 4 x 4 = 64 = 13 + 15 + 17 + 19

L'INFAUSTA SCOPERTA DEGLI IRRAZIONALI

Secondo il teorema di Pitagora in un triangolo rettangolo l'area del quadrato costruito sull'ipotenusa è uguale alla somma delle aree dei quadrati costruiti sui cateti. Egiziani e Babilonesi conoscevano una regola, ad uso di architetti ed agrimensori, che in pratica diceva la stessa cosa; per quanto se ne sa, però, nessuno di loro ne ha mai dato la dimostrazione, che è poi quello che conta da un punto di vista teorico. Tale dimostrazione fu invece fornita da Pitagora (o dai suoi seguaci), anche se probabilmente in una forma diversa da quella che oggi conosciamo (e che risale a Euclide, un matematico del III secolo a.C., di cui dovremo tornare ad occuparci). Sempre lavorando sui triangoli rettangoli, i Pitagorici fecero la loro scoperta più importante (e per certi aspetti sconcertante): quella dei numeri irrazionali.
La nozione pitagorica di misura implicava che, date due grandezze, l'una stesse nell'altra un numero finito di volte, e cioè che il rapporto tra le due fosse espresso da un numero intero o da una frazione. La diagonale di un quadrato è l'ipotenusa di un triangolo rettangolo isoscele, e i lati del quadrato sono i cateti del triangolo. Se il lato del quadrato è 1, l'area del quadrato costruito sulla diagonale sarà 2. La lunghezza della diagonale sarà allora la radice quadrata di 2, ossia quel numero che, elevato al quadrato, dà 2.
Quale è questo numero? Non è un intero, perché è certamente minore di 2 e maggiore di 1. Ma non è neppure una frazione, perché non c'è alcuna frazione che elevata al quadrato dia come risultato 2. Naturalmente è possibile trovare una frazione prossima alla radice di 2, ma (basta fare la prova per convincersene) è sempre possibile trovarne un'altra più vicina e poi un'altra e un'altra ancora, e così all'infinito, senza mai giungere davvero a quel valore. Il numero che cerchiamo non è né un intero né un fratto: che numero è dunque? È un numero irrazionale. Questa espressione però è solo un modo per dire che tra la diagonale e il lato del quadrato non esiste misura (o «ragione») comune. Queste due grandezze, che sono con tutta evidenza grandezze finite, e che geometricamente si possono costruire senza alcuna difficoltà, non hanno una unità di misura comune, sono incommensurabili.
Gli irrazionali sono sicuramente la più bella scoperta dei Pitagorici. Essa però segnava anche la loro sconfitta: creava difficoltà insormontabili (almeno per allora) all'associazione di aritmetica e geometria, in cui avevano creduto come a un metodo generalmente valido nell'indagine matematica, e incrinava seriamente la convinzione (di natura religiosa oltre che filosofica) che ogni cosa fosse riconducibile a numero. Tutto è numero, verrebbe voglia di dire, tranne il rapporto tra il lato e la diagonale del quadrato!

NUMERI RAZIONALI E IRRAZIONALI

I numeri che adoperiamo abitualmente 1, 2, 3, 4 ecc. si chiamano naturali o cardinali. Possiamo rappresentarli come punti di una retta. Scegliamo un punto qualsiasi della retta, chiamiamolo origine e segniamolo con 0. Scegliamo poi un segmento di lunghezza qualsiasi e riportiamolo più volte sulla retta, partendo dal punto 0 e muovendoci sempre verso destra. Ai punti così individuati facciamo corrispondere i numeri naturali 1, 2, 3, ecc.


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I punti segnati così sulla retta e i numeri naturali hanno le stesse proprietà:
1) dati due punti (numeri) diversi è sempre noto quale dei due precede l'altro (è minore dell'altro) e quale segue (è maggiore):

2 < 5; 7 > 3;

2) tranne che per lo 0, che non ha antecedenti, è sempre possibile dire di un punto (numero) che è compreso tra due altri punti (numeri) che lo precedono e lo seguono immediatamente:

2 < 3 < 4

Il campo dei numeri naturali è infinito, ma solo verso destra: in altre parole, non esiste un numero maggiore di tutti gli altri, ma esiste un numero minore di tutti gli altri (lo 0). Se non si vuole uscire da questo campo, tra le quattro operazioni fondamentali solo l'addizione e la moltiplicazione si possono eseguire senza limiti: per effettuare la sottrazione, invece, occorre che il minuendo (il numero da cui si sottrae) sia maggiore del sottraendo, e per effettuare la divisione occorre che il dividendo (il numero da dividere) sia un multiplo del divisore.
Per eseguire senza limiti la sottrazione bisogna allargare il campo dei numeri naturali. Lo si può fare costruendo a partire dall'origine (lo 0) e procedendo verso sinistra una nuova serie di numeri: i numeri negativi.


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Diventa così possibile sottrarre un numero da un numero più piccolo:

3 - 7 = -4

I numeri positivi e i numeri negativi costituiscono l'insieme dei numeri interi.
Nel campo dei numeri interi la divisione è ancora soggetta a limiti: perché il quoziente sia un numero intero è necessario che il dividendo sia un multiplo del divisore. Se si vuole eseguire tale operazione senza limiti bisogna allargare il campo dei numeri interi, aggiungendo la serie dei numeri fratti:

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Numeri interi e numeri fratti costituiscono l'insieme dei numeri razionali. Una caratteristica dei numeri razionali è che possono essere scritti tutti (anche gli interi) sotto forma di frazione:

13D00009.jpg

Cerchiamo ora di rappresentare i numeri fratti come punti sulla nostra retta. È evidente che essi staranno tra i punti corrispondenti ai numeri interi, e cioè che 1/2, per esempio, starà tra 0 e 1. Ma 0 non è l'immediato antecedente di 1/2 e 1 non è l'immediato conseguente. Ma neppure 1/4 e 3/4 o 2/5 e 3/5 sono antecedenti o conseguenti immediati di 1/2. Il fatto è che qualunque frazione si prenda, prossima quanto si vuole a 1/2, sarà sempre possibile trovarne un'altra anche più prossima.
In effetti tra due numeri razionali (come sono 1/4 e 1/2) è sempre possibile inserire un terzo numero razionale (per esempio 2/5). Questa caratteristica, che si chiama densità, rende l'insieme dei numeri razionali completamente diverso dall'insieme dei numeri interi: tra due interi consecutivi, infatti, non è possibile inserire un terzo intero.
La densità propria dei numeri razionali complica non poco la loro rappresentazione come punti di una retta. È facile capire in che senso i numeri naturali e gli interi sono infiniti: la serie dei naturali è infinita a destra dell'origine, e quella degli interi (positivi e negativi) a destra e a sinistra. Ma i numeri razionali sono infiniti dovunque, perché entro qualunque intervallo, per piccolo che sia, dobbiamo immaginare che cadano un numero infinito di punti razionali.
Già questo non è facile da intuire. Ma Pitagora e i suoi hanno fatto una scoperta ancora più imbarazzante: non c'è alcuna frazione che possa esprimere il valore di 13D00010.jpg, e cioè non c'è alcuna frazione che, elevata al quadrato, dia come risultato 2. Il che vuol dire che nonostante la loro densità, i punti corrispondenti ai numeri razionali non coprono interamente la retta. Esiste un'altra serie infinita di numeri - i numeri irrazionali - che giacciono sulla stessa retta senza sovrapporsi ai numeri razionali: i due insiemi di numeri si incastrano, per così dire, l'uno nell'altro.

FILOLAO E LA COSMOLOGIA PITAGORICA

Dopo quella di Anassimandro molte altre teorie cosmologiche furono elaborate dagli scienziati dell'antichità. Per quanto riguarda il problema delle origini c'era chi negava addirittura che il mondo avesse mai avuto un inizio, ritenendo più probabile che fosse sempre esistito un ordine cosmico. Ci si domandava anche se l'universo fosse finito o infinito e se si dovesse ammettere l'esistenza di un solo mondo o (come aveva sostenuto Anassimandro) di una pluralità di mondi. Ma accanto ai grandi temi della cosmologia, l'interesse degli studiosi fu attirato in misura crescente dai problemi astronomici propriamente detti (relativi cioè alla forma, alle dimensioni e ai movimenti dei corpi celesti), che richiedevano precise osservazioni e calcoli complicati. Qui, nonostante il grande interesse delle loro teorie cosmologiche, gli Ionici non avevano prodotto che immagini piuttosto ingenue, come quella che attribuiva alla Terra e agli astri una forma cilindrica.
Pare che la sfericità della Terra sia stata sostenuta per la prima volta dai Pitagorici. È probabile che i Pitagorici abbiano adottato questa tesi per ragioni non propriamente «scientifiche». Per loro infatti si trattava di un dogma religioso, nel senso che la sfera soddisfaceva, con la sua forma compiuta, equilibrata, uguale in tutti i punti della superficie, la loro idea di perfezione. Le prove della sfericità della Terra sarebbero venute solo più tardi. Si trattava in ogni modo di un progresso notevole. E fu proprio intorno all'assunto della sfericità della Terra che si andò costruendo nella scuola pitagorica un vero e proprio sistema astronomico. Di tale sistema conosciamo una versione piuttosto tarda, attribuita a Filolao, anche lui un personaggio semileggendario, vissuto (pare) nella seconda metà del V secolo a.C. a Crotone.
Secondo Filolao, il centro dell'universo sarebbe occupato da un Fuoco (da non confondere con il Sole!), intorno a cui ruoterebbero dieci corpi celesti, e cioè, partendo dal più esterno:
1) la sfera delle stelle; 2) Saturno; 3) Giove; 4) Marte; 5) il Sole; 6) Venere; 7) Mercurio; 8) la Luna; 9) la Terra; 10) l'Antiterra. Le distanze tra questi corpi celesti seguirebbero precise proporzioni aritmetiche e musicali (i Pitagorici parlavano a questo proposito di armonia delle sfere). L'Antiterra sarebbe invisibile perché ruoterebbe in posizione esattamente opposta a quella della Terra. Anche il Fuoco centrale sarebbe invisibile dal nostro emisfero, perché la Terra gli rivolgerebbe sempre la stessa faccia, quella non abitata. È difficile dire perché i Pitagorici abbiano escogitato l'esistenza dell'Antiterra e del Fuoco centrale: forse perché così si portava a dieci, numero perfetto, la serie dei corpi celesti.
Nel prevalere degli interessi astronomici tra gli scienziati dell'antichità hanno avuto larga parte i bisogni pratici legati all'agricoltura, alla navigazione, alla misurazione del tempo e delle distanze, attività tutte per le quali era necessaria una esatta conoscenza dei fenomeni celesti. Ma il cielo esercitava anche un fascino di diversa natura. I moti degli astri hanno un carattere di periodicità che colpisce la fantasia tanto più quanto più la nostra vita dipende da certe caratteristiche alternanze: il succedersi del giorno e della notte, il variare mensile delle fasi della Luna, il susseguirsi delle stagioni. A questi fenomeni la vita dell'uomo nell'antichità era assai più legata di quanto non lo sia oggi. Ma soprattutto, con la precisione e la continuità dei suoi moti il cielo appariva una realtà nettamente diversa da quella terrena: il cielo era l'immagine stessa dell'immortalità e dell'ordine, la Terra il regno dell'instabilità e dell'incertezza; lassù ogni evento si svolgeva secondo leggi meravigliosamente costanti, quaggiù ogni cosa, e in primo luogo la vita dell'uomo, sembrava abbandonata al caso. La coscienza di questo contrasto si era espressa fin dai tempi più antichi sul terreno della religione con l'adorazione degli astri e con l'identificazione del cielo come dimora privilegiata degli Dei. Sul terreno della speculazione filosofica si espresse nella convinzione, formulata per la prima volta dai Pitagorici, che tra cielo e Terra vi fosse un'essenziale diversità di natura: diversa la materia di cui l'uno e l'altra sono fatti, diverse le leggi che ne regolano gli avvenimenti. Sulla Terra (ossia nel mondo sublunare, come si esprimevano i Pitagorici) ogni cosa è soggetta al divenire, nasce, si corrompe e muore; nei cieli (ossia nel mondo sopra lunare), invece, ogni cosa è incorruttibile ed eterna.
L'idea pitagorica dell'opposizione Cielo-Terra è quella che ha avuto maggiore fortuna nelle cosmologie antiche e sarebbe stata abbandonata soltanto con Galilei e Newton, ossia dopo più di due millenni. Al contrario cosmologi e astronomi antichi, con la sola eccezione di Aristarco di Samo, uno studioso del III secolo a.C. di cui torneremo ad occuparci, hanno lasciato subito cadere l'idea del moto della Terra, che sarebbe riemersa (per affermarsi definitivamente) solo con Copernico, meno di cinque secoli fa.

ERACLITO

Eraclito era nato ad Efeso, nella Ionia, e fu attivo alla fine del VI secolo a.C. Fu detto «l'oscuro» perché amava esprimersi per aforismi e paradossi non sempre facilmente comprensibili. Non lo capiva bene neppure Socrate, uno dei più grandi filosofi greci vissuto appena un secolo dopo di lui. Si racconta, che a chi gli chiedeva che cosa ne pensasse di Eraclito, Socrate abbia risposto: - Quel che ne ho capito è eccellente, e penso che lo sia anche quello che non ho capito; ma per capirlo fino in fondo ci vorrebbe un palombaro -. Come dire che il pensiero di Eraclito era così profondo da risultare insondabile.
Questo gusto per le espressioni difficili è stato interpretato come disprezzo per la gente comune, e attribuito all'educazione aristocratica che aveva ricevuto. In effetti Eraclito giudicava gli uomini generalmente incapaci di cogliere la razionalità delle cose, che pure stava loro di fronte, e diceva che rispetto ad essa si comportavano come sordi o dormienti: «assenti, pur essendo presenti».
Non ne faceva però una questione di nascita o di condizione sociale: «a ogni uomo - diceva - è concesso conoscere se stesso e pensare rettamente. A tutti è comune la facoltà di pensare». Non ne faceva neppure una questione di educazione. Riteneva anzi che «sapere molte cose non insegna a pensare rettamente»: altrimenti, aggiungeva, avrebbero imparato a pensare rettamente anche Esiodo o Pitagora, personaggi verso i quali era particolarmente polemico per la quantità di nozioni inutili o false con cui, secondo lui, avevano tentato di nascondere la propria ignoranza.
Eraclito può essere considerato il quarto grande filosofo della Ionia non solo perché era cittadino di Efeso, ma perché alcuni aspetti del suo pensiero lo accomunano agli altri tre, Talete, Anassimandro e Anassimene. Anche Eraclito, per esempio, applicava alla natura gli attributi della divinità e combatteva il carattere superstizioso dei culti tradizionali. E anche lui, come i primi filosofi ionici, era affascinato dalle incessanti trasformazioni che avvengono in natura. Eraclito, anzi, indicava nel mutamento l'aspetto essenziale del mondo, e lo interpretava, come già era stato suggerito dai primi Ionici, quale effetto del gioco dei contrari, ossia delle opposte qualità presenti nelle cose.
«Non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume», diceva Eraclito, intendendo che ogni cosa è come un fiume, che in apparenza è sempre uguale a se stesso, ma in realtà è fatto di acque sempre diverse. Tutto scorre (in greco panta rei), muta, diventa altro da quello che era. Questo divenire era rappresentato da Eraclito come fuoco, il più mobile di tutti gli elementi, che, analogamente ai principi postulati dagli Ionici, si trasforma di continuo nelle altre sostanze e che forse (il significato del frammento è incerto) torna periodicamente a incendiare il mondo:

... Questo ordine cosmico, che è lo stesso per tutti i mondi possibili, non lo ha fatto nessuno degli Dei, né alcuno degli uomini, ma è sempre stato, è, e sarà sempre fuoco vivo che a tempo debito (secondo necessità) si accende e a tempo debito si spegne...

Il divenire si esprime secondo Eraclito nella lotta e nella discordia. «Il conflitto è padre e re di tutte le cose», diceva, attribuendo al conflitto qualità divine («padre e re» sono gli attributi di Zeus). Anche il conflitto, però, è una forma di collaborazione, di legame, di unione. La legge del mondo, la ragione delle cose, il Logos, come lo chiama Eraclito, consiste appunto nella connessione dei contrari, nella loro necessaria interdipendenza:

... Non ci sarebbe armonia se non ci fossero suoni acuti e suoni gravi né ci sarebbero creature se non ci fossero il maschio e la femmina, che sono contrari.
Connessioni: intero-non intero, concorde-discorde, armonico-disarmonico, e da tutte le cose l'uno e dall'uno tutte le cose.
Il fuoco: mancanza-sazietà, guerra-pace.

Il Dio: giorno-notte, inverno-estate, guerra-pace, sazietà-fame. Ed egli assume forme diverse come fa il fuoco, che, quando si mescola ai fumi odorosi del sacrificio, prende nome dall'aroma di ciascuno di essi.

La malattia rende dolce e gradita la salute, la fame la sazietà, la stanchezza il riposo...

LOGOS

È la nozione forse più oscura (e interessante) del pensiero di Eraclito. In greco logos significa genericamente parola, discorso e se ne trovano le tracce in termini come logica, cosmologia, ecc. Logos poteva assumere per estensione altri significati come ad esempio «dottrina» (il contenuto di un discorso) o come «misura». Era infine suscettibile di interpretazioni più impegnative come ragione, verità, pensiero, intelligenza, e proprio queste accezioni avrebbero finito col tempo per prevalere nel linguaggio filosofico.
Non è chiaro in che senso la parola fosse adoperata da Eraclito. La difficoltà si incontra proprio all'inizio del libro dove Eraclito scriveva:

... Questo mio logos [discorso], benché eterno, gli uomini non lo intendono mai, né prima di ascoltarlo, né dopo; e sebbene tutto proceda secondo tale logos [verità, ragione], che è la legge del mondo, essi sembrano non averne esperienza...

Insomma logos poteva significare sia la dottrina di Eraclito, (o addirittura il libro nel quale era esposta), sia la ragione interna alle cose, e cioè la «legge del mondo». È probabile che Eraclito volesse esprimere contemporaneamente entrambi i significati, oppure che non li distinguesse affatto. Tutti gli antichi filosofi greci, da Talete a Parmenide, assumono in maniera più o meno esplicita l'idea della perfetta coincidenza tra il pensiero dell'uomo e la razionalità del mondo.

LA SCUOLA ELEATICA

PARMENIDE

All'indirizzo di pensiero di Eraclito che tradizionalmente si riassume nella nozione di «divenire», si contrappose, pressappoco nello stesso periodo, quello di Parmenide e della sua scuola. Parmenide e il suo discepolo Zenone erano di Elea (o Velia), una città della Magna Grecia a Sud di Paestum, nei pressi di Salerno. Entrambi svolsero un importante ruolo nella vita politica della città quali esponenti del partito aristocratico. Zenone, poi, avrebbe perso la vita complottando contro il tiranno che si era impadronito del potere.
Eraclito aveva indicato nel gioco degli opposti la chiave per la comprensione di tutte le cose. Poiché nulla resta uguale a se stesso, ogni cosa è e insieme non è e in ogni processo i contrari si integrano a vicenda: non c'è giorno senza notte, estate senza inverno, pace senza guerra, abbondanza senza scarsità, e così via.
Parmenide partiva invece dal presupposto che i contrari non solo non si integrano, ma si escludono a vicenda:

... Due sole sono le vie della ricerca che si possono concepire: l'una che l'essere è e non può non essere, e questa è la via della persuasione perché è accompagnata dalla verità; l'altra che il non-essere non è ed è necessario che non sia, e questo, ti dico, è un sentiero inaccessibile, perché il non-essere non puoi né conoscerlo (è infatti impossibile), né esprimerlo...

In altre parole, poiché pensare il nulla vuol dire non pensare, si può pensare solo ciò che è, mentre ciò che non è non può essere né pensato né espresso in alcun modo. E poiché si pensa sempre e soltanto ciò che è,

... la stessa cosa è pensare ed essere...

Ma se il non-essere è impossibile, anche il mutamento, il movimento, la molteplicità delle cose, la loro nascita e la loro morte sono impossibili: sono vuote parole, semplici nomi a cui non corrisponde nulla.
L'Essere di Parmenide è pieno e occupa spazio. L'Essere, anzi, è lo spazio, nel senso che non c'è alcuna differenza tra lo spazio e ciò che lo riempie. Lo spazio vuoto, infatti, è una nozione priva di senso: è puro non-essere. Pur occupando tutto lo spazio l'Essere di Parmenide non è infinito. Il carattere inesauribile dell'infinito sembrava escludere la possibilità di comprenderlo razionalmente e lo assimilava al non essere. L'essere è dunque finito e dotato di forma: quella della sfera.
Pieno, finito, sferico: parrebbero gli attributi di un corpo, e cioè di un ente materiale. Ma sulla natura corporea dell'Essere gli interpreti di Parmenide non si sono mai messi d'accordo: in fondo, è stato detto, pieno può essere sinonimo di autosufficiente; finito può essere sinonimo di perfetto (se per infinito si intende il non-finito); e sferico è una metafora che sta per compiuto e omogeneo:

... Esso è compiuto tutto intorno - dice infatti Parmenide -, simile alla massa di una rotonda sfera, che dal centro preme in ogni parte con ugual forza...

D'altra parte che l'Essere non fosse corporeo non significa che fosse incorporeo. Probabilmente Parmenide non si era neppure posto un simile problema, dato che la distinzione di corporeo e incorporeo, di materia e spirito, non si era ancora affacciata chiaramente alla riflessione filosofica.
Corporeo o no, l'Essere immutabile, immobile, indivisibile, perfettamente omogeneo era per Parmenide la sola cosa esistente e il solo possibile oggetto di pensiero. E in effetti, dice esplicitamente Parmenide, l'unico pensiero possibile è pensare che l'Essere è. Con il che anche il pensiero sembrava immobilizzarsi, in perfetta antitesi al logos che Eraclito immaginava scorrere incessantemente da un termine all'altro della realtà.
E le infinite cose di cui sembra fatto il nostro mondo? E le loro continue trasformazioni, che Eraclito aveva rappresentato nell'immagine del fuoco eternamente vivo? Secondo Parmenide e i suoi discepoli si trattava di pure illusioni, fantasmi generati dai sensi. La verità è unica - dicevano gli Eleati - ed è quella che ci è mostrata dalla ragione. Quelli che vorrebbero filosofare, ma non hanno il coraggio di respingere la testimonianza dei sensi sono «uomini a due teste»: ammettono l'esistenza dell'inesistente e pretendono di pensare l'impensabile.

ESSERE, ONTOLOGIA, METAFISICA

La parola «essere» è uno dei termini - chiave del pensiero occidentale. È stata usata in molti significati diversi e almeno in parte la suggestione che ha esercitato sui filosofi, da Parmenide in poi, è legata proprio alla sua ambiguità. Innanzi tutto occorre distinguere il verbo dal sostantivo. Come verbo può essere adoperato in senso relativo o in senso assoluto. In senso relativo serve da copula, ossia è il legame tra il soggetto e il predicato di una proposizione: «Pietro è giovane», «I cani sono mammiferi», «Charles Chaplin è Charlot» ecc. In senso assoluto equivale invece ad «esistere»: «L'Essere è». Come sostantivo (qui lo scriviamo con la E maiuscola appunto per distinguerlo dal verbo) può indicare sia il fatto di essere (l'esistenza) sia ciò che esiste (l'ente). L'ente, poi, può indicare sia ciò che esiste realmente (è una «cosa», in latino = res) sia ciò che esiste solo nel pensiero (i numeri, ad esempio, che sono enti matematici).
«Ontologia» (dal greco on, ontos, participio presente del verbo greco einai, che significa «essere» e da logos = «discorso») è la disciplina filosofica che si occupa specificamente dell'«Essere in quanto Essere» (secondo la formula usata da Aristotele) e cioè dei caratteri comuni a tutti gli esseri. Tutti gli esseri, infatti, spirituali o materiali che siano, hanno alcune proprietà generali come l'esistenza, la possibilità, la durata, ecc.: lo studio di tali proprietà è appunto ciò che si chiama «ontologia». Il termine è relativamente recente essendo entrato nel linguaggio filosofico non più di tre o quattro secoli fa.
Un sinonimo di ontologia, più antico e più usato, è il termine «metafisica», dal greco tà metà tà physikà che alla lettera vuol dire «ciò che sta dopo la fisica». Il termine è stato usato dal filosofo greco Andronico di Rodi (primo secolo a.C.) per indicare un gruppo di scritti che nell'ordinamento complessivo delle opere di Aristotele veniva dopo quelle che trattavano di argomenti naturali o «fisici». Il contenuto delle opere aristoteliche indicate con il termine «metafisica», costituito dalle ragioni, dalle cause, dalle connessioni e dalle proprietà ultime dell'Essere in generale, ha finito per stabilire il significato del termine stesso. Se la botanica si occupa delle piante, la zoologia degli animali, e così via, la metafisica (o ontologia) studiando l'Essere in generale studia il fondamento comune di tutte le scienze particolari: per essere una pianta, un animale, ecc. bisogna innanzi tutto «essere» ed è appunto scopo della metafisica capire che cosa voglia dire.
Il fatto che la metafisica si occupi del fondamento comune di tutte le scienze le ha garantito una posizione di particolare prestigio fra le discipline filosofiche, soprattutto quando il suo oggetto non è stato inteso semplicemente come l'Essere in generale, ma come Essere divino, come Dio; da ontologia, allora, la metafisica diventa teologia. Il tratto comune tra ontologia e teologia è costituito dal fatto che l'esistenza e la natura di Dio fornisce la ragione o spiegazione ultima del modo d'essere delle cose: dall'idea che ci facciamo di Dio (se ce ne facciamo una) dipende l'idea che abbiamo del mondo. Così, se si concepisce Dio come un essere infinitamente buono (come avviene, per esempio, nella teologia cristiana), preoccupato della sorte delle sue creature, si finirà inevitabilmente per trovare nella realtà i segni della sua sollecitudine e per scoprire nelle cose un ordine provvidenziale.

LA BEN ROTONDA VERITŔ

Dell'opera Sulla natura, che Parmenide scrisse in versi, non restano che pochi frammenti. Uno dei frammenti più lunghi è il proemio del poema, che offre un'immagine simbolica assai suggestiva dell'avventura del filosofo: Parmenide, condotto su un carro tirato da cavalle e attorniato da fanciulle che indicano la strada, oltrepassate le tenebrose «case della notte», giunge a un tempio luminoso che è la dimora della Dea:

... E benigna la Dea m'accolse, e mi prese la destra
e così parlò dicendomi queste parole:
- O giovane condotto da guide immortali
che vieni alla nostra casa portato dalle cavalle,
sii il benvenuto! Poiché non fu un avverso destino
a mandarti per questa via (che è invero lontana dall'orma dell'uomo),
ma la legge divina e la giustizia. Ma ora devi imparare ogni cosa
e il cuore che non trema della ben rotonda verità
e le opinioni dei mortali, in cui non è vera certezza...

La Dea dunque si accinge a insegnare a Parmenide sia la verità unica ed eterna, sia le molteplici e contraddittorie opinioni degli uomini. Alcuni commentatori hanno interpretato questi versi nel senso che Parmenide avrebbe ammesso, accanto alla conoscenza razionale (che ha per oggetto la verità), una conoscenza sensibile (il cui oggetto è l'opinione), anche se come conoscenza di grado inferiore (in essa infatti «non è vera certezza»).
È più probabile però che Parmenide avvicinasse verità e opinioni come termini antitetici, incompatibili l'uno con l'altro, intendendo che l'affermazione della prima è per ciò stesso la negazione delle seconde.
La conoscenza non si raggiunge, secondo Parmenide, indagando il mondo ingannevole della natura, come avevano cercato di fare i filosofi ionici, ma attraverso un'illuminazione intellettuale che (come fa la Dea nel poema) rivela tutt'intera la verità.
Legato al culto solare del Dio Apollo, Parmenide aveva del sapere una concezione estremamente aristocratica e postulava una profonda frattura tra sapere profano (le opinioni del volgo) e la verità accessibile solo a pochi eletti: una posizione destinata a tornare più volte nella storia del pensiero occidentale.

ZENONE

Zenone era nato intorno al 490 a.C. ed era legatissimo a Parmenide, di cui era più giovane di circa venticinque anni. In un dialogo (intitolato appunto Parmenide) Platone rievoca la visita fatta ad Atene dai due amici verso la metà del V secolo. Il dialogo platonico non può essere assunto come sicura fonte storica, ma offre un'immagine di Zenone, intento a discutere le sue tesi paradossali con i filosofi ateniesi e divertito dall'imbarazzo che esse avevano suscitato, che è gustosa e probabilmente veritiera. Particolarmente interessanti sono le motivazioni che, secondo Platone, avrebbero spinto Zenone a scrivere il suo libro:

... Questo mio libro vuol essere una difesa della dottrina di Parmenide contro coloro che pretendono di metterla in ridicolo e dicono che, ammessa la tesi che tutto è uno, ne deriva una serie di conseguenze ridicole e contraddittorie. Questo libro vuole insomma polemizzare con quanti sostengono l'esistenza del molteplice, e vuol rendere loro la pariglia e anche più, dimostrando che l'ipotesi della molteplicità se la si sviluppa fino in fondo porta a conclusioni anche più ridicole di quella dell'unità del tutto...

