PAPI E BEATI - PADRE PIO - LA VITA E LE OPERE

PRESENTAZIONE

Sono trascorsi ormai molti anni dal giorno in cui Padre Pio ha lasciato la vita terrena, ma la sua presenza continua ad essere sempre viva e operante: ancora oggi sono numerosissimi i fedeli che in cerca di pace e di conforto continuano a recarsi in pellegrinaggio a San Giovanni Rotondo per visitare il Santuario di S. Maria delle Grazie e fermarsi a pregare nella cripta dove si trova il sepolcro che contiene le umili spoglie mortali di Padre Pio.
Fin da quando ha cominciato a diffondersi la notizia dell'esistenza, in uno sperduto paesino del meridione d'Italia, di un frate cappuccino stigmatizzato, la figura di Padre Pio è stata via via sempre più oggetto di indagine e di studio, sia da parte degli ecclesiastici, desiderosi di accertare la veridicità dei fenomeni soprannaturali che gli venivano attribuiti, sia da parte dei laici, tra cui scienziati, medici, giornalisti, spinti dal bisogno di dare una spiegazione scientifica e razionale agli eventi miracolosi che si manifestavano in lui. Ma, nonostante tutto quello che si è detto e scritto intorno alla sua persona, resta evidente il fatto che la vita di Padre Pio, le sue opere, i segni delle stigmate presenti sul suo corpo, il dono della bilocazione e gli altri particolari doni che gli sono stati riconosciuti vanno al di là di ogni spiegazione scientifica e razionale, sembra che essi debbano essere accettati con un atto di fede come la manifestazione della sempre viva e costante presenza del divino tra noi, del supremo amore del Signore verso gli uomini, che si manifesta attraverso uno dei suoi figli più umili e devoti.
Questi tre volumi desiderano costituire un piccolo contributo a mantenere sempre vivo e costante il ricordo di questo umile servo di Dio, e al tempo stesso un modesto omaggio alla sua grande bontà e carità.
Il primo volume racconta la vita di Padre Pio, dalla sua nascita nel piccolo paese di Pietrelcina fino al 23 settembre 1968, giorno della sua morte, utilizzando gran parte del suo epistolario. Dalla lettura delle sue lettere indirizzate ai numerosi figli spirituali e confratelli, e in particolare al suo direttore spirituale Padre Benedetto da S. Marco in Lamis, traspare in modo evidente il suo amore assoluto e incondizionato per Dio e per gli uomini tutti: "...sono bruciato dall'amore di Dio e dall'amore del Prossimo. Dio per me è sempre fisso nella mente e stampato nel cuore, mai lo perdo di vista; mi tocca ammirarne la sua bellezza, i suoi sorrisi e i suoi turbamenti, le sue misericordie e le sue vendette o meglio i rigori della sua giustizia...".
Il secondo volume è incentrato sulla testimonianza diretta di uno dei suoi più cari figli spirituali, che è stato anche suo confratello nella vita religiosa e sacerdotale. Si tratta di Padre Alberto d'Apolito, il quale, portando la sua personale esperienza, ha voluto così manifestare tutta la sua devozione e gratitudine nei confronti del suo caro Padre: "I miei frequenti incontri con Padre Pio erano quelli di figlio col padre: di ascolto di dialogo, di servizio e di osservazione...".
Il terzo volume prosegue con la narrazione delle testimonianze e delle esperienze personali di altri figli e figlie spirituali di Padre Pio, tra cui ricordiamo quella della signora Giovanna Rizzani, della sua cara amica Margherita Hamilton e del Dottor Festa. Concludono l'opera un'appendice che contiene i discorsi di Papa Giovanni Paolo II in occasione della sua visita a San Giovanni Rotondo il 23 maggio 1987, per il centenario della nascita di Padre Pio, e una relazione sulle stigmate di Padre Pio, redatta dal sottoscritto.

