Regione del Medio Oriente, confinante a Nord con il Libano e la Siria, a Est con
la Giordania, delimitata a Sud dal Sinai e dal Golfo di Aqaba (o Elat), a Ovest
dal Mar Mediterraneo. Il nome
P. deriva dal termine utilizzato dagli
antichi Greci per indicare la popolazione che occupava le zone a Sud della
Fenicia, i Filistei, con cui essi avevano contatti. Difficilmente definibile
come area geografica o politica, la
P. va intesa soprattutto come
entità storico-antropica; in base alla definizione data dal mandato della
Società delle Nazioni tra il 1923 e il 1948, comprende l'attuale Stato di
Israele e i territori occupati della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Nel
1982 la popolazione palestinese era stimata in circa 3.700.000 individui, dei
quali 1.100.000 dislocati nei territori occupati da Israele, altrettanti in
Giordania e il rimanente dispersi tra gli Stati limitrofi e gli Stati Uniti
d'America. • Geogr. - Dal punto di vista morfologico, la
P.
può essere divisa in tre regioni principali: la fascia litoranea; la
fossa centrale, che risponde al nome arabo di al-Ghôr, attraversata dal
fiume Giordano; l'altopiano mediano, meglio noto come Cisgiordania, in cui si
trovano le regioni dell'Alta e della Bassa Galilea. La pianura costiera
settentrionale è interrotta solo dal rilievo del Carmelo (550 m) e
presenta ampie zone coltivabili, nonostante sia orlata da dune e i brevi corsi
d'acqua diano talora luogo a zone paludose. La fossa centrale è situata a
Sud-Est, in corrispondenza di un'estesa zona di montagne poco elevate che si
arrestano a Oriente, e nel cui punto più basso scorre il fiume Giordano;
vi si trovano diversi piccoli coni eruttivi, colate basaltiche ed espansioni di
lava, testimonianza di una notevole attività vulcanica. Il Mar Morto
è un residuo del bacino idrico che anticamente riempì la fossa,
per poi restringersi. L'altopiano mediano è caratterizzato da dolci
ondulazioni e depressioni, caratteristiche del paesaggio del Sinai. Il clima
della
P. risente della posizione intermedia fra il Mar Mediterraneo e il
deserto, ed è caratterizzato da inverni miti e scarse precipitazioni
(anche di carattere nevoso, soprattutto in Galilea e a Gerusalemme) concentrate
in un solo semestre. Ad eccezione del Giordano, i corsi d'acqua che
l'attraversano sono brevi e stagionali; l'acqua circola però nel
sottosuolo calcareo e viene attinta mediante pozzi. • St. -
Dalle
origini alla distruzione del Tempio di Gerusalemme: la presenza dell'uomo in
P. risale al Paleolitico, come rivelano importanti resti fossili, in
particolare del cosiddetto "uomo di Galilea" rinvenuti nella piana di Esdraelon.
Già all'XI millennio a.C. conducono i reperti della cultura nota come
Natufiana, fondata su popolazioni organizzate in piccoli gruppi di
cacciatori-raccoglitori, che si riparavano in capanne o in rifugi naturali. Il
sito archeologico di Gerico testimonia, invece, del successivo periodo, il
Neolitico Aceramico, datato fra l'VIII e il VII millennio a.C. Tipico di questa
fase fu l'utilizzo di nuove tecnologie costruttive poggianti sull'impiego del
mattone crudo, oltre che della roccia; si sviluppò inoltre l'agricoltura,
con la coltivazione di graminacee e frutta; la nuova forma di economia si
rifletté, sul piano sociale, in un'organizzazione di tipo comunitario
basata sulla famiglia estesa. Seguì un momento di crisi, superata a Sud
dall'affermarsi della cultura ghassuliana, basata sulla pastorizia transumante,
che vide la produzione di ceramiche e lo sviluppo della metallurgia del rame. I
molteplici contatti con l'Egitto, l'Anatolia e la Mesopotamia favorirono un
processo di urbanizzazione legato alla nascita di Stati regionali e/o cittadini.