In sostanza quel che stava a cuore a Zenone era dimostrare non tanto la verità della dottrina di Parmenide, quanto l'inconsistenza delle dottrine che le si opponevano. Come avrebbe detto Timone di Fliunte:

... La lingua di Zenone ha forza grande e tenace a difendere le tesi più opposte e trova a ridire su tutto...

Gli argomenti di Zenone erano diretti a negare oltre alla molteplicità, il movimento, e sono appunto questi ultimi i più noti. I principali sono:
Quello detto della dicotomia (= «divisione in due»): è impossibile arrivare alla fine di un percorso; prima di arrivarci, infatti, bisogna arrivare alla metà del percorso; e prima di arrivare alla metà, bisogna arrivare alla metà della metà, e così via, all'infinito.
Quello detto di Achille e la tartaruga: se Achille dà alla tartaruga un piccolo vantaggio iniziale, non gli sarà più possibile raggiungerla; quando avrà raggiunto il punto di partenza della tartaruga, infatti, la tartaruga si sarà spostata un poco più avanti, e quando Achille avrà raggiunto questo secondo punto, la tartaruga sarà avanzata ancora di un poco, e così via, all'infinito.
Quello detto della freccia: una freccia scoccata dall'arco in ogni istante del suo velocissimo moto occupa un luogo che è esattamente uguale a sé; ma ciò che occupa un luogo uguale a sé non si muove e perciò la freccia è immobile in tutti gli infiniti istanti del suo moto (la freccia non si muove nel luogo in cui è, perché ci sta e dunque non si muove, ma non si muove neppure in un luogo in cui non è, appunto perché non c'è).

MORTE DI ZENONE

Pare che Zenone sia morto sotto la tortura per non rivelare i nomi dei partecipanti ad una congiura che aveva organizzato contro il tiranno della sua città. Diodoro Siculo, uno storico del primo secolo a.C. racconta così l'episodio:
«Poiché la sua patria era ridotta in dura servitù dal tiranno Nearco, ordì una congiura contro di lui. Essendo stato scoperto e sottoposto a tortura, a Nearco che voleva sapere i nomi dei complici rispose: - Oh, se potessi comandare al mio corpo così come sono padrone della mia lingua! - Il tiranno allora gli fece infliggere tormenti ancora maggiori e Zenone per un po' resistette; poi volle tentare di liberarsi dalla tortura e nello stesso tempo di vendicarsi del tiranno architettando questo piano. Quando la corda della macchina di tortura fu arrivata al punto della maggior tensione, fingendo di esalare l'ultimo respiro per la sofferenza, gridò: - Basta! diro tutta la verità! - Poi, non appena allentarono le corde, chiese che il tiranno gli si avvicinasse per ascoltare le sue parole da solo, poiché molte delle cose che gli avrebbe detto era meglio che restassero segrete. Il tiranno gli si avvicino pieno di gioia ed accostò l'orecchio alla bocca di Zenone, il quale lo addentò e vi ficcò i denti. I servi accorsero subito e inflissero ogni supplizio al torturato per fargli aprire la bocca, ma quegli la serrava ancora di più. E infine, non potendo vincere la forza d'animo di quell'uomo lo trafissero nel fianco perché disserrasse i denti. E con questo stratagemma si liberò dei tormenti e ebbe dal tiranno la prevista punizione».

EMPEDOCLE E ANASSAGORA

Le tesi eleatiche dell'Essere colpivano per il loro rigore, ma insieme sconcertavano per la drasticità con cui liquidavano come pura illusione il divenire, la molteplicità e in generale il mondo dell'esperienza sensibile. I principali filosofi greci del V secolo a.C., Empedocle, Anassagora e Democrito, concentrarono la propria riflessione sul dilemma Essere-divenire e ne proposero delle soluzioni per certi aspetti simili: tutti e tre infatti attribuivano le caratteristiche dell'Essere non ad un unico ente, ma ad una molteplicità di principi costituenti dell'Essere, e interpretavano il divenire come effetto della loro unione e della loro separazione.
Empedocle era un influente cittadino di Agrigento ed esponente del partito democratico, ma soprattutto un famoso medico e mago. Sul suo conto circolavano già in antico una quantità di aneddoti, per lo più poco attendibili. Si diceva per esempio che avesse resuscitato una donna dopo trenta giorni dalla morte e che riuscisse con certe sue arti a controllare le tempeste.
Empedocle individuava i principi costituenti l'Essere nei quattro elementi (o sostanze semplici), la terra, l'aria, l'acqua e il fuoco, che già i filosofi ionici avevano individuato come forme o come componenti della materia. Rispetto agli Ionici, però, per i quali l'acqua si confondeva con l'umido e con lo stato fluido, il fuoco con il caldo e il secco, la terra con lo stato solido, e così via, Empedocle distingueva nettamente le sostanze dai loro attributi, che erano anch'essi in numero di quattro, essendo rappresentati dalle due coppie di opposti caldo-freddo e umido-secco.
Secondo Empedocle, i quattro elementi dell'Essere mescolandosi in diverse proporzioni danno origine alle sostanze complesse di cui sono fatte tutte le cose esistenti in natura. Mescolanze e separazioni avverrebbero per azione di due forze cosmiche contrapposte, l'Amore e l'Odio (con terminologia moderna potremmo chiamarli attrazione e repulsione), destinate a prevalere nell'universo in fasi alterne. Quando il dominio dell'Amore è assoluto, i quattro elementi si trovano uniti in un miscuglio perfettamente omogeneo: è la fase che Empedocle chiama lo Sfero, «la più beata delle divinità», quando l'Essere gode «della sua solitudine avvolgente». In questo stadio di assoluta quiete, non può esserci né Terra né Cielo né altro perché ogni cosa si confonde nel Tutto.
È solo quando l'Odio rompe l'uniformità dello Sfero che le cose cominciano ad emergere nella loro particolarità. D'altra parte anche l'assoluta prevalenza dell'Odio, che determina la totale separazione dei quattro elementi, rende impossibile l'esistenza delle cose. L'universo quale lo conosciamo è insomma il risultato dell'equilibrio delle due forze cosmiche.
Anche Anassagora cercava di spiegare il divenire delle cose come effetto di unioni e separazioni degli elementi che le costituiscono. Questi elementi, però, erano rappresentati non da un certo numero di sostanze diverse l'una dall'altra, come quelle indicate da Empedocle, ma da un numero infinito di corpuscoli invisibili (chiamati semi delle cose), ciascuno dei quali sarebbe, sia pure in proporzioni diverse, un miscuglio di tutte le sostanze: Aristotele li avrebbe chiamati omeomerie (da hòmoios = «simile» e mèros = «parte»). «Ogni sostanza - diceva Anassagora - partecipa in una certa misura di tutte le sostanze e in ogni cosa vi è un po' di ogni altra cosa». Così, ad esempio, il fuoco è presente in tutti i corpi, e quello che chiamiamo fuoco è semplicemente un aggregato di corpuscoli nei quali le qualità del fuoco sono prevalenti.
Nell'affiancare ai quattro elementi della tradizione ionica i due principi dell'Amore e dell'Odio Empedocle aveva dato una prima formulazione dell'antitesi di materia (principio passivo, inerte) e di forza o energia (principio attivo), che in precedenza non erano mai state chiaramente distinte. Anche Anassagora accettava l'assunto dell'assoluta inerzia della materia. Posta una tale ipotesi, però, per spiegare il movimento Anassagora faceva ricorso ad un principio immateriale, la Mente o Spirito (in greco: Nous). Come Empedocle aveva introdotto la distinzione tra materia ed energia, così Anassagora inaugurava l'opposizione di materia e spirito. Fino a quel momento, infatti, i filosofi greci avevano concepito la materia come qualcosa di animato (e quindi di vivo) e insieme avevano pensato all'anima come a qualcosa di materiale (anche se fatta di una materia particolarmente sottile, affine all'aria).

L'EVOLUZIONE DELLE FORME VIVENTI SECONDO EMPEDOCLE

L'idea di una evoluzione delle forme viventi si era affacciata già alla mente dei filosofi ionici, in particolare di Anassimandro. Empedocle formulò in proposito una curiosa ipotesi. Immaginava che tutti gli organismi viventi fossero costituiti da unità funzionali come gambe, braccia, occhi, teste e così via, che all'inizio avevano un'esistenza separata e che solo in un secondo momento, sotto la spinta dell'Amore, avevano preso ad unirsi a caso le une con le altre. Da queste associazioni casuali erano nati organismi di ogni tipo, alcuni dei quali (quelli attualmente esistenti) si erano rivelati vitali e si erano riprodotti, mentre gli altri, meno adatti alla sopravvivenza, erano progressivamente scomparsi.
L'interesse di questa curiosa teoria sta tutto nell'aver immaginato un meccanismo evolutivo che, almeno nei suoi principi generalissimi, non è poi troppo dissimile da quello ipotizzato nel secolo scorso da Charles Darwin: la comparsa casuale di innumerevoli forme di vita e la successiva eliminazione delle forme meno efficienti.

Diogene Laerzio racconta che Empedocle era stato iniziato alle setta pitagorica e poi espulso per averne divulgato le dottrine. La notizia è tutt'altro che sicura, ma effettivamente Empedocle professava una sorta di religione assai vicina a quella pitagorica (credeva ad esempio nella metempsicosi) e si conoscono alcuni suoi versi in onore di Pitagora.
La leggenda più nota riguarda la sua fine: si sarebbe gettato nel cratere dell'Etna perché, convinto di essere immortale, sperava di indurre in questo modo i suoi concittadini a riconoscerlo e a onorarlo come un Dio.

AMICIZIA TRA PERICLE E ANASSAGORA

Anassagora era nato a Clazomene, nella Ionia, intorno al 499 a.C., ma visse per oltre trent'anni ad Atene, dove era stato chiamato da Pericle, capo del partito democratico che allora governava la città. Ad Atene Anassagora, che faceva parte degli intimi di Pericle, entrò in relazione con gli uomini più illustri del suo tempo, dallo scultore Fidia, al tragediografo Euripide, al filosofo Archelao, maestro di Socrate, e forse conobbe lo stesso Socrate.
Plutarco, uno storico greco del I secolo d.C., autore delle Vite parallele, una celebre raccolta di biografie riunite in coppie (un personaggio greco e uno romano), nella vita di Pericle ricorda così l'amicizia tra i due:

... Chi visse più strettamente a contatto di Pericle e contribuì a fargli assumere un abito di serietà e a dotarlo di una mentalità più nobile di quella corrente tra gli uomini politici, chi, insomma, portò alle maggiori altezze la grandezza del suo carattere fu Anassagora di Clazomene, dai contemporanei soprannominato Nous (Mente), forse per l'ammirazione che suscitavano le sue eccezionali capacità nel campo delle scienze della natura, o forse perché fu il primo a suggerire quale principio ordinatore dell'universo non il caso o la necessità, ma una mente pura e semplice, la quale mette insieme le particelle di materia tra loro simili, selezionandole dalla gran massa di tutte le sostanze nella quale si trovano mescolate.
Pericle apprese da quest'uomo, per il quale nutriva una straordinaria ammirazione, la scienza degli astri e le più alte speculazioni, e, a quanto pare, imparò da lui non solo un modo di pensare elevato e una maniera di esprimersi elegante, priva di volgarità o sciatterie, ma anche l'impassibilità dei lineamenti, che non si allentavano mai al sorriso, la grazia del portamento, il modo di drappeggiare la veste, che non si scomponeva neppure quando parlando si accalorava, il tono sempre uguale della voce, ed altri atteggiamenti del genere, che riempivano di stupore tutti quelli che lo avvicinavano [...]
Ma non furono solo questi i frutti che Pericle trasse dalla sua familiarità con Anassagora. Sembra che imparasse anche ad essere superiore ai terrori superstiziosi che i fenomeni celesti provocano in chi non ne conosce le cause, e, timoroso della potenza degli Dei, resta turbato per pura ignoranza. All'ignoranza rimediano le scienze naturali, che sostituiscono la superstizione impulsiva e piena di paure con una forma di venerazione degli Dei fatta di fiduciosa attesa...

L'autorità di Pericle in Atene era immensa, ma fondata sul consenso dei cittadini, i quali, sotto il suo governo, godettero delle libertà democratiche in misura altrove sconosciuta. Questo consenso poteva venir meno in qualsiasi momento e doveva essere ogni volta riconquistato. Nel 432 a.C. Pericle attraversò un momento difficile e i suoi amici subirono attacchi di ogni genere. Alcuni di loro (tra cui Anassagora) furono accusati tra l'altro di empietà e ateismo.
Nei confronti di Anassagora l'accusa si fondava sul fatto che invece di riconoscere la natura divina degli astri, li studiava come banali fenomeni fisici: aveva formulato una teoria delle eclissi e sosteneva pubblicamente che il Sole era un sasso infuocato, e che la Luna, da quello che si poteva vedere, appariva così simile alla Terra, con valli e montagne, da far supporre che fosse anche abitata. In tutto questo non c'era molto di nuovo. La novità era che qualcuno potesse essere processato per questo.
Gli avversari di Pericle che proposero e fecero approvare il decreto che assimilava ateismo e astronomia e puniva entrambi come reati appartenevano come Pericle al partito democratico, di cui anzi rappresentavano l'ala estrema. Non c'è da stupirsi troppo che proprio da loro partisse una tale iniziativa, né che vicende del genere si siano ripetute più volte nella città che era la patria della democrazia greca: dopo Anassagora, infatti, sarebbero stati vittime del fanatismo religioso in Atene Protagora (in un momento però in cui il regime democratico era sospeso e il potere era stato assunto da un'assemblea di quattrocento cittadini scelti tra i più ricchi), Socrate, Aristotele. La democrazia è sicuramente il migliore dei sistemi politici sperimentati dall'uomo, ma non è detto che la maggioranza al governo sia sempre tollerante.
Non si sa bene se Pericle sia poi riuscito a fare assolvere Anassagora dal tribunale o se semplicemente lo abbia fatto fuggire. Sta di fatto che il filosofo fu costretto ad abbandonare Atene per Lampsaco, dove fondò una scuola e dove morì poco dopo, nel 428 a.C.

LA TACCAGNERIA DI PERICLE

A differenza di Anassagora, che, dice Plutarco, «per seguire le sue meditazioni aveva lasciato in abbandono la casa e ridotto la sua terra a una brughiera incolta, buona solo come pascolo di pecore», Pericle era molto ricco e sapeva amministrare molto bene il suo patrimonio. Anche se c'era in lui una punta di spilorceria (in casa si viveva alla giornata e con le spese ridotte all'osso), normalmente Pericle provvedeva ai bisogni dell'amico. Una volta, però, racconta Plutarco,

... in un momento in cui Pericle era assorbito in altre occupazioni e non aveva tempo di badare a lui, il filosofo, ormai vecchio, si mise a letto con il capo velato, deciso a lasciarsi morir di fame. Non appena seppe la cosa, Pericle si precipitò costernato da Anassagora e lo scongiurò in tutti i modi di desistere dal suo proposito, compiangendo non tanto lui, quanto se stesso, perché avrebbe dovuto rinunciare ai lumi di un consigliere così saggio. Quando lo sentì dire queste cose il vecchio si scoprì il volto e gli rispose: - Ma caro Pericle, chi ha bisogno di una lucerna, vi versa dell'olio ogni tanto...-

DEMOCRITO

La costruzione forse più affascinante della filosofia greca fino a Socrate è la dottrina atomistica proposta nel V secolo a.C. da Leucippo di Mileto (di cui si sa molto poco) ed elaborata nella forma che ci è nota da Democrito di Abdera. Nel secolo successivo sarebbe stata ripresa con poche modifiche da Epicuro e dalla sua scuola. Per circa due millenni la maggioranza dei dotti ha preferito come teoria generale della realtà quella di Aristotele, ma le tesi atomistiche non sono state mai dimenticate e al tempo di Galilei hanno costituito un ingrediente fondamentale nel sorgere della scienza moderna.
Democrito, uno dei più importanti filosofi greci, contemporaneo di Socrate, era nato ad Abdera, in Tracia, intorno al 460 a.C. ed è morto intorno al 370. Ha scritto opere di matematica, fisica, etica, musica, ma della sua vasta produzione non restano che i titoli, qualche frammento e le testimonianze di suoi contemporanei e di alcuni seguaci.
Per Democrito tutte le cose sono costituite da atomi separati gli uni dagli altri da spazi vuoti. Gli atomi sono piccolissime particelle di materia assolutamente compatte, impenetrabili (atomo in greco significa appunto «indivisibile», da a privativo e dal verbo témno = «taglio»), indeformabili, che si muovono continuamente nel vuoto, più o meno come fanno i corpuscoli di polvere che si vedono in un raggio di sole.
Muovendosi nel vuoto gli atomi si urtano, rimbalzano, cambiano velocità e direzione. Questi urti ripetuti finiscono per provocare delle correnti vorticose dove gli atomi si addensano e si aggregano. Gli atomi sono eterni, ossia non hanno né principio, né fine e anche il loro movimento non ha mai avuto inizio e non finirà mai. I vortici al contrario si formano e si dissolvono in continuazione e con loro si formano e si dissolvono tutti i corpi esistenti nel nostro mondo (e negli altri infiniti mondi possibili).
I corpi, però, che sono costituiti di atomi, contengono anche innumerevoli spazi vuoti. L'esistenza di questi vuoti fa si che i corpi siano divisibili (quando si taglia una mela con un coltello la lama penetra avanzando nel vuoto che c'è tra atomo e atomo); allo stesso modo l'assenza di vuoto negli atomi (ossia la loro assoluta compattezza) spiega perché siano fisicamente indivisibili.
La materia (gli atomi) e lo spazio (il vuoto) sono i soli due principi postulati dalla teoria atomistica. Entrambi sono eterni, e immutabili, come l'Essere di Parmenide. Ma entrambi sono infiniti, a differenza dell'Essere di Parmenide: gli atomi sono infiniti di numero e lo spazio è illimitato. La materia di cui sono fatti gli atomi è la stessa ovunque, esattamente come nell'Essere di Parmenide, dato che la sua unica qualità è di occupare spazio e cioè di essere il pieno in contrapposizione al vuoto.
Gli atomi sono dunque omogenei (dal greco homogenes, composto di homo = «lo stesso» e génos = «genere»), ma non sono affatto uguali, in quanto differiscono l'uno dall'altro per forma, grandezza e posizione. Le differenze esistenti tra i corpi possono derivare soltanto dalla diversità nel numero, nella forma, nella grandezza o nella collocazione degli atomi di cui ciascun corpo è costituito. Forma, grandezza, posizione sono differenze quantitative, nel senso che possono essere espresse in numeri e figure geometriche. Tra i corpi però percepiamo anche differenze di altro genere: colori, odori, sapori, ecc. Secondo Democrito queste differenze (che chiameremo qualitative per distinguerle dalle altre) non esistono realmente, ma sono prodotte dai nostri organi di senso quando entrano in contatto con i corpi stessi. In altre parole, forma, grandezza e posizione sono attributi della materia (o, come anche si può dire, sono qualità primarie delle cose), mentre colori, odori, sapori sono qualità sensibili (o qualità secondarie), che noi percepiamo nei corpi, ma che non corrispondono a nulla di reale.

INFINITO

La parola latina infinitum, così come il suo equivalente greco apeiron, voleva dire letteralmente «senza fine» (nel senso di «senza confine», ma anche di «senza definizione») e poteva assumere due valori esattamente opposti, a seconda che prevalesse il significato di «non finito» (e perciò imperfetto), oppure quello di «privo di limiti» (di cui non si può concepire nulla di più grande, e perciò perfettissimo). L'assenza di limiti poteva essere riferita alla qualità (nel senso di informe o indefinito) oppure alla quantità (secondo il significato oggi corrente del termine «infinito»); in questo secondo caso poteva essere riferita all'estensione (infinitamente grande o infinitamente piccolo) oppure al numero.
Greci e Latini avvertivano con difficoltà la differenza tra «non finito» e «privo di limiti» e spesso attribuivano all'uno i caratteri dell'altro. L'apeiron di Anassimandro, che è la prima esplicita formulazione della nozione di infinito, conserva per intero l'ambiguità del termine: è senza limiti in relazione sia alla qualità (indefinito), sia alla quantità (infinito per estensione e per numero, giacché l'apeiron è illimitato e contiene un numero infinito di mondi). Anassimene postulava invece un principio infinito in ordine all'estensione, ma definito in ordine alla qualità: l'aria.
L'associazione dell'infinito con l'imperfezione è stata esplicitamente formulata dai Pitagorici: per loro l'infinito era il male, il principio stesso del disordine. Ma la radicale negazione dell'infinito doveva venire da Parmenide e da Zenone per i quali non solo l'infinito non esisteva, ma non si poteva neppure concepire. Anche in seguito i filosofi classici (salvo poche eccezioni) preferirono negare la realtà dell'infinito e immaginare l'universo come un mondo chiuso.
Solo gli atomisti, e quindi Democrito, accettarono l'idea di un universo senza limiti tornando anzi a ipotizzare (come già aveva fatto Anassimandro) un'infinita pluralità di mondi.

IL CASO E LA NECESSITŔ

Quasi all'inizio della Divina Commedia (precisamente nel quarto canto dell'Inferno) Dante racconta il suo incontro con le anime degli antichi filosofi greci che stanno nel Limbo. Tra loro Dante vede

... Democrito che 'l mondo a caso pone...

In verità questo verso di Dante ripete a distanza di secoli un giudizio che circolava frequentemente nell'età classica e tra gli stessi contemporanei di Democrito. Ma in che senso si può dire che Democrito pone il mondo «a caso»?
Per Democrito tutte le cose nascono da combinazioni di atomi. Ma gli atomi si combinano insieme non perché siano guidati da un Dio o da una forza intelligente come la Mente immaginata da Anassagora, né perché esista tra di loro una relazione di amore-odio come quella immaginata da Empedocle: unioni e separazioni sono semplici conseguenze meccaniche degli innumerevoli urti a cui gli atomi sono soggetti nel loro movimento.
Questo eterno movimento degli atomi a sua volta non ha alcuno scopo, né alcuna direzione determinata. Democrito, infatti, assume che gli atomi si muovono, e che si muovono a caso (cioè in tutte le direzioni), semplicemente perché non c'è nessuna ragione per immaginare che debbano stare fermi o che debbano muoversi solo in certe direzioni e non in altre.
Il mondo, dunque, è posto «a caso», nel senso che non ha alcuno scopo e non rientra in alcun disegno «razionale» (come sarebbe invece se lo si immaginasse prodotto dalla volontà di un Dio o dall'azione di una forza intelligente, come la Mente di cui parlava Anassagora). Ma escludere qualsiasi disegno divino non significa affatto negare l'esistenza nella natura di una razionalità, di un ordine e di leggi. Al contrario, nella dottrina atomistica il Caso coincide con la Necessità.
Ammessa l'esistenza degli atomi e del vuoto, infatti, tutto il resto scaturisce di conseguenza, secondo una ragione rigorosa. Proprio per questo, per spiegare l'esistenza e la razionalità del mondo non è più necessario ricorrere all'intervento di un Dio o all'azione di una forza intelligente: nella dottrina atomistica l'uno e l'altra sono diventate ipotesi inutili.

LA MEDICINA ANTICA

Nei poemi omerici le frequenti descrizioni di ferite, fratture o contusioni risultano così precise da far supporre un corpo ormai consolidato di conoscenze e pratiche mediche, almeno in relazione ai traumi da combattimento. La medicina non era ancora però una professione specializzata: nell'Iliade si parla di guaritori, non di medici e lo stesso Asclepio (più noto con il nome latino di Esculapio) era ricordato come eccellente guaritore Macaone, ma non ancora come il Dio della medicina.
La nascita del culto di Esculapio è più tarda e coincise, nei santuari a lui dedicati, con una prima professionalizzazione della pratica medica, nella quale per altro la guarigione del malato era affidata all'azione congiunta di tecniche magiche, di metodi terapeutici di origine empirica, di forme di esaltazione religiosa e di autosuggestione.
L'esercizio della medicina restò a lungo una prerogativa dei sacerdoti e delle sacerdotesse, sebbene nei santuari di Esculapio fossero ospitati anche medici «laici», che erano contemporaneamente al servizio del Dio e dei malati. Le scuole mediche prosperavano nelle vicinanze dei templi dove il grande afflusso di malati permetteva agli allievi di farsi una ricca esperienza: nel V secolo a.C. c'erano scuole a Crotone, Cirene di Rodi, Cnido e Coo.
Alla scuola di Coo è legato il nome di uno dei più grandi medici di tutti i tempi: Ippocrate. Nato a Coo intorno al 460 a.C. e morto a Larissa dopo il 375, Ippocrate è considerato non a torto il fondatore della medicina classica. Egli si impadronì delle conoscenze accumulate dalle generazioni precedenti non solo in Grecia, ma in Egitto e in Mesopotamia, le emancipò dalle pratiche magiche e religiose con cui erano mescolate nelle scuole sacerdotali, e le organizzò in una vera e propria disciplina scientifica.
A Ippocrate sono state attribuite una quantità di opere mediche (il cosiddetto Corpus hippocraticum) tutte scritte tra il V e il IV secolo a.C., nessuna delle quali però può essere considerata sua con sicurezza. Negli scritti detti ippocratici si trovano accurate descrizioni delle malattie e indicazioni terapeutiche largamente ispirate al buon senso. Il criterio di fondo è che la guarigione è opera della natura stessa e che il medico deve limitarsi a collaborare con essa. Un'idea ricorrente è che le azioni terapeutiche devono avere qualità opposte a quelle degli agenti della malattia: le malattie da raffreddamento si curano con il caldo, le indigestioni con il digiuno e le purghe, e così via.
Dal punto di vista del metodo le caratteristiche fondamentali della scuola ippocratica erano l'assoluta priorità assegnata nella pratica medica all'osservazione diretta del malato (e cioè a quello che sarà chiamato l'approccio clinico alla malattia) e l'attenzione per la malattia come evento complesso. La malattia nella tradizione ippocratica era considerata un'alterazione dell'intero organismo e non di una sua parte isolata, ed anzi, più in generale, un'alterazione dell'equilibrio tra il singolo organismo e l'ambiente esterno (clima, venti, natura del suolo e dell'acqua, ecc., ma anche consuetudini sociali e rapporti interpersonali).
Sulla nozione di equilibrio (o armonia) era fondata anche la teoria degli umori che considerava gli organismi umani come combinazioni di quattro fluidi: sangue, flegma, bile nera e bile gialla. L'armonia degli umori era la condizione che garantiva la salute, mentre ogni loro scompenso era causa di malattie.
La teoria umorale si ricollegava alla dottrina degli elementi di Empedocle (e di Aristotele). Stabiliva infatti precise corrispondenze tra i quattro umori del corpo umano e i quattro elementi dell'Essere (e le qualità rispettive): il sangue, che si riteneva prodotto dal cuore, era messo in relazione con il fuoco (e il caldo), il flegma, prodotto dal cervello, con la terra (e il freddo), la bile gialla, prodotta dal fegato, con l'aria (e il secco), e la bile nera, prodotta dalla milza, con l'acqua (e l'umido).
La combinazione degli umori non avveniva in tutti gli organismi nelle stesse proporzioni ed anzi la teoria umorale individuava diversi tipi umani caratterizzati da miscele o temperamenti diversi dei fluidi vitali: il sanguigno, il collerico, il flemmatico, il melanconico. Come i temperamenti, anche le malattie venivano raggruppate in classi diverse a seconda che a causarle fosse stata la sovrabbondanza di sangue, di flegma, di bile gialla o di bile nera. Più pericolosi venivano considerati gli eccessi di bile (causa di pazzia) e gli eccessi di flegma (causa di epilessia).
La teoria umorale, soprattutto nella formulazione che ne avrebbe dato Galeno nel secondo secolo d.C., doveva ispirare le ricerche mediche in Occidente per oltre un millennio e influenzare, direttamente o indirettamente, le discipline psicologiche e antropologiche: non è un caso che la terminologia relativa agli umori è penetrata nel linguaggio comune, dove è ancora usata correntemente. La pratica del salasso, così diffusa fino al secolo scorso, trovava il suo fondamento teorico nella dottrina degli umori, nel senso che era il rimedio indicato contro l'eccesso di sangue. Per converso quella stessa pratica forniva alla teoria umorale abbondanti materiali di osservazione che sembravano confermarla.
L'Iliade ricorda Esculapio come un eccellente guaritore


ESCULAPIO

Secondo Esiodo Asclepio (in latino Esculapio) era figlio di Apollo, il dio del Sole, e della ninfa Coronide. Aveva appreso la medicina dal centauro Chirone (il maestro di Achille e di Giasone) ed era diventato così bravo in questa disciplina che sarebbe riuscito a resuscitare i morti. Questa sua abilità metteva però in pericolo l'ordine del mondo quale era stato definito una volta per tutte e Zeus fu costretto a intervenire folgorandolo. In Esiodo e Omero, dunque, Esculapio non era ancora un Dio, ma un mortale. Il culto di Esculapio come Dio della medicina nacque in Tessaglia, ma si diffuse presto in tutto il mondo greco. In Roma fu introdotto solo nel III secolo a.C. Era consuetudine che coloro che erano guariti da una malattia sacrificassero ad Esculapio un gallo: il gallo annuncia il nuovo giorno, così come la guarigione è l'annuncio di una nuova vita.

