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Palestina.

Regione del Medio Oriente, confinante a Nord con il Libano e la Siria, a Est con la Giordania, delimitata a Sud dal Sinai e dal Golfo di Aqaba (o Elat), a Ovest dal Mar Mediterraneo. Il nome P. deriva dal termine utilizzato dagli antichi Greci per indicare la popolazione che occupava le zone a Sud della Fenicia, i Filistei, con cui essi avevano contatti. Difficilmente definibile come area geografica o politica, la P. va intesa soprattutto come entità storico-antropica; in base alla definizione data dal mandato della Società delle Nazioni tra il 1923 e il 1948, comprende l'attuale Stato di Israele e i territori occupati della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Nel 1982 la popolazione palestinese era stimata in circa 3.700.000 individui, dei quali 1.100.000 dislocati nei territori occupati da Israele, altrettanti in Giordania e il rimanente dispersi tra gli Stati limitrofi e gli Stati Uniti d'America. • Geogr. - Dal punto di vista morfologico, la P. può essere divisa in tre regioni principali: la fascia litoranea; la fossa centrale, che risponde al nome arabo di al-Ghôr, attraversata dal fiume Giordano; l'altopiano mediano, meglio noto come Cisgiordania, in cui si trovano le regioni dell'Alta e della Bassa Galilea. La pianura costiera settentrionale è interrotta solo dal rilievo del Carmelo (550 m) e presenta ampie zone coltivabili, nonostante sia orlata da dune e i brevi corsi d'acqua diano talora luogo a zone paludose. La fossa centrale è situata a Sud-Est, in corrispondenza di un'estesa zona di montagne poco elevate che si arrestano a Oriente, e nel cui punto più basso scorre il fiume Giordano; vi si trovano diversi piccoli coni eruttivi, colate basaltiche ed espansioni di lava, testimonianza di una notevole attività vulcanica. Il Mar Morto è un residuo del bacino idrico che anticamente riempì la fossa, per poi restringersi. L'altopiano mediano è caratterizzato da dolci ondulazioni e depressioni, caratteristiche del paesaggio del Sinai. Il clima della P. risente della posizione intermedia fra il Mar Mediterraneo e il deserto, ed è caratterizzato da inverni miti e scarse precipitazioni (anche di carattere nevoso, soprattutto in Galilea e a Gerusalemme) concentrate in un solo semestre. Ad eccezione del Giordano, i corsi d'acqua che l'attraversano sono brevi e stagionali; l'acqua circola però nel sottosuolo calcareo e viene attinta mediante pozzi. • St. - Dalle origini alla distruzione del Tempio di Gerusalemme: la presenza dell'uomo in P. risale al Paleolitico, come rivelano importanti resti fossili, in particolare del cosiddetto "uomo di Galilea" rinvenuti nella piana di Esdraelon. Già all'XI millennio a.C. conducono i reperti della cultura nota come Natufiana, fondata su popolazioni organizzate in piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori, che si riparavano in capanne o in rifugi naturali. Il sito archeologico di Gerico testimonia, invece, del successivo periodo, il Neolitico Aceramico, datato fra l'VIII e il VII millennio a.C. Tipico di questa fase fu l'utilizzo di nuove tecnologie costruttive poggianti sull'impiego del mattone crudo, oltre che della roccia; si sviluppò inoltre l'agricoltura, con la coltivazione di graminacee e frutta; la nuova forma di economia si rifletté, sul piano sociale, in un'organizzazione di tipo comunitario basata sulla famiglia estesa. Seguì un momento di crisi, superata a Sud dall'affermarsi della cultura ghassuliana, basata sulla pastorizia transumante, che vide la produzione di ceramiche e lo sviluppo della metallurgia del rame. I molteplici contatti con l'Egitto, l'Anatolia e la Mesopotamia favorirono un processo di urbanizzazione legato alla nascita di Stati regionali e/o cittadini. Nel corso del III millennio vennero erette città fortificate che traevano il proprio sostentamento dai villaggi agricoli, dai quali si esigevano prodotti, mano d'opera e tributi. Verso la fine