Nel corso del III millennio vennero erette città fortificate che traevano
il proprio sostentamento dai villaggi agricoli, dai quali si esigevano prodotti,
mano d'opera e tributi. Verso la fine del I millennio anche questo modello
socio-economico entrò in crisi, quando il territorio della
P.
subì l'invasione dei cosiddetti "popoli del mare", da cui ebbe origine
l'insediamento dei Filistei nella zona costiera meridionale. Nelle regioni
interne si procedette a una riorganizzazione della società e del suo
assetto, attuata a partire dalle differenti realtà tribali, in
concomitanza con lo sviluppo di nuove tecnologie (quali la metallurgia del
ferro) e di nuove forme istituzionali derivanti dall'organizzazione delle
società agro-pastorali. Intorno al 1000 a.C. si affermò la
Monarchia israelitica, che sottopose la
P. a un rapido processo di
omogeneizzazione socio-politica, che prevedeva, tra l'altro, la ripartizione
dello Stato in distretti e l'assimilazione della popolazione agro-pastorale a
quella cittadina. Ma alla morte del re Salomone il Regno si scisse in due parti,
divenendo facile preda prima dell'Impero assiro in piena fase di espansione, poi
dei Babilonesi loro successori (586 a.C.). Con la fine dell'Impero persiano e la
formazione dei Regni ellenistici, la
P. passò in un primo tempo
sotto il controllo dei Tolomei, quindi sotto quello dei Seleucidi. Questi ultimi
divisero il territorio in quattro distretti, le eparchie: Samaria, Paralia,
Galaaditide e Giudea; investita dal processo di ellenizzazione, la
P.
vide le proprie città svilupparsi sul modello dominante delle
poleis greche. Fu solo nel 167 a.C. che la rivolta di Giuda Maccabeo
portò alla formazione di uno Stato indipendente, con a capo il sommo
sacerdote, e fondato su principi di ortodossia religiosa. Ma l'intervento
romano, con l'invio di Pompeo nel 63 a.C., portò al ridimensionamento
dello Stato giudaico, che venne sottoposto al controllo e al protettorato
dell'Impero di Roma fino a quando, in seguito alla morte di re Erode, la
P. assunse lo statuto di provincia romana con funzione strategica e
militare, mutando anche il proprio nome in
Giudea. Ma il rapporto con
Roma si concluse con la definitiva sottomissione del territorio all'Impero
centrale, segnata nel 73 a.C. dalla distruzione del Tempio di Gerusalemme da
parte dell'imperatore Tito, come risposta a una serie di rivolte. A partire dai
secc. I e II d.C., il fenomeno della cristianizzazione vide la
P.
divenire una meta di pellegrinaggio per fedeli provenienti da tutto il bacino
del Mediterraneo, ma già nel 614 la città di Gerusalemme venne
distrutta e profanata dai Persiani, e quella che ormai era chiamata
Terra
Santa assistette alla conclusione della fase bizantina della storia
palestinese e all'apertura del nuovo capitolo dell'occupazione araba. ║
Età medioevale e moderna: sotto le dinastie degli Omayyadi, degli
Abbasidi e dei Fatimidi, la
P. godette di un'epoca relativamente prospera
e pacifica, con Gerusalemme centro di convergenza di tre diversi culti: ebraico,
musulmano, cristiano. Ma nel X sec. l'arrivo dei Turchi Selgiuchidi
incrinò i rapporti interni e le relazioni con il mondo occidentale, dando
così avvio all'epoca delle Crociate. La vittoria dei cristiani impose al
territorio un modello feudale, destinato a durare fino al 1187, data della
riconquista di Gerusalemme da parte del Saladino, mentre con l'espugnazione di
San Giovanni d'Acri nel 1291 la presenza europea fu definitivamente eliminata.