San Giovanni Rotondo, 23 settembre 1996,
28°; anniversario della morte del Servo di Dio Padre Pio da Pietrelcina.

Padre Gerardo Di Flumeri
Vice Postulatore

SCHEDA BIOGRAFICA

Anno
Evento
1887
(25 maggio) Nasce a Pietrelcina (Benevento).
1903
(6 gennaio) Si reca a Morcone (Benevento) per iniziare il noviziato tra Cappuccini.

(22 gennaio) Veste i «panni di probazione» e diventa Fra Pio da Pietrelcina.
1904
(22 gennaio) Emette la professione dei voti semplici.

(25 gennaio) Si trasferisce a S. Elia a Pianisi (Campobasso) per iniziare la «rettorica».
1907
(27 gennaio) Emette la professione dei voti solenni.

(fine ottobre) A Serracapriola (Foggia) per iniziare lo studio della sacra teologia.
1908
(fine novembre) A Montefusco (Avellino) per continuare la teologia.

(19 dicembre) Riceve gli ordini Minori a Benevento.

(21 dicembre) Diventa suddiacono nella stessa città.
1909
Durante i primi mesi dell'anno è a Pietrelcina, malato.

(18 luglio) Riceve l'ordine del diaconato nella chiesa del convento di Morcone.
1910
(10 agosto) Ordinazione sacerdotale nel sacello dei canonici del duomo di Benevento.

(14 agosto) Prima Messa solenne a Pietrelcina; in quest'anno si hanno le «prime apparizioni di stimmate» (cf. Epist. 1, lett. 44).
1911
(fine ottobre) È mandato a Venafro, ma la malattia lo costringe quasi continuamente a letto. Succedono fenomeni straordinari.

(7 dicembre) Torna a Pietrelcina.
1915
(25 febbraio) Per motivi di salute, ottiene il permesso di poter continuare a stare fuori convento, ritenendo l'abito cappuccino.

(6 novembre) È chiamato alle armi.

(6 dicembre) Assegnato alla 10ª Compagnia di Sanità a Napoli.
1916
(17 febbraio) A Foggia nel convento di S. Anna.

(4 settembre) A S. Giovanni Rotondo.

(18 dicembre) Rientra al corpo militare di Napoli. Licenze e richiami sino al 16 marzo 1918, riformato per «broncoalveolite doppia».
1918
(5-7 agosto) Trasverberazione.

(20 settembre) Stimmatizzazione.
1919
(15-16 maggio) Luigi Romanelli, primo medico che visita Padre Pio dopo la stimmatizzazione.

(26 luglio) Relazione medica di Amico Bignami.

(9 ottobre) Visita medica di Giorgio Festa.
1922
(2 giugno) Primi provvedimenti del Sant'Uffizio.
1923
(31 maggio) Il Sant'Ufficio dopo una inchiesta decreta di non constare la «soprannaturalità dei fatti attribuiti a Padre Pio».

(17 giugno) Altri ordini: Padre Pio deve celebrare nella cappella interna del convento senza pubblico e non rispondere né per sé né per altri a lettere a lui indirizzate.

(26 giugno) A causa di una sommossa popolare, Padre Pio celebra di nuovo in chiesa.

(8 agosto) Padre Pio viene a conoscenza dell'ordine (datato al 30 luglio) di trasferirsi ad Ancona, e si mette a disposizione.

(17 agosto) Causa fermento popolare, si differisce la rimozione.
1929
(3 gennaio) Muore a S. Giovanni Rotondo la mamma di Padre Pio.
1931
(23 maggio) Padre Pio viene privato di ogni esercizio di ministero, eccetto la santa Messa, che può celebrare soltanto nella cappella interna del convento, e privatamente.
1933
(16 luglio) Padre Pio scende a celebrare la santa Messa in chiesa.
1934
(25 marzo) Padre Pio riprende ad ascoltare le confessioni degli uomini.