CLAUDIO GALENO

Nato a Pergamo, in Asia Minore, nel 129 d.C. studiò medicina prima nella sua città natale, poi a Smirne e infine ad Alessandria. Nel 157 tornò a Pergamo dove divenne, tra l'altro, medico del collegio dei gladiatori, il che gli permise di esercitare e di perfezionare la sua abilità di chirurgo. Nel 161 o 162 si stabilì a Roma dove divenne celebre. Nel 166, in coincidenza di una gravissima epidemia di peste, lasciò la capitale dell'impero per esservi richiamato poco dopo quale medico dell'imperatore Marco Aurelio. Morì nel 201.
Oltre ad alcune centinaia di trattati di medicina, igiene e farmacologia (molti dei quali perduti), Galeno ha scritto diverse opere di filosofia, logica e retorica e tra l'altro un Trattato sulla dimostrazione scientifica di cui purtroppo non restano che frammenti. Le sue opere più famose, il Metodo terapeutico e l'Arte medica nota l'una come Ars magna e l'altra come Ars parva, sono state una specie di Bibbia per i medici del Medio Evo. È a Galeno che si deve la classica formulazione della teoria degli umori e il suo collegamento alla fisica aristotelica dei quattro elementi: fuoco, aria, terra, acqua, e delle quattro qualità: caldo, freddo, secco, umido, che in sostanza si rifaceva alle teorie di Empedocle. Filosoficamente Galeno era un eclettico, ossia non aderiva a nessuna scuola in particolare, ma sceglieva tra i diversi sistemi di pensiero le dottrine che gli apparivano più probabili. I pensatori che lo hanno maggiormente influenzato sono stati Platone, Aristotele e gli Stoici.

TEMPERAMENTO

Temperare vuol dire «mescolare in giuste proporzioni» e quindi anche moderare, mitigare e simili. Nella parola «temperamento», usata correntemente per indicare l'insieme delle caratteristiche fisiche e soprattutto psichiche di una persona, il significato originario è proprio quello di miscela. Secondo la teoria umorale, infatti, dalla quale il termine è entrato nel linguaggio comune, il temperamento di ciascuno è dato dalla peculiare proporzione in cui si combinano i fluidi vitali.
La teoria elencava quattro temperamenti, a seconda dell'umore prevalente. Il temperamento sanguigno, è caratterizzato da complessione pletorica (ossia da sovrabbondanza di sangue), aspetto florido e corpulento, faccia rubiconda, carattere esuberante ed espansivo. Il temperamento flemmatico (dal greco phlegma = «infiammazione»), caratterizzato da lentezza di riflessi e da indolenza (la flemma, al femminile, significa appunto eccesso di pacatezza), prende nome dal flegma, l'umore biancastro freddo e vischioso associato al cervello. ll temperamento collerico prende nome dalla bile (in greco cholé = «bile», «fiele»), mentre quello malinconico, caratterizzato da frequenti stati di depressione, apprensione, angoscia, prende nome dalla bile nera o atra bile (in greco melas = «nero» e cholé= «bile»). Bile e atra bile erano probabilmente lo stesso umore: la bile infatti è gialla se fresca, ma all'aria assume un colore scuro.

I SOFISTI

Il termine «sofista» ha oggi esclusivamente un significato negativo: sofista o sofistico è chi in una discussione vuole aver ragione a tutti i costi e ricorre a cavilli e a sottigliezze capziose. In origine però «sofista» era l'appellativo dell'uomo dotto, sapiente, abile nel parlare e nel fare (che è appunto il significato del verbo sophizestai); e Sofisti vollero chiamarsi coloro che, nel V secolo a.C., presero a girare da una città all'altra della Grecia offrendosi come maestri ai giovani disposti a pagare per imparare la «pazienza» (sophia) di cui si dicevano portatori. Proprio questa loro abitudine di farsi pagare fu una delle ragioni per le quali il termine «sofista» finì con l'assumere una connotazione negativa: erano degli educatori, si, ma prezzolati. Un'altra ragione della cattiva fama che si sono fatti sta nel contenuto del loro insegnamento, che nei confronti della tradizione religiosa appariva pericolosamente spregiudicato, se non addirittura fonte esplicita di ateismo e di miscredenza. Un'ultima e decisiva ragione è il discredito che Platone gettò a piene mani su di loro, indicandoli come mistificatori e falsi dialettici, maestri solo nell'arte di contraddire. Platone, però, pensava soprattutto ai Sofisti della seconda generazione, suoi contemporanei e spesso allievi, come lui, di Socrate; nei confronti dei primi grandi sofisti (come Protagora o Gorgia entrambi nati nel secondo decennio del quinto secolo) non mancò, invece, di esprimere apprezzamento.
I Sofisti non costituivano propriamente una «scuola» filosofica e non avevano un nucleo comune di dottrine: il contenuto dell'insegnamento che impartivano variava dall'uno all'altro. Tutti però si dichiaravano «maestri di virtù» e come tali rivendicavano un'importante funzione sociale. Nella Grecia delle città-stato, spesso rette da regimi democratici o comunque a larga partecipazione di cittadini, la virtù che insegnavano era in primo luogo la virtù politica, e cioè l'abilità dialettica, la capacità di orientare l'opinione della gente e di dominare le assemblee. Talvolta questa capacità era intesa in senso meramente tecnico e strumentale, come semplice arte oratoria; altre volte, invece, adombrava qualcosa di più complesso e di più difficilmente definibile, che oggi chiameremo «cultura», e cioè quella somma di nozioni, di valori e di esperienze che permette di capire e di farsi capire, di orientarsi nelle situazioni più diverse, di cogliere agevolmente la sostanza dei problemi. In ogni caso era nel sapere (e non nella nascita o nella forza) che i Sofisti indicavano il solo titolo legittimo all'esercizio del potere.
È facile capire come in questa prospettiva eminentemente politica e sociale l'insegnamento dei Sofisti destinasse solo scarsa attenzione ai problemi della natura, dell'ordine cosmico, dell'origine del mondo. Questo relativo disinteresse per questo genere di problemi che, come nel caso di Anassagora, potevano indurre la ragione a penetrare negli inviolabili recinti del sacro, avrebbe dovuto tranquillizzare i conservatori religiosi. In qualche caso ebbe proprio questo effetto. Ma in generale il disinteresse per le cose della religione appariva l'anticamera dello scetticismo e qualche volta lasciava trasparire il disprezzo. Protagora dichiarava di non saper nulla degli Dei, e di non poter dire né che esistessero, né che non esistessero; e aggiungeva (forse con una punta di sarcasmo) che all'accertamento della cosa si opponeva «l'oscurità del soggetto e la brevità della vita umana». Prodico di Ceo (pressappoco coetaneo di Socrate e di Democrito, e perciò di una ventina d'anni più giovane di Protagora) spiegava la nascita della religione nella storia dell'umanità come effetto dell'ingenua divinizzazione prima delle forze e delle manifestazioni benefiche della natura, e poi delle arti e delle tecniche utili alla vita associata.
A parte lo specifico problema religioso, i Sofisti apparivano in ogni campo seminatori di dubbi. Di certo, se non scetticismo (che è sfiducia nella possibilità di arrivare comunque ad una verità), i Sofisti diffondevano un certo relativismo, un atteggiamento, cioè, di diffidenza verso asserzioni drastiche e principi assoluti, e di attenzione per la molteplicità degli approcci e dei punti di vista possibili nel trattare qualsiasi questione. Confluivano in questo atteggiamento esperienze diverse: quella tutta interiore dell'ambiguità del destino umano, rilevata con forza già dai grandi tragici greci a partire proprio dai tradizionali miti religiosi, che costituivano il materiale narrativo delle loro tragedie; quella del diverso significato e del diverso valore, messo in luce da storici e viaggiatori, che le stesse, identiche cose assumono presso popoli diversi o in circostanze diverse (sicché, ad esempio, mangiare carne umana è considerato un delitto orribile in Grecia, e un'ottima cosa tra gli Antropofagi); quella, emergente soprattutto dalla pratica giudiziaria, delle contrastanti versioni che di uno stesso fatto possono essere date (per esempio dai testimoni o dalle parti in causa), tutte parziali, ma anche, in qualche modo, tutte «vere».
La coscienza che per ogni esperienza esistono due possibili discorsi in contrasto tra di loro e che questi due discorsi opposti sono entrambi veri era il punto di partenza di tutta la riflessione di Protagora. Al malato - diceva - i cibi «risultano» disgustosi e lo «sono» davvero, mentre per l'uomo sano «sono» buoni, perché così li sente. Non avrebbe alcun senso dire che il malato ha torto e il sano ha ragione, o che questo «sa» (è sapiente) e quello «non sa» (è ignorante). Hanno ragione entrambi, ciascuno in rapporto alla propria condizione.

... L'uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono per ciò che sono e di quelle che non sono per ciò che non sono...

La materia è fluttuante e le sensazioni dell'uomo (di ciascun uomo) mutano continuamente: il fluire delle sensazioni determina l'essere delle cose. Non si può dire che la sensazione dell'uomo sano sia «vera» e che quella del malato sia «falsa», giacché tutte le sensazioni sono vere. Ma l'uomo può dominare le sue esperienze e cioè può trasformare le condizioni dell'esperienza: come la condizione del sano è preferibile a quella del malato, così tra due discorsi contrastanti ce n'è sempre uno migliore dell'altro; e come rientra nelle competenze del medico trasformare lo stato di malattia in quello di salute, così è compito e abilità del Sofista (ossia del saggio) far prevalere il discorso migliore.
Più vicino a posizioni scettiche, almeno in un certo momento della sua vita, fu l'altro grande rappresentante della sofistica, Gorgia di Lentini, che era stato allievo di Empedocle. Morto ultracentenario intorno al 390 a.C., Gorgia indicava il segreto della sua longevità nella sua indipendenza di spirito e si vantava di non aver mai fatto nulla per adulare o compiacere qualcuno. Pare che in gioventù, come allievo di Empedocle, si fosse occupato di studi naturalistici e che in un secondo momento avesse attraversato la cosiddetta «crisi eristica» (eristica, da erizein = «contendere», è l'arte di disputare mediante sottigliezze capziose, secondo il significato deteriore del termine «sofistica»), che è documentata dal celebre trattato Sul non ente, ovvero sulla natura (un titolo che era davvero tutto un programma). Rifacendosi al modello della dialettica di Zenone, Gorgia tentava di dimostrare, confutando gli argomenti di chi sosteneva il contrario, 1) che nulla esiste; 2) che se qualche cosa esiste, non si può conoscere; 3) che se qualcosa esiste e si può conoscere, non può essere comunicata ad altri.
Resta il dubbio se questo trattato intendesse davvero essere una manifestazione di nichilismo filosofico (dal latino nihil = «nulla»: radicale negazione della realtà e confutazione dei sistemi filosofici che pretendono di darne un'interpretazione) o se semplicemente volesse essere un'esercitazione dialettica, un modello di argomentazione paradossale. Questa seconda ipotesi sembra più probabile: in effetti Gorgia è soprattutto ricordato dagli antichi come un abilissimo retore, capace, dice Platone, «di far apparire grandi le cose piccole e piccole le grandi con la sola forza del suo discorso». Ma con la retorica, ossia l'arte della persuasione (dall'antica radice rhe = «dire»), si torna alla fondamentale ispirazione politica di tutta la sofistica.

PROTAGORA

Le notizie sulla vita di Protagora, sono piuttosto incerte: era nato ad Abdera, in Tracia, intorno al 486 a. C. Da Platone (che, nonostante la sua avversione per i sofisti, nutriva grande ammirazione per Protagora tanto da dedicargli uno dei suoi Dialoghi) sappiamo che si recò in Sicilia e più di una volta ad Atene, dove strinse amicizia anche con Pericle. Lo storico greco Diogene Laerzio riferisce di molti scritti di Protagora tra i quali si distingue per importanza il trattato intitolato La Verità: gli altri sono oggi generalmente considerati come diverse sezioni di una stessa opera in due libri, intitolata Antilogie (dal greco antilogìa = «contraddizione»). La prima di queste sezioni era costituita dallo scritto Intorno agli dei, di cui è stato tramandato il celebre frammento:

... Quanto agli dei, non ho modo di constatare né che sono, né che non sono, opponendosi a ciò molte cose: l'oscurità del soggetto e la brevità della vita umana...

Proprio a causa di questa affermazione, Protagora fu accusato, nel 411 a.C., di empietà ed ateismo dal tribunale ateniese, il quale ordinò che tutti i suoi scritti fossero radunati nell'agorà e bruciati. In seguito alla condanna, forse bandito dalla città di Atene o forse in fuga, morì nel naufragio dell'imbarcazione che lo portava in Sicilia.

«CHI HA UCCISO EPITIMO DI FARSALO?»

Tipica espressione della ricerca sofistica è la discussione tra Protagora e Pericle, di cui dà notizia Plutarco (e che, a detta dello stesso Plutarco, si sarebbe protratta per un'intera giornata), a proposito della morte di un giovane, Epitimo di Farsalo, trafitto per errore durante una gara di lancio del giavellotto.
Si trattava di stabilire chi avesse effettivamente provocato la morte di Epitimo, se il giavellotto, l'atleta che lo aveva lanciato, o i commissari di gara che non avevano preso adeguate misure di sicurezza.
A pensarci bene, tutte e tre le risposte sono giuste, o, meglio, la risposta giusta cambia a seconda della persona a cui viene rivolta la domanda.
Se il quesito viene posto a un medico legale (e cioè sotto il profilo della dinamica reale degli avvenimenti) la risposta non può che essere: il giavellotto. Se è posto a un giudice (e cioè sotto il profilo della responsabilità penale) la risposta non può che essere: l'atleta.
Se posto al direttore dei giochi (e cioè sotto il profilo delle responsabilità amministrative) la risposta non può che essere: i commissari di gara.

SOCRATE

Socrate è nato nel 469 ad Atene ed è morto, giustiziato per ateismo, nel 399 a.C. Bruttissimo ma affascinante, pieno di amici e ancora più di nemici, Socrate girava le strade di Atene seminando nei giovani stimolanti dubbi filosofici e sgretolando la sicumera di quanti professavano presuntuose certezze.
Socrate non ha mai scritto nulla, anche perché riteneva di non avere nulla da tramandare ai posteri, salvo forse un certo modo di affrontare i problemi; e questo modo, che consisteva in una caratteristica tecnica di dialogare (ossia di discutere per via di domande e risposte), si poteva insegnare ai giovani solo parlando con loro, interrogandoli e costringendoli a interrogarsi incessantemente su ogni cosa.
Così, però, per conoscere il pensiero di Socrate dobbiamo rifarci a quello che ne hanno scritto i contemporanei, e in primo luogo Senofonte (autore, tra l'altro, dei Detti memorabili di Socrate) e Platone (autore dei Dialoghi), che erano stati suoi allievi ed amici. Ma le testimonianze che ci sono rimaste coincidono solo in parte. Senofonte, ad esempio, dà un'esposizione assai superficiale dell'insegnamento socratico, mentre Platone, che superficiale non era, spinge il suo amore per il maestro al punto di nascondersi dietro di lui: nei Dialoghi il protagonista è quasi sempre Socrate, ma è difficile capire quando i discorsi che gli sono attribuiti riflettono davvero il suo pensiero e quando invece esprimono le idee di Platone.
In ogni caso la grandezza di Socrate non è legata ad alcuna dottrina. Per lui filosofare non significava costruire teorie generali dell'universo sul genere di quelle proposte dai filosofi naturalisti. Almeno in questo Socrate condivideva l'atteggiamento dei Sofisti, che, scettici circa la possibilità di conoscere qualcosa di sicuro intorno al mondo, ritenevano più producente occuparsi dell'uomo e della società.
Ma anche in questo campo, ossia nel campo della politica o della morale, Socrate non aveva teorie definite. Si limitava ad esprimere l'esigenza di una definizione rigorosa di nozioni come il bene e il male, il giusto e l'ingiusto, la santità e l'empietà, che tutti assumono come valori (ossia come criteri per giudicare le proprie azioni e quelle degli altri), ma sul cui significato ben pochi hanno riflettuto seriamente. Quanto a lui, si guardava bene dal formulare quelle definizioni che pretendeva dagli altri: la ricerca della definizione gli interessava molto di più della definizione stessa.
A questo proposito Socrate diceva che il suo compito era simile a quello delle levatrici: come le levatrici erano solitamente scelte in Atene tra le donne sterili, così lui, Socrate, era sterile intellettualmente, ossia incapace di produrre verità. Ma come le levatrici sono in grado di aiutare la donna gravida a partorire, così lui era in grado di far venire alla luce la verità che ogni uomo ha dentro di sé, e che ognuno potrebbe attingere da solo, senza bisogno di guide e maestri, se soltanto fosse disposto a interrogare con sincerità la propria coscienza.
Socrate, dunque, faceva pubblica professione di ignoranza: «questo solo so di sapere: - diceva - che non so niente». Nello stesso tempo, però, sosteneva di essere più sapiente di tutti i cosiddetti sapienti, perché questi, di cui aveva lungamente messo alla prova le conoscenze, credevano di sapere tutto e non sapevano nulla, mentre lui non sapeva nulla, ma almeno sapeva di non sapere.
L'ignoranza ostentata da Socrate era insomma una provocazione (si parla di «ironia socratica») diretta contro quanti, presumendo di conoscere la verità, la insegnavano, la predicavano, e ne facevano, per così dire, commercio: sacerdoti, maghi, indovini e cattivi maestri d'ogni sorta, compresi naturalmente molti uomini politici. Fingendo di voler essere istruito da loro, Socrate li induceva ad esibire la propria «mercanzia» e così aveva agio di dimostrare, al termine di assillanti interrogatori, che si trattava solo di volgare paccottiglia.
Già questo atteggiamento di Socrate, mentre entusiasmava i giovani per quello che aveva di dissacrante, doveva riuscire assai indisponente per chi ne rimaneva vittima. Ma la cosa forse più irritante in lui era la pretesa di demolire verità comunemente e pacificamente accettate, senza avere alcuna nuova verità da proporre al posto delle vecchie.
I benpensanti di tutte le epoche sono intellettualmente troppo pigri per rinunciare a certezze precostituite e per cercare da soli la verità. Socrate urtava la suscettibilità dei benpensanti del suo tempo non tanto perché confutava le loro antiche credenze (anche molti sofisti lo facevano, ed erano per lo più non solo tollerati, ma onorati per la loro abilità dialettica), quanto perché non aveva una sua verità da esibire e da «vendere». La sua filosofica ignoranza era ciò che lo rendeva irriducibilmente diverso dagli altri e perciò, anche, potenzialmente pericoloso: agli occhi dei benpensanti era un miscredente.

SOCRATE E IL CONCETTO

In senso generale il concetto è la nozione che la mente si fa di una cosa (per es., «il concetto di bello») oppure di una serie di cose (per es., «il concetto di albero», che comprende tutti gli alberi esistenti, esistiti o immaginari). Più precisamente il concetto è l'insieme dei caratteri capaci di definire senza equivoci una cosa o una serie di cose.
Nel Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli alla voce «Albero» si trova la seguente definizione: «ogni pianta con fusto eretto e legnoso che nella parte superiore si ramifica». Il concetto di albero, dunque, secondo lo Zingarelli, comprende quattro caratteri, e cioè: 1) pianta, 2) legnosa, 3) d'alto fusto, 4) con rami.
L'insieme dei caratteri che costituiscono la definizione si dice comprensione del concetto (il concetto di albero comprende quattro caratteri). L'insieme delle cose che possono essere definite da quei caratteri si dice estensione del concetto. Minore è la comprensione di un concetto, maggiore è la sua estensione e viceversa. Il concetto di albero ha una comprensione maggiore del concetto di pianta (perché comprende tre caratteri in più: legnoso, d'alto fusto e ramificato), ma ha un'estensione minore (perché il concetto di pianta si estende non solo agli alberi, ma anche ai cespugli, alle erbe, ecc.).
Aristotele dice di Socrate che fu l'inventore del concetto. È un'affermazione che richiede qualche precisazione. Senza dubbio Socrate esigeva dai suoi interlocutori che dessero una definizione rigorosa di ciò di cui parlavano. Ma, in primo luogo, a Socrate non interessavano affatto i concetti del tipo «cavallo» o «albero», ossia i concetti che si estendono ad un'intera classe di cose, e si preoccupava di definire solo cose come «il bene», «il giusto», «il santo», «il coraggio», «la temperanza», ecc. In secondo luogo, Socrate con la sua tecnica del dialogo ha indicato una strada per la formulazione di concetti e per la costruzione di una scienza fondata su definizioni rigorose, ma non ha mai intrapreso davvero una tale costruzione, preferendo indirizzare i propri sforzi alla confutazione del falso sapere.

PROCESSO A SOCRATE

Socrate fu condannato a morte sotto l'accusa di corrompere i giovani insegnando loro cose contrarie alla religione dello Stato. Si dice di solito che tale accusa era infondata, che Socrate probabilmente credeva negli Dei e che, in ogni caso, era troppo rispettoso delle leggi dello Stato, per non rispettare anche le credenze e i culti che queste leggi imponevano agli Ateniesi. Può darsi che sia vero. Di sicuro gli accusatori di Socrate sbagliavano quando (forse per malafede, ma più probabilmente per stupidità) attribuivano a Socrate le dottrine di Anassagora sulla costituzione dei corpi celesti, verso le quali Socrate aveva sempre dimostrato il più assoluto disinteresse.
Ciò non toglie, però, che gli accusatori di Socrate, coscienziosi paladini della religione e della morale, avevano capito la cosa essenziale: e cioè che una filosofia come quella di Socrate - un esame costante della propria coscienza, un dialogo continuo con gli altri, la revisione incessante delle certezze raggiunte era incompatibile con qualsiasi «verità» ufficiale, non importa se di natura religiosa, morale o politica.
Ci si può chiedere come mai un processo condotto di fronte a un tribunale popolare nel pieno rispetto delle garanzie che il regime democratico ateniese assicurava ad ogni cittadino abbia potuto confermare simili accuse e concludersi con una condanna a morte. Come si è visto, però, non era la prima volta, e non sarebbe stata l'ultima, che in Atene l'accusa di ateismo veniva rivolta a dei filosofi. Per di più la democrazia ateniese era stata umiliata dalla gravissima sconfitta subita nella guerra contro Sparta, e ancor più di recente aveva dovuto subire il regime detto dei Trenta Tiranni, una breve ma crudele esperienza di governo aristocratico: forse era troppo debole e insicura per fare a meno di «verità» ufficiali, e per sopportare irritanti manifestazioni di individualismo.
Come racconta Platone nell'Apologia di Socrate («apologia» in greco significa appunto difesa) Socrate si difese in modo ammirevole durante il processo: rivendicò i propri meriti di pensatore e di uomo onesto, mostrò la povertà morale e intellettuale dei suoi detrattori, sfidò l'assemblea che doveva giudicarlo ad assumersi la responsabilità di mandarlo a morte. Probabilmente il processo si sarebbe concluso senza alcuna condanna, o con una condanna assai meno severa, se soltanto Socrate si fosse mostrato più conciliante: quel che gli avversari volevano era la sua umiliazione, non la sua morte. Ma Socrate parlò con disprezzo di quanti, imputati di fronte all'assemblea, tentavano di commuoverla con pianti e preghiere, e lasciò intendere che un tribunale che anziché dispensare giustizia pretendeva di concedere grazie tradiva la sua funzione. Infine proclamò la volontà di continuare a fare quel che aveva sempre fatto, e che - diceva - gli era ordinato da quel Dio (o «demone», come preferiva chiamarlo) a cui non aveva mai disobbedito: la sua coscienza. Con ciò lasciava intendere che anche la democrazia ha i suoi limiti e che le questioni di coscienza non si possono rimettere al voto di un'assemblea.
Socrate fu riconosciuto colpevole. Al momento di proporre, secondo la procedura allora in uso, una pena alternativa a quella di morte richiesta dall'accusa, Socrate riuscì ad inasprire ancora di più i suoi giudici chiedendo inaspettatamente di essere non punito, ma onorato quale benefattore della patria. - Cittadini di Atene! - disse - se proprio devo avere quel che merito, allora mi ci vuole un premio! - Il risultato fu che l'assemblea votò per la pena di morte con una maggioranza ancora più consistente di quella, piuttosto striminzita, che in precedenza aveva riconosciuto la colpevolezza di Socrate. Mentre Socrate attendeva in carcere l'esecuzione della sentenza, gli amici - come racconta Platone nel Critone - trovarono il modo di farlo fuggire, forse con la tacita connivenza delle autorità, per le quali la morte di un personaggio così noto era sicuramente imbarazzante. Ma quando tutto sembrava pronto, Socrate rifiutò di lasciare il carcere. Fuggire voleva dire violare le leggi di Atene sotto le quali aveva liberamente scelto di vivere, e cioè comportarsi in modo incoerente e opportunistico, come si vantava di non aver mai fatto. Fuggire avrebbe anche significato piegarsi a quei compromessi che già durante il processo gli erano stati offerti, e che aveva sdegnosamente respinto per inchiodare i suoi concittadini alle responsabilità che si erano assunti processandolo:

... E così, - aveva detto allora - io me ne vado a pagare il mio debito di morte, condannato da voi; e i miei accusatori se ne andranno a pagare il loro debito di iniquità e di infamia, condannati dalla verità. Io mi tengo la mia pena, e quelli si terranno la loro. E forse è bene che la cosa sia andata così; credo che sia la misura giusta per tutti...

Il Fedone, il dialogo che Platone ha dedicato al tema dell'immortalità dell'anima, si conclude con il racconto delle ultime ore di Socrate. Condannato a darsi la morte bevendo la cicuta, Socrate affronta la separazione dal proprio corpo senza emozione: una volta morto, quel corpo non gli apparterrà più, gli diventerà del tutto estraneo.

... Io, miei cari, non riesco a persuadere Critone che sono io questo Socrate che parla e dispone con ordine le sue parole; lui crede che io sia quello che di qui a poco vedrà morto, e naturalmente mi domanda come deve seppellirmi. [...] Io, quando avrò bevuto il veleno, non rimarrò con voi, ma partirò e me n'andrò via lontano da qui, beato tra i beati, [...] Critone stia con l'animo quieto, e vedendo arso il mio corpo e sepolto, non si affligga per me come s'io stessi soffrendo pene tremende, e non dica, al mio funerale, ch'egli mette in mostra Socrate, lo porta via, lo seppellisce. [...] Via, fatti animo, e non dire più che seppellirai me: dì che seppellirai il mio cadavere...

La morte è sempre, anche, la liberazione dai condizionamenti del corpo.
Nel caso di Socrate, poi, è una riaffermazione estrema di libertà: la morte diventa così una sorta di guarigione. Per questo, morendo, Socrate raccomanda di sacrificare un gallo ad Esculapio, come facevano quelli che scampavano ad una grave malattia.

... Ed egli passeggiava: e quando disse che le gambe gli si appesantivano, si mise a giacere supino; perché così gli aveva detto di fare l'uomo che gli aveva portato il veleno. E questi dopo un poco lo toccò e gli esaminò i piedi e le gambe; e poi, premendo un piede, gli domandò se sentiva. E Socrate rispose di no. E quello di nuovo gli premette le gambe, e, scorrendo in su con la mano, ci faceva vedere come si stesse raffreddando e irrigidendo. E di nuovo lo toccò, e ci disse che quando il freddo fosse giunto al cuore, allora sarebbe morto. Già le parti di giù attorno al ventre erano fredde, ed ecco, scoprendosi, perché si era coperto, disse queste parole, e furono le ultime: - Critone, dobbiamo un gallo a Esculapio: dateglielo, e non ve ne dimenticate -. - Sì - disse Critone - sarà fatto: ma vedi se hai altro da dire -. A questa domanda egli non rispose più. Ma, dopo un poco, si mosse; l'uomo lo scopri; ed egli restò con gli occhi aperti e fissi. E Critone, veduto ciò, gli chiuse le labbra e gli occhi...

DIALETTICA

Dialettica e dialogo derivano (come dialetto) dal greco dialègein = «parlare», «discorrere», e dialègesthai = «conversare». Dialettica è l'arte di disputare ossia di esaminare un problema per mezzo della discussione, per via di domande e risposte. Aristotele indicava in Zenone di Elea l'iniziatore di questo metodo, ripreso poi dai Sofisti. Il suo massimo rappresentante è stato senza dubbio Socrate. Per Platone la dialettica esprimeva l'autentico atteggiamento del filosofo, sempre aperto al dialogo e sempre disposto a rimettere in discussione le proprie certezze. In Platone emerge però anche un altro importante significato della parola: la dialettica è la capacità di individuare le idee che sono legate fra di loro da quelle che non lo sono. Essere e non-essere, ad esempio, al contrario di quanto affermavano gli Eleati che ne facevano due opposti irriducibili sono indissolubilmente legati giacché ogni idea è se stessa proprio in quanto non è nessuna delle altre: il non-essere, allora, è un concetto relativo, che esprime semplicemente la nozione di diversità di un'idea dalle altre, nella quale diversità consiste appunto l'identità dell'idea con se stessa.