del I millennio anche questo modello socio-economico entrò in crisi, quando il territorio della P. subì l'invasione dei cosiddetti "popoli del mare", da cui ebbe origine l'insediamento dei Filistei nella zona costiera meridionale. Nelle regioni interne si procedette a una riorganizzazione della società e del suo assetto, attuata a partire dalle differenti realtà tribali, in concomitanza con lo sviluppo di nuove tecnologie (quali la metallurgia del ferro) e di nuove forme istituzionali derivanti dall'organizzazione delle società agro-pastorali. Intorno al 1000 a.C. si affermò la Monarchia israelitica, che sottopose la P. a un rapido processo di omogeneizzazione socio-politica, che prevedeva, tra l'altro, la ripartizione dello Stato in distretti e l'assimilazione della popolazione agro-pastorale a quella cittadina. Ma alla morte del re Salomone il Regno si scisse in due parti, divenendo facile preda prima dell'Impero assiro in piena fase di espansione, poi dei Babilonesi loro successori (586 a.C.). Con la fine dell'Impero persiano e la formazione dei Regni ellenistici, la P. passò in un primo tempo sotto il controllo dei Tolomei, quindi sotto quello dei Seleucidi. Questi ultimi divisero il territorio in quattro distretti, le eparchie: Samaria, Paralia, Galaaditide e Giudea; investita dal processo di ellenizzazione, la P. vide le proprie città svilupparsi sul modello dominante delle poleis greche. Fu solo nel 167 a.C. che la rivolta di Giuda Maccabeo portò alla formazione di uno Stato indipendente, con a capo il sommo sacerdote, e fondato su principi di ortodossia religiosa. Ma l'intervento romano, con l'invio di Pompeo nel 63 a.C., portò al ridimensionamento dello Stato giudaico, che venne sottoposto al controllo e al protettorato dell'Impero di Roma fino a quando, in seguito alla morte di re Erode, la P. assunse lo statuto di provincia romana con funzione strategica e militare, mutando anche il proprio nome in Giudea. Ma il rapporto con Roma si concluse con la definitiva sottomissione del territorio all'Impero centrale, segnata nel 73 a.C. dalla distruzione del Tempio di Gerusalemme da parte dell'imperatore Tito, come risposta a una serie di rivolte. A partire dai secc. I e II d.C., il fenomeno della cristianizzazione vide la P. divenire una meta di pellegrinaggio per fedeli provenienti da tutto il bacino del Mediterraneo, ma già nel 614 la città di Gerusalemme venne distrutta e profanata dai Persiani, e quella che ormai era chiamata Terra Santa assistette alla conclusione della fase bizantina della storia palestinese e all'apertura del nuovo capitolo dell'occupazione araba. ║ Età medioevale e moderna: sotto le dinastie degli Omayyadi, degli Abbasidi e dei Fatimidi, la P. godette di un'epoca relativamente prospera e pacifica, con Gerusalemme centro di convergenza di tre diversi culti: ebraico, musulmano, cristiano. Ma nel X sec. l'arrivo dei Turchi Selgiuchidi incrinò i rapporti interni e le relazioni con il mondo occidentale, dando così avvio all'epoca delle Crociate. La vittoria dei cristiani impose al territorio un modello feudale, destinato a durare fino al 1187, data della riconquista di Gerusalemme da parte del Saladino, mentre con l'espugnazione di San Giovanni d'Acri nel 1291 la presenza europea fu definitivamente eliminata. Al governo dei Mamelucchi d'Egitto subentrò più tardi quello ottomano, con la conquista di Gerusalemme da parte di Selim I nel 1517. I nuovi dominatori si rivelarono rigidi e repressivi soprattutto nei confronti dei cristiani, mentre favorirono l'insediamento di esuli ebrei in fuga dagli Stati europei, con la formazione, nel XVI sec., di diversi nuclei ebraici. Fu solo a partire dal XIX sec. che l'Europa ricominciò ad interessarsi alla P., ancora soggetta all'Impero ottomano e amministrata secondo un modello semi-feudale, in base al quale la stragrande maggioranza del territorio era nelle mani di un esiguo numero di famiglie. Iniziò intanto ad affluire una quantità sempre