Al governo dei Mamelucchi d'Egitto subentrò più tardi quello
ottomano, con la conquista di Gerusalemme da parte di Selim I nel 1517. I nuovi
dominatori si rivelarono rigidi e repressivi soprattutto nei confronti dei
cristiani, mentre favorirono l'insediamento di esuli ebrei in fuga dagli Stati
europei, con la formazione, nel XVI sec., di diversi nuclei ebraici. Fu solo a
partire dal XIX sec. che l'Europa ricominciò ad interessarsi alla
P., ancora soggetta all'Impero ottomano e amministrata secondo un modello
semi-feudale, in base al quale la stragrande maggioranza del territorio era
nelle mani di un esiguo numero di famiglie. Iniziò intanto ad affluire
una quantità sempre crescente di Ebrei, in fuga soprattutto dall'Europa
orientale, in particolare dalla Russia e dalla Polonia, e ormai desiderosi di
ricostituire uno Stato ebraico dove stabilirsi. ║
Dalla prima guerra
mondiale allo Stato di Israele: allo scoppio della prima guerra mondiale, la
P. era una zona in crisi, ufficialmente amministrata dagli Ottomani, a
maggioranza araba e sul cui territorio si trovavano ormai cospicui gruppi
ebraici. Promettendo l'indipendenza araba dal dominio turco, Gran Bretagna e
Francia ottennero dallo sceriffo della Mecca dapprima la sua neutralità,
quindi la sua alleanza, nel 1915; ciononostante, nel 1917, con la dichiarazione
Balfour, si dissero favorevoli all'insediamento di un nucleo nazionale ebraico
sul territorio della
P. In realtà essi si accordarono segretamente per
la divisione del Medio Oriente (tali patti verranno svelati solo nel 1917 dai
bolscevichi russi appena giunti al potere). Al termine del conflitto, comunque,
i territori dell'ormai estinto Impero ottomano furono dalla Società delle
Nazioni affidati, con il sistema dei mandati, alle grandi potenze. La Gran
Bretagna, cui toccò la
P., puntualizzò ufficialmente che
quanto affermato nella dichiarazione Balfour non era da intendersi come
privazione dei propri diritti per gli Arabi residenti, ma il movimento sionista,
nato nel secolo precedente e mirante a creare uno Stato ebraico in
P., ne
risultò notevolmente rafforzato. Già a partire dagli anni Venti si
assistette pertanto a scontri fra le diverse etnie presenti sul territorio. La
situazione peggiorò ulteriormente nel decennio successivo, con l'arrivo
di gruppi sempre più folti di Ebrei in fuga dalla minaccia nazista. Nel
1936 scoppiò la rivolta: il rifiuto opposto dalla potenza mandataria di
costituire un Consiglio legislativo palestinese fu l'occasione che
innescò la protesta araba, con scioperi e manifestazioni che si
protrassero fino al 1939. È di questa data il cosiddetto
Libro
bianco, un progetto inglese per la spartizione della
P. fra Arabi ed
Ebrei. Fu solo dieci anni dopo, al termine della seconda guerra mondiale, che si
tornò a discutere del problema a livello internazionale. Il conflitto, e
le sue tragiche conseguenze per il popolo ebraico, avevano suscitato delle
aspettative cui era ormai impossibile non rispondere. La Gran Bretagna rimise la
questione alle Nazioni Unite, che con la risoluzione 181 del 29 novembre 1947
approvarono un piano per la spartizione del territorio della
P.: 56% a
uno Stato ebraico (circa 1.000.000 di abitanti), 43% a uno Stato arabo (oltre
700.000 abitanti), il resto, comprendente Gerusalemme, affidato in
amministrazione fiduciaria all'ONU (circa 200.000 abitanti). Subito gli Arabi si
opposero, denunciando il piano come una violazione del principio
dell'autodeterminazione dei popoli, in quanto nell'area spettante agli Ebrei
erano comunque gli Arabi a costituire la maggioranza della popolazione e a
possedere la maggior parte delle terre. Ne nacquero dei conflitti fra i
Palestinesi e il nuovo Stato d'Israele (ormai la Gran Bretagna aveva concluso il
suo mandato), con la conquista israeliana di gran parte delle zone affidate agli
Arabi (armistizi febbraio-luglio 1949). Di fatto, lo Stato arabo-palestinese non
poté mai costituirsi e i territori residui vennero inglobati dalle
Nazioni confinanti: l'Egitto si annesse la Striscia di Gaza, la Transgiordania
si unì la Cisgiordania (che dall'aprile 1949 divenne Giordania). La
maggioranza degli originari abitanti arabi divennero profughi, si rifugiarono
nei Paesi vicini e non poterono fare rientro in
P., continuando a
vivere in campi dalle condizioni di vita precarie. Dopo gli scontri terminati con
gli armistizi del 1949, altri conflitti militari con i propri vicini segnarono
la vita dello Stato di Israele, i cui confini subirono negli ultimi decenni
continue alterazioni. Al giugno 1967 risale l'estensione del territorio di
Israele fino alla Cisgiordania e alla Striscia di Gaza (guerra dei Sei giorni).