MAIEUTICA

«Maieutica» è in greco l'arte della levatrice. Il termine è entrato stabilmente nel linguaggio filosofico per merito di Socrate, che, figlio di una levatrice diceva di svolgere per le anime lo stesso ruolo che sua madre svolgeva per le donne gravide. Come le levatrici non partoriscono, ma aiutano a partorire, così Socrate non produceva sapere, ma con le sue domande aiutava le anime a far venire alla luce quella verità che era maturata in loro. Ancora oggi il termine ha lo stesso significato: si dicono ad esempio maieutici quei metodi educativi che non impongono conoscenze già fatte, ma guidano gli allievi a cercare da sé le soluzioni dei problemi.

IL CONFLITTO TRA FILOSOFIA E RELIGIONE

Come abbiamo visto, l'accusa di empietà e ateismo era stata elevata per la prima volta in Atene contro Anassagora. Si era trattato di un episodio chiaramente legato allo scontro politico allora in corso all'interno del partito democratico tra l'ala moderata, rappresentata da Pericle, protettore di Anassagora, e quella estrema, che aveva promosso l'accusa. Quell'episodio aveva però segnato una svolta importante nella storia della cultura greca, perché aveva messo clamorosamente in luce la possibilità di un conflitto tra religione e filosofia, che fino a quel momento (anche per la fortunata assenza in Grecia di una vera e propria casta sacerdotale dotata di prestigio sufficiente ad influenzare il potere politico) avevano convissuto senza troppi problemi.
I filosofi greci, a cominciare dagli Ionici, nel tentativo di comprendere razionalmente quei processi che le antiche teogonie avevano simbolicamente raffigurato nelle imprese degli Dei, avevano (per così dire) «naturalizzato» i miti della religione. Ma poi avevano indagatola natura con spirito religioso: che espressioni come «il Dio» o simili servissero a indicare la natura e le sue leggi non era soltanto un modo di dire. Quei filosofi, in verità, erano così poco atei, che spesso si presentavano come riformatori religiosi, nell'intento di epurare il culto degli Dei dalle vecchie superstizioni (Eraclito, Senofane), oppure con l'ambizione di introdurre nuovi riti e nuove credenze (Pitagora). Alcuni di loro avevano adottato un linguaggio volutamente oscuro, enfatico, simile a quello degli oracoli (Eraclito, Parmenide). Altri si erano detti ispirati dagli Dei (Parmenide) o addirittura si erano spacciati per Dei o semidei (Pitagora, Empedocle).
In sostanza, almeno fino al V secolo a.C. nessuno aveva immaginato che ci potesse essere un'opposizione di principio tra filosofia e religione. Nessuno, anzi, era mai arrivato a porre una consapevole e rigorosa distinzione tra le due. Gradualmente, però, questa pacifica coesistenza era entrata in crisi per effetto congiunto del crescente scetticismo degli uomini colti e dell'insofferenza dei tradizionalisti nei confronti dei risultati talvolta sconcertanti della ricerca filosofica. Il processo ad Anassagora non è stato la causa di tale crisi; ne è stato però un sintomo evidente, ed ha segnato l'inizio di una pratica persecutoria di cui hanno fatto le spese, con conseguenze più o meno gravi, Protagora, Socrate e Aristotele. Platone, preoccupato per la frattura tra religione e filosofia che si andava approfondendo dopo l'uccisione di Socrate e che alla luce delle sue tendenze conservatrici doveva apparirgli particolarmente pericolosa, tentò di riconciliare credenze tradizionali e ricerca scientifica, superstizione e ragione, suggestioni misteriche e pensiero speculativo; ma la cosa poteva riuscirgli solo a patto di tornare a chiudere la speculazione nel recinto della teologia, e cioè solo dando ragione in qualche modo agli avversari.
Al conflitto tra religione e ragione Plutarco ha dedicato una pagina interessante, che sottolinea tra l'altro come tra gli studi filosofici fossero proprio le ricerche astronomiche a suscitare maggiore sospetto:

... Anche il popolino è in grado di capire che l'eclissi di Sole è provocata in qualche modo dalla Luna; ma la Luna che cosa incontra per oscurarsi, e come fa, da piena che era, a perdere la luce all'improvviso e a emettere luminescenze d'ogni colore? Non era facile venire a capo del problema, tanto che lo si riteneva un fenomeno miracoloso, e segnale di grandi sciagure mandate da Dio.
Il primo a esporre per iscritto la teoria più chiara e spregiudicata sui periodi lunari fu Anassagora, ma egli non aveva l'autorità che viene a uno scrittore dal tempo e la sua teoria era poco nota, ed anzi ancora segreta.
Solo poche persone la conoscevano e se la tramandavano con un certo sospetto, anzi che con fiducia. Gli scienziati o astrologhi, come li chiamavano, non erano visti di buon occhio dalla gente comune, perché riducevano l'azione di Dio nel mondo a cause naturali e irrazionali, a forze imprevedibili e a un determinismo assoluto.
Protagora fu mandato in esilio per questo motivo - Anassagora evitò per poco il carcere grazie all'intervento di Pericle - e Socrate benché non avesse alcun rapporto con questo genere di studi, perse ugualmente la vita a causa delle sue idee.
Solo più tardi la gloria radiosa di Platone, proveniente dalla sua vita non meno che dall'aver subordinato le leggi fisiche a quelle divine o trascendenti, spazzò via il sospetto da cui erano circondati questi studi e apri alle scienze una via per diffondersi tra la gente...

CINICI E CIRENAICI

Sulle orme di Socrate sono sorte diverse scuole che da lui riprendevano soprattutto il modello di una filosofia espressa più con le azioni che con gli scritti e fatta più di pratiche di vita che di dottrine. Le più importanti fra queste scuole furono quella dei Cinici, fondata da Antistene (c. 436 - c. 366 a.C.), che era stato allievo di Gorgia oltre che di Socrate, e quella dei Cirenaici, fondata da Aristippo di Cirene (c. 435 - c. 366 a.C.).
Per i Cinici (dal greco kynikòs = «canino»: erano detti così per alludere alla loro vita randagia, o forse al loro spirito mordace) la virtù consisteva nel vivere secondo natura, ossia nella massima semplicità possibile. Rinunciare al superfluo riducendo le proprie esigenze alla soddisfazione dei soli bisogni elementari era tra l'altro, secondo i Cinici, la condizione per conservare la libertà (autàrkheia = «autarchia», «autosufficienza») del filosofo; quella libertà, cioè, che è necessaria al filosofo per contestare non solo a parole, ma nei fatti, le frottole, le ipocrisie, le vacuità della cosiddetta vita civile. Il loro rabbioso disprezzo per le convenzioni sociali è stato largamente ripagato dai conformisti, la cui ostilità verso questi laceri e irritanti filosofi traspare ancora nel significato negativo che ha finito per assumere il termine «cinismo», che nell'uso corrente sta a indicare una forma di rivoltante indifferenza verso i valori, gli entusiasmi o le sofferenze degli altri.
Tra i filosofi cinici il più popolare, sia per la stravaganza dei suoi atteggiamenti, sia per il rigore delle sue idee, è sicuramente Diogene di Sinope. Diogene era assertore di una forma estremistica di comunismo, e predicava oltre alla comunione dei beni, quella delle donne e dei figli. Praticava l'indigenza per dimostrare l'inutilità della maggior parte dei beni considerati indispensabili in società e a forza di rinunce si era ridotto a vivere in una botte coperto solo di un mantello. L'unica suppellettile che si era concesso era una tazza per bere; ma rinunciò anche a questa quando vide un ragazzo raccogliere l'acqua da una fonte con le mani chiuse a coppa.
I Cirenaici prendono nome da Cirene, la città della Libia dove Aristippo, amico e allievo di Socrate, dopo la morte di questi aveva fondato la sua scuola. Mentre Antistene, caposcuola dei Cinici, condannava drasticamente la ricchezza in nome della virtù, Aristippo apprezzava il denaro e gli agi che questo poteva assicurare, tanto che, allontanandosi dall'esempio di Socrate, si faceva pagare dai suoi allievi. Come Antistene, però, anche Aristippo poneva al di sopra di tutto l'autonomia e la libertà: le ricchezze, diceva, valgono per servirsene, non per porsi al loro servizio, per possederle, non per esserne posseduti. I Cirenaici sono stati i primi teorici dell'edonismo (dal greco hedoné = «piacere»), ossia della dottrina che fa del piacere (fisico e morale) il fine e la norma della vita umana. Non tutti i filosofi cirenaici credevano però che il piacere si potesse davvero raggiungere o che, raggiunto, lo si potesse godere durevolmente. Ma il piacere poteva anche essere concepito come semplice assenza e soprattutto come cessazione del dolore. In questa direzione, una versione particolarmente pessimistica dell'edonismo cirenaico fu rappresentata nel IV secolo a.C. da Egesia, che insisteva sulla necessità di sottrarsi al dolore comunque, magari col suicidio (fu detto per questo «Persuasore di morte»). Sempre nell'ambito della scuola cirenaica una tendenza radicale, per certi aspetti affine alla contestazione dei Cinici, fu espressa sul finire del IV secolo a.C. da Teodoro l'Ateo, assertore di una assoluta libertà sessuale, e negatore dei valori della religione e della patria, cari ai conservatori. Per Teodoro la felicità non consisteva tanto nel piacere fisico (che anzi relegava, come il dolore, tra le cose indifferenti), quanto in quello morale: nella serenità dello spirito e nella gioia che scaturisce dall'esercizio quotidiano della giustizia.

DIOGENE E ALESSANDRO MAGNO

È notissimo l'aneddoto dell'incontro di Diogene con Alessandro Magno. Plutarco, nella vita di Alessandro, lo racconta così:

... Un congresso di diverse città greche convocato sull'Istmo votò di compiere una spedizione contro i Persiani insieme ad Alessandro e lo nominò comandante supremo.
Molti uomini politici e di cultura andarono ad incontrarlo e a congratularsi con lui e Alessandro sperò che anche Diogene di Sinope facesse altrettanto, dal momento che viveva a Corinto. Invece il filosofo non faceva il minimo conto di lui e se ne stava tranquillo nel sobborgo di Craneo. Alessandro andò allora da Diogene e lo trovò sdraiato al sole. Diogene a sentire tanta gente che veniva verso di lui, si sollevò un poco da terra e guardò in volto Alessandro. Questi lo salutò affettuosamente e gli domandò se c'era qualcosa che potesse fare per lui. - Oh, sì - rispose Diogene - Dovresti spostarti un po' dal sole -.
Dicono che Alessandro rimase molto colpito e ammirato dalla fierezza e dalla grandezza di quell'uomo.
Quando fu per ripartire, mentre intorno a lui la gente derideva Diogene e se ne faceva beffe, disse: - Io invece, se non fossi Alessandro, vorrei proprio essere Diogene -...

PLATONE

Nato nel 428 a.C., Platone apparteneva ad una delle più illustri famiglie di Atene. Alcuni suoi parenti furono coinvolti nel governo aristocratico dei Trenta Tiranni (404-403 a.C.). Anche il giovane Platone era stato invitato a parteciparvi, ma rifiutò perché disapprovava le violenze di cui i Trenta Tiranni si stavano rendendo colpevoli. Con la caduta dei Trenta e con il ritorno della democrazia Platone parve nuovamente incline a prender parte alla vita pubblica, ma di lì a poco sopraggiunse l'evento che lo allontanò per sempre dal regime democratico: il processo e la condanna di Socrate.
Platone coltivò per tutta la vita progetti di riforma politica a carattere aristocratico, che tentò anche di realizzare appoggiandosi, tra l'altro, ai tiranni di Siracusa, Dionigi il vecchio, e il figlio di questi, Dionigi il giovane. Con entrambi i rapporti furono burrascosi. Il primo fini per consegnarlo agli abitanti di Egina, che, essendo in guerra con Atene, lo catturarono e lo vendettero come schiavo: per sua fortuna l'acquirente lo restituì immediatamente a libertà. Il secondo oscillò sempre nei confronti di Platone tra ammirazione e sospetto e a due riprese lo trattenne presso di sé in stato di più o meno larvata prigionia.
L'evento decisivo nella vita di Platone fu comunque l'amicizia con Socrate, che incontrò intorno ai vent'anni. Pur svolgendo una ricerca del tutto originale, la fedeltà di Platone al pensiero di Socrate si riconosce facilmente nell'adozione del dialogo come forma prevalente delle sue opere e soprattutto nella concezione della filosofia come ricerca continua, mai compiuta.
In effetti Platone, se pure costruiva sistemi e dottrine, in cui spesso i suoi seguaci hanno cercato di rinchiuderlo, non mancava mai di rimetterli in discussione, di sottolinearne la problematicità, di cercare soluzioni alternative a quelle già indicate, secondo il più genuino insegnamento socratico. Gli studiosi di Platone hanno abbandonato il tentativo di definire «un» sistema di Platone e oggi sono piuttosto interessati a ricostruire lo svolgimento del suo pensiero, individuandone le fasi successive.
Ma già stabilire l'ordine in cui i vari dialoghi sono stati scritti non è facile. Sulla base soprattutto di considerazioni stilistiche si sono individuati nell'opera di Platone tre periodi. Nel primo Platone era impegnato principalmente nella difesa della figura e del pensiero di Socrate; risalgono a questo periodo, tra gli altri, l'Apologia di Socrate, il Critone e l'Eutifrone. Al secondo periodo, nel quale sono emersi alcuni temi tipicamente platonici, come la teoria delle idee e il modello di una società politica perfetta, appartengono il Fedone, il Convito, la Repubblica, ecc.
L'ultimo periodo è per certi aspetti il più interessante, perché rappresenta una fase di ripensamento delle idee precedentemente elaborate; ad esso appartengono, tra gli altri, il Teeteto, il Timeo e Le leggi, che è sicuramente l'ultimo dialogo composto da Platone. Oltre all'Apologia di Socrate, che non è propriamente un dialogo, l'opera di Platone è costituita da trentaquattro dialoghi e dodici lettere; non tutti i dialoghi sono però ritenuti autentici e delle lettere solo la VII e l'VIII sono attribuibili con certezza a Platone.

LA TEORIA DELLE IDEE

Secondo l'insegnamento di Socrate, da una serie di cose che presentano lo stesso carattere è sempre possibile risalire alla definizione di tale carattere. Così, da una serie di cose che diciamo belle (una ragazza, un paesaggio, un brano di musica, ecc.) è sempre possibile risalire al concetto di bellezza.
Ma quale tipo di esistenza dobbiamo attribuire alla bellezza? Esiste solo nelle cose che diciamo belle? oppure solo nella nostra mente che giudica le cose belle o brutte? oppure, ancora, esiste indipendentemente dalle cose e dalla nostra mente, sicché se noi scomparissimo e con noi scomparissero tutte le cose belle, la bellezza continuerebbe in qualche modo a esistere? Socrate probabilmente non si era neppure posto un problema del genere. In Platone, invece, questo doveva diventare il tema centrale della sua ricerca. A questo tema, tra l'altro, egli ricollegava le antiche questioni dell'Essere e del Divenire, dell'Uno e dei Molti, per le quali Socrate aveva mostrato scarsissimo interesse.
Le infinite cose di cui abbiamo esperienza, diceva in sostanza Platone, le conosciamo davvero solo se le definiamo, se ne formuliamo il concetto: vedo tanti cavalli, ma comprendo che cosa sono (e soprattutto riesco a comunicarlo agli altri) solo se raccolgo le impressioni avute alla vista di quei cavalli sotto l'idea generale di Cavallo, ossia, solo se riesco a definire la qualità di esser cavallo (la cavallinità, come la si potrebbe chiamare).
I cavalli di cui ho esperienza sono tanti e tutti diversi l'uno dall'altro; io però posso pensare il Cavallo in generale, privo cioè di tutte quelle particolarità che fanno ogni cavallo diverso dagli altri. Anzi, riconosco che un certo animale è un cavallo proprio perché questo animale somiglia all'idea di cavallo che è in me, e partecipa in qualche modo della cavallinità che ho definito nella mia mente. La cavallinità, allora, esprime non tanto l'essere di ogni cavallo, quanto il suo dover essere; è il modello perfetto di Cavallo, rispetto al quale i molti cavalli di cui ho esperienza non sono che approssimative imitazioni; è l'essenza unica immutabile e necessaria del Cavallo contrapposta all'esistenza casuale e precaria dei cavalli di cui ho esperienza, che non solo sono tutti diversi l'uno dall'altro, ma sono anche sempre diversi da sé (nel senso che ciascuno di loro è soggetto al divenire, muta incessantemente, non è mai ciò che era, ed è infine destinato a morire).
Ma da dove viene l'idea di Cavallo, o quella di Bellezza, o le infinite altre idee che ci consentono di pensare le cose? Platone, che contrapponeva le idee alle cose pressappoco come Parmenide contrapponeva l'Essere al Divenire e l'Uno ai Molti, era portato ad attribuire alle idee un'esistenza del tutto autonoma dalle cose. E infatti, se l'idea è perfetta e le cose sono imperfette, è difficile immaginare che la prima dipenda dalle seconde. D'altra parte le idee non hanno alcun bisogno delle cose, nel senso che sono pensabili di per sé: si potrebbe pensare la bellezza anche se tutte le cose belle fossero morte o non fossero mai nate (e lo stesso vale per la cavallinità in relazione ai cavalli).
Le idee insomma, per Platone, esistono prima delle cose. Platone, però, attribuiva alle idee un'esistenza indipendente anche dalla mente umana, nel senso che le idee esisterebbero ugualmente anche se tutti gli uomini fossero morti (o non fossero mai nati).
Per dirla con altre parole, le idee non esistono perché l'uomo le pensa, ma, al contrario, l'uomo pensa perché ci sono le idee. Le idee, insomma, non sono entità mentali, ma sostanze che esistono fuori della mente umana e prima che la mente possa pensarle.
Platone immaginava a questo proposito che le idee costituissero un mondo a sé, il mondo iperuranio (che in greco vuol dire «posto al di là del cielo»), gerarchicamente organizzato. L'idea del Bene, la più nobile di tutte, di cui le altre idee partecipano in diversa misura, occuperebbe la posizione più elevata, seguita immediatamente dalla Bellezza, dalla Verità e dalla Simmetria, e poi dalla Saggezza, dalla Giustizia, dalla Temperanza, dal Coraggio, e via via da tutte le altre. Il nostro mondo sarebbe la creazione di un artista divino, il Demiurgo (una parola che in greco vuol dire «artigiano»), il quale avrebbe formato tutte le cose prendendo come modello le idee.
Anche gli uomini, secondo Platone, hanno un'origine divina. La loro anima è immortale, preesiste al corpo e quindi ha avuto diretta conoscenza del mondo delle idee o addirittura (ma le opinioni di Platone sono in proposito piuttosto oscillanti) partecipa della loro natura.
È comunque questa preesistenza dell'anima che rende possibile la conoscenza. L'anima conserva il ricordo del mondo iperuranio, anche se offuscato dalle passioni del corpo in cui si è incarnata: se gli uomini riconoscono che un cavallo è un cavallo, è perché riescono a far emergere dal fondo della propria anima la nozione della cavallinità; se riescono a distinguere un'azione giusta da un'azione malvagia, è perché hanno in se stessi l'idea di giustizia.
Conoscere, per Platone, non è scoprire qualcosa di nuovo, ma ricordare.

PLATONE E IL MITO

Gli antichi miti cosmogonici tentavano di dare per mezzo di immagini e racconti, e cioè in chiave essenzialmente poetica, una spiegazione del mondo e della vita. Aristotele diceva a questo proposito che per i problemi che avevano affrontato (se non per il modo di affrontarli) anche i creatori di miti erano «filosofi».
La nascita di un'autentica tradizione filosofico-scientifica, ossia il radicarsi di un costume di ricerca razionalmente orientata, ha modificato questa antica affinità tra costruttori di miti e filosofi e ha portato ad una progressiva divaricazione tra mito, ossia la spiegazione in forma di racconto, e logos, ossia la spiegazione in forma di ragionamento. Il mito, tuttavia, non è scomparso mai del tutto dalla filosofia ed ancora oggi ci sono indirizzi di pensiero (la psicoanalisi, per esempio) che fanno ampio uso di miti e di «favole filosofiche».
Platone ha utilizzato la forma del mito tutte le volte in cui il linguaggio della ragione gli è parso inadeguato ad esprimere la ricchezza o la complessità dei problemi che veniva affrontando. Un racconto che attraverso la suggestione delle immagini facesse intuire le possibili soluzioni di un problema gli sembrava preferibile al puro e semplice silenzio. Ma l'ambiguità del mito, ossia l'indefinita possibilità di reinterpretarne i significati, poteva costituire addirittura un pregio se serviva a sottolineare il carattere «aperto» della ricerca filosofica.
È proprio qui, forse, che Platone si allontanava di più dall'insegnamento di Socrate. Anche Socrate non esauriva mai la sua ricerca, ma in mancanza di certezze preferiva tacere: della sua ignoranza si vantava pubblicamente. Socrate amava il dubbio e detestava le confuse sentenze della tradizione mitologica e religiosa: era morto per aver gettato discredito su questa tradizione. Platone invece, da buon conservatore, amava la «verità», ma nel senso che Socrate apprezzava meno: l'amava nel senso che non sapeva rinunciare a proclamarla, magari soltanto nelle incerte e provvisorie forme del mito.
Il più noto dei miti platonici è forse quello della caverna, con il quale Platone ha cercato di suggerire quali rapporti potessero esistere tra idee e cose, tra il mondo sensibile e il mondo iperuranio. Gli uomini, dice Platone, sono come prigionieri incatenati sin dalla nascita sul fondo di una caverna, con le spalle rivolte all'imbocco. Sulla parete della caverna, come su uno schermo, vedono muoversi delle ombre e poiché non hanno mai conosciuto nulla di diverso scambiano le ombre per cose reali. Solo chi riesce a liberarsi delle catene, a voltarsi verso la luce e ad uscire dalla caverna si convince che le ombre sono semplici riflessi degli oggetti che stanno fuori.
La caverna rappresenta la nostra condizione di uomini; le ombre rappresentano le cose del nostro mondo; il mondo esterno è l'Iperuranio e gli oggetti che vi si trovano rappresentano le idee; l'inganno di cui sono vittime i prigionieri, che scambiano le ombre per oggetti reali, è la metafora della conoscenza sensibile; lo sforzo che si compie per liberarsi dalle catene rappresenta la ricerca filosofica.
Platone conclude il suo mito sottolineando come il prigioniero che riesce a uscire dalla caverna (e cioè il filosofo) vi rientrerà per amore dei suoi compagni, ai quali si sforzerà di rivelare la verità.
Come si vede anche da questo mito, Platone riprendeva molti temi della filosofia eleatica, a cominciare dalla drastica svalutazione dell'esperienza sensibile. C'era però una differenza importante: per Parmenide l'esistenza delle cose (dei Molti e del Divenire) è illusoria, mentre per Platone le cose esistono davvero, anche se soltanto come imitazioni delle idee. Nel mito della caverna le cose sono rappresentate dalle ombre che si agitano sulle pareti; ma le ombre esistono, anche se come semplici riflessi, e i prigionieri che le stanno a guardare le vedono davvero. Il loro errore consiste solo nel credere che tutta la realtà si esaurisca in quelle ombre.

L'IMMORTALITŔ DELL'ANIMA

L'assunto dell'esistenza di una realtà parallela e superiore a quella sensibile è alla base della tesi dell'immortalità dell'anima proposta da Platone nel Fedone. Nel dialogo il personaggio di Socrate, che è raffigurato mentre affronta gli ultimi momenti della sua vita, permette a Platone di esemplificare l'atteggiamento del vero filosofo di fronte alla morte: per chi in vita ha cercato continuamente la verità attraverso il sapere filosofico, la morte non può che essere una liberazione e una gioia. In vita infatti, il filosofo trova nel suo corpo, nelle sue debolezze, nelle sue fastidiose necessità, nelle passioni che ne nascono, un ostacolo alla sua libertà, un intralcio alla riflessione. La morte libera l'uomo dalla schiavitù del corpo, permette all'anima di raggiungere la completa autonomia. Socrate attende serenamente la morte, perché

... questo appunto è lo studio e l'esercizio proprio dei filosofi, sciogliere e separare l'anima dal corpo.

L'«ascesi» (che in greco significa appunto «esercizio»), esprime dunque quell'aspirazione del filosofo alla speculazione pura, distaccata, al di là di ogni condizionamento materiale, che si realizza compiutamente solo con la morte. Il presupposto di questa serena considerazione della morte è naturalmente la convinzione che l'anima sopravviva al corpo e che mantenga inalterate, dopo il trapasso, le sue capacità intellettive. La dottrina platonica dell'immortalità dell'anima fa riferimento alla tradizione culturale che contemplava la metempsicosi, vale a dire la reincarnazione dell'anima dei morti nei vivi: più in generale Platone partecipava del grande sogno, presente anche nel pensiero orientale, di un'esistenza universale regolata da un processo circolare, in cui niente si esaurisce e niente va perduto. La dimostrazione platonica dell'immortalità dell'anima è basata sulla teoria detta della «generazione dei contrari», cioè sulla relazione di dipendenza che intercorre tra una qualità e il suo contrario. Quando ci troviamo a pensare, per esempio, la qualità di «caldo» come potremmo non fare riferimento al suo contrario? Se possiamo comprendere «caldo», infatti, è solo perché conosciamo «freddo», e a sua volta questo ci è noto grazie alla nostra esperienza di «caldo»: pensare l'uno senza l'altro è impossibile.
La generazione dei contrari è un legame circolare e senza fine: dove uno finisce, comincia l'altro, il precedente non potrebbe esistere senza il seguente, e viceversa. Allo stesso modo dobbiamo considerare la vita e la morte, e se dai morti si generano i vivi, dobbiamo concludere che in qualche luogo anche i morti (vale a dire le loro anime) sopravvivono.
È per questo che l'apprendimento si deve in realtà intendere come un progressivo recupero delle conoscenze che erano già in possesso dell'anima prima della nostra nascita.
Dal momento in cui cominciamo a fare uso dei sensi, esprimiamo immediatamente e continuamente giudizi che ci permettono di distinguere o di accomunare quello che ci circonda: questo però può voler dire soltanto che esistono delle realtà assolute o «in sé», precedenti ai nostri giudizi, che conosciamo già al momento della nascita (sono idee innate) e che costituiscono le premesse della nostra capacità di giudicare. Platone parla di «uguale in sé», di «bello» o di «brutto in sé», di «buono» o di «cattivo in sé»: il bello, il brutto o l'uguale in sé altro non sono che le rispettive idee assolute di quelle qualità, l'indispensabile riferimento da cui abbiamo ricavato la comprensione del mondo in cui viviamo.

VERITŔ E OPINIONE

In Platone il fondamentale dualismo ontologico idee-cose si rifletteva sul piano gnoseologico (dal greco gnòsis = «conoscenza»: la gnoseologia è dunque la dottrina della conoscenza) nel dualismo verità-opinione.
L'idea che collega queste due antinomie è che solo di ciò che è immutabile ed eterno è possibile una conoscenza vera, mentre ciò che è generato (e che è destinato a morire) può essere soltanto oggetto di opinioni. Nella Repubblica, uno dei più importanti dialoghi di Platone, il tema è sviluppato in una lunga argomentazione, di cui riportiamo solo le battute essenziali.

- Su, rispondi a questa domanda: chi conosce, conosce qualcosa o niente?
- Conosce qualcosa -.
- Qualcosa che è o qualcosa che non è?
- Qualcosa che è. Come potrebbe conoscere una cosa che non è?
- Ecco dunque un punto fermo: ciò che è in maniera perfetta, è perfettamente conoscibile, e ciò che assolutamente non è, è completamente inconoscibile -.
- Sono perfettamente d'accordo -.
- Bene, ma se una cosa è tale da essere e non essere nello stesso tempo, non sarà intermedia tra ciò che assolutamente è e ciò che non è in alcun modo?
- Certo, è intermedia -.
- Ora, se la conoscenza si riferisce a ciò che è e la totale ignoranza a ciò che non è, per questa forma intermedia di esistenza, sempre che esista, non dovremo cercare qualcosa di intermedio tra l'ignoranza e la scienza?
- Senza dubbio -.
- E l'opinione, seconda te, è qualcosa?
- Certo -.
- È la stessa cosa che la scienza o è qualcosa di diverso?
- Qualcosa di diverso -.
- E allora l'opinione si riferisce ad alcune cose e la scienza ad altre, ciascuna secondo il proprio potere -.
- È proprio così -.
[...]
- E se il conoscibile è ciò che è, l'opinabile non sarà diverso da ciò che è?
- Sicuro, sarà diverso -.
- Ma allora l'opinione riguarda ciò che non è? o è impossibile avere un'opinione senza riferirla ad un oggetto?
- È impossibile -.
[...]
- Allora l'opinione non corrisponde né a ciò che non è, né a ciò che è, non è né conoscenza, né ignoranza -.
- Così pare -.
[...]
- E non ti sembra che l'opinione sia più oscura della conoscenza ma più luminosa dell'ignoranza?
- Sicuro!
- L'opinione insomma è una via di mezzo tra conoscenza e ignoranza
- Sì, certo -.
- Ma non abbiamo detto prima che se una cosa risultasse, per così dire, essere e non essere allo stesso tempo, sarebbe intermedia tra ciò che assolutamente è e ciò che non è affatto? e che una cosa di questo genere non potrebbe essere né oggetto di scienza, né di ignoranza, ma di qualcosa che fosse a sua volta intermedia tra le due?
- Giusto -.
- Bene, quella che chiamiamo opinione non è risultata appunto intermedia tra le due?...