crescente di Ebrei, in fuga soprattutto dall'Europa orientale, in particolare dalla Russia e dalla Polonia, e ormai desiderosi di ricostituire uno Stato ebraico dove stabilirsi. ║ Dalla prima guerra mondiale allo Stato di Israele: allo scoppio della prima guerra mondiale, la P. era una zona in crisi, ufficialmente amministrata dagli Ottomani, a maggioranza araba e sul cui territorio si trovavano ormai cospicui gruppi ebraici. Promettendo l'indipendenza araba dal dominio turco, Gran Bretagna e Francia ottennero dallo sceriffo della Mecca dapprima la sua neutralità, quindi la sua alleanza, nel 1915; ciononostante, nel 1917, con la dichiarazione Balfour, si dissero favorevoli all'insediamento di un nucleo nazionale ebraico sul territorio della P. In realtà essi si accordarono segretamente per la divisione del Medio Oriente (tali patti verranno svelati solo nel 1917 dai bolscevichi russi appena giunti al potere). Al termine del conflitto, comunque, i territori dell'ormai estinto Impero ottomano furono dalla Società delle Nazioni affidati, con il sistema dei mandati, alle grandi potenze. La Gran Bretagna, cui toccò la P., puntualizzò ufficialmente che quanto affermato nella dichiarazione Balfour non era da intendersi come privazione dei propri diritti per gli Arabi residenti, ma il movimento sionista, nato nel secolo precedente e mirante a creare uno Stato ebraico in P., ne risultò notevolmente rafforzato. Già a partire dagli anni Venti si assistette pertanto a scontri fra le diverse etnie presenti sul territorio. La situazione peggiorò ulteriormente nel decennio successivo, con l'arrivo di gruppi sempre più folti di Ebrei in fuga dalla minaccia nazista. Nel 1936 scoppiò la rivolta: il rifiuto opposto dalla potenza mandataria di costituire un Consiglio legislativo palestinese fu l'occasione che innescò la protesta araba, con scioperi e manifestazioni che si protrassero fino al 1939. È di questa data il cosiddetto Libro bianco, un progetto inglese per la spartizione della P. fra Arabi ed Ebrei. Fu solo dieci anni dopo, al termine della seconda guerra mondiale, che si tornò a discutere del problema a livello internazionale. Il conflitto, e le sue tragiche conseguenze per il popolo ebraico, avevano suscitato delle aspettative cui era ormai impossibile non rispondere. La Gran Bretagna rimise la questione alle Nazioni Unite, che con la risoluzione 181 del 29 novembre 1947 approvarono un piano per la spartizione del territorio della P.: 56% a uno Stato ebraico (circa 1.000.000 di abitanti), 43% a uno Stato arabo (oltre 700.000 abitanti), il resto, comprendente Gerusalemme, affidato in amministrazione fiduciaria all'ONU (circa 200.000 abitanti). Subito gli Arabi si opposero, denunciando il piano come una violazione del principio dell'autodeterminazione dei popoli, in quanto nell'area spettante agli Ebrei erano comunque gli Arabi a costituire la maggioranza della popolazione e a possedere la maggior parte delle terre. Ne nacquero dei conflitti fra i Palestinesi e il nuovo Stato d'Israele (ormai la Gran Bretagna aveva concluso il suo mandato), con la conquista israeliana di gran parte delle zone affidate agli Arabi (armistizi febbraio-luglio 1949). Di fatto, lo Stato arabo-palestinese non poté mai costituirsi e i territori residui vennero inglobati dalle Nazioni confinanti: l'Egitto si annesse la Striscia di Gaza, la Transgiordania si unì la Cisgiordania (che dall'aprile 1949 divenne Giordania). La maggioranza degli originari abitanti arabi divennero profughi, si rifugiarono nei Paesi vicini e non poterono fare rientro in P., continuando a vivere in campi dalle condizioni di vita precarie. Dopo gli scontri terminati con gli armistizi del 1949, altri conflitti militari con i propri vicini segnarono la vita dello Stato di Israele, i cui confini subirono negli ultimi decenni continue alterazioni. Al giugno 1967 risale l'estensione del territorio di Israele fino alla Cisgiordania e alla Striscia di Gaza (guerra dei Sei