Sempre nel 1967 si ebbe
l'annessione del settore orientale di Gerusalemme (secondo la risoluzione 181
dell'ONU spettante invece agli Arabi), e nel 1980 la città venne
dichiarata capitale unica e indivisibile dello Stato di Israele,
nonostante accese polemiche sia interne sia internazionali spingessero a
riconoscere libero accesso a tutti i luoghi sacri delle tre grandi religioni
monoteiste. ║
La resistenza palestinese: già a partire dalla
fine del secondo conflitto mondiale, in
P. cominciò a diffondersi
un nazionalismo palestinese, distinto dal più ampio e articolato
nazionalismo arabo, col fine di rivendicare uno Stato per un popolo dai precisi
connotati storici e culturali. Il movimento, in realtà, trova le sue
radici più profonde già all'inizio del XX sec., nelle reazioni ai
primi insediamenti di profughi ebrei in
P., che suscitarono proteste
soprattutto tra i contadini, preoccupati per le loro terre, e fra i commercianti
cittadini, spaventati dalla nuova concorrenza negli affari. Più
organizzati furono alcuni gruppi sorti poco dopo la prima guerra mondiale, in
genere di ispirazione religiosa, mentre a partire dagli anni Venti alle
motivazioni ideologiche se ne aggiunsero altre di ordine economico e politico,
sostenute da formazioni che si rivolgevano per lo più alle potenti
famiglie urbane. Ma la resistenza araba all'ingresso in
P. di nuovi
gruppi ebraici prese la forma di una ribellione organizzata soltanto nel 1936,
anche se il già citato
Libro bianco del 1939 venne rifiutato. Dopo
la nascita dello Stato di Israele, l'opposizione araba continuò in parte
fuori dalla
P., mentre i tentativi di costituire sul territorio dei
movimenti a difesa dei diritti palestinesi ebbero scarsissimo seguito. Fu solo
nel 1964 che venne fondata l'
Organizzazione per la Liberazione della
P. (OLP), con lo scopo dichiarato di abbattere lo Stato d'Israele. La
guerra dei Sei giorni non fece che inasprire il disegno di lotta, diffondendo
fra gli aderenti al movimento la convinzione che l'unico efficace strumento di
lotta fosse lo scontro armato. Sorsero intanto altre formazioni, di ispirazione
diversa ma tutte animate da analoghi intenti, fra cui, nel 1965, al Fatah,
guidata da Yasser Arafat, che entrò a far parte dell'OLP nel 1969,
assumendo subito un ruolo egemone, tanto che lo stesso Arafat divenne leader
indiscusso del movimento. Fu quindi istituito anche il Consiglio nazionale
palestinese, sorta di Parlamento in esilio che si riuniva periodicamente in
vari Stati arabi per scegliere la via da seguire nei rapporti con Israele. Gli anni
Settanta furono un periodo difficile e buio per l'organizzazione palestinese:
dopo lo scontro con la Giordania, nel 1970-71, l'OLP fu costretta a trasferire
le proprie basi in Libano, mentre sempre maggior influenza avevano vari gruppi
terroristici, fra cui Settembre nero, responsabile della strage di Monaco del
1972, nella quale persero la vita numerosi atleti israeliani partecipanti alle
Olimpiadi organizzate in quella città. Una svolta si ebbe nel 1974 quando Arafat,
riconosciuto da tutti gli Stati arabi come unico legittimo rappresentante del
popolo palestinese, tenne un discorso all'ONU. In seguito, l'OLP optò per
una modifica moderata dei propri piani per l'immediato futuro, che divennero la
costituzione di uno Stato palestinese nei territori occupati da Israele nel
1967, senza che per questo venissero meno gli attacchi armati sferrati dai campi
profughi del Libano, dove negli anni Settanta si trovavano ormai più di
500.000 Palestinesi. Una così massiccia presenza di profughi, tra
l'altro, nel 1975 condusse il Libano stesso alla guerra civile; nel 1982 truppe
israeliane entrarono a Beirut e distrussero il quartier generale dell'OLP, che
venne quindi trasferito a Tunisi. A questo punto il contrasto interno fra
moderati e radicali si fece più aspro: ne nacque una vera guerra
intestina con centinaia di vittime. Una nuova fase di lotta,
la cosiddetta
intifada (V.), ebbe inizio
nel 1987, con le rivolte spontanee degli abitanti dei territori occupati e
durissimi scontri con le forze armate israeliane, che non posero però
termine alla resistenza. La durezza della repressione israeliana iniziò a