(12 maggio) E quelle delle donne.
1946
(7 ottobre) Muore il padre di Padre Pio a S. Giovanni Rotondo.
1947
(19 maggio) Inizio dei lavori di spiano per la costruzione della «Casa Sollievo della Sofferenza».
1955
(31 gennaio) Rituale colpo di piccone per l'erigenda nuova chiesa del convento.
1956
(5 maggio) Inaugurazione della «Casa Sollievo della Sofferenza».
1959
(1 luglio) Consacrazione della nuova chiesa.
1965
(17 febbraio) Padre Pio può continuare a dire la Messa in latino.
1966
(21 novembre) Può continuare a celebrare in pubblico, ma seduto.
1968
(29 marzo) Padre Pio comincia ad usare una sedia a rotelle, perché le gambe "non se le sente".

(22 settembre) Alle ore 5, la sua ultima Messa; alle 18, la sua ultima benedizione alla folla in chiesa.

(23 settembre) Alle ore 2,30, Padre Pio, ricevuto il sacramento dell'unzione dei malati, muore serenamente con la corona del santo Rosario in mano e con «Gesù!... Maria!...» sulle labbra.
1969
(4 novembre) Inizia la trattazione della Causa per la sua Beatificazione e Canonizzazione.
1973
(16 gennaio) Mons. Valentino Vailati, Arcivescovo di Manfredonia, consegna alla Sacra Congregazione per le Cause dei Santi tutta la documentazione richiesta, allo scopo di ottenere il «nulla osta»per l'introduzione della Causa di Beatificazione.
1980
(3 marzo) Lo stesso Arcivescovo consegna alla predetta Congregazione ulteriore documentazione per ottenere il desiderato «nulla osta».
1983
(20 marzo) Apertura ufficiale del Processo cognizionale sulla vita e le virtù del Servo di Dio, Padre Pio da Pietrelcina.
1987
(23 maggio) Visita pastorale a S. Giovanni Rotondo del Santo Padre Giovanni Paolo II, il quale s'inginocchia e prega sulla tomba di Padre Pio.
1990
(21 gennaio) Conclusione del processo diocesano cognizionale sulla vita e le virtù del Servo di Dio. Tutta la documentazione, contenuta in 10 volumi, viene consegnata alla Congregazione per le cause dei santi.
1991
(7 dicembre) La predetta Congregazione emette il decreto «de validitate» sul processo diocesano. Il padre Cristoforo Bove dei frati minori conventuali è nominato relatore ufficiale per la preparazione della «positio super virtutibus».

FRANCESCO

Chi si impegna a scoprire elementi comuni nelle persone di eccezione, arriva alla consolante conclusione che «l'eroismo cristiano dimora in cuore di carne»; ma il più delle volte si fatica molto per scoprire questi «cuori di carne».
In tale mala sorte incappano anche tanti uomini, che più si avvicinano a Dio e più son creduti «legati a niente», quasi che la grazia trasformi la natura al punto da «dimenticarla». Invece il Santo è «l'uomo reale, quale bisogna ch'egli sia»: un uomo che, attraverso la sua concreta umanità, conformata e modellata su quella di Dio-Uomo, fa trasparire nel mondo il «Viso di Dio».