giorni). Sempre nel 1967 si ebbe l'annessione del settore orientale di Gerusalemme (secondo la risoluzione 181 dell'ONU spettante invece agli Arabi), e nel 1980 la città venne dichiarata capitale unica e indivisibile dello Stato di Israele, nonostante accese polemiche sia interne sia internazionali spingessero a riconoscere libero accesso a tutti i luoghi sacri delle tre grandi religioni monoteiste. ║ La resistenza palestinese: già a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale, in P. cominciò a diffondersi un nazionalismo palestinese, distinto dal più ampio e articolato nazionalismo arabo, col fine di rivendicare uno Stato per un popolo dai precisi connotati storici e culturali. Il movimento, in realtà, trova le sue radici più profonde già all'inizio del XX sec., nelle reazioni ai primi insediamenti di profughi ebrei in P., che suscitarono proteste soprattutto tra i contadini, preoccupati per le loro terre, e fra i commercianti cittadini, spaventati dalla nuova concorrenza negli affari. Più organizzati furono alcuni gruppi sorti poco dopo la prima guerra mondiale, in genere di ispirazione religiosa, mentre a partire dagli anni Venti alle motivazioni ideologiche se ne aggiunsero altre di ordine economico e politico, sostenute da formazioni che si rivolgevano per lo più alle potenti famiglie urbane. Ma la resistenza araba all'ingresso in P. di nuovi gruppi ebraici prese la forma di una ribellione organizzata soltanto nel 1936, anche se il già citato Libro bianco del 1939 venne rifiutato. Dopo la nascita dello Stato di Israele, l'opposizione araba continuò in parte fuori dalla P., mentre i tentativi di costituire sul territorio dei movimenti a difesa dei diritti palestinesi ebbero scarsissimo seguito. Fu solo nel 1964 che venne fondata l'Organizzazione per la Liberazione della P. (OLP), con lo scopo dichiarato di abbattere lo Stato d'Israele. La guerra dei Sei giorni non fece che inasprire il disegno di lotta, diffondendo fra gli aderenti al movimento la convinzione che l'unico efficace strumento di lotta fosse lo scontro armato. Sorsero intanto altre formazioni, di ispirazione diversa ma tutte animate da analoghi intenti, fra cui, nel 1965, al Fatah, guidata da Yasser Arafat, che entrò a far parte dell'OLP nel 1969, assumendo subito un ruolo egemone, tanto che lo stesso Arafat divenne leader indiscusso del movimento. Fu quindi istituito anche il Consiglio nazionale palestinese, sorta di Parlamento in esilio che si riuniva periodicamente in vari Stati arabi per scegliere la via da seguire nei rapporti con Israele. Gli anni Settanta furono un periodo difficile e buio per l'organizzazione palestinese: dopo lo scontro con la Giordania, nel 1970-71, l'OLP fu costretta a trasferire le proprie basi in Libano, mentre sempre maggior influenza avevano vari gruppi terroristici, fra cui Settembre nero, responsabile della strage di Monaco del 1972, nella quale persero la vita numerosi atleti israeliani partecipanti alle Olimpiadi organizzate in quella città. Una svolta si ebbe nel 1974 quando Arafat, riconosciuto da tutti gli Stati arabi come unico legittimo rappresentante del popolo palestinese, tenne un discorso all'ONU. In seguito, l'OLP optò per una modifica moderata dei propri piani per l'immediato futuro, che divennero la costituzione di uno Stato palestinese nei territori occupati da Israele nel 1967, senza che per questo venissero meno gli attacchi armati sferrati dai campi profughi del Libano, dove negli anni Settanta si trovavano ormai più di 500.000 Palestinesi. Una così massiccia presenza di profughi, tra l'altro, nel 1975 condusse il Libano stesso alla guerra civile; nel 1982 truppe israeliane entrarono a Beirut e distrussero il quartier generale dell'OLP, che venne quindi trasferito a Tunisi. A questo punto il contrasto interno fra moderati e radicali si fece più aspro: ne nacque una vera guerra intestina con centinaia di vittime. Una nuova fase di lotta, la cosiddetta intifada (V.), ebbe inizio nel 1987, con le rivolte spontanee degli abitanti dei territori occupati e durissimi scontri con le forze armate israeliane, che non posero però termine alla resistenza. La durezza della repressione israeliana iniziò a suscitare reazioni a livello internazionale, a partire dagli Stati arabi vicini; nel novembre del 1988 il Consiglio nazionale palestinese dichiarò di riconoscere lo Stato d'Israele (cosa mai fatta prima di allora), proclamando al contempo lo Stato indipendente di P. A questo punto anche la diplomazia internazionale iniziò a premere perché si arrivasse a un accordo tra Arabi, Israeliani e Palestinesi, e nel 1993 si giunse allo storico riconoscimento reciproco fra OLP e Israele, con gli accordi di Washington fra Arafat e il premier israeliano Rabin. L'uccisione di Rabin (1995) in un attentato da parte di estremisti di destra, le conseguenti reazioni arabe e la vittoria elettorale del Partito conservatore israeliano (1996) portarono però nuovi ostacoli al processo di pace. L'elezione di Benjamin Netanyahu a primo ministro d'Israele nel maggio del 1996 acuì la tensione fra i due Paesi che sfociò nell'ennesimo scontro militare, a settembre, dopo la decisione da parte delle autorità di Tel Aviv di aprire un tunnel al di sotto della moschea di El-Aqsa a Gerusalemme. Nei disordini persero la vita decine di Palestinesi e di Israeliani. La situazione era ormai esplosiva al punto da richiedere la convocazione di un vertice fra Arafat e Netanyahu, a cui partecipò anche il presidente statunitense Bill Clinton. Le difficili trattative del 1998 conclusesi col ritiro delle truppe israeliane dalla città di Hebron, che passò così sotto l'amministrazione palestinese, rappresentarono un ulteriore riconoscimento per il Governo guidato da Yasser Arafat. Nel 1999, l'elezione del primo ministro laburista Ehud Barak riavviò il processo di pace: Israele riprese il programma di trasferimento dei territori in Cisgiordania all'Autorità palestinese, annunciò il ritiro delle sue truppe dal Libano meridionale e stabilì dei contatti con la Siria per affrontare il problema del Golan. Rimase invece senza soluzione la questione dello statuto di Gerusalemme, che sia gli Israeliani, sia i Palestinesi consideravano loro capitale: su questo punto fallì anche il tentativo di mediazione del presidente statunitense Clinton a Camp David (luglio 2000). Il 29 settembre 2000 scoppiò una serie di scontri a seguito della visita effettuata da A. Sharon alla Spianata delle moschee, attraverso la quale il leader dell'opposizione israeliana intese affermare la completa sovranità di Israele sulla Città Santa. Quel gesto diede origine alla seconda Intifada, che provocò un inasprimento del conflitto tra Palestinesi e Israeliani, acuitosi ulteriormente allorché primo ministro d'Israele divenne lo stesso Sharon, successore del dimissionario Barak (febbraio 2001). Il neo premier adottò fin da subito la tattica della ritorsione, rispondendo con bombardamenti, attacchi e occupazioni militari ai numerosi e sanguinosissimi attentati suicidi palestinesi che colpirono soprattutto la popolazione civile israeliana. Il 25 agosto, per la prima volta nella sua storia, il Fronte democratico per la liberazione della P. rivendicò un attentato commesso contro un commando israeliano a Marganit, a Sud della Striscia di Gaza. Dopo gli attentati terroristi dell'11 settembre alle Torri Gemelle e al Pentagono, il 26 settembre Arafat e Peres si incontrarono a Gaza, dove decisero di impegnarsi per un cessate il fuoco e per la ripresa di negoziati di pace. Tuttavia, la situazione diventò ancora più esplosiva. Il 17 ottobre l'ex ministro del Turismo israeliano R. Zeevi, dimessosi il giorno prima dal Governo Sharon, venne ucciso a Gerusalemme. L'attentato fu rivendicato dal Fronte popolare per la liberazione della P. che volle così vendicare la morte del suo leader, Ali Mustafa, assassinato a Ramallah in agosto. L'omicidio scatenò una serie di manifestazioni culminate nelle