suscitare reazioni a livello internazionale, a partire dagli Stati arabi vicini;
nel novembre del 1988 il Consiglio nazionale palestinese dichiarò di
riconoscere lo Stato d'Israele (cosa mai fatta prima di allora), proclamando al
contempo lo Stato indipendente di
P. A questo punto anche la diplomazia
internazionale iniziò a premere perché si arrivasse a un accordo
tra Arabi, Israeliani e Palestinesi, e nel 1993 si giunse allo storico
riconoscimento reciproco fra OLP e Israele, con gli accordi di Washington fra
Arafat e il premier israeliano Rabin. L'uccisione di Rabin (1995) in un
attentato da parte di estremisti di destra, le conseguenti reazioni arabe e la
vittoria elettorale del Partito conservatore israeliano (1996) portarono però
nuovi ostacoli al processo di pace. L'elezione di Benjamin
Netanyahu a primo ministro d'Israele nel maggio del 1996 acuì la
tensione fra i due Paesi che sfociò nell'ennesimo scontro militare,
a settembre, dopo la decisione da parte delle autorità di Tel Aviv di
aprire un tunnel al di sotto della moschea di El-Aqsa a Gerusalemme. Nei
disordini persero la vita decine di Palestinesi e di Israeliani. La situazione
era ormai esplosiva al punto da richiedere la convocazione di un vertice fra
Arafat e Netanyahu, a cui partecipò anche il presidente statunitense Bill
Clinton. Le difficili trattative del 1998 conclusesi col ritiro delle truppe israeliane
dalla città di Hebron, che passò così sotto
l'amministrazione palestinese, rappresentarono un ulteriore riconoscimento
per il Governo guidato da Yasser Arafat. Nel 1999, l'elezione del primo ministro
laburista Ehud Barak riavviò il processo di pace:
Israele riprese il programma di trasferimento dei territori in Cisgiordania
all'Autorità palestinese, annunciò il ritiro delle sue truppe
dal Libano meridionale e stabilì dei contatti con la Siria per
affrontare il problema del Golan. Rimase invece senza soluzione la questione
dello statuto di Gerusalemme, che sia gli Israeliani, sia i Palestinesi consideravano loro
capitale: su questo punto fallì anche il tentativo di mediazione del presidente
statunitense Clinton a Camp David (luglio 2000). Il 29 settembre 2000 scoppiò una
serie di scontri a seguito della visita effettuata da A. Sharon alla Spianata delle
moschee, attraverso la quale il leader dell'opposizione israeliana intese affermare
la completa sovranità di Israele sulla Città Santa. Quel gesto
diede origine alla
seconda Intifada, che provocò un inasprimento
del conflitto tra Palestinesi e Israeliani, acuitosi ulteriormente allorché
primo ministro d'Israele divenne lo stesso Sharon, successore del dimissionario
Barak (febbraio 2001). Il neo premier adottò fin da subito la tattica
della ritorsione, rispondendo con bombardamenti, attacchi e occupazioni
militari ai numerosi e sanguinosissimi attentati suicidi palestinesi che colpirono
soprattutto la popolazione civile israeliana. Il 25 agosto, per la prima volta
nella sua storia, il Fronte democratico per la liberazione della
P.
rivendicò un attentato commesso contro un commando israeliano a
Marganit, a Sud della Striscia di Gaza. Dopo gli attentati
terroristi dell'11 settembre alle Torri Gemelle e al Pentagono, il 26 settembre Arafat
e Peres si incontrarono a Gaza, dove decisero di impegnarsi per un cessate il fuoco e
per la ripresa di negoziati di pace. Tuttavia, la situazione diventò ancora più
esplosiva. Il 17 ottobre l'ex ministro del Turismo israeliano R. Zeevi, dimessosi il giorno
prima dal Governo Sharon, venne ucciso a Gerusalemme. L'attentato fu rivendicato dal Fronte
popolare per la liberazione della
P. che volle così vendicare la morte del suo
leader, Ali Mustafa, assassinato a Ramallah in agosto. L'omicidio scatenò una serie di
manifestazioni culminate nelle incursioni israeliane in sei centri palestinesi, che causarono
decine di vittime. Agli inizi di dicembre Arafat, su pressione israeliana, fece arrestare circa
150 esponenti dei movimenti estremisti di Hamas (V.) e della Jihad islamica, responsabili di una
serie di attentati suicidi. Il gesto del presidente dell'ANP non fermò tuttavia la
durissima offensiva di Israele contro le città di Gaza e Ramallah. Nel
frattempo gli attentati suicidi si moltiplicarono e crebbero in cruenza.
Nel marzo 2002 Israele inviò nuovamente alcune truppe nei territori palestinesi,
nell'ambito di un'operazione denominata "Muraglia di difesa", ponendo d'assedio Ramallah,
quartier generale di Arafat, che si trovò impossibilitato a lasciare la città e,
in un secondo momento, l'edificio nel quale si trovava. Nonostante venisse messo
a punto un piano di pace dal principe ereditario saudita Abdullah, sottoscritto dalla maggior
parte del mondo arabo, Israele continuò la sua offensiva che, nel mese di aprile, si
allargò fino a comprendere le città di Betlemme, Tulkarem, Jenin, Qalqilya e
Nablus. A Betlemme, città simbolo della Cristianità, il 2 aprile circa
150 Palestinesi tra miliziani e civili si asserragliarono nella Basilica della Natività,
assediata dall'esercito israeliano, mentre a Jenin, una delle roccaforti della
resistenza palestinese, la popolazione subì un feroce massacro. Sempre
in aprile, il presidente statunitense Bush, su pressione internazionale, decise
di inviare il segretario di Stato Colin Powell per cercare di risolvere il
conflitto, ma l'incontro con Sharon e Arafat ebbe esito negativo. Il 15 aprile,
Marwan Barghouti, uno dei leader dell'Intifada, venne arrestato dall'esercito
israeliano a Ramallah, mentre alla fine del mese Israele accettò la proposta
americana di allentare l'assedio al quartier generale di Arafat in cambio della
consegna di sei Palestinesi, quattro dei quali condannati per l'assassinio dell'ex ministro
Zeevi. A metà maggio venne tolto l'assedio, durato 38 giorni, alla Basilica
della Natività: dei circa 150 Palestinesi rimasti asserragliati 13,
accusati da Israele di terrorismo, vennero trasferiti a Cipro e quindi in Europa.
Il 16 giugno 2002 Israele, nella speranza di fermare gli attentati suicidi
palestinesi, diede il via ai lavori per la costruzione di un muro difensivo lungo
la "linea verde" che separa lo Stato ebraico dalla Cisgiordania. A luglio,
il quartier generale dell'Autorità Nazionale Palestinese a Hebron
venne distrutto dall'esercito israeliano. Nel frattempo gli attentati
suicidi proseguirono, così come le rappresaglie israeliane nei territori
palestinesi (gli episodi più importanti furono, il 22 luglio a Gaza,
il 7 ottobre a Khan Yunis, nella Striscia di Gaza, il 6 dicembre ancora a Gaza).
Contemporaneamente si cercarono soluzioni internazionali, tra cui il piano di pace danese,
che prevedeva la creazione di un nuovo Stato palestinese entro il 2005,
o gli incontri dei rappresentanti del cosiddetto "quartetto", ovvero Stati Uniti, Russia,
Nazioni Unite e Unione europea. L'11 settembre il Governo palestinese si dimise
in massa per scongiurare di fatto un possibile voto di sfiducia da parte del
Consiglio legislativo - il Parlamento - che aveva dichiarato la sua intenzione
in tal senso. Il 19 settembre, dopo nuovi attentati suicidi, il quartier generale
di Arafat a Ramallah venne ancora una volta circondato dall'esercito e mantenuto in
stato d'assedio per dieci giorni. Il 29 ottobre Arafat annunciò la
formazione di un nuovo Governo che, se non ottenne un consenso unanime, venne
comunque approvato dal Consiglio. Il 2003 si aprì con alcuni attentati
e con le conseguenti misure repressive messe in atto dal Governo israeliano,
tra cui il divieto dato a tutti i Palestinesi minori di 35 anni di lasciare
i Territori per recarsi in Israele, anche per motivi di lavoro. In febbraio, a Londra, si
svolse un importante meeting internazionale per definire nuove riforme all'interno
dell'Autorità Nazionale Palestinese (il mese precedente un primo incontro era
stato disertato dai Palestinesi per il divieto imposto da Israele ai membri
dell'ANP di uscire dai confini dei Territori). In febbraio il presidente Arafat
decise di nominare un primo ministro che lo avrebbe affiancato nella gestione della
leadership, innescando così il processo di riforma dell'amministrazione
palestinese caldeggiato da Stati Uniti, Nazioni Unite e Israele. La scelta
ricadde su Mahmoud Abbas, meglio noto come Abu Mazen (V.), segretario dell'OLP.
Il premier incaricato, dopo oltre cinque settimane di braccio di ferro con Arafat,
in aprile si accordò con il presidente dell'ANP per la formazione del nuovo
Governo, in cui lo stesso Mazen, oltre alla carica di primo ministro, avrebbe
ricoperto anche quella di ministro degli Interni, e avviò trattative con
Sharon per trovare una soluzione politica alla controversa situazione mediorientale.
In maggio il Parlamento palestinese diede il suo assenso al piano di pace
denominato "Road Map", pianificato da un quartetto formato da Unione europea, Russia,
ONU e Stati Uniti che, attraverso una serie di scadenze che passano dalla
cessazione degli atti di terrorismo alla democratizzazione delle istituzioni,
dovrebbe portare alla creazione, entro il 2005, di uno Stato palestinese. In settembre,
gli insanabili dissidi con Arafat indussero Abu Mazen a rassegnare le dimissioni da primo
ministro. Al suo posto venne scelto Ahmed Qrea, noto come Abu Ala, più vicino alle posizioni
del presidente Arafat, e in ottobre Hakam Balawi fu nominato ministro degli Interni. Il nuovo
Governo rilanciò la proposta di una conferenza di pace internazionale e chiese a Sharon il
ritiro dell'esercito israeliano per consentire lo svolgimento di nuove elezioni presidenziali,
legislative e amministrative nei Territori. Ma la tensione con Israele non accennò a scemare e
gli attentati proseguirono senza tregua. Nel marzo 2004 Sharon mise a punto un attacco
missilistico mirato nel quale perse la vita lo sceicco Ahmed Yassin (V. YASSIN, AHMED), capo
di Hamas. A distanza di un mese, anche il suo sostituto Abdel Aziz Rantisi morì per mano
israeliana. In seguito alla morte di Arafat (novembre 2004), in assenza di una chiara linea
di successione e al fine di evitare disordini nei Territori, la presidenza
ad interim
dell'ANP fu assunta dal portavoce parlamentare Rawhi Fattuh, mentre Abu Ala ereditò i
poteri di Arafat su sicurezza e finanza e Abu Mazen fu designato capo dell'OLP. Nel gennaio
2005, al cospetto di centinaia di osservatori internazionali, si tennero le consultazioni
che sancirono l'elezione a presidente dell'ANP di Abu Mazen, la cui nomina aprì uno spiraglio
nel dialogo con Israele. Nei mesi seguenti,
tuttavia, il dialogo entrò nuovamente in crisi: Sharon dovette affrontare le proteste
degli abitanti delle colonie ebraiche e dei partiti di destra, contrari al suo piano
di smobilitazione dalla Striscia di Gaza; Abu Mazen fu invece contestato dai
movimenti radicali palestinesi (in particolare Hamas e Jihad islamica) che proseguirono
negli attacchi contro Israele. La situazione si fece incandescente nel gennaio 2006, allorché
Hamas vinse le elezioni palestinesi, mentre Sharon, colpito da una grave malattia, lasciava la
guida di Israele a Ehud Olmert, ex ministro delle Finanze
dal 2003 al 2005, che, data la vittoria del suo partito (Kadima), sarebbe
poi stato confermato Primo ministro nelle elezioni di marzo.
Contrario a un dialogo con Hamas, il Governo Olmert avviò contatti con
il presidente palestinese Abu Mazen al fine di riaprire i negoziati di pace, ma nello
stesso tempo riprese le incursioni e i raid mirati che causarono la morte di alcuni
esponenti di Hamas, Jihad e Fatah, ma anche di numerosi civili. In un clima di guerra
civile, a causa delle tensioni tra Hamas e Fatah, e di minaccia di guerra aperta
tra Israele e ANP, uno spiraglio si aprì di nuovo in giugno, quando il presidente palestinese
Abu Mazen presentò un documento di riconciliazione nazionale, detto "Documento dei
prigionieri" (poiché elaborato da esponenti di Hamas, Fatah, Fronte popolare per
la liberazione della Palestina e Jihad islamica detenuti in carcere), che chiedeva
la creazione di un Governo di unità nazionale in vista della nascita di uno Stato
palestinese nei confini cancellati dalla guerra del 1967. Approvato da Fatah, il documento
fu in sostanza respinto da Hamas. A fine giugno le tensioni tra Israeliani e Palestinesi
si acuirono: in risposta alle uccisioni mirate israeliane, i miliziani delle Brigate al
Qassam, il braccio armato di Hamas, lanciarono missili sulla cittadina di Sderot, nel
Sud di Israele, e condussero un raid in territorio israeliano assassinando due soldati e
rapendone un terzo, per la liberazione del quale chiesero il rilascio di tutte le donne e
i minorenni palestinesi reclusi in carceri israeliane. Israele si rifiutò di trattare e mise
in atto un'offensiva con raid aerei nella Striscia di Gaza e arresti in Cisgiordania di
ministri di Hamas e di decine di parlamentari del movimento estremista. Nei mesi successivi non
si arrestò l'offensiva militare israeliana contro esponenti di Hamas, rei di
non voler rinunciare alla violenza e di non voler riconoscere lo Stato di Israele. I frequenti raid aerei
di Tel Aviv provocarono la morte di numerosi civili, oltre che la distruzione di importanti
infrastrutture (tra cui l'unica centrale elettrica del Paese), andando ad aggravare una crisi economica
innescata a suo tempo dall'embargo internazionale sancito dopo l'elezione di Hamas. Il drammatico
impoverimento della popolazione palestinese, accompagnato da disoccupazione e peggioramento
delle condizioni igieniche, fu acuito dal permanere di una situazione di totale instabilità politica,
con Fatah e Hamas che, lungi dall'appianare le divergenze, proseguivano nelle violenze e nelle
accuse reciproche, lasciando il Paese nel caos e nell'anarchia. Scontri sanguinosi tra militanti delle
due formazioni politiche si verificarono nel dicembre 2006 e nei primi mesi del 2007, allorché
vennero ripetutamente violate le tregue decise dalle autorità. Spiragli di speranza si intravidero nel
febbraio 2007, quando il presidente Abu Mazen incaricò ufficialmente il primo ministro uscente
Ismail Haniyeh, esponente di Hamas, di formare il nuovo Governo di unità nazionale.
• Lett. - Per letteratura palestinese si intende la sola produzione
letteraria di autori che si sono identificati con la questione palestinese: si
tratta quindi di una letteratura recente, mentre i testi redatti in terra di
P. nei secoli e nei millenni precedenti vanno ricondotti alla cultura e
alla tradizione dei diversi popoli che si sono succeduti sul territorio.
All'interno del gruppo di narratori e poeti palestinesi è poi necessario
distinguere fra quanti hanno continuato ad abitare in
P. anche dopo il
1948, divenendo cittadini israeliani, quanti sono invece emigrati all'estero (in
altri Paesi arabi, in Europa o in America) e quanti risiedono in Cisgiordania o
a Gaza. Tra i primi esponenti di una letteratura patriottica, contraria alla
crescente ondata sionista, si distinguono il poeta Ibrâhîm
Tûqân (1905-41) e i romanzieri Khalil Baydas e Muhammad Uzza Druza.
Fra i poeti contemporanei spiccano Tawfîq Zayyâd, Samîh
al-Qâsim, Mahmûd Darwîsh e le autrici Fadwa Tûqân
e Salmâ al-Khadrâ'. Temi frequenti fra gli scrittori esuli sono la
nostalgia per la terra lasciata e l'idealizzazione del ricordo, come si
può ritrovare nelle opere di Ghassân Kanafânî o
Samîra 'Azzâm, temi ben diversi dall'asprezza presente nelle pagine
di Amîle Habîbî, cittadino di Israele che pure non si sente
parte dello Stato in cui vive. Il senso di estraneità e di isolamento
permea anche le opere degli autori residenti nei territori occupati, preziosi
testimoni della quotidiana esistenza dei gruppi di lotta armata e dei profughi;
tra di loro, meritano di essere ricordati Giamâl Bannûra, Muhammad
Ayyûb e Akram Sharîm.