Le solite incrostazioni

Anche Francesco Forgione prima, e Padre Pio dopo, non sfugge all'«indefinibile appannaggio» di quelli che pur vivendo nel mondo, non hanno decisamente l'aria di essere al mondo; uomini disincarnati: il loro corpo è ancora in terra, ma la loro anima è già in cielo.
Quelli che si affannano a presentare il ragazzo Francesco «costruito» e non «reale», certo non mancano di fantasia: portato naturalmente alla contemplazione ed ai sogni, perché «meridionale», vaga - assorto - per ore nella campagna assolata del beneventano, in ascolto di voci che gli vengon da lontano; bimbo fragile, cresciuto malaticcio, «già tarato e disposto a tutti i mali», con addosso «febbri di origine nervosa»; «ragazzo diverso dagli altri, facile all'esaltazione, incline al fascino della storia dei santi, ed in particolare a quella di Francesco delle stigmate»; nato in uno dei luoghi «più poveri ed ingrati», conosce per esperienza, a casa e intorno a sé, la miseria nera: uno stomaco vuoto, su due gambe stecchite, trascinato da due piedi nudi, attanagliati dal freddo invernale o abbrustoliti dalla canicola estiva; «chiuso», «introverso», «assorto in sogni», «misogino», solo soletto per intere giornate in paese, intento soltanto a far croci ed a recitare preghiere ininterrottamente al pascolo del minuscolo gregge...
Sono alcune delle inesattezze, esagerazioni correnti, tutte buone per le solite incrostazioni agiografiche, con le quali si cerca di costruire il santo anziché studiarlo nella sua realtà.