incursioni israeliane in sei centri palestinesi, che causarono decine di vittime. Agli inizi di dicembre Arafat, su pressione israeliana, fece arrestare circa 150 esponenti dei movimenti estremisti di Hamas (V.) e della Jihad islamica, responsabili di una serie di attentati suicidi. Il gesto del presidente dell'ANP non fermò tuttavia la durissima offensiva di Israele contro le città di Gaza e Ramallah. Nel frattempo gli attentati suicidi si moltiplicarono e crebbero in cruenza. Nel marzo 2002 Israele inviò nuovamente alcune truppe nei territori palestinesi, nell'ambito di un'operazione denominata "Muraglia di difesa", ponendo d'assedio Ramallah, quartier generale di Arafat, che si trovò impossibilitato a lasciare la città e, in un secondo momento, l'edificio nel quale si trovava. Nonostante venisse messo a punto un piano di pace dal principe ereditario saudita Abdullah, sottoscritto dalla maggior parte del mondo arabo, Israele continuò la sua offensiva che, nel mese di aprile, si allargò fino a comprendere le città di Betlemme, Tulkarem, Jenin, Qalqilya e Nablus. A Betlemme, città simbolo della Cristianità, il 2 aprile circa 150 Palestinesi tra miliziani e civili si asserragliarono nella Basilica della Natività, assediata dall'esercito israeliano, mentre a Jenin, una delle roccaforti della resistenza palestinese, la popolazione subì un feroce massacro. Sempre in aprile, il presidente statunitense Bush, su pressione internazionale, decise di inviare il segretario di Stato Colin Powell per cercare di risolvere il conflitto, ma l'incontro con Sharon e Arafat ebbe esito negativo. Il 15 aprile, Marwan Barghouti, uno dei leader dell'Intifada, venne arrestato dall'esercito israeliano a Ramallah, mentre alla fine del mese Israele accettò la proposta americana di allentare l'assedio al quartier generale di Arafat in cambio della consegna di sei Palestinesi, quattro dei quali condannati per l'assassinio dell'ex ministro Zeevi. A metà maggio venne tolto l'assedio, durato 38 giorni, alla Basilica della Natività: dei circa 150 Palestinesi rimasti asserragliati 13, accusati da Israele di terrorismo, vennero trasferiti a Cipro e quindi in Europa. Il 16 giugno 2002 Israele, nella speranza di fermare gli attentati suicidi palestinesi, diede il via ai lavori per la costruzione di un muro difensivo lungo la "linea verde" che separa lo Stato ebraico dalla Cisgiordania. A luglio, il quartier generale dell'Autorità Nazionale Palestinese a Hebron venne distrutto dall'esercito israeliano. Nel frattempo gli attentati suicidi proseguirono, così come le rappresaglie israeliane nei territori palestinesi (gli episodi più importanti furono, il 22 luglio a Gaza, il 7 ottobre a Khan Yunis, nella Striscia di Gaza, il 6 dicembre ancora a Gaza). Contemporaneamente si cercarono soluzioni internazionali, tra cui il piano di pace danese, che prevedeva la creazione di un nuovo Stato palestinese entro il 2005, o gli incontri dei rappresentanti del cosiddetto "quartetto", ovvero Stati Uniti, Russia, Nazioni Unite e Unione europea. L'11 settembre il Governo palestinese si dimise in massa per scongiurare di fatto un possibile voto di sfiducia da parte del Consiglio legislativo - il Parlamento - che aveva dichiarato la sua intenzione in tal senso. Il 19 settembre, dopo nuovi attentati suicidi, il quartier generale di Arafat a Ramallah venne ancora una volta circondato dall'esercito e mantenuto in stato d'assedio per dieci giorni. Il 29 ottobre Arafat annunciò la formazione di un nuovo Governo che, se non ottenne un consenso unanime, venne comunque approvato dal Consiglio. Il 2003 si aprì con alcuni attentati e con le conseguenti misure repressive messe in atto dal Governo israeliano, tra cui il divieto dato a tutti i Palestinesi minori di 35 anni di lasciare i Territori per recarsi in Israele, anche per motivi di lavoro. In febbraio, a Londra, si svolse un importante meeting internazionale per definire nuove riforme all'interno dell'Autorità Nazionale Palestinese (il mese precedente un primo incontro era stato disertato dai Palestinesi per il divieto imposto da Israele ai membri dell'ANP di uscire dai confini dei Territori). In febbraio il presidente Arafat decise di nominare un primo ministro che lo avrebbe affiancato nella gestione della leadership, innescando così il processo di riforma dell'amministrazione palestinese caldeggiato da Stati Uniti, Nazioni Unite e Israele. La scelta ricadde su Mahmoud Abbas, meglio noto come Abu Mazen (V.), segretario dell'OLP. Il premier incaricato, dopo oltre cinque settimane di braccio di ferro con Arafat, in aprile si accordò con il presidente dell'ANP per la formazione del nuovo Governo, in cui lo stesso Mazen, oltre alla carica di primo ministro, avrebbe ricoperto anche quella di ministro degli Interni, e avviò trattative con Sharon per trovare una soluzione politica alla controversa situazione mediorientale. In maggio il Parlamento palestinese diede il suo assenso al piano di pace denominato "Road Map", pianificato da un quartetto formato da Unione europea, Russia, ONU e Stati Uniti che, attraverso una serie di scadenze che passano dalla cessazione degli atti di terrorismo alla democratizzazione delle istituzioni, dovrebbe portare alla creazione, entro il 2005, di uno Stato palestinese. In settembre, gli insanabili dissidi con Arafat indussero Abu Mazen a rassegnare le dimissioni da primo ministro. Al suo posto venne scelto Ahmed Qrea, noto come Abu Ala, più vicino alle posizioni del presidente Arafat, e in ottobre Hakam Balawi fu nominato ministro degli Interni. Il nuovo Governo rilanciò la proposta di una conferenza di pace internazionale e chiese a Sharon il ritiro dell'esercito israeliano per consentire lo svolgimento di nuove elezioni presidenziali, legislative e amministrative nei Territori. Ma la tensione con Israele non accennò a scemare e gli attentati proseguirono senza tregua. Nel marzo 2004 Sharon mise a punto un attacco missilistico mirato nel quale perse la vita lo sceicco Ahmed Yassin (V. YASSIN, AHMED), capo di Hamas. A distanza di un mese, anche il suo sostituto Abdel Aziz Rantisi morì per mano israeliana. In seguito alla morte di Arafat (novembre 2004), in assenza di una chiara linea di successione e al fine di evitare disordini nei Territori, la presidenza ad interim dell'ANP fu assunta dal portavoce parlamentare Rawhi Fattuh, mentre Abu Ala ereditò i poteri di Arafat su sicurezza e finanza e Abu Mazen fu designato capo dell'OLP. Nel gennaio 2005, al cospetto di centinaia di osservatori internazionali, si tennero le consultazioni che sancirono l'elezione a presidente dell'ANP di Abu Mazen, la cui nomina aprì uno spiraglio nel dialogo con Israele. Nei mesi seguenti, tuttavia, il dialogo entrò nuovamente in crisi: Sharon dovette affrontare le proteste degli abitanti delle colonie ebraiche e dei partiti di destra, contrari al suo piano di smobilitazione dalla Striscia di Gaza; Abu Mazen fu invece contestato dai movimenti radicali palestinesi (in particolare Hamas e Jihad islamica) che proseguirono negli attacchi contro Israele. La situazione si fece incandescente nel gennaio 2006, allorché Hamas vinse le elezioni palestinesi, mentre Sharon, colpito da una grave malattia, lasciava la guida di Israele a Ehud Olmert, ex ministro delle Finanze dal 2003 al 2005, che, data la vittoria del suo partito (Kadima), sarebbe poi stato confermato Primo ministro nelle elezioni di marzo. Contrario a un dialogo con Hamas, il Governo Olmert avviò contatti con il presidente palestinese Abu Mazen al fine di riaprire i negoziati di pace, ma nello stesso tempo riprese le incursioni e i raid mirati che causarono la morte di alcuni esponenti di Hamas, Jihad e Fatah, ma anche di numerosi civili. In un clima di guerra civile, a causa delle tensioni tra Hamas e Fatah, e di minaccia di guerra aperta tra Israele e ANP, uno spiraglio si aprì di nuovo in giugno, quando il presidente palestinese Abu Mazen presentò un documento di riconciliazione nazionale, detto "Documento dei prigionieri" (poiché elaborato da esponenti di Hamas, Fatah, Fronte popolare per la liberazione della Palestina e Jihad islamica detenuti in carcere), che chiedeva la creazione di un Governo di unità nazionale in vista della nascita di uno Stato palestinese nei confini cancellati dalla guerra del 1967. Approvato da Fatah, il documento fu in sostanza respinto da Hamas. A fine giugno le tensioni tra Israeliani e Palestinesi si acuirono: in risposta alle uccisioni mirate israeliane, i miliziani delle Brigate al Qassam, il braccio armato di Hamas, lanciarono missili sulla cittadina di Sderot, nel Sud di Israele, e condussero un raid in territorio israeliano assassinando due soldati e rapendone un terzo, per la liberazione del quale chiesero il rilascio di tutte le donne e i minorenni palestinesi reclusi in carceri israeliane. Israele si rifiutò di trattare e mise in atto un'offensiva con raid aerei nella Striscia di Gaza e arresti in Cisgiordania di ministri di Hamas e di decine di parlamentari del movimento estremista. Nei mesi successivi non si arrestò l'offensiva militare israeliana contro esponenti di Hamas, rei di non voler rinunciare alla violenza e di non voler riconoscere lo Stato di Israele. I frequenti raid aerei di Tel Aviv provocarono la morte di numerosi civili, oltre che la distruzione di importanti infrastrutture (tra cui l'unica centrale elettrica del Paese), andando ad aggravare una crisi economica innescata a suo tempo dall'embargo internazionale sancito dopo l'elezione di Hamas. Il drammatico impoverimento della popolazione palestinese, accompagnato da disoccupazione e peggioramento delle condizioni igieniche, fu acuito dal permanere di una situazione di totale instabilità politica, con Fatah e Hamas che, lungi dall'appianare le divergenze, proseguivano nelle violenze e nelle accuse reciproche, lasciando il Paese nel caos e nell'anarchia. Scontri sanguinosi tra militanti delle due formazioni politiche si verificarono nel dicembre 2006 e nei primi mesi del 2007, allorché vennero ripetutamente violate le tregue decise dalle autorità. Spiragli di speranza si intravidero nel febbraio 2007, quando il presidente Abu Mazen incaricò ufficialmente il primo ministro uscente Ismail Haniyeh, esponente di Hamas, di formare il nuovo Governo di unità nazionale. • Lett. - Per letteratura palestinese si intende la sola produzione letteraria di autori che si sono identificati con la questione palestinese: si tratta quindi di una letteratura recente, mentre i testi redatti in terra di P. nei secoli e nei millenni precedenti vanno ricondotti alla cultura e alla tradizione dei diversi popoli che si sono succeduti sul territorio. All'interno del gruppo di narratori e poeti palestinesi è poi necessario distinguere fra quanti hanno continuato ad abitare in P. anche dopo il 1948, divenendo cittadini israeliani, quanti sono invece emigrati all'estero (in altri Paesi arabi, in Europa o in America) e quanti risiedono in Cisgiordania o a Gaza. Tra i primi esponenti di una letteratura patriottica, contraria alla crescente ondata sionista, si distinguono il poeta Ibrâhîm Tûqân (1905-41) e i romanzieri Khalil Baydas e Muhammad Uzza Druza. Fra i poeti contemporanei spiccano Tawfîq Zayyâd, Samîh al-Qâsim, Mahmûd Darwîsh e le autrici Fadwa Tûqân e Salmâ al-Khadrâ'. Temi frequenti fra gli scrittori esuli sono la nostalgia per la terra lasciata e l'idealizzazione del ricordo, come si può ritrovare nelle opere di Ghassân Kanafânî o Samîra 'Azzâm, temi ben diversi dall'asprezza presente nelle pagine di Amîle Habîbî, cittadino di Israele che pure non si sente parte dello Stato in cui vive. Il senso di estraneità e di isolamento permea anche le opere degli autori residenti nei territori occupati, preziosi testimoni della quotidiana esistenza dei gruppi di lotta armata e dei profughi; tra di loro, meritano di essere ricordati Giamâl Bannûra, Muhammad Ayyûb e Akram Sharîm.