PLATONE E LA GEOMETRIA

Pur non essendo un matematico e tanto meno un grande matematico, Platone era affascinato dai matematici e, a sua volta, li sapeva affascinare. Archita di Taranto (c. 430 - c. 360) il pitagorico a cui è attribuita la dimostrazione dell'impossibilità di esprimere i numeri irrazionali con numeri frazionari subì l'influsso di Platone e pare che desse un'interpretazione idealistica del pitagorismo, attribuendo una natura soprasensibile ai numeri. Allievi e collaboratori dell'Accademia furono poi i due maggiori matematici del tempo, Teeteto (c. 414-369), a cui Platone dedicò un dialogo, e Eudosso di Cnido (c. 408 - c. 355) che era povero in canna e fu aiutato da Platone, con il quale pare abbia fatto anche un viaggio in Egitto. La costruzione dei cinque poliedri regolari che Platone nel Timeo associava ai cinque elementi era stato opera di Teeteto, mentre Eudosso aveva trovato un metodo rigoroso, e cioè non puramente empirico, il cosiddetto «metodo di esaustione», per trovare la lunghezza, l'area o il volume di figure curve.
L'interesse di Platone per la matematica e in particolare per la geometria si spiega anche con l'evidente analogia tra l'insieme degli enti matematici e geometrici e il mondo delle idee: entrambi si rivelano all'intelletto, ma non ai sensi. La verità di un ente geometrico sta infatti tutta nella sua definizione. Le cose hanno proprietà matematiche (si possono contare, misurare, ecc.), ma non sono numeri; rappresentano delle approssimazioni alle figure geometriche, ma non sono figure geometriche. Non esistono oggetti perfettamente triangolari o perfettamente circolari. Un triangolo o un cerchio si possono disegnare con la massima precisione, ma sono sempre un'approssimazione rispetto al triangolo o al cerchio definito dalla matematica. I punti e le linee tracciati su un foglio, per quanto sottili, hanno uno spessore, che la definizione di punto e di linea esclude esplicitamente. In generale ogni figura che si vede o si disegna o si costruisce materialmente non è che un'imitazione, più o meno riuscita, del corrispondente ente geometrico. Come tale non interessa affatto il matematico, che al massimo può servirsene come sussidio per aiutare la propria immaginazione o quella degli allievi con la percezione sensibile delle figure. Anzi, anche quest'uso di sussidi visivi o meccanici (come racconta lo storico Plutarco) era capace di mandare in bestia Platone, che vi vedeva un attentato alla purezza immacolata della geometria.
«Gli iniziatori della meccanica, scrive Plutarco, scienza oggi seguita con interesse e a tutti nota, furono Eudosso ed Archita, i quali comunicarono un grande fascino alla geometria mediante l'eleganza dei suoi procedimenti. Essi diedero ai problemi che non offrivano possibilità di soluzione con un procedimento soltanto logico e verbale il sostegno di schemi visivi e meccanici. Ad esempio nella soluzione del problema di due rette medie proporzionali, elemento necessario alla composizione di molte figure, entrambi gli scienziati ricorsero a mezzi meccanici, servendosi delle medie proporzionali che certi strumenti ricavano da linee curve e da segmenti. Platone rimase indignato da questo modo di procedere e polemizzò coi due matematici, quasiché distruggessero e corrompessero ciò che vi era di buono nella geometria: in tal maniera essa abbandonava infatti i concetti astratti per scendere nel mondo sensibile, ed usava anch'essa oggetti che richiedevano ampiamente un grossolano lavoro manuale. La meccanica fu così separata e si staccò dalla geometria; per molto tempo la filosofia l'ignorò, ed essa divenne una delle arti militari».

ATOMI E POLIEDRI

Oggi sappiamo che molte sostanze (i cristalli) solidificano in forme di poliedri. I cristalli constano di gruppi di atomi che si dispongono nello spazio secondo particolari strutture o «reticoli».
I reticoli più diffusi sono il cubico centrato (vedi figura), dove gli atomi occupano i vertici e il centro del cubo, il cubico a facce centrate (vedi figura), dove gli atomi occupano il vertice e il centro delle facce, e l'esagonale compatto (vedi figura).
I solidi di Platone


IL TIMEO

Il Timeo è il dialogo in cui Platone espone le sue idee su quella che oggi chiamiamo scienza. Dialogo per modo di dire, giacché parla sempre Timeo, un ricco, nobile e soprattutto dotto cittadino di Locri in Calabria e (a parte l'introduzione in cui si accenna al mito dell'Atlantide che sarà poi l'oggetto del Crizia) gli altri tre interlocutori, che sono Socrate, il tiranno Crizia e il generale siracusano Ermocrate si limitano a brevi battute. Il Timeo non fu mai molto popolare, sia perché noioso in confronto ad altri dialoghi che sono veri dialoghi, sia perché inferiore, nella sua parte naturalistica, alle opere di Aristotele, sia infine perché poco apprezzato dallo stesso Platone, che riteneva più importanti altri suoi dialoghi (e soprattutto la Repubblica, di cui Timeo e Crizia erano una specie di seguito) e che, soprattutto, attribuiva alle teorie sulla natura lo status epistemologico (dal greco epistème = «scienza») piuttosto basso di «favole verosimili». Si legge infatti nel Timeo:

... Molti hanno detto molte cose intorno agli Dei [la parola «Dei» indicava comunemente gli astri e le forze della natura] e intorno all'origine dell'universo [...]. Se i nostri discorsi non risulteranno meno verosimili di quelli di chiunque altro, dovremo starcene contenti [giacché] intorno a queste cose conviene accettare una favola verosimile e non cercare oltre...

Ma anche se poco compreso, o poco apprezzato, il Timeo è a suo modo un capolavoro scientifico. O, se si vuole, antiscientifico. Antiscientifica è senz'altro la prima parte, non solo per via del mito di Atlantide ma soprattutto per l'animismo che la pervade: il mondo, infatti, è concepito come un immenso animale, copiato da Dio sul modello dell'Animale Perfetto, che naturalmente è un'idea e (quel che conta) è l'anima del mondo, non il suo corpo.

... E tale fu il criterio del Dio: primo, che il tutto fosse, per quanto possibile un vivente perfetto, costituito di parti perfette, e poi [...] che fosse anche immune da vecchiezza e malattia...

Ma a partire dal capitolo XVII, la musica cambia. E, tanto per cominciare, alle due realtà di cui aveva parlato in precedenza, il modello intelligibile (le idee) e l'immagine sensibile del modello (le cose), Platone ne aggiunge una terza, «difficile e oscura», «il ricettacolo di tutto ciò che si genera», la «nutrice» o «madre» (come anche la chiama), la materia, o forse lo spazio, o forse entrambe le cose, e insomma quel qualcosa di primordiale che preesisteva all'azione ordinatrice del Demiurgo. È in questo ammettere (sia pure contro voglia) l'esistenza della materia, qualcosa di fondamentale è cambiato nel pensiero di Platone. Sarà forse l'influenza del giovane e ambizioso Aristotele? È comunque a questo punto che si trovano le idee più interessanti del Timeo.
Già nel capitolo VII Platone aveva cercato di dimostrare che gli elementi devono essere quattro perché, diceva, i volumi stanno come i cubi, ma tra un cubo di volume a3, e uno di volume b3 possiamo inserire ancora due parallelepipedi di volumi a²b e ab². Ora approfondendo il ragionamento, anzi modificandolo radicalmente, Platone associa gli elementi, non più ai parallelepipedi, ma ai poliedri regolari, che erano la grande scoperta matematica del suo tempo. A loro volta i poliedri sono generati tutti da due triangoli rettangoli: quello che è metà di un equilatero e quello isoscele. Sicché ogni cosa è fatta di triangoli.
I poliedri sono atomi. Platone non usa mai questa parola, sia perché la usava Democrito, che lui detesta, sia perché i poliedri possono scomporsi e trasformarsi l'uno nell'altro come non potevano fare gli atomi di Democrito. Ma ai poliedri affida proprio la funzione di atomi di costituenti ultimi della materia.
Gli atomi di terra sono cubi:

... perché dei quattro elementi la terra è il più immobile, e dei corpi il più plasmabile: ed è soprattutto necessario che tale sia quel corpo che ha le basi più solide...

Gli altri elementi si rifanno al triangolo metà di un equilatero. Gli atomi più leggeri, quelli di fuoco, sono tetraedri (scherzando possiamo osservare che le molecole di metano sono davvero tetraedri, e il fuoco si fa col metano!); gli atomi d'aria sono ottaedri e quelli d'acqua, più grossi e pesanti, icosaedri. E il dodecaedro? Bè, non serve a niente ma «Dio se ne giovò per decorare l'Universo». Il fuoco scotta con le punte pungenti delle sue piramidi. Ma non può sciogliere la terra, e invece l'acqua può: perché la terra ha dei pori, attraverso i quali i piccoli tetraedri del fuoco passano senza danno, mentre i grossi icosaedri dell'acqua sfondano i pori e disintegrano la struttura cubica.
L'ultima parte del Timeo è dedicata alla fisiologia e contiene la teoria della respirazione e della circolazione e la teoria delle sensazioni. E alla fine c'è perfino una teoria dell'evoluzione: una teoria regressiva, in cui gli animali derivano dall'uomo, per degenerazione o degradazione. Dagli uomini codardi discendono le donne, e dagli uomini stupidi le bestie: i più leggeri generano uccelli, e gli altri i mammiferi, e se sono ancora più stupidi, i rettili; i più stupidi di tutti, infine, generano i pesci, le ostriche e gli altri animali acquatici.
Gli animali si trasformano tra loro, passando da una specie all'altra, secondo la perdita o l'acquisto d'intelligenza o di stoltezza.
Il discorso platonico fu rivisitato nel Rinascimento, ed ebbe una notevole parte nella rivoluzione scientifica del Seicento, soprattutto perché univa la teoria della natura alla matematica. Senz'altro le nostre idee del mondo sono vicine a quelle di Democrito, Epicuro e Lucrezio e lontanissime da quelle di Platone. Eppure anche noi, come Platone, amiamo la matematica e tendiamo a credere, forse senza motivo, che quelle teorie scientifiche che hanno una forma matematica più bella abbiano anche più probabilità di descrivere correttamente il mondo fisico.

LA STRUTTURA DEI SOLIDI

... e le specie (i poliedri regolari) prodotte ora col ragionamento distribuiamole in fuoco, terra, acqua e aria. E alla terra diamo la figura cubica: perché delle quattro specie la terra è la più immobile e dei corpi il più plasmabile. Ed è soprattutto necessario che tale sia quel corpo che ha le basi più salde... (Platone, Timeo, XXI, 55 d-e)

... la cosa principale è sistemare quanti più ioni positivi sia possibile intorno a uno ione negativo e viceversa. I solidi ionici tendono a cristallizzare in strutture come quella del cloruro di sodio e quella del cloruro di cesio... (Ziman, Principio della teoria dei solidi)

... Per quanto l'oro possa essere il re dei metalli, ha una struttura cristallina comunissima: la struttura cubica compatta [...] La maggior parte dei metalli cristallizza o nel cubico compatto o nell'esagonale compatto... (Moore, Sette stati solidi)

Confrontando il passo del Timeo con le altre citazioni, tratte da alcuni moderni trattati di fisica dei solidi, scopriamo che da un certo punto di vista la concezione della struttura della materia non è poi cambiata gran che in ventitré secoli. La tradizionale distinzione dei corpi in solidi, liquidi e gas (terra, acqua e aria dicevano gli antichi) è sempre valida. Bisogna solo aggiungere il plasma (che in fondo si potrebbe assimilare a quello che nell'antichità si chiamava fuoco). Platone fa corrispondere i quattro elementi, fuoco, terra, aria e acqua alle quattro «specie», cioè ai quattro poliedri regolari: tetraedro, cubo, ottaedro e icosaedro. E le ragioni per cui agli atomi della terra attribuisce la forma cubica non sono troppo diverse da quelle per cui Ziman attribuisce le strutture cubiche del cloruro di sodio e del cloruro di cesio ai cristalli ionici: in entrambi i casi è un problema d'impacchettamento e di stabilità.
Da un altro punto di vista il cambiamento è totale. Per Platone il mondo sensibile, essendo generato e non eterno, non poteva essere oggetto di scienza, ma al più di opinione. Così, Platone attribuiva alla fisica il valore di «favola verosimile», e nulla più: un valore che oggi giudichiamo decisamente troppo modesto. Bisogna ammettere però che al tempo di Platone non c'era alcun modo sicuro di studiare la struttura dei solidi. Questa situazione, anzi, è rimasta sostanzialmente inalterata fino al lavoro di Max von Laue e di William L. Bragg sui raggi X che ha reso possibile, a partire dal 1912-13, lo studio microscopico delle strutture cristalline. Sono dunque solo alcuni decenni che abbiamo smesso di raccontare favole verosimili sulla materia...
Da un altro punto di vista ancora, il modo in cui fu letto per duemila anni il Timeo deve essere considerato totalmente diverso dal modo in cui oggi si legge un libro di fisica. In verità nessuno ci capì niente. Ancora oggi passi come quello citato sono ignorati nei manuali di storia della filosofia. Noi adesso capiamo e apprezziamo il Timeo, ma lo capiamo anacronisticamente, perché sappiamo come le cose sono andate a finire. In effetti il modo in cui il Timeo tratta il rapporto tra matematica e fisica, se non è esattamente il modo moderno, non ne è però troppo lontano: anche oggi la matematica precede la fisica: il discorso fisico viene dopo, a riempire di contenuti materiali una struttura matematica preesistente.

IDEA

Come sappiamo, il termine «idea» è legata al greco idèin = «vedere»; «idea» è insomma l'aspetto o la forma visibile di una cosa, la sua immagine ottica. E richiamandosi a questo significato, ma insieme allontanandosi decisamente da esso che Platone dà il nome di «idee» ai modelli perfetti, eterni e immutabili delle cose. Le idee sono le essenze delle cose, più reali delle cose stesse, visibili (di qui, appunto, il nome) all'occhio della ragione (che non sbaglia) e non a quello dei sensi (sempre soggetti ad errore).

DUALISMO/MONISMO

Si dicono dualistiche le dottrine che in rapporto ad un qualsiasi problema (ma in particolare nella spiegazione della realtà) ammettono due principi contrapposti e irriducibili come Bene e Male, Corpo e Anima, Materia e Spirito, ecc.
Il dualismo si distingue sia dal monismo (dal greco monos = «unico», «solo»), ossia dalle dottrine che riducono la molteplicità dei fenomeni ad un unico principio fondamentale, sia dal pluralismo, ossia dalle dottrine che ammettono una molteplicità di principi.
Un rigoroso esempio di monismo è rappresentato dalla dottrina di Parmenide secondo la quale solo l'Essere e, e la molteplicità è pura illusione. Dottrine pluralistiche sono invece quelle di Empedocle, di Anassagora e di Democrito.
La filosofia platonica è una tipica filosofia dualistica, incentrata sull'opposizione di idee e cose, anima e corpo, ragione e sensibilità, ecc.

ANIMA

L'italiano (e latino) «anima» corrisponde al greco psyché (da cui «psiche», e tutti i composti di «psico-») ed ha la stessa radice del greco ànemos = «vento», «corrente d'aria», analogo al grecopnéumo = «soffio», che è il nome che i filosofi presocratici davano al principio che dava vita a tutte le cose, e al latino spiritus (= «spirito», che nell'uso corrente conserva il significato di «respiro» solo nell'espressione «rendere lo spirito» = esalare l'ultimo respiro). Anche l'ebraico ruach (= «spirito») vuol dire «soffio», «vento» e simili.

COSMOLOGIA E TEOLOGIA

Socrate non credeva che lo studio del mondo naturale potesse mai arrivare a conclusioni certe e aveva rinunciato ad occuparsene; pare anzi che considerasse questo genere di ricerche (e l'astronomia in particolare) una pura perdita di tempo. Platone in proposito non era molto più fiducioso di Socrate, ma non rinunciava ad avere una sua opinione in fatto di cosmologia e di fisica: in mancanza di conoscenze certe, diceva, è sempre possibile formulare delle «favole verosimili» in grado di suggerire almeno quale posto sia riservato nel gran disegno dell'Essere alle realtà naturali.
Come la maggioranza dei filosofi naturalisti che lo avevano preceduto, Platone ammetteva che il mondo fosse uscito dal caos primordiale, ma mentre quelli avevano considerato il passaggio dal caos al cosmo come un processo affatto naturale, Platone lo attribuiva all'opera di un Dio, tornando così a una soluzione di tipo mitico-religioso. Per di più, mentre i filosofi naturalisti avevano studiato gli astri come oggetti fisici (ed alcuni, come Anassagora, avevano per questo affrontato l'accusa di ateismo), Platone tornava a riconoscerne la natura divina, nel tentativo di riconciliare la filosofia con le superstizioni correnti. Più che di cosmologia, o di filosofia della natura, si dovrebbe forse parlare, per Platone, di teologia. Di sicuro in questa enfasi religiosa agiva la suggestione delle dottrine pitagoriche a cui Platone, specialmente nei suoi ultimi anni, si volse con grande interesse. Tanto per Platone quanto per i Pitagorici la razionalità del mondo (o, per meglio dire, del disegno che il Demiurgo aveva seguito nel formare il mondo) consisteva in una struttura di tipo geometrico-matematico; ma per entrambi la «razionalità» della matematica stava più nel suo significato magico-teologico, che nella sua capacità di esprimere l'elemento quantitativo delle cose.
Platone immaginava che l'intera struttura dell'universo fosse riconducibile a due specie di triangoli rettangoli, quella dei triangoli uguali alla metà di un quadrato e quella dei triangoli uguali alla metà di un triangolo equilatero.
Triangoli

Da questi triangoli si generano i poliedri regolari, quattro dei quali erano associati ai quattro elementi materiali. Così, il fuoco era costituito da tetraedri, l'aria da ottaedri, l'acqua da icosaedri e la terra da cubi.
Il quinto poliedro regolare, il dodecaedro, formava un quinto elemento o quintessenza (che i Pitagorici avevano chiamato etere), che era la sostanza dei cieli, contrapposti (ancora una volta secondo un'indicazione pitagorica) al mondo terrestre (o, come anche si diceva, «sublunare»).
Poliedri regolari

L'universo nel suo insieme aveva forma sferica, perché la sfera, uguale a se stessa in ogni punto della sua superficie, era (secondo un'idea comune a Pitagorici ed Eleati) figura perfetta, e perciò la sola adatta ad esprimere la totalità e la compiutezza dell'universo. Come la sfera era figura perfetta, così il moto circolare era il moto perfetto. E poiché i cieli, secondo il pregiudizio pitagorico, erano perfetti (o «divini»), i moti dei corpi celesti dovevano essere circolari e perfettamente uniformi. In verità le osservazioni astronomiche mostravano che i movimenti del Sole e dei pianeti non erano né uniformi, né circolari. Ma per Platone quel che contava era il disegno razionale del mondo, non i dati dell'osservazione, e se questi contraddicevano quel disegno, tanto peggio per loro:

... Noi diciamo bugie quando, parlando di queste divinità che sono il Sole e la Luna e le altre stelle, diciamo che non seguono un corso uniforme e perfetto e li chiamiamo pianeti [la parola in greco significa «errante», «vagabondo»]. In verità essi seguono sempre lo stesso cammino che è circolare. Le deviazioni da questo cammino sono soltanto apparenti...

I dati dell'esperienza sensibile, secondo Platone, sono incerti o approssimativi. Delle nostre percezioni, infatti, possiamo fidarci fino a un certo punto. Le conclusioni a cui giunge la ragione sono invece incontrovertibili. Se vogliamo salvare i fenomeni (dal greco phainòmenon, participio presente di phàinesthai = «apparire»: «ciò che appare» e quindi «ciò che è oggetto di esperienza»), ossia se non vogliamo considerarli pure e semplici allucinazioni, dobbiamo poterli ricondurre alle verità di ragione, ossia scoprire in essi una qualche possibilità di accordo con l'immagine del mondo a cui arriviamo per via di pura speculazione.

EUDOSSO E LE SFERE

La regolarità di certi fenomeni celesti si è sempre imposta con affascinante evidenza e in antico ha avuto un ruolo anche più importante di oggi nell'esperienza quotidiana perché l'uomo comune non poteva che affidarsi ad essa per scandire i propri ritmi di vita. Ma filosofi e scienziati scoprirono assai presto che quella decantata regolarità, solo a studiarla con un po' di attenzione, poneva molti e difficili problemi.
Chiunque, ad esempio, è in grado di accorgersi che la successione delle stagioni si ripete ogni anno con immutabile periodicità e non è difficile rilevare che le variazioni stagionali sono legate alle diverse posizioni che, nel corso dell'anno e in rapporto alle altre stelle, il Sole viene successivamente a occupare nella volta celeste. Ma determinare con esattezza la durata dell'anno, ossia il tempo impiegato dal Sole per ritornare in una data posizione, richiede l'esecuzione di osservazioni ripetute e di calcoli complicati. In Egitto e in Mesopotamia già in epoche molto antiche si era giunti a calcolare la durata dell'anno con una approssimazione che, almeno in relazione alle necessità pratiche dell'agricoltura o dell'amministrazione, appariva soddisfacente. Ma una misurazione più precisa fu opera degli astronomi greci, e fu ottenuta in epoca piuttosto tarda, nel II secolo a.C., quando Ipparco di Nicea, giovandosi di una straordinaria esperienza in fatto di osservazioni celesti, riuscì a calcolare la durata del moto annuale del Sole con un errore di appena sei minuti e mezzo. Ciò che si è detto per il moto apparente del Sole vale per molti altri fenomeni celesti e si può facilmente immaginare la massa di problemi che gli scienziati greci dovettero affrontare per avere una nozione precisa di quella regolarità che tanto li affascinava.
Ogni giorno l'intera volta celeste sembra compiere una rotazione intorno al proprio asse: l'estremità settentrionale di questo asse, ossia il polo Nord celeste è molto vicino alla Stella Polare, sicché nel corso di 24 ore tutte le stelle sembrano girare intorno ad essa. Durante questa rotazione le stelle lontane conservano sempre la stessa posizione l'una rispetto all'altra e vengono perciò dette «stelle fisse». Al contrario il Sole, la Luna, i pianeti non solo partecipano alla rotazione quotidiana della volta celeste, ma ogni giorno cambiano la propria posizione rispetto alle stelle fisse. Sono cioè astri mobili (il termine «pianeta» viene dal greco planétes che significa «vagante», «errante»), ciascuno dei quali compie in un periodo determinato un certo tragitto nella volta celeste. Questi movimenti sono piuttosto complicati.
Prendiamo ad esempio i cinque pianeti visibili ad occhio nudo, che sono i soli conosciuti fin dall'età più remota: Saturno, Giove, Marte, Venere e Mercurio. La velocità con cui ciascuno di essi si sposta nella volta celeste non è affatto uniforme in ogni punto del percorso e il percorso stesso non è perfettamente circolare, ma interrotto a tratti da movimenti a forma di laccio: visto dalla Terra ogni pianeta sembra rallentare ogni tanto il proprio corso, fermarsi, tornare indietro per un certo tratto, fermarsi di nuovo, riprendere la primitiva direzione di marcia e proseguire in essa fino a una nuova fermata e così via.
Come abbiamo visto, secondo Platone i moti dei corpi celesti non potevano che essere conformi alla loro natura divina, e cioè dovevano essere circolari e uniformi. Se non apparivano tali, era compito dell'astronomo spiegare come da moti semplici e regolari potesse nascere l'apparenza di moti complicati e irregolari. Più in generale (sempre secondo Platone) in casi del genere era compito del filosofo della natura approntare gli strumenti concettuali (specialmente di tipo matematico-geometrico) necessari a mettere d'accordo i dati (sempre incerti e approssimativi) dell'esperienza con l'immagine «razionale» (e dunque necessaria) del mondo.
Eudosso, un allievo di Platone, escogitò un modo per «salvare i fenomeni» secondo il precetto platonico, ossia per conciliare i dati dell'osservazione con le verità di ragione. Egli costruì un modello geometrico per mezzo del quale movimenti molto complicati, come quelli del Sole, della Luna e dei pianeti, erano scomposti in un certo numero di movimenti elementari dotati di velocità uniformi e di traiettorie circolari. Per ogni pianeta Eudosso immaginò un sistema di sfere concentriche nel quale ciascuna sfera ruotava con una sua velocità costante intorno a un asse dotato di una certa inclinazione. Il moto di ogni sfera si trasmetteva alla sfera più interna, sicché la più interna di tutte, nella quale Eudosso immaginava che fosse infisso l'astro, ruotava con un movimento che era la somma dei movimenti di tutte le sfere precedenti. In questo modo si potevano ricostruire teoricamente i moti apparenti dei pianeti, del Sole e della Luna ed era possibile calcolare a tavolino oltre alla posizione che ogni astro mobile avrebbe occupato nella sfera celeste in un qualsiasi momento, la direzione e la velocità del moto. Per ottenere previsioni sempre più precise (sino a far coincidere i dati osservati con le posizioni degli astri calcolate a tavolino) sarebbe stato infatti sufficiente (almeno in teoria) aggiungere qualche sfera in più al sistema.
Se si lascia ad esempio una macchina fotografica puntata a lungo verso l'obiettivo aperto, si ottiene una fotografia che mostra il moto apparente delle stelle, che sembrano tracciare dei cerchi concentrici. Le stelle sembrano ruotare nella direzione opposta a quella in cui ruota realmente la Terra. Questo moto apparente fu studiato fin dall'antichità come un moto reale. Ben presto ci si accorse che una stella, la Stella Polare, appare ferma. In realtà compie un giro così piccolo che a occhio nudo quasi sfugge. Così la Stella Polare divenne un prezioso punto di riferimento per orientarsi di notte.

ARISTOTELE

Aristotele era nato a Stagira (oggi Stavro), una città della penisola calcidica, nel 384 a.C. Suo padre era medico del re di Macedonia, e con questa corte Aristotele mantenne stretti rapporti per tutta la vita. Rimasto orfano in giovane età, a diciott'anni fu mandato dal tutore ad Atene per completare la sua istruzione. Qui conobbe Platone di cui fu discepolo e collaboratore per circa un ventennio.
Quando Platone morì, nel 347 a.C., alla direzione dell'Accademia venne chiamato Speusippo, nipote di Platone, che rappresentava un indirizzo pitagoreggiante assai lontano dagli orientamenti di Aristotele. Aristotele allora, che tra l'altro cominciava a sentirsi a disagio in Atene, dove, nonostante la sua ventennale permanenza, era sempre considerato uno straniero ed era anzi guardato con sospetto per i suoi legami con la corte macedone, si trasferì prima ad Asso, nell'Asia Minore, sede di una sorta di succursale dell'Accademia platonica, poi a Mitilene, nell'isola di Lesbo.
Nel 342 a.C. Filippo, re di Macedonia, affidò ad Aristotele l'educazione del figlio Alessandro, che poco dopo, morto il padre nel 336, salì al trono appena ventenne. L'anno successivo Aristotele fece ritorno ad Atene, che era ormai entrata nell'orbita della potenza macedone, e vi fondò una sua scuola, il Liceo, così chiamata perché situata vicino al tempio di Apollo Licio, alla periferia della città.
L'amicizia con Alessandro Magno (che però conobbe alti e bassi), e soprattutto quella con alcuni collaboratori del re, mise a disposizione di Aristotele e dei suoi allievi ingenti mezzi di ricerca e ricchissimi materiali di studio. La preziosa raccolta di libri messa insieme da Aristotele fu probabilmente la prima grande biblioteca dell'antichità.
Alla morte di Alessandro Magno, nel 323 a.C., il partito antimacedone tornò a prevalere in Atene e Aristotele si trovò di nuovo circondato da ostilità e sospetto. Alla fine venne accusato di empietà, come era già accaduto ad Anassagora, a Protagora e a Socrate. A differenza di Socrate, Aristotele preferì sottrarsi al processo, per evitare - disse - che si commettesse un altro delitto contro la filosofia. Affidata la direzione del Liceo a Teofrasto, si rifugiò a Calcide, nell'Eubea, dove morì l'anno seguente.

SOSTANZE E ACCIDENTI

Platone ebbe in Aristotele un allievo fedelissimo e un critico molto fermo. L'affetto e la stima per il maestro, con il quale aveva lavorato per quasi vent'anni, non impedì infatti ad Aristotele di esprimere un netto dissenso nei confronti del platonismo. Come ebbe a dire con una frase che è diventata proverbiale, Platone gli era caro, ma la verità gli stava ancora più a cuore (Amicus Plato, sed magis amica veritas: è la formula con la quale le parole di Aristotele sono diventate proverbiali nel mondo latino).
La teoria delle idee suscitava molte obiezioni e il primo a rendersene conto era stato proprio Platone. Nel Parmenide, per esempio, che è un dialogo della maturità, si trovano considerazioni come questa: se una cosa partecipa in qualche modo dell'idea (e cioè se un fuoco partecipa dell'idea del fuoco, o un uomo dell'idea di uomo), bisogna ammettere che tra l'idea e la cosa ci sia una certa affinità o somiglianza o comunque un legame; ma se c'è affinità tra idea e cosa, ci sarà anche un'idea di tale affinità, e cioè un'idea che abbracci sia l'idea che la cosa; ma se c'è questa seconda idea, dovrà essercene una terza che abbracci le prime due e la cosa, e così via.
Sebbene consapevole delle difficoltà della sua dottrina, alla domanda che cosa fosse più reale, la bellezza o le cose belle, Platone avrebbe sempre risposto: la bellezza. Aristotele adottò il punto di vista opposto: la bellezza (l'idea, la forma universale) non è niente al di fuori delle cose belle (gli individui). Le cose, invece, sono tutto, almeno nel senso che, ancor prima di essere belle o brutte, sono, ossia esistono, e se non esistessero non potrebbero neppure essere belle o brutte.
In altre parole, solo l'individuo è sostanza (esiste), mentre l'universale separato dalle cose non è che astrazione. D'altra parte le cose esistono solo in quanto hanno una forma; e la forma è ciò che definisce la natura di una cosa e la fa essere ciò che veramente è. In questo senso la forma (che è universale) è sostanza delle cose. Per Aristotele, insomma, la sostanza è l'individuo; ma anche l'universale (la forma) è, a suo modo, sostanza.
Cerchiamo di capire che cosa Aristotele intendesse dire, confortandoci con il pensiero che in questo stesso tentativo il pensiero occidentale si è affaticato per secoli e secoli. L'individuo, secondo Aristotele, è sostanza nel senso che è il soggetto a cui si riferiscono tutte le qualità. Di lui si può dire che fa qualcosa o che ha questa o quella qualità («Socrate è brutto», «il vestito che indosso è di lana», «Melampo è molto affettuoso»), oppure che appartiene ad una certa classe di cose («Socrate è un uomo», «Melampo è un cane»), o infine che gli è successo qualcosa («Socrate è vecchio», «il mio vestito è liso»).
L'individuo è sostanza anche nel senso che muta, ossia che può assumere via via qualità diverse, senza però smettere di essere se stesso. Socrate può essere prima giovane e poi vecchio, ma è sempre Socrate. Il cane Melampo può perdere il pelo, ma anche spelacchiato resta sempre Melampo. Il mio vestito di lana è liso, ma si tratta dello stesso vestito che quand'era nuovo faceva un figurone.
Come si può conciliare la persistenza delle sostanze individuali con il fatto che esse assumono successivamente qualità diverse? Aristotele distingueva a questo proposito attributi essenziali, che definiscono il «vero essere» di un soggetto (il suo essere necessario), e attributi accidentali, che possono esserci oppure no. Socrate può essere giovane o vecchio, allegro o triste, sano o malato (qualità accidentali), ma deve essere «animale razionale», perché nell'essenza di Socrate è sicuramente compreso l'attributo dell'appartenenza alla specie umana, e «animale razionale» è precisamente la definizione della specie «uomo».
Dove passa esattamente il confine tra ciò che è essenziale e ciò che non lo è? La bruttezza e la saggezza di Socrate, ad esempio, sembrerebbero essenziali non meno del suo essere uomo, nel senso che un Socrate bello e stupido non sarebbe più Socrate.
Senonché per Aristotele l'essenza di una cosa (il suo essere necessario) non è ciò che la rende diversa da ogni altra della stessa specie, ma semmai ciò che la rende simile: quell'insieme di attributi che ne definiscono senza incertezza l'appartenenza ad una specie determinata.
I caratteri più propriamente individuali sono invece meri accidenti.
L'individuo, allora, è sì sostanza, ma solo in quanto è costituito da una forma, che in definitiva è un concetto di specie, e che è anch'essa sostanza.
Per distinguerle Aristotele chiamava «sostanze prime» le sostanze individuali e «sostanze seconde» le forme sostanziali.
Gli scritti di Aristotele che oggi conosciamo sono quelli detti «esoterici», riservati cioè agli allievi e ai collaboratori diretti, mentre quelli «essoterici», destinati cioè al pubblico, sono andati perduti. I primi, che erano rimasti nascosti per oltre tre secoli in una cantina, quando furono riscoperti e pubblicati nel I secolo a.C., fecero perdere molto del loro interesse agli scritti essoterici, che passarono in secondo piano e alla lunga furono dimenticati. La pubblicazione fu affidata all'erudito e filosofo Andronico di Rodi il quale sistemò le opere di Aristotele in quattro gruppi: il primo, noto complessivamente col nome di Organon (= «strumento»), è costituito da scritti di logica; il secondo da scritti di «fisica», ossia di scienze naturali, astronomia, biologia, ecc.; il terzo, noto come Metafisica (che vuol dire semplicemente «i libri che vengono dopo quelli di fisica») che riguarda argomenti detti appunto, dopo di allora, «metafisici»; l'ultimo che riunisce gli scritti di morale, politica, retorica, ecc.

FORMA E MATERIA

Per Platone solo le idee (ossia le essenze immutabili, inalterabili, eterne) potevano essere oggetto di scienza, mentre di ciò che è soggetto a divenire (e che perciò ha un'esistenza aleatoria, in quanto può essere e non essere) non era possibile avere conoscenze certe, ma al più opinioni plausibili. Anche per questo Platone aveva prediletto la matematica, che si occupa di enti immutabili e puramente intellegibili.
Anche secondo Aristotele si poteva avere scienza solo di ciò che è universale e necessario, ma non considerava affatto il divenire come qualcosa di accidentale o di aleatorio. Al contrario esso costituiva per Aristotele un attributo essenziale delle cose, nel senso che, secondo l'antica indicazione pitagorica, la corruttibilità era proprietà necessaria degli esseri sublunari, così come l'incorruttibilità lo era degli esseri celesti.
Del divenire si poteva dunque avere scienza, e Aristotele si impegnò proprio in quei settori della ricerca, come la botanica, la zoologia, ecc. che erano, per così dire, dominati dal mutamento. In un certo senso, anzi, la nozione di organismo vivente (che nasce, cresce, si corrompe e muore) servì ad Aristotele come modello e chiave di interpretazione di qualsiasi fenomeno e della realtà in generale. Si può dire a questo proposito che se la concezione di Democrito (e poi di Epicuro) era ispirata a un modello meccanico e quella dei Pitagorici e di Platone a un modello matematico, il modello a cui si ispirava Aristotele era essenzialmente di tipo biologico (detto anche «organicistico»).
Fare scienza non poteva voler dire altro per Aristotele che spiegare il mutamento, e cioè risalire alla genesi delle cose, individuare le cause che fanno essere le cose quelle che sono. «Crediamo di non conoscer nulla - diceva - se prima non abbiamo posto il perché di ciascuna cosa». Di perché, ossia di cause, Aristotele ne elencava quattro: la causa materiale, la causa formale, la causa efficiente e la causa finale. Il che equivaleva a dire che conosciamo davvero una cosa solo quando sappiamo 1) di che cosa è fatta, 2) come è fatta, 3) da che cosa è stata prodotta e 4) a che cosa serve (ossia quale è il suo scopo).
È chiaro che il termine «causa» aveva per Aristotele un significato molto più esteso di quello attuale. Oggi, infatti, chiameremmo «causa» (senza altre specificazioni), solo quella che Aristotele chiamava «causa efficiente» e cioè l'evento che produce un dato effetto o che mette in moto un processo.
La causa finale è l'obiettivo a cui tende un processo. Al contrario di Democrito, ma in accordo su questo con Platone, Aristotele riteneva che nel divenire operasse sempre uno scopo, e indagava nelle cose il fine, ossia l'intenzione che le fa essere quello che sono. Una spiegazione del genere oggi sarebbe ammissibile solo in relazione ad azioni o comportamenti coscienti. Ci possiamo domandare: «a quale scopo il maggiordomo ha gettato dalla finestra la marchesa?», ma non ci chiederemmo mai: «a quale scopo il corpo della marchesa è precipitato sul selciato?». Aristotele invece se lo domandava. Qui, nonostante il suo distacco dalle dottrine del maestro, Aristotele restava profondamente platonico; e qui, soprattutto, si poneva in totale, inconciliabile antitesi con l'atomismo democriteo, che aveva escluso dalla sua spiegazione del mondo come assolutamente superflua l'idea di un fine o di un disegno.
La causa materiale, ossia la materia, e ciò da cui si trae una cosa. È il legno di cui è fatto il tavolo o l'argento di cui è fatta la coppa, ma con questa precisazione: che il legno e l'argento esistono sempre e soltanto nella forma di un oggetto, perché in sé non sono nulla. Il legno che non ha ancora assunto la forma del tavolo ha pur sempre una forma: ad esempio quella di un albero. Ciò che può diventare un tavolo, è potenzialmente un tavolo, ma attualmente è un'altra cosa (per esempio un albero).
La causa formale è il «progetto» della cosa, è ciò che dà una forma alla materia. La forma è in atto ciò che la materia era solo in potenza. Ogni trasformazione (= «cambiamento di forma») è un passaggio dalla potenza all'atto. Prendiamo un seme. A guardarlo non sapremmo proprio dire che cosa possa diventare. Se però lo mettiamo sotto terra si gonfia, si apre, diventa un germoglio, poi una piantina, infine un albero. Il seme, dunque, era in potenza un albero. Prendiamo ora l'albero perfettamente sviluppato. È venuto fuori da quel seme, ma ha i caratteri comuni a tutti gli altri alberi e guardandolo pensiamo: «ecco un albero» (ossia richiamiamo alla mente l'idea di Albero). Quel seme, dunque, non solo era in potenza quel tale albero che poi abbiamo visto crescere, ma aveva in sé la forma-Albero, che è la stessa per tutti gli alberi del mondo (è universale).
Aristotele avrebbe detto che l'azione di porre il seme nella terra è la causa efficiente di tutto il processo (lo ha avviato rendendo possibile la crescita); che l'albero nella pienezza del suo sviluppo ne è la causa finale; che il seme (che è in potenza il futuro albero) ne è la causa materiale; e che l'universale (la forma-Albero) ne è la causa formale.

LA FISICA DI ARISTOTELE

I Pitagorici e Platone avevano attribuito al mondo una struttura matematica e avevano immaginato che solo attraverso la matematica il mondo potesse essere compreso; nonostante il valore prevalentemente magico-teologico di tali asserzioni, la loro fisica era di tipo quantitativo. Anche gli atomisti erano sostenitori di una fisica di tipo quantitativo, nel senso che consideravano reali solo gli aspetti misurabili delle cose, ossia la forma, la dimensione e il peso.
Aristotele, che si opponeva al platonismo pitagoreggiante e ancora più radicalmente all'atomismo, costruì una fisica essenzialmente qualitativa, nella quale cioè la quantificazione dei fenomeni, i procedimenti di misura e il calcolo avevano un ruolo secondario rispetto all'interesse primario della definizione delle essenze, e della classificazione delle cose in base alle loro qualità.
Questo carattere prevalentemente qualitativo delle teorie fisiche rimase largamente prevalente nella scienza europea sino all'età di Galileo, sino a quando cioè una nuova sintesi dottrinale (in parte legata proprio alla ripresa di tesi platoniche e soprattutto atomistiche) non riuscì a sostituire vantaggiosamente i sistemi costruiti sul modello aristotelico.
Aristotele riprendeva nella sostanza la teoria degli elementi di Empedocle, che elencava quattro qualità o attributi fondamentali di tutte le cose: il caldo, il freddo, l'umido e il secco. Dalla combinazione di queste qualità nascono i quattro elementi, acqua, aria, terra e fuoco, come si vede nella figura.
La teoria degli elementi di Empedocle

La sostituzione di una qualità all'altra produce la trasformazione di un elemento in un altro; così, se il freddo si sostituisce al caldo, il fuoco diventa terra e l'aria acqua, e se il secco si sostituisce all'umido, l'aria diventa fuoco e l'acqua terra.
I quattro elementi costituiscono la materia dei corpi sublunari, mentre i corpi celesti sono fatti di un quinto elemento, l'etere (o «quintessenza»), già ipotizzato dai Pitagorici. Con la nozione di etere Aristotele riprendeva dai Pitagorici la concezione di una assoluta diversità di natura tra Cielo e Terra. Diversi per la loro costituzione materiale, i corpi celesti e quelli terrestri erano dotati anche di moti diversi.
Il moto circolare non ha inizio o fine e perciò, secondo Aristotele, è conforme alla natura incorruttibile ed eterna dei cieli. Il moto rettilineo, invece, che ha un inizio e una fine, come ha inizio e fine ogni cosa che sta sotto la sfera della Luna, è conforme alla natura delle sostanze terrestri. Il fuoco, l'aria, l'acqua e la terra, hanno però tendenze e proprietà diverse rispetto al moto: il fuoco e l'aria sono leggeri, e cioè si muovono verso l'alto; l'acqua e la terra sono pesanti, e cioè si muovono verso il basso.
Un corpo si muove di moto naturale quando segue la tendenza propria dell'elemento di cui è fatto, o, se è fatto di un miscuglio di elementi, dell'elemento che prevale sugli altri. Così, un corpo fatto prevalentemente di aria si muove di moto naturale se si sposta verso l'alto. Non tutti i movimenti che avvengono nel mondo sublunare sono però naturali. Esistono anche i moti «violenti», prodotti da forze che costringono i corpi a spostarsi in direzioni diverse da quelle che seguirebbero per natura: una pietra, che è fatta di terra, si muove spontaneamente verso il basso e può muoversi verso l'alto solo se c'è una spinta esterna capace di soverchiare la sua naturale tendenza a cadere.
In ogni movimento occorre distinguere il corpo che viene mosso (il mobile) dal motore che lo muove. Il motore può essere interno al corpo, come accade negli organismi animali (nei quali il motore è appunto l'anima) o esterno ad esso, come accade in un carro tirato da buoi. In ogni caso il moto violento dura finché il motore agisce direttamente sul corpo: un carro tirato da buoi cessa di muoversi quando i buoi vengono staccati o smettono di tirare.
Questa tesi di Aristotele incontrava delle difficoltà soprattutto nel caso dei proiettili, dove il moto continua anche quando il mobile si è staccato da suo motore. Facciamo l'esempio di un giavellotto lanciato da un atleta. Se l'atleta è il motore, fin dall'inizio del suo movimento il giavellotto se ne separa; il motore dovrebbe perciò cessare di agire e il giavellotto, liberatosi dal moto violento che gli è comunicato dall'atleta, dovrebbe riprendere il suo naturale moto di caduta. Come mai prosegue invece nella sua traiettoria?
Gli atomisti avevano immaginato la materia come un insieme di infiniti atomi fluttuanti nel vuoto infinito. Aristotele invece (ed è questo un altro essenziale aspetto della sua fisica) rifiutava assolutamente il vuoto, ritenendolo, come Parmenide, una nozione contraddittoria (vuoto = non-pieno = non-materia = non-essere). Senonché era opinione comune che il movimento fosse impossibile nel pieno, e infatti Parmenide, negando il vuoto aveva negato anche il movimento. Aristotele dovette dunque provarsi a salvare il movimento dimostrandone la possibilità nel pieno (e l'impossibilità nel vuoto). Vediamo come c'è riuscito.
Il giavellotto scagliato dall'atleta deve attraversare un mezzo continuo (ossia senza vuoti): l'aria. Questo mezzo esercita una certa resistenza, ossia si oppone al moto, che infatti è destinato prima o poi a cessare. Ma è proprio questo mezzo, secondo Aristotele, che, almeno per un certo tempo, mantiene il giavellotto in moto. Quando il giavellotto si stacca dall'atleta l'aria affluisce con violenza nel punto di separazione, dove altrimenti si formerebbe un vuoto (il che, per definizione, è impossibile). Questo afflusso di aria esercita una nuova spinta sul giavellotto e lo fa avanzare ancora un po'. Ma questo nuovo avanzamento fa affluire altra aria dietro il giavellotto e così via, fino a che la resistenza che l'aria oppone al moto del giavellotto non neutralizza del tutto la spinta che essa stessa le fornisce.
L'aria, ossia il mezzo in cui si muove, è dunque il vero motore del giavellotto e agisce su di essa per tutta la durata del moto, mentre l'atleta non le ha fornito altro che la spinta iniziale. È evidente allora che se invece dell'aria ci fosse il vuoto, il giavellotto non potrebbe mantenersi in moto dopo essersi separato dall'atleta.
Questa dottrina che spiegava in modo plausibile i moti detti «violenti», parve per molto tempo conforme all'esperienza oltre che alla ragione. Per dimostrarne l'erroneità sarebbe stato necessario precisare in termini quantitativi i dati dell'esperienza, e cioè misurare con esattezza le traiettorie percorse dai proiettili e le velocità del moto nei diversi punti della traiettoria.

ESSENZA, SOSTANZA

«Sostanza» viene dal latino substantia, che a sua volta corrisponde alla parola greca hypòstasis (ipostasi), e vuol dire alla lettera «ciò che sta sotto». Il termine sta dunque innanzi tutto ad indicare il fondamento delle cose, ciò che sta sotto alle cose quali appaiono. Sostanza è poi ciò che resta uguale a se stesso anche nel mutamento e che perciò costituisce il supporto permanente delle qualità che viene successivamente ad assumere. La sostanza, insomma, è il soggetto del mutamento. Sostanza è infine ciò che esiste di per sé, senza presupporre altro e senza dipendere da altro. Le idee di Platone sono sostanze appunto nel senso che hanno un'esistenza separata dalle cose e non hanno alcun bisogno delle cose per esistere.
In tutti questi significati (che sono evidentemente legati l'uno all'altro) l'arché dei filosofi ionici era sostanza: l'acqua, l'aria o l'apeiron erano infatti il fondamento comune di tutte le cose erano il soggetto di ogni trasformazione, e non presupponevano nulla all'infuori di sé, poiché erano il principio ingenerato ed eterno di ogni cosa. L'arché degli Ionici non era però solo sostanza, perché era anche causa e legge dell'universo. L'uso del termine sostanza in relazione alla filosofia di Aristotele presenta qualche difficoltà aggiuntiva. Con la parola substantia, infatti, è stato sempre tradotto in latino quello che Aristotele chiamava ousia, non hypòstasis. In verità, a ousia corrisponde in latino il termine essentia («essenza»), che però è entrato nell'uso molto più tardi. Così, nel mondo latino si è creata qualche confusione a proposito dei due termini.
Come abbiamo visto Aristotele distingue sostanza (ousia) prima da sostanza seconda. Sostanza prima è l'essere individuale che è il soggetto per eccellenza: poiché ha degli attributi, ma non è esso stesso un attributo, l'essere individuale può comparire in una proposizione solo come soggetto, mai come predicato. Sostanze seconde sono invece i nomi di specie, che designano un'intera classe di cose, come uomo, albero, mammifero, ecc. Essi possono comparire in una proposizione sia come soggetti sia come predicati: si può dire infatti «il mammifero è un animale», ma si può anche dire «l'uomo è un mammifero».
I nomi di specie sono sostanze solo in un significato estensivo del termine, primo perché non hanno (a differenza delle idee di Platone, che sono vere sostanze) un'esistenza separata dagli individui concreti e poi perché, per definizione, non sono suscettibili di mutamento (i singoli cani possono nascere, crescere, invecchiare morire, ma il concetto di cane non può cambiare mai), mentre le sostanze in senso proprio sono appunto i soggetti del mutamento.

MATERIA

In latino materia è un termine legato a mater che significa «madre», ma anche, nel linguaggio dei contadini e degli agronomi, «sostanza materna», ossia quella parte del tronco degli alberi da cui escono i polloni. Così, in latino materia, oltre ai significati che ha anche in italiano, vuol dire «legno» o, per meglio dire, «legname da costruzione». Più o meno lo stesso accade con il termine greco hyle, che vuol dire materia, ma anche legname (è infatti legato al latino silva e all'italiano selva). Il nesso originario è chiaro: materia è il legno con cui si possono costruire degli oggetti e, per estensione, è la sostanza di cui sono fatte tutte le cose.
Prima di Aristotele la nozione di materia aveva già una lunga storia dall'arché degli lopici, ai quattro elementi di Empedocle, ai semi di Anassagora, agli atomi di Democrito. Questa nozione si era venuta precisando anche in relazione a ciò che di volta in volta veniva indicato come contrario o diverso da essa. Empedocle aveva contrapposto la materia (i quattro elementi) all'energia (l'Amore-Odio); Anassagora l'aveva contrapposta allo Spirito (Nous); Parmenide e Democrito, definendola come pieno, l'avevano contrapposta al vuoto. Erano emersi così, per contrapposizioni successive, gli attributi della materia: l'inerzia (Empedocle e Anassagora), la pienezza, ossia il fatto di occupare spazio e avere estensione (Parmenide e Democrito) e naturalmente (su questo erano tutti d'accordo, da Talete a Democrito) l'eternità, il fatto cioè di non essere mai stata generata e di essere indistruttibile.
Con Platone tutta la tradizionale prospettiva di ricerca era cambiata e la nozione di materia era diventata improvvisamente «difficile e oscura». Per Platone esisteva la materia? Nel Timeo, a dispetto delle difficoltà che trovava in una simile ipotesi, accennava a un terzo principio oltre le idee e le cose: qualcosa di preesistente all'opera del Demiurgo, «ricettacolo di tutto ciò che si genera», che parrebbe proprio la materia primordiale. Ma è difficile capire quale genere di esistenza le attribuisse.
Nel linguaggio filosofico il termine materia (hyle) ha comunque acquistato un preciso significato tecnico solo con Aristotele. Aristotele però, assai più vicino all'impostazione platonica che a quella dei naturalisti, concepiva la materia in un modo tutto particolare, e, tanto per cominciare, negava che fosse sostanza. Materia per Aristotele era ciò da cui si può fare una cosa dandogli una forma. Materia è il seme rispetto all'albero, ma è anche l'albero rispetto al tavolo che ne ricaverà il falegname. Siccome poi nulla vieta che del tavolo si faccia legna da ardere, ciò che attualmente è tavolo (esiste nella forma del tavolo) è in potenza il fuoco che lo divorerà. Se il legno è la materia del tavolo, il tavolo e la materia della futura combustione.
«Materia», allora, è un termine che ha solo valore relativo. Una cosa, per Aristotele, è materia in relazione alla forma che è destinata ad assumere e non c'è materia se non in rapporto a una forma. La materia è il sostrato delle trasformazioni, perché è appunto ciò che può cambiare forma. Ma «la» materia in assoluto (ossia totalmente priva di forma) non esiste, non può esistere e non si può neppure pensare. Se non c'è materia senza forma, non c'è neppure, almeno in linea di principio, forma senza materia. E infatti ciò che davvero esiste è l'individuo, la cosa singola, che è unità indissolubile (sinolo, dice Aristotele con un termine greco che significa «tutt'insieme») di materia e forma.
Materia e forma non sono per questo equivalenti. Mentre la materia senza forma è impensabile, la forma totalmente priva di materia non lo è affatto: essa infatti non è altro che il concetto delle cose, ciò che delle cose si pensa, l'intellegibile per definizione.
Ed è per questo che Aristotele riconosce alla forma in qualche modo dignità di sostanza (e sia pure di sostanza seconda).

CLASSE, GENERE, SPECIE

La parola «specie» (che viene dalla radice indoeuropea spek = «osservare») ha il suo corrispondente greco in èidos (legato a idèin = «vedere») opposto a génos = «genere» (dalla radice indoeuropea gene = «generare»). Sia il genere sia la specie sono classi (dal latino classis = «gruppo, categoria» forse connesso a clamare, nel significato di chiamare, convocare e simili), ossia insiemi di oggetti che possiedono uno o più caratteri comuni. Il genere ha però un'estensione maggiore della specie (una specie è una parte di un genere). La «differenza specifica» è quel carattere (o insieme di caratteri) che differenzia una specie dalle altre specie dello stesso genere. Naturalmente tutte le specie che appartengono allo stesso genere hanno in comune un certo numero di caratteri (i caratteri appunto che definiscono quel genere particolare). Classificare vuol dire ordinare oggetti in gruppi o classi in funzione delle loro somiglianze o delle loro differenze. Poiché ciascuno percepisce a modo suo somiglianze e differenze, parrebbe che in ogni classificazione debba esserci un alto tasso di arbitrio. Per Aristotele, invece, la classificazione, se costruita rigorosamente esprime le «vere» relazioni esistenti tra le cose. Le cose (ossia gli individui) sono definiti necessariamente e univocamente dall'appartenenza ad una specie e a un genere, nel senso che, mentre le differenze puramente individuali sono accidentali, la loro vera natura (ossia l'essenza, il loro essere necessario) è data dall'insieme dei caratteri che hanno in comune con tutte le cose della stessa specie, e tra questi caratteri c'è, naturalmente, quello dell'appartenenza a un dato genere.

LA DEDUZIONE

Di una cosa di cui possiamo dire che è, possiamo dire anche altre cose: che ha certi caratteri o proprietà (per esempio che è bella o brutta), che si trova in un certo luogo (a scuola, in piazza, sul tavolo di cucina, ecc.) e in un certo tempo (adesso, ieri, trent'anni fa, ecc.), che sta compiendo una certa azione (corre, cade, galleggia, ecc.), oppure che sta in certi rapporti con altre cose (è maggiore o minore di un'altra, ecc.), e così via. Questi modi di descrivere le cose sono detti da Aristotele categorie. Categoria (dal verbo che in greco significa «affermare, enunciare, imputare») è ciò che si afferma di un soggetto: è, cioè, il predicato di una proposizione. Quando usiamo le categorie per qualificare o descrivere una cosa formuliamo infatti delle proposizioni (ossia dei giudizi). Se vogliamo descrivere Socrate utilizzando la categoria di bello/brutto diremo: «Socrate è bello» oppure «Socrate è brutto». I giudizi possono essere veri o falsi: per esempio (almeno a detta di quelli che lo hanno conosciuto) l'affermazione «Socrate è bello» è falsa, e l'affermazione «Socrate è brutto» è vera.
Unendo fra di loro diversi giudizi si ottiene un ragionamento, che può essere di tipo deduttivo o di tipo induttivo. Il primo, che Aristotele chiamava sillogismo (in greco è l'esatto equivalente di «deduzione»), è quello in cui, poste alcune premesse, ne deriva necessariamente una conclusione. Nella sua forma classica è costituito da tre giudizi concatenati fra di loro come in questo esempio:

1) Tutti gli uomini        È la cosiddetta "premessa maggiore",
   sono mortali            cioè un'affermazione di carattere ge-
                           nerale (riguarda tutti gli uomini).

2) Socrate è un uomo;      È la cosiddetta "premessa minore",
                           cioè un'affermazione di carattere par-
                           ticolare (riguarda un unico soggetto).

                   dunque

3) Socrate è mortale.      Conclusione.

Nella prima proposizione un'intera classe di soggetti (tutti gli uomini) viene assegnata ad una classe ancora più ampia (i mortali, che comprendono gli uomini, ma anche i cammelli, i leoni, i somari, ecc.). Nella seconda proposizione un individuo (Socrate) è assegnato alla classe meno ampia. Nella conclusione si constata semplicemente che se un soggetto (Socrate) appartiene alla classe meno ampia (gli uomini) deve appartenere anche alla classe più ampia che comprende la prima. La classe meno ampia (gli uomini) è un concetto presente in entrambe le premesse: si chiama termine medio del sillogismo.
L'ordine delle proposizioni nel sillogismo non può essere modificato a capriccio. Se, per esempio, avessimo posto come premesse le due affermazioni: «Tutti gli uomini sono mortali», «Socrate è mortale», non potremmo assolutamente concludere che Socrate è un uomo, perché Socrate potrebbe anche essere un cammello, un leone o un qualsiasi altro essere vivente. Il sillogismo ha le sue leggi e una di queste è appunto che non si può assegnare ad una classe (per esempio: «gli uomini») un soggetto di cui sappiamo soltanto che appartiene ad una classe ancora più larga (per esempio: «i mortali»).
Esempio illustrato di sillogismo


LOGICA

Nel linguaggio comune la parola «logica» indica la capacità di condurre in modo corretto un ragionamento (ad esempio: «Parmenide possiede una logica ferrea») oppure la coerenza di un discorso, di un comportamento, di un processo (ad esempio: «la logica degli avvenimenti»).
In filosofia «logica» è la dottrina delle strutture, delle forme e delle leggi del pensiero. È insomma quella parte della filosofia che non si occupa dell'oggetto (o contenuto) dei giudizi, ma solo del modo in cui essi sono formulati; non si occupa del fatto che essi corrispondano o meno alla realtà, ma solo della loro correttezza formale. Così, ad esempio, la proposizione «piove», che descrive un fatto di esperienza, ed è vera o falsa a seconda che piova davvero oppure che sia bel tempo, non interessa la logica; appartiene invece alla logica la proposizione «piove o non piove», che esprime una alternativa logicamente necessaria, e che è vera in ogni caso, qualunque tempo faccia.
Altro discorso riguarda il sillogismo aristoteliano:
«Tutti gli uomini sono mortali; Socrate è un uomo; dunque Socrate è mortale»
non è vero in relazione a Socrate, ma soltanto come esempio, modello o schema di ragionamento. Possiamo mutare il contenuto del sillogismo senza che cambi la sua struttura.
«Tutti i cani sono mortali; Boby è un cane; dunque Boby è mortale»
è un sillogismo identico al precedente, anche se è cambiato il soggetto di cui si parla.
Al posto dei soggetti Socrate e Boby, e delle classi «uomini», «cani», «mortali» potremmo adoperare dei simboli, per esempio delle lettere dell'alfabeto. Il nostro sillogismo sarebbe allora formulato così:

tutti gli A sono B
C è A
dunque
C è B

La logica classica ha individuato alcuni principi o leggi fondamentali del pensiero:

1) Principio d'identità.
Si esprime dicendo che «ciò che è è e ciò che non è non è». In simboli si esprime così: A = A, dove A può essere sia un concetto, sia una proposizione.

2) Principio di non contraddizione.
Si esprime dicendo che «il contrario del vero è falso». Aristotele lo espresse in questo modo: «È impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo e sotto il medesimo punto di vista, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto»; il che vuol dire che non è possibile affermare e insieme negare la stessa cosa.

3) Principio del terzo escluso.
È stato formulato sia come parte del principio di non contraddizione sia come principio autonomo. Si esprime dicendo che «di due proposizioni che si contraddicono a vicenda una è vera e l'altra è falsa», oppure che «se due proposizioni si contraddicono a vicenda, la verità o la falsità dell'una implica la falsità o la verità dell'altra».
Si può anche esprimere dicendo che «A è uguale o non è uguale a B, e non esiste altra possibilità». Così, ad esempio, o Socrate è un uomo o Socrate non è uomo, ma tra le due affermazioni non vi sono alternative.

I principi di identità, di non contraddizione e del terzo escluso sono stati considerati dalla logica classica come leggi assolute del pensiero. La logica moderna tende invece a considerarli come semplici regole del procedimento deduttivo. Contro tutti e tre sono state sollevate in diversi tempi delle obiezioni.
La critica più pertinente al principio di identità è che esso non svolge alcuna funzione nel nostro pensare perché non consente alcun ampliamento delle nostre conoscenze.
Il principio di non contraddizione è stato messo in discussione alla fine del Settecento da Immanuel Kant. Secondo Kant esistono proposizioni contraddittorie, o «antinomie», che si escludono a vicenda, ma che, prese separatamente, possono essere assunte come ugualmente vere.
La ragione, secondo Kant, si trova in una antinomia quando cerca di afferrare il concetto di mondo come totalità: poiché la totalità è al di fuori di qualsiasi esperienza possibile, rimane e rimarrà sempre un oggetto inconoscibile, e l'uomo non avrà mai la possibilità di decidere quale di due proposizioni contraddittorie che la riguardano sia la vera e quale la falsa. Così, secondo Kant, non è possibile decidere se il mondo ha avuto un inizio nel tempo oppure no, se avrà o no una fine, se è finito o infinito, ecc.
Quanto al principio del terzo escluso, agli inizi del Novecento sono apparse, in contraddizione con la logica classica, fondata sul binomio vero-falso, logiche a tre valori (oltre a «vero» e «falso» anche «possibile», «indeterminato», ecc.) o a più di tre valori. L'introduzione di un terzo valore (la nozione di possibilità) implica l'ammissibilità di proposizioni che non sono né definitivamente vere né definitivamente false.
Non ha senso, per esempio, chiedersi se la proposizione «domani pioverà» è vera o falsa: essa è, oggi, semplicemente indeterminata.

IL MERLO DAL BECCO ROSSO

Come si è visto la deduzione (o sillogismo) è il ragionamento che parte da una proposizione di carattere generale (tutti gli uomini sono mortali) per arrivare ad una proposizione di carattere particolare (Socrate è mortale). C'è da domandarsi ora come è possibile porre le premesse di un sillogismo, ossia, nel nostro esempio, come si fa a sapere in anticipo che tutti gli uomini sono mortali. È qui che entra in gioco l'induzione. Mentre la deduzione va dal generale al particolare, l'induzione fa il percorso inverso, dal particolare al generale: se in un grandissimo numero di casi si è constatato che gli uomini muoiono, è legittimo pensare che tutti gli uomini siano mortali. Naturalmente, se fossimo riusciti a constatare anche solo in un caso il contrario, quella proposizione sarebbe irrimediabilmente falsa; ma è giusto considerarla vera finché è confermata da tutti i casi a nostra conoscenza.
Su questo tutti è però necessario intendersi: «tutti i casi a nostra conoscenza» possono costituire un numero grandissimo ma si tratta pur sempre di un numero finito di casi; quando diciamo «tutti gli uomini sono mortali» intendiamo invece non solo tutti gli uomini di cui sappiamo per esperienza che sono morti, ma anche tutti quelli che sono ancora vivi, e tutti quelli che non sono ancora nati, e insomma un numero infinito di uomini. Questa è la più importante caratteristica del ragionamento induttivo, che è fondato sull'esperienza, rispetto alla deduzione (o sillogismo) che è un procedimento puramente razionale: mentre nella conclusione di un sillogismo non c'è nulla di più di quel che è già implicito nelle premesse, l'induzione amplia la nostra conoscenza, nel senso che estende a un'intera classe di cose, costituita da un numero infinito di soggetti («gli uomini») le qualità che sono state verificate su un numero limitato di soggetti, ossia su un semplice campione di quella classe («tutti gli uomini di cui abbiamo potuto constatare la morte»). È evidente però che occorre stare molto attenti nel costruire a questo modo «leggi» o principi di valore universale.
Con qualche approssimazione possiamo assumere il procedimento induttivo, di cui Aristotele ha dato solo una prima teorizzazione, quale modello generalissimo dei procedimenti delle scienze empiriche, (dal greco en = «in» epeirìa = «esperienza»: le scienze cioè fondate sull'esperienza). Il fine che si propongono le scienze empiriche sembra essere appunto quello di formulare leggi che definiscano le proprietà delle cose e le modalità dei fenomeni osservati. Il termine «legge» è entrato da tanto tempo nell'uso corrente, che non vale davvero la pena di cambiarlo. Esso tuttavia è improprio, perché suggerisce l'idea di un Dio legislatore che avrebbe stabilito le regole a cui la natura deve obbedire. Come abbiamo visto, nelle antiche fantasie mitologiche sulle origini e sulla struttura dell'universo il termine aveva proprio questo significato e lo ha conservato in tutte le teorie che in un modo o nell'altro accettano l'ipotesi di un Dio autore del mondo. Ma anche quando una visione scientifica del mondo ha prevalso su quella teologica e l'idea di un Dio legislatore è stata abbandonata, è rimasta la convinzione che la natura «debba» comportarsi in accordo con quanto stabilito dalla scienza, ossia che le cosiddette «leggi» della natura scoperte dalla scienza siano necessarie e irrevocabili. Il che non è affatto vero ed esprime una fiducia «dogmatica» (ossia assai poco scientifica) nella scienza. Per convincersene basta pensare a come tali leggi vengono formulate. Prendiamo un caso molto semplice: quello del becco dei merli. Tutti sappiamo (anche se parecchi lo sanno solo per averlo sentito dire, perché non hanno mai visto un merlo) che il becco dei merli è giallo. Il pensiero teologico direbbe: «Dio ha voluto che i merli avessero il becco giallo». Il pensiero dogmatico direbbe: «un merlo non può non avere il becco giallo». Il pensiero critico cerca di capire quali sono i fondamenti della «legge» secondo la quale tutti i merli dovrebbero avere il becco giallo e constata che, in effetti, sono state effettuate lunghe e accurate indagini in tutte le parti del mondo, senza aver mai trovato un merlo con un becco di colore diverso. Ciò però non lo porta ad escludere che un giorno possa saltar fuori da qualche parte un merlo dal becco rosso o verde o azzurro, giacché non è mai stata dimostrata l'impossibilità di un simile evento. La verità delle leggi del tipo «tutti i merli hanno il becco giallo» è una verità provvisoria, buona fino a prova contraria. Non bastano cento o mille o un milione di merli, tutti con il loro bravo becco giallo, per assicurarci che non ce ne sono stati e che non ce ne saranno mai con il becco di un altro colore; basterebbe invece un solo merlo con il becco rosso per mandare all'aria la nostra legge. In realtà la scienza va a caccia proprio di merli con il becco rosso. La scienza, cioè, si interessa di più a un solo caso capace di dimostrare la falsità di una legge già accettata come vera, che non di tutti gli innumerevoli casi che sembrano confermarla. È in questo modo, infatti, che la conoscenza fa dei progressi.

GIUDIZI, PREDICATI, ATTRIBUTI

In generale il termine «giudizio» indica l'atto mentale (o il suo risultato) attraverso il quale distinguiamo il vero dal falso, il bello dal brutto, il buono dal cattivo, ecc.
A queste distinzioni corrispondono rispettivamente un giudizio conoscitivo (es.: il fuoco brucia), un giudizio estetico (es.: La Gioconda è un capolavoro), un giudizio etico (es.: Claudio è un poco di buono), ecc.
A questa definizione di giudizio si possono ricondurre i significati particolari in cui il termine e impiegato: opinione o parere (il giudizio degli esperti); la sentenza di un tribunale o anche il procedimento che porta alla sentenza (giudizio di primo grado); la capacità di comportarsi in modo assennato e prudente (un uomo di giudizio, l'età del giudizio); la facoltà di formulare giudizi, ossia di farsi delle opinioni (avere il giudizio sicuro).
In senso più strettamente logico si intende per giudizio l'atto mentale che afferma o nega un «predicato» (o «attributo») di un soggetto.
Nel giudizio i due termini, soggetto e predicato, sono legati insieme dalla copula, solitamente espressa da una forma del verbo essere (è/non è).
Per esempio: Socrate (soggetto) è (copula) mortale (predicato). Tradizionalmente i giudizi si dividono in analitici e sintetici.
I primi (a cui appartengono, ad esempio, i giudizi della matematica) sono quelli in cui il predicato è già implicitamente contenuto nel soggetto e l'analisi non fa che renderlo esplicito. Così, nel giudizio Il triangolo ha tre lati, il predicato («ha tre lati») è già contenuto nel soggetto («il triangolo»), poiché nessuna figura può essere un triangolo senza avere tre lati (un triangolo con un numero di lati diverso da tre sarebbe una contraddizione in termini).
Un discorso si dice tautologico (dal greco tautòs = «lo stesso» e logos = «discorso»), quando ripete nelle conclusioni affermazioni già contenute nelle premesse. Così definita, una tautologia, per quanto vera non porta alcun progresso alla conoscenza (ad es. «Il bene è il bene» è una definizione tautologica, vera, ma che non dice nulla. Al massimo (come è stato detto da Kant) un discorso o una definizione tautologica (per es. «Il triangolo ha tre angoli») può esprimere con più chiarezza ciò che è già contenuto in un concetto in modo implicito. È questo, appunto, il campo della conoscenza analitica.
Si dice che una proposizione è una tautologia anche quando è sempre vera, indipendentemente dalla verità o falsità degli elementi che la compongono.
«A = A» e «A o non A» (che potrebbe essere «piove o non piove») sono proposizioni sempre vere, e cioè tautologiche. In questo senso tutte le proposizioni logiche, le deduzioni, le operazioni matematiche fanno parte della classe delle tautologie.
I giudizi sintetici sono quelli in cui il predicato non è implicito nel soggetto e i due termini possono essere connessi tra di loro solo sulla base dell'esperienza.
Se per esempio diciamo: «Socrate è seduto», il fatto di essere seduto non è contenuto nel concetto di Socrate (il quale può stare benissimo in piedi senza generare alcuna contraddizione) e per stabilire la verità dell'affermazione non possiamo che constatare se lo sia davvero o no.
Un'altra distinzione tradizionale divide i giudizi in giudizi di fatto e giudizi di valore: mentre i primi si limitano a descrivere uno stato di cose (es.: Oggi piove), i secondi esprimono una valutazione o una presa di posizione (es.: Che brutta giornata! rientrano in questa categoria i giudizi morali, i giudizi estetici, ecc.).

EUCLIDE E ARCHIMEDE

Nel 332 a.C. Alessandro Magno aveva fondato Alessandria, la città destinata in breve tempo a soppiantare Atene nel ruolo di capitale intellettuale del mondo antico. Alla morte di Alessandro l'Egitto era caduto nelle mani di uno dei suoi generali, Tolomeo, che, come Alessandro, aveva avuto Aristotele come maestro. Tolomeo aveva voluto dotare la città di un istituto di ricerca e di insegnamento, il Museo, costruito sul modello del Liceo di Aristotele, ma su scala molto più ampia: aveva un organico di un centinaio di insegnanti e studiosi e disponeva di uno zoo, di un orto botanico, di un osservatorio astronomico e di una biblioteca che contava (pare) quasi mezzo milione di papiri. Il Museo di Alessandria restò in vita con alterne fortune per diversi secoli, ma nei suoi primi duecento anni costituì un punto di riferimento obbligato per qualsiasi uomo di scienza.
Fu proprio in Alessandria che, intorno al 300 a.C., nacque l'opera che costituisce tuttora, probabilmente, il testo scientifico più diffuso nel mondo: gli Elementi di Euclide. Negli Elementi non c'era molto di originale. Essi raccoglievano in tredici libri (altri due furono aggiunti da matematici posteriori ad Euclide) proposizioni e dimostrazioni geometriche provenienti da fonti diverse, e soprattutto da Eudosso e Teeteto. Il grande titolo di merito di Euclide stava però nel metodo usato nel sistemare la materia, in forza del quale la verità di ogni teorema geometrico era ricondotta, secondo le regole aristoteliche della dimostrazione, o a proposizioni la cui verità non aveva bisogno di dimostrazione perché universalmente evidente (assiomi e postulati) o ad altri teoremi già dimostrati in precedenza.
Per far questo Euclide aveva dapprima selezionato un certo numero di definizioni (relative agli enti geometrici primitivi, punto, retta, piano, spazio, sul tipo: il punto è ciò che non ha parti) e di enunciati di base, universalmente evidenti, di cui cinque relativi agli enti geometrici primitivi (sul tipo: tutti gli angoli retti sono uguali tra loro) e cinque di carattere generale (sul tipo: l'intero è maggiore delle parti). Anche se sulla validità del quinto postulato, quello delle parallele, sorsero presto (e forse già in Euclide) dei dubbi, la sistemazione euclidea della geometria risultò una costruzione singolarmente coerente, unitaria, elegante, tale da realizzare compiutamente l'ideale aristotelico di una scienza integralmente deduttiva. Per oltre due millenni gli Elementi hanno rappresentato nel mondo occidentale un modello insuperato di chiarezza e di rigore.
Se gli Elementi sono stati il prototipo dell'opera di scienza, il siracusano Archimede (287-212 a.C.) è stato sicuramente il prototipo dello scienziato. Versatile e geniale inventore (costruì i micidiali apparati che permisero ai Siracusani di resistere validamente all'assedio dei Romani), la tradizione gli ha attribuito tutti i tratti, anche comici, della figura convenzionale dello studioso: tanto assorbito dalle sue meditazioni da dimenticarsi di mangiare o da non accorgersi di essere minacciato da un nemico (che poi, di fatti, lo avrebbe ucciso), e così poco preoccupato delle convenienze da abbandonarsi a inconsulte manifestazioni di esultanza, come gli accadde quando, avendo scoperto, mentre stava facendo il bagno, che un corpo immerso in un liquido riceve una spinta verso l'alto pari al peso del liquido spostato, si slanciò tutto nudo per le strade gridando - Eureka, eureka! - (e cioè, in greco: - Ho trovato, ho trovato! -).
Anche Archimede aveva studiato in Alessandria dove aveva conosciuto allievi e successori di Euclide, come Eratostene di Cirene (284-192 a.C.), direttore della Biblioteca annessa al Museo e come Conone, con i quali, tornato a Siracusa, si mantenne in corrispondenza. Pare che al periodo alessandrino risalga l'invenzione della vite detta, appunto, «di Archimede», un semplice e ingegnoso apparato per sollevare l'acqua. Era un meccanico di straordinaria abilità e costruì, oltre alle macchine belliche di cui abbiamo fatto cenno, una quantità di apparecchi di ogni genere, tra cui diversi strumenti per l'osservazione astronomica e un planetario che riproduceva con notevole precisione i movimenti apparenti degli astri.
Per questa sua propensione per le costruzioni meccaniche e per le molte applicazioni pratiche della matematica che gli sono attribuite, Archimede è stato spesso contrapposto ad Euclide, che era invece rappresentante di una concezione tutta contemplativa e formalistica della scienza. In realtà, Archimede non teneva in alcun conto le proprie invenzioni e non era secondo a nessuno nell'apprezzare il carattere «puro» e disinteressato della ricerca. Come matematico seguiva il modello deduttivo della geometria euclidea. Pare però che ignorasse la condanna platonica dell'uso, nelle costruzioni geometriche, di sussidi materiali e meccanici (a parte la riga e il compasso, per i quali Platone, chissà perché, faceva un'eccezione) e che ricercasse per via sperimentale la soluzione dei problemi e solo in un secondo momento, conosciuto il risultato, ne fornisse una dimostrazione rigorosa.
In questa sua spregiudicatezza metodologica è stato visto un segno di modernità e l'espressione della sua sostanziale diversità rispetto alla tradizione rappresentata da Euclide. Per un moderno (ha scritto il matematico scozzese Eric T. Bell) tutto è lecito, non solo, come dice il proverbio, in guerra e in amore, ma anche in matematica. Per gli antichi, invece, la matematica era un curioso gioco, che si doveva giocare osservando strettamente le regole fissate da Platone. Archimede non si faceva scrupoli di questo genere e aggrediva i problemi con tutti gli strumenti a sua disposizione. Dopo di lui l'ossequio servile per i precetti e per le manie di Platone sarebbe stato un effettivo fattore di freno della ricerca matematica.

ASSIOMA, POSTULATO

Assioma (dal greco àxios = «degno»), è una proposizione evidente di per sé, che non ha bisogno di essere dimostrata e che serve come punto di partenza per la dimostrazione di altre proposizioni. Si distingue dal postulato (dal latino postulo = «chiedo») che è una proposizione che si assume per vera non perché la sua verità sia intrinsecamente evidente, ma perché tale verità è richiesta da altre proposizioni che, a loro volta, appaiono incontestabili. Assiomi e postulati si distinguono dalle ipotesi, che sono proposizioni assunte come vere solo provvisoriamente, in vista cioè di un controllo che ne stabilisca la verità o la falsità.

LA SCUOLA PERIPATETICA

Al Liceo di Aristotele venne dato anche il nome di peripatòs (e peripatetici venivano chiamati i discepoli di Aristotele), a causa dei viali lungo i quali maestro e allievi discorrevano passeggiando (peripatòs significa infatti «passeggiata»).
A differenza dell'Accademia platonica, dove era in grande onore la matematica, nel Liceo si coltivavano soprattutto ricerche di biologia, zoologia, botanica, mineralogia, ecc., quelle, cioè che oggi chiameremmo «scienze naturali». Dato questo particolare indirizzo, si capisce facilmente quanto importante fosse il favore di Alessandro Magno e dei suoi funzionari soprattutto in relazione alla raccolta di un abbondante materiale di studio. A quanto si racconta, Aristotele riservava il mattino al lavoro con gli allievi più preparati o che da più tempo seguivano le sue ricerche, e dedicava il pomeriggio alle discussioni con un più vasto pubblico di frequentatori. La tradizione chiama «esoterico» o «interno» l'insegnamento del mattino e «pubblico» o «esterno» quello del pomeriggio. Questo però non significa che Aristotele considerasse segreta, al modo dei Pitagorici, una parte delle sue dottrine: si trattava di una semplice distinzione funzionale tra corsi di diverso livello.
Alla morte di Aristotele la direzione della scuola peripatetica fu assunta da Teofrasto (c. 372-287 a.C.), uno studioso con forti interessi scientifici ed eruditi, autore di numerosi scritti di etica e di metafisica ma soprattutto di botanica, metereologia, scienze naturali in genere. Teofrasto riuscì a consolidare l'immagine del Liceo come istituto di ricerca, acquisendo nuovi terreni e nuovi edifici e sistemandovi le raccolte avviate da Aristotele e arricchite di libri, oggetti esotici e curiosi, piante ecc. Quando un suo allievo, Demetrio di Falero, filosofo ma anche politico ambizioso, fu nominato governatore di Atene per conto dei Macedoni, il Liceo diventò una specie di istituzione ufficiale, sostenuta con fondi pubblici. Fu lo stesso Demetrio che, passato al servizio di Tolomeo I Sotero, re d'Egitto, suggerì la costruzione in Alessandria del Museo e della Biblioteca sul modello del Liceo.
Gli studiosi raccolti nel Museo erano pagati dallo Stato, ma non pare che fossero tenuti a svolgervi regolari corsi di lezioni: potevano quindi dedicarsi per intero alla ricerca.
Erano distinti in due gruppi: i filologi (grammatici, storici, eruditi) e i filosofi. Quelli designati "filosofi", però, più che di metafisica e di morale si occupavano di matematica, di astronomia, di scienze naturali.
Questo indirizzo era in parte dovuto all'influenza esercitata sull'attività del Museo da un altro discepolo di Teofrasto, Stratone di Lampsaco, che era alla corte di Tolomeo in qualità di educatore del figlio del re, il futuro Tolomeo II Filadelfo. Gli interessi scientifici di Stratone, infatti, erano orientati, ancora più che in Teofrasto, verso la ricerca empirico-naturalistica (Aristarco di Samo, l'astronomo famoso per l'elaborazione di un'ipotesi eliocentrica del mondo, fu uno dei suoi allievi). Il legame tra il Museo di Alessandria e il Liceo di Atene fu ribadito nel 287 a.C., quando, morto Teofrasto, Stratone fu chiamato a succedergli nella direzione della scuola peripatetica.

LO SCETTICISMO

Scepsi (in greco sképsis, derivato di skèptesthai = «osservare») significa ricerca, dubbio, e «scetticismo», anche nel linguaggio comune, sta a indicare incredulità, diffidenza, mancanza di fiducia. In filosofia «scetticismo» sta a indicare un atteggiamento di dubbio sistematico, che nega la possibilità di conoscere il reale, ma con questo non pretende affatto di affermare l'impossibilità di conoscerlo. Lo scetticismo si oppone al «dogmatismo» (dal greco dògma = «opinione», «dottrina», anche nel senso specifico di «principio incontestabile», derivato da dokèin = «pensare»), che è l'atteggiamento di chi non ammette opposizioni o dubbi su quanto afferma, o di chi afferma qualcosa senza sufficiente fondamento. Ma per gli scettici, che negano la possibilità di qualsiasi affermazione, chiunque affermi qualcosa lo fa senza fondamento, sicché per loro qualunque filosofia all'infuori di quella scettica è dogmatica.
Il fondatore dello scetticismo antico è tradizionalmente considerato Pirrone di Elide (c. 365 - c. 275 a.C.), che non ha lasciato alcuno scritto, ma che ci è noto attraverso l'opera di un suo discepolo, Timone di Fliunte (c. 325 - c. 230 a.C.), che abbiamo già ricordato per le frecciate lanciate contro alcuni filosofi dogmatici. Pirrone, come poi Epicuro e gli Stoici, partiva da un assunto di ordine pratico: assumeva, cioè, la felicità come scopo dell'uomo e la identificava (anche qui restando nella tradizione) nella mancanza di turbamento o atarassia. Ma per arrivare all'imperturbabilità del filosofo, secondo Pirrone, bisogna superare lo sconcerto prodotto in noi dall'inafferrabilità del reale; ogni cosa, diceva, è incerta e di fronte all'impossibilità di discernere con sicurezza le cose il solo atteggiamento ragionevole è l'aphasìa (composto di a- privativo e phànai = «parlare»), ossia il silenzio, il rifiuto di affermare o negare qualsiasi cosa. Altri scettici dopo di lui invece di afasia avrebbero parlato di epoché, ossia di sospensione del giudizio (dal verbo epèchein = «trattenere»), ma si tratta di concetti molto simili.
Senonché, come ebbe ad osservare, tra gli altri, anche Carneade (c. 219 - c. 129 a.C.: è il filosofo di cui don Abbondio nei Promessi Sposi cercava di ricordare chi diavolo fosse), il dubbio degli scettici non può che essere un dubbio radicale, una negazione che si ritorce, in un certo senso, contro se stessa: se non possiamo mai affermare di sapere qualcosa con certezza, non possiamo neppure affermare che sappiamo di non sapere. Anche Carneade non ha lasciato nulla di scritto, sicché conosciamo il suo pensiero solo attraverso testimonianze molto posteriori e in particolare quella di Sesto Empirico (c. 180 - c. 220 d.C.), l'ultimo dei grandi filosofi scettici dell'antichità. Sesto Empirico (che era un medico, professione a cui allude, appunto, l'appellativo di «empirico») ha espresso la radicalità del dubbio scettico con un'immagine indubbiamente efficace: lo scetticismo, ha detto, è come la purga, che insieme agli umori espelle dal corpo anche se stessa.

L'EPICUREISMO

Epicuro nacque a Samo nel 341 a.C. da padre ateniese. Quando, sui diciott'anni, venne ad Atene, Aristotele insegnava al Liceo e Senocrate dirigeva l'Accademia platonica. Epicuro però, che aveva cominciato a occuparsi di filosofia giovanissimo, era contrario sia agli aristotelici, sia ai platonici, e finì, a poco più di trent'anni, col fondare una propria scuola, detta «il Giardino» perché aveva sede in una casa con giardino, che poi Epicuro lasciò in eredità ai discepoli. Cosa insolita nella Grecia del tempo, alle riunioni del Giardino erano ammessi anche gli schiavi e le donne.
Anche se Epicuro affermava di non aver avuto maestri e ostentava scarso rispetto per gli altri pensatori, la sua filosofia non era particolarmente originale. Per quello che riguardava la scienza della natura, infatti, Epicuro non faceva che riprendere le teorie di Democrito, mentre per quello che riguardava la dottrina morale della felicità come valore supremo della vita si ispirava largamente, oltre che allo stesso Democrito, all'edonismo dei Cirenaici.
Da Democrito però Epicuro si differenziava, oltre che per alcune marginali (e non sempre felici) correzioni apportate alla teoria degli atomi, anche (e soprattutto) per il valore solo strumentale che attribuiva alla scienza della natura. Per Epicuro infatti essa non serviva che a liberare gli uomini da quelle superstiziose fantasticherie che sono causa di turbamento e di infelicità: l'ossessione della morte, la paura degli Dei, l'attesa angosciosa di una vita ultraterrena, il mistero dell'aldilà:

... se non fossimo turbati dal sospetto e dal timore delle cose celesti, - diceva, - se non temessimo che la morte possa essere per noi qualcosa, e se non ci pesasse ignorare i limiti dei dolori e dei piaceri, non avremmo bisogno di una scienza della natura...

Un esempio di questa funzione rassicurante e consolatoria che Epicuro attribuiva alla filosofia è dato dalla nota dimostrazione della non temibilità della morte:

... il più orribile dei mali, la morte, non è nulla per noi, giacché quando noi siamo, la morte non c'è, e quando la morte è, noi non ci siamo più...

Anche se non negava esplicitamente l'esistenza degli Dei, la filosofia di Epicuro era tutta un'esortazione a liberarsi degli oscuri miti e delle assurde credenze della religione, mediante il corretto uso della ragione e la conoscenza delle vere cause dei fenomeni naturali. Negli ambienti intellettuali questa indicazione fu largamente raccolta tanto in Grecia, quanto nel mondo romano. Per secoli, anzi, la figura di Epicuro ha continuato a incarnare l'opposizione del razionalismo materialistico ad ogni forma di superstizione.
Riconoscendo alla filosofia la funzione, più pratica che teorica, di antidoto della paura, Epicuro rischiava però di sottovalutare gravemente la ricerca disinteressata della verità ed anzi di bloccarla del tutto. Un'indagine disinteressata (ossia non preconcetta, che non pretende di conoscere in anticipo le conclusioni a cui arriverà) deve rischiare (anche se si tratta di un'eventualità estremamente remota) di trovare alla fine conferma proprio di quelle angosciose fantasticherie, delle quali ci si vorrebbe liberare.
Questa è forse una delle ragioni della scarsa produttività scientifica della scuola epicurea, che pure continuò a fiorire per secoli: agli Epicurei non interessava davvero scoprire verità nuove, perché non avevano alcuna intenzione di rinunciare alle confortanti opinioni del maestro. Così, i più inflessibili avversari della superstizione finivano paradossalmente per fare della scienza un uso per certi aspetti superstizioso!
Se scarsi sono i risultati raggiunti dalla scuola epicurea sul terreno scientifico, di altissimo valore sono invece quelli raggiunti nel campo della divulgazione da uno dei suoi più illustri seguaci, il poeta latino Lucrezio, che nel primo secolo a.C. ha dedicato un poema di straordinaria bellezza, il De rerum natura (La Natura), alla fedele esposizione della filosofia di Epicuro. Epicuro è raffigurato da Lucrezio come l'eroe che ha liberato l'umanità dalla tirannide della religione:

... Mentre la vita umana si trascinava in terra apertamente e vergognosamente oppressa dal peso della religione, che mostrava il suo volto dall'alto dei cieli incombendo sui mortali con il suo orribile aspetto, per primo un greco - un uomo, un mortale! - osò levare contro di lei i suoi occhi e resisterle; né le spaventose dicerie circa gli Dei, né i fulmini, né il cielo stesso con i suoi minacciosi brontolii riuscirono a fermarlo, ché anzi non fecero che eccitare ancora di più il suo ardore e il suo desiderio di forzare per primo i ben serrati chiavistelli delle porte della Natura.
E alla fine il vigore esuberante del suo animo ha trionfato: ha superato le fiammeggianti barriere del nostro universo e tutto l'infinito ha esplorato con la mente e col pensiero, e dall'infinito è poi tornato vittorioso per darci conto del possibile e dell'impossibile, e della ragione che ad ogni cosa assegna determinate facoltà e limiti precisi...

Quella di Epicuro fu una tipica morte «filosofica». Sentendo prossima la fine volle scrivere una lettera all'amico Idomeneo a cui diceva tra l'altro che la gioia che gli aveva procurato il ricordo delle loro antiche conversazioni filosofiche aveva compensato efficacemente gli orribili dolori procurati dal calcolo alla vescica che, impedendogli di urinare, lo stava conducendo a morte. Volle poi immergersi in una vasca di bronzo piena di acqua calda e, chiesta una coppa di vino, la bevve d'un fiato. Infine spirò, non senza aver raccomandato agli amici i suoi insegnamenti.

L'EDONISMO DEGLI EPICUREI

Nell'uso corrente il termine «epicureo», oltre a indicare in senso proprio il seguace della dottrina di Epicuro, vuol dire anche uomo gaudente, voluttuoso, che fa dei piaceri del corpo l'unica o la principale ragione di vita. I due significati sono naturalmente legati fra di loro, ma il secondo non rende affatto giustizia al primo. Come talvolta accade, il linguaggio comune ha conservato nel significato dispregiativo della parola un'antica calunnia ai danni di Epicuro e dei suoi seguaci: di essere cioè dei predicatori di dissolutezze.
La verità è ben altra. Epicuro era dichiaratamente un edonista, ma, come ebbe più volte occasione di precisare, il piacere di cui parlava era piuttosto liberazione dal dolore e la felicità che invitava gli uomini a conquistare era più serenità d'animo che benessere fisico:

... quando diciamo che il fine è il piacere, non intendiamo il piacere dei gaudenti e dei dissoluti, come credono certuni che, ignoranti o prevenuti, non ci capiscono; intendiamo invece l'assenza di dolore fisico e di sofferenze morali. Giacché non sono certo i pranzi e le feste, o l'amore di giovinetti e di donne, o i pesci e gli altri cibi che si trovano sulle mense raffinate, che rendono dolce la vita, ma piuttosto quel sobrio giudizio che permette di discernere le ragioni di ogni scelta e di scacciare le idee sbagliate che riempiono gli animi di angoscia...

La felicità consiste nella soddisfazione dei bisogni. Ma ci sono bisogni e bisogni: alcuni (quelli che riguardano il benessere del corpo e la serenità dell'anima) sono naturali, altri invece sono fittizi, artificiali, indotti dalla moda, o dall'ambizione di gareggiare con altri, o da altre irragionevoli motivazioni. L'uomo prudente evita con cura di crearsi bisogni superflui, si attiene al necessario, valuta i suoi desideri in funzione dei valori primari della salute del corpo e della tranquillità dell'anima:

... ogni piacere è di per sé un bene. Ciò non vuol dire però che si debba andar dietro a qualsiasi piacere. Allo stesso modo ogni dolore è di per sé un male, il che non significa però che ogni dolore sia da scansare. Bisogna saper giudicare i piaceri e i dolori dall'utile o dal danno che se ne ricava; molte volte infatti il bene si risolve in male e il male in bene...

L'uomo prudente, saggio (oggi diremmo «di buon senso»), non lo spensierato gaudente o il dissoluto, è quello che sa davvero apprezzare il piacere, è il vero edonista:

... esser liberi dai desideri è un gran bene non perché ci si debba sempre accontentare di poco, ma perché, se il molto non c'è, il poco ci basti; siamo del resto persuasi che sia in grado di apprezzare di più l'abbondanza chi meno ne sente il bisogno...

Virtù e piacere, ragionevolezza e felicità sono una cosa sola:

... Non c'è vita piacevole che non sia saggia, bella, giusta; e non c'è vita saggia, bella e giusta che non sia piacevole. Perché in verità le virtù sono connaturate al piacere e la felicità è inseparabile dalla virtù...

LO STOICISMO

Qualche tempo dopo l'apertura del Giardino di Epicuro, arrivò in Atene dall'isola di Cipro Zenone di Cizio (c. 333 - c. 263 a.C.), che prese ad insegnare filosofia presso un portico decorato dal celebre pittore Polignoto; da stoà, che in greco significa «portico», alla dottrina di Zenone e a quella dei suoi seguaci e continuatori è stato dato il nome di «stoicismo».
Lo stoicismo era una corrente eclettica, che condivideva la tendenza, già presente nell'epicureismo e frequente nelle scuole filosofiche dell'età ellenistica e romana, a conciliare diversi indirizzi di pensiero e a costruire nuove dottrine scegliendo e combinando insieme elementi di sistemi filosofici preesistenti.
La fisica stoica, ad esempio, basata sull'idea di un mondo dotato di anima, vero e proprio essere vivente, governato dalla provvidenza, ineluttabilmente trascinato al fine segnato dal destino, permeato dal fuoco-logos divino e soggetto a cicli successivi di morte e di rinascita (e cioè a periodiche conflagrazioni cosmiche col conseguente ritorno di tutte le cose al caos originario), era un suggestivo miscuglio di motivi eraclitei, pitagorici, platonici, ecc., con elementi tratti dalle religioni e dalle filosofie orientali.
In linea di principio lo stoicismo si poneva come alternativa radicale all'epicureismo. Così la fisica degli Stoici, con il suo impianto finalistico e la sua insistenza sulla presenza del divino nel mondo, era l'esatta negazione del determinismo rigoroso della teoria atomistica, che Epicuro aveva ripreso da Democrito. Quanto alla dottrina morale, mentre gli Epicurei, che si ispiravano ai Cirenaici, erano indicati come i «filosofi del piacere», gli Stoici si rifacevano ai Cinici e si proclamavano «filosofi del dovere».
Proprio sul terreno dell'etica, però, l'opposizione tra i due indirizzi era assai meno marcata di quanto potrebbe sembrare. Stoici ed Epicurei concordavano infatti nell'identificare felicità e virtù, saggezza e libertà morale (intesa come indipendenza del saggio dai bisogni materiali e dalle suggestioni dei sensi). Gli Stoici parlavano a questo proposito di apatia (assenza di passioni), mentre gli Epicurei preferivano rifarsi al concetto democriteo di atarassia (imperturbabilità), ma gli uni e gli altri predicavano in sostanza una forma di rigoroso autocontrollo.
Le differenze erano piuttosto di accento, di stile: aperto, comprensivo, sorridente quello degli Epicurei; severo, drammatico, con qualche propensione per l'enfasi eroica e gli atteggiamenti statuari quello degli Stoici.
La frugalità consigliata da Epicuro era già un ideale riservato a pochi, perché fondato su quel buon senso che difficilmente diventa senso comune. Ma ancor più aristocratico era il disprezzo ostentato dagli Stoici per i bisogni del corpo e per le passioni dell'anima: il loro senso del dovere si spingeva sino all'elogio del suicidio, che era approvato come estrema forma di difesa contro la malvagità e la volgarità del mondo.

DUE ILLUSTRI VITTIME DI NERONE: SENECA E PETRONIO

Il filosofo latino Lucio Anneo Seneca nacque a Cordova, probabilmente verso il 4 a. C., ma ancora bambino si trasferì a Roma, dove intraprese gli studi di grammatica e di retorica. Più che alle cosiddette artes liberales, però, Seneca si dedicò alla filosofia, aderendo all'indirizzo stoico, di cui sviluppo in particolare le dottrine morali. Seguendo gli insegnamenti dello stoicismo, Seneca si propose una condotta di vita esemplare, anche se, in verità, non mancò di cedere alle lusinghe del potere quel tanto che era necessario per diventare un personaggio di rilievo nella corte imperiale. A lui Agrippina, moglie dell'imperatore Claudio, volle affidare l'educazione di suo figlio Nerone, che evidentemente non trasse gran frutto dai suoi insegnamenti, visto che come imperatore è passato alla storia per le sue efferatezze, tra cui l'assassinio della madre e l'incendio di Roma. Tacito, lo storico latino autore degli Annali, ci descrive Seneca, ormai settantenne che, accusato da Nerone di avere partecipato ad una congiura contro di lui, riceve l'ordine di suicidarsi:

... per nulla turbato, chiese che gli fosse portato il testamento. Al rifiuto del centurione, si rivolse agli amici: - A voi, poiché mi è vietato riconoscere i vostri servigi, lascio l'unico dono che mi resta e che è tuttavia il maggior bene, l'esempio della mia vita -. [...] E vedendoli piangere, ora con un tranquillo ragionare, ora con parole severe, li richiamava alla fermezza: - Dove son finiti dunque i precetti della nostra filosofia e le regole di comportamento contro le avversità sempre incombenti che per tanti anni abbiamo fatto oggetto delle nostre meditazioni? -...

Un'altra illustre vittima di Nerone fu lo scrittore Petronio, il raffinato autore del Satyricon, un'opera parte in prosa e parte in poesia che, facendo la parodia di diversi generi letterari dai romanzi d'amore ai poemi eroici e raccontando le grottesche avventure di due amanti, costituisce uno straordinario documentario della società volgare e godereccia degli arricchiti, degli avventurieri e dei parassiti. Anche Petronio era un personaggio importante della corte imperiale nella quale lo stesso Nerone gli aveva riconosciuto il ruolo incomparabile di arbiter elegantiae, ossia di arbitro del gusto. Tacito, sempre negli Annali, ci racconta il suo suicidio: accusato, come Seneca, di congiura, Petronio decise di togliersi la vita senza neppure attendere l'ordine imperiale. La sua morte, così come quella di Seneca, rispecchia lo stile con cui aveva sempre affrontato la vita. Senonché, mentre Seneca era uno stoico, Petronio era un epicureo:

... quasi a capriccio, si fece prima recider le vene, poi se le fece richiudere, poi nuovamente aprire, conversando con gli amici senza affettazione di austerità o d'eroismo; né volle da essi gravi discorsi sulla immortalità dell'anima o massime filosofiche, ma poesie leggere e versi scherzosi. [...] Sedette a mensa, e si abbandonò al sonno, perché la morte, sebbene subita a forza, sembrasse coglierlo a caso.
Nel suo testamento non scrisse parola di adulazione né per Nerone, né per Tigellino, né per altri potenti, come facevano di solito coloro che stavano per morire, ma annotò accuratamente le infamie dell'imperatore...

APATIA, ATARASSIA, ECLETTISMO

«Apatia» (composto del prefisso a- con valore privativo e del greco pàthos = «passione») è l'indifferenza del saggio alle passioni e al dolore; gli stoici indicavano con questa parola la serenità conseguente al disprezzo per i bisogni del corpo e per le suggestioni dei sensi.
«Atarassia» (composto dal prefisso a- con valore privativo e da tàraxis = «turbamento») significa «assenza di turbamento» e dunque «imperturbabilità». Democrito usava questo termine per indicare la tranquillità d'animo, che risulta dalla capacità di godere con misura dei piaceri della vita secondo un ideale di equilibrio e di armonia. Negli Epicurei significava essenzialmente assenza di dolore e di paura.
«Eclettismo» (dal verbo greco eklégein = «scegliere») è l'indirizzo che tende a conciliare scuole di pensiero diverse scegliendo da ciascuna di esse principi o dottrine particolari e ricombinandoli insieme in un nuovo sistema che dovrebbe assommare i pregi (ossia gli elementi di verità) presenti nei sistemi precedenti.
Di fatto una simile operazione si presenta di solito come semplice giustapposizione di dottrine già espresse cd è caratteristica di epoche e di ambienti dotati di scarsa originalità di pensiero. Nel linguaggio comune la parola ha anche un valore positivo e sta a indicare la capacità di una persona di coltivare con successo interessi diversi.

MATERIALISMO E ILOZOISMO

Il termine «materialismo» designa tutte quelle dottrine che individuano nella materia il solo e unico fondamento della realtà. Il materialismo è insomma una forma di monismo, che nega l'esistenza autonoma di sostanze spirituali e riduce tutti i fenomeni a modi di essere della materia. Gli si oppongono lo spiritualismo e l'idealismo, che sostengono invece il primato dello Spirito (o delle Idee) sulla materia, considerata come principio di degradazione della realtà o addirittura come non-essere, come non-realtà.
Il termine materialismo è piuttosto recente: è infatti entrato nell'uso all'incirca tre secoli fa. Ma già nell'antichità classica c'era almeno una dottrina coerentemente materialistica: l'atomismo di Democrito. Come si è visto, Democrito poneva come principio di tutte le cose gli atomi, particelle materiali invisibili e indivisibili, che si muovono senza alcuno scopo nel vuoto infinito e che, cozzando casualmente tra di loro, si uniscono secondo pure combinazioni meccaniche e danno vita a infiniti mondi (e agli infiniti corpi che costituiscono ciascuno dei mondi esistenti). Da questa concezione materialistica del mondo Democrito traeva una gnoseologia materialistica (ossia una dottrina materialistica della conoscenza): la conoscenza è possibile in quanto dagli oggetti si staccano sottili pellicole materiali che colpiscono i nostri organi di senso producendo così le sensazioni.
Al materialismo si collega il meccanicismo (dal greco mechané = «macchina») ossia quella corrente di pensiero che interpreta l'universo sul modello di una grande macchina e che spiega i fenomeni naturali facendo ricorso unicamente alle nozioni di materia e di movimento. Quando (come nel caso di Democrito) tutti i fenomeni della natura (non solo quelli fisici, ma anche quelli psichici: sensazioni, pensieri, passioni, ecc.) sono ricondotti a movimenti di materia, meccanicismo e materialismo si identificano. Una spiegazione materialistica e meccanicistica della realtà non ha alcun bisogno di divinità o di enti soprannaturali, e perciò di solito coincide con l'ateismo (termine greco composto da a- privativo e theòs = «Dio»). Simile a meccanicismo è «determinismo» (dal verbo «determinare» nel senso di produrre, provocare, causare), che è la dottrina secondo cui ogni evento è prodotto secondo leggi necessarie e tutti i fenomeni sono collegati da rapporti causali (anche se non si tratta necessariamente di cause meccaniche).
Il compito del filosofo materialista è la ricerca dei «meccanismi» della natura, ossia delle leggi che regolano in modo necessario i movimenti della materia. La teoria di Democrito, ad esempio, spiegava il mondo attraverso una stretta concatenazione causale: l'aggregazione degli atomi (che dà vita ai corpi ed è una forma di movimento) si genera per effetto di quei vortici (altra forma di movimento), che sono conseguenza delle innumerevoli collisioni (altra forma di movimento) prodotte dal moto disordinato degli atomi: un movimento, quest'ultimo, che è originario (ossia non prodotto da altra causa, ma insito nella materia) ed è la causa prima di ogni altro evento.
Le teorie di Democrito sono state riprese nel mondo greco da Epicuro e in quello latino da Lucrezio. Per Epicuro gli atomi non vagano a caso nello spazio, ma secondo una specie di regola; alcuni di loro subiscono una deviazione (in greco parénklisis, che Lucrezio traduce in latino con clinamen = «inclinazione»), e appunto tale deviazione determina l'incontro e l'aggregazione degli atomi. Epicuro tentava in questo modo di rispondere alla principale obiezione rivolta alla teoria di Democrito: se tutto si muove a caso, come mai gli atomi non si uniscono in aggregazioni casuali (prive di regole), ma danno invece vita a forme coerenti e organizzate? Il clinamen avrebbe dovuto rappresentare appunto quel criterio di organizzazione della materia, che sembrava mancare nella teoria di Democrito. Si trattava però di una escogitazione poco felice: da un lato non spiegava nulla di più di quanto già non facesse il moto degli atomi in ogni direzione previsto da Democrito; dall'altro anziché salvaguardare il rigoroso meccanicismo di Democrito, ne smarriva o oscurava l'ispirazione fondamentale, ossia l'intuizione dell'essenziale identità di caso e necessità.
Non esattamente materialisti, appunto perché privi della nozione di causalità meccanica, erano altri sistemi filosofici dell'antichità classica, che pure facevano della natura il loro principale oggetto di ricerca. Così, ad esempio, i naturalisti presocratici (Ionici, Eleati, ecc.) concepivano la sostanza primordiale come qualcosa, sì, di corporeo, ma non di inerte. La sostanza del mondo, infatti, era per loro intrinsecamente dotata di forza; e questa forza non era semplice energia meccanica (come quella che Democrito attribuiva agli atomi perennemente in moto), ma una sorta di energia vitale, o addirittura di principio razionale, logos (ragione), nous (mente), ecc., capace di agire in modo cosciente o intenzionale (in funzione, dunque, di un fine). Per questo tipo di teorie si parla di «vitalismo» o, meglio, di «ilozoismo» (dal greco hyle = «natura» e zoé = «vita»: «dottrina che considera la natura come dotata di vita»), il termine ilozoismo è stato coniato tra Sei e Settecento, ossia pressappoco nello stesso periodo di «materialismo».
Al determinismo o meccanicismo dei materialisti si contrappone il finalismo o «teleologia» (dal greco télos = «fine», «scopo»), ossia la concezione che tende a spiegare le cose con le loro presunte finalità e trova dovunque un elemento intenzionale, un disegno provvidenziale, un significato morale. Si potrebbe dire che mentre il meccanicismo spiega ogni evento con ciò che lo ha preceduto, il finalismo lo spiega con ciò che viene dopo. Sono proposizioni di sapore teleologico: «Il mondo è fatto per l'uomo», «Il Sole esiste per illuminare la Terra», «La peste è un castigo di Dio» e simili. A proposito di questo genere di «spiegazioni» Voltaire, uno dei maggiori (e dei più spiritosi) scrittori del Settecento, ebbe a dire che nel quadro di una concezione teleologica del mondo non sarebbe irragionevole sostenere che Dio ha dotato l'uomo di un naso per permettergli di portare gli occhiali.
Teleologia non va confusa con «teologia» (dal greco théos = «Dio»), che è la dottrina che tratta di Dio (della sua esistenza, dei suoi attributi, ecc.). A parte l'assonanza, la confusione è resa più facile dal fatto che ogni teleologia rinvia a una qualche teologia, in quanto presuppone l'esistenza di divinità o di intelligenze capaci di governare il mondo secondo un preciso disegno. Così, l'idealismo di Platone, che tendeva ad escludere dalla propria visione la stessa nozione di materia, parlava di un'«anima del mondo» e in chiave apertamente teleologica (e teologica) indicava nell'idea di Sommo Bene il principio regolatore dell'universo. Seguendo (almeno in questo) l'ispirazione platonica, Aristotele negava alla materia un'esistenza autonoma dalla forma (e cioè non la riconosceva come sostanza). Il modello assunto da Aristotele per l'interpretazione della realtà era l'organismo vivente e il suo vitalismo conservava un preminente carattere teleologico: nell'interpretazione della realtà fisica le cause finali non solo venivano affiancate alle cause efficienti (le sole ammissibili da un punto di vista deterministico), ma finivano per vedersi attribuire un ruolo preminente. Anche gli Stoici si collegavano a questo modo di intendere la realtà: parlavano di un principio vitale, o «anima del mondo», che consideravano permeare ogni cosa e che identificavano nel fuoco, e di una «provvidenza» che avrebbe governato l'universo secondo un preciso sistema di fini.

ARISTARCO E TOLOMEO

La cosmologia antica restò a lungo fedele, almeno nella sua ispirazione centrale, al sistema del mondo quale era stato definito da Platone, Eudosso ed Aristotele: la Terra, sferica, immobile al centro dell'Universo; la sfera delle stelle fisse, animata da un moto di rotazione tale da farle compiere ogni giorno un giro su se stessa, all'ultimo confine del mondo - in mezzo i sette pianeti (Sole e Luna compresi) dotati di moti complicati, che però erano riconducibili a movimenti semplici, circolari e uniformi, tramite opportune combinazioni di sfere concentriche.
Eudosso aveva calcolato che per descrivere tutti i moti celesti (quello giornaliero della volta celeste, comune a tutti gli astri, e quelli propri del Sole, della Luna e dei pianeti) fossero necessarie ventisei sfere. Gli astronomi successivi, e in particolare Aristotele, ne avevano aumentato sensibilmente il numero nel tentativo di eliminare ogni discrepanza tra i valori osservati e quelli teorici. Senonché il sistema delle sfere concentriche era intrinsecamente incompatibile con l'esperienza e perfino con alcune elementari e ben note osservazioni: postulava ad esempio che i pianeti fossero sempre alla stessa distanza dal centro, ossia dalla Terra, mentre il diametro apparente di alcuni di loro (Venere e Marte in primo luogo) variava vistosamente nel tempo, facendo supporre che anche la loro distanza variasse in proporzione. Così, il modello delle sfere concentriche di Eudosso, dopo essere stato più volte rimaneggiato, e pur restando una sorta di ideale a cui astronomi e cosmologi avrebbero cercato di adeguarsi sino in età moderna, finì con l'essere sostituito o integrato da nuovi artifici descrittivi come gli «eccentrici» e gli «epicicli».
Gli eccentrici sono orbite planetarie circolari, il cui centro non coincide con il centro della Terra; gli epicicli sono orbite planetarie circolari di piccolo raggio il cui centro ruota a sua volta lungo un'orbita circolare di raggio maggiore, detta «deferente». Gli uni e gli altri riuscivano a descrivere i moti planetari in maniera più aderente ai risultati delle osservazioni di quanto non facessero le sfere di Eudosso, ma la loro funzione era in sostanza la stessa: ricondurre movimenti apparentemente disordinati come quelli dei pianeti a moti circolari e uniformi, secondo l'antico precetto pitagorico-platonico. Si trattava in ogni caso di semplici modelli geometrici, destinati a interpretare da un punto di vista matematico il moto apparente degli astri. Restava perciò da stabilire quale fosse il loro moto reale.
Prendiamo ad esempio i moti apparenti del Sole. È il Sole che ogni giorno si muove intorno alla Terra determinando l'alternarsi del giorno e della notte, o è la Terra che ruota intorno al proprio asse offrendo ai raggi del Sole una metà della propria superficie mentre l'altra metà è immersa nell'ombra? E ancora: è il Sole che effettivamente si sposta lungo la volta celeste compiendo in un anno un giro intero, o è la Terra che compie una rivoluzione annua intorno al Sole? Nel primo caso occorre immaginare che la Terra sia al centro dell'Universo (ipotesi geocentrica), nel secondo occorre invece immaginare che vi sia il Sole (ipotesi eliocentrica). La semplice osservazione dei fenomeni celesti non consentiva di decidere in un senso o nell'altro, giacché quei fenomeni trovavano spiegazioni ugualmente soddisfacenti in entrambe le ipotesi.
Gli astronomi dell'antichità costruirono tanto modelli geocentrici (come quello di Eudosso), quanto modelli eliocentrici dell'universo. Eliocentrico era, ad esempio, quello proposto da Aristarco di Samo nel III secolo a.C., che poneva il Sole al centro della sfera delle stelle fisse e attribuiva alla Terra un duplice movimento: quello annuale di rivoluzione intorno al Sole e quello quotidiano di rotazione intorno al proprio asse. Aristarco, però, non ebbe praticamente seguaci nell'antichità e la concezione geocentrica finì con l'essere adottata da tutti. Sino a Copernico e a Galileo (e cioè sino a un'epoca molto vicina a noi) essa parve anzi la sola razionalmente e moralmente accettabile. Se, infatti, dal punto di vista matematico i modelli geocentrici e quelli eliocentrici erano equivalenti, dal punto di vista filosofico e religioso le cose stavano assai diversamente.
Come abbiamo visto, le concezioni cosmologiche degli antichi tendevano a mettere in risalto l'opposizione profonda tra il nostro mondo e il mondo celeste: la Terra era il luogo naturale di tutto quanto è corruttibile, mentre il Cielo, immortale e incorruttibile, era la sede stessa della divinità. Facendo muovere la Terra nei cieli come un qualsiasi altro pianeta, si sarebbe fatta cadere questa opposizione: la Terra sarebbe stata soggetta alle stesse leggi, costituita delle stesse sostanze, e avrebbe avuto la stessa natura dei corpi celesti. Come qualcuno già al tempo di Aristarco fece minacciosamente notare, la teoria eliocentrica rassomigliava pericolosamente a una bestemmia.
C'erano però anche considerazioni di natura strettamente scientifica che facevano apparire assai improbabile il sistema eliocentrico. Una in particolare, che chiameremo «della parallasse stellare», merita di essere ricordata. La parallasse è lo spostamento apparente che un oggetto subisce rispetto ad altri oggetti che lo circondano quando lo osserviamo da due punti di vista distanti tra di loro. Se la Terra si muovesse intorno al Sole, compirebbe una grande orbita nel cielo; osservando le stelle da punti opposti (e quindi molto lontani fra di loro) dell'orbita terrestre dovremmo notare nelle costellazioni celesti degli spostamenti ossia delle deformazioni dovute appunto alla lontananza dei punti di vista. Queste deformazioni non sono mai state rilevate, sicché o si esclude il movimento della Terra intorno al Sole, o si ammette che le stelle fisse si trovino ad una distanza incommensurabile da noi, talmente grande da annullare gli effetti dello spostamento dei nostri punti di osservazione sull'orbita terrestre. Questa seconda ipotesi, però, appariva poco probabile sia perché suggeriva l'idea di un universo infinito (comunemente considerata inaccettabile) sia perché era in contrasto con le valutazioni correnti delle grandezze celesti (comprese quelle effettuate dallo stesso Aristarco che, misurando le distanze del Sole e della Luna, aveva ottenuto valori nettamente inferiori a quelli reali).
La fortuna dell'immagine geocentrica dell'universo è rimasta per secoli legata all'Almagesto di Claudio Tolomeo, un astronomo alessandrino vissuto nel secondo secolo d.C. Almagesto è la forma latinizzata del titolo con cui l'opera, dimenticata in Occidente fino al XII secolo, circolò nel mondo arabo: il titolo originale era semplicemente Raccolta matematica. Tolomeo vi aveva riunito, organizzandole in un sistema perfettamente coerente, completo e particolareggiato, tutte le conoscenze astronomiche dell'antichità: qualcosa di simile a quel che aveva fatto Euclide nella geometria con gli Elementi. Si trattava di un manuale in tredici libri destinato a matematici esperti: una sua parte consistente era dedicata appunto ai procedimenti matematici (in primo luogo trigonometrici) necessari allo studio dell'astronomia. Il grosso dell'opera era dedicato all'analisi dei moti del Sole (con l'illustrazione tra l'altro, dei metodi per il calcolo dell'anno tropico) della Luna e dei cinque pianeti allora conosciuti. Tutti i moti celesti erano interpretati come combinazioni di cerchi, ma, per meglio accordare questo tipo di modelli alla grande precisione ormai raggiunta dalle osservazioni astronomiche, Tolomeo aveva aggiunto agli eccentrici e agli epicicli gli equanti, una costruzione piuttosto complicata consistente in un cerchio (per lo più eccentrico) la cui velocità di rotazione risultava uniforme non rispetto al centro, ma a un punto, detto appunto equante, giacente sulla retta che unisce perigeo e apogeo del pianeta preso in considerazione.
Dal punto di vista dell'interpretazione fisica dei fenomeni celesti Tolomeo si atteneva alla cosmologia di Aristotele, e pare che condividesse anche la convinzione aristotelica dell'esistenza reale delle sfere celesti. Non è sicuro però che Tolomeo ipotizzasse un sistema di sfere solide (cristalline) come quello che, ereditato dagli astronomi arabi, è stato poi comunemente indicato in Occidente come «sistema tolemaico» (e che si ritrova, in versione cristiana, nella Divina Commedia di Dante). Una grave obiezione di natura fisica alla sistemazione tolemaica riguardava l'escogitazione dell'equante: l'equante, infatti, introducendo l'idea di moti celesti non perfettamente uniformi rispetto al proprio centro, violava una delle regole fondamentali della fisica tradizionale. L'equante fu spesso motivo di imbarazzo per gli astronomi delle età successive e anche Copernico avrebbe indicato nella eliminazione degli equanti uno dei più evidenti vantaggi del suo sistema. Nel complesso tuttavia l'opera di Tolomeo offriva una teoria perfettamente soddisfacente della costituzione del mondo, la sola veramente plausibile. E anche se nello studio dei moti planetari poteva emergere qualche discrepanza tra i dati dell'osservazione e i valori calcolati in base ai modelli matematici proposti nell'Almagesto, questi stessi modelli, con le loro inesauribili combinazioni di cerchi, apparivano indefinitivamente suscettibili di perfezionamento.