Pietrelcina

L'ambiente, fatto di persone, di luoghi e di cose, recita una parte insostituibile nella formazione dell'uomo concreto.
Come tutti gli altri uomini, anche Padre Pio ha assorbito e personalizzato il paesaggio umano e naturale pur se con quell'impegno diverso che è la dimensione della «santità». Una «santità», però, situata nella vita, che rivive e dà una voce ed un segno ad ogni cosa.
Nessuno o pochi sanno chi sia Padre Pio Forgione, ma tutti conoscono ed amano Padre Pio da Pietrelcina.
Ancor oggi non è raro sentire dalla bocca dei «pucinari», specie degli anziani, Pretapucina, come diceva sempre zi' Grazio Maria, genitore di Padre Pio, il quale preferiva la stessa dizione, avvalorandola con la tradizione orale che sostiene la esistenza di una pietra con sopra abbozzata dallo scalpello una chioccia con i pulcini, scoperta durante gli scavi della chiesetta baronale.
Il nome ufficiale odierno è Pietrelcina, originata da un castello, edificato sopra «duri e grossi macigni», circondato da mura nella parte superiore, con due porte, l'una a settentrione e l'altra a mezzogiorno; «un grosso sasso inaccessibile», ad oriente; con un «esteso e magnifico palazzo» ad occidente, di cui presentemente si scorge soltanto qualche rudere, perché raso al suolo dal terremoto del 1688, assieme alla chiesetta dentro il castello, dedicata a S. Angelo, cioè S. Michele.
L'esistenza dell'antica chiesetta di S. Angelo fa supporre che Pietrelcina risalga al periodo longobardo-normanno, perché era proprio di questi popoli il costruire nei loro castelli chiese o cappelle in onore di S. Michele, l'Angelo per antonomasia da essi venerato come loro Patrono.
È notizia certa che il paese esisteva già nel 1100 e il Castrum (fortezza abitata da militari e civili) dei bassi tempi a mano a mano si allargava, usciva fuori le mura sino ad arrivare nei dintorni dell'attuale chiesa madre, e poi oltre, ed al ponticello del torrente Pantaniello.
Come molti castelli del Meridione, anche quello di Pietrelcina spesso è esposto alla vendita e passa da un feudatario all'altro. Attraverso i secoli si nota un'altalena demografica, causata da terremoti, guerre, peste e, negli ultimi tempi, dall'emigrazione: nel 1795 contava 1938 abitanti, nel 1804 erano circa 1800, nel censimento del 1901 salivano a 4258 e nel 1961 scendevano a 3870. Gli elettori emigrati, alla revisione effettuata nel 1970, erano 279.
Ridente paese agricolo di belle tradizioni cristiane ed umane, dista circa 11 chilometri da Benevento e 3 dallo scalo ferroviario, dagli orizzonti aperti sulle numerose contrade.
Gente laboriosa, cordiale, espansiva, svolge principalmente la sua vita al ritmo dei lavori agricoli, temprata dal solleone meridionale e dai venti gelidi d'inverno.
Le sue vicende storiche ci presentano un insieme che alla selvatica, risentita e contesa genesi medioevale della topografia urbana congiunge, nella distesa ondulata e fertile del paesaggio agrario e nell'apertura di orizzonte, qualcosa di rasserenante e composta in bonaria dolcezza.
E sembra quasi che topografia urbana e paesaggio agrario si siano storicamente sedimentati nella psicologia degli abitanti, facili al contrasto ed alla pacificazione, gelosi di sé e della propria affermazione ma anche generosi come la terra che li circonda. Connotato e fattore rilevanti della difficile sintesi caratteriale, una trama storica e di costume fondamentalmente religiosa, iscritta nella caparbietà di ricostruire i propri «fuochi» contro la furia mussulmana e normanna e nel partecipare le sudate agiatezze alle feste religiose.
Lo stesso puntiglio burbero, la stessa bonarietà comprensiva, la stessa essenza religiosa assorbe universalmente Francesco Forgione preparandosi a diventare il luogo di scontri tra le forze antiche e moderne, come il diavolo e il peccato, Dio e la Grazia ed il luogo d'incontro di una umanità che cerca pace per le sue tensioni dolorose.
Francesco venne alla luce il 25 maggio 1887 nella vecchia Pietrelcina: rione Castello.
Case secolari, costruite con calce magra e pietra dura e greggia, poggiate sulla viva roccia, dal caratteristico colore oscuro che, dal vecchio borgo, affiora da ogni dove; addossate le une alle altre e protette da porte assolate e spesso rose dalla pioggia, come in genere le mani screpolate dei contadini del rione, con vicoli e vicoletti dai tracciati più impensati, ripide discese, una minuscola piazzetta - il «Larghetto del Principe» - ed un piccolo sagrato davanti alla chiesa di S. Anna.
La sopravvivenza di un antico arco - «Porta Madonnella» - ricorda le origini feudali del paese, con a lato l'archetto della Madonna: tre maioliche dell'artigiano Giuseppe De Biase, raffiguranti con artistica ingenuità S. Michele, l'Incoronata e S. Antonio, davanti alle quali la devozione popolare sosta in preghiera.
Padre Pio, sin da piccolo, tutte le volte che passava, indirizzava loro un affettuoso saluto e negli anni di sacerdozio, svolto a Pietrelcina, a sera con un gruppetto di fedeli recitava il santo Rosario e la novena in preparazione alla festa dell'Incoronata.
In questo vecchio rione baronale dimorava la famiglia Forgione e qui nacque e torna a nascere ogni giorno Padre Pio; qui torna ad essere fanciullo, adolescente, giovane con l'orma dei suoi passi, perché «le orme dei santi non si cancellano mai».
Come non si potrà mai cancellare, perché diventata dimensione spirituale del piccolo Francesco Forgione, il trionfo di pietra e di roccia del rione Castello: non ci sembra infatti per nulla sconveniente, anzi diremmo doveroso, rilevare come tratto caratteriale permanente dell'uomo Padre Pio e della sua santità vissuta, quella saldezza interiore irremovibile e quasi caparbia, trascrizione psichica del «Morgione» (grande roccia, su cui poggia rione Castello) di fronte ad eventi, prove, contrasti e tempeste - «foris pugnae, intus timores» di S. Paolo! - che avrebbe schiantato qualsiasi persona che non avesse portato dentro, come lui, la solidità della pietra oscura e dura del «suo» «Rione Castello».
Chi si reca pellegrino a Pietrelcina, può confessare: «l'ho conosciuto più umano di come l'ho visto la prima volta nel convento garganico»; «sono venuto a Pietrelcina per vederlo e sentire la nostalgia del suo grande cuore».
È proprio vero che un uomo non abbandona praticamente intatta la casa dove ha abitato, senza lasciarla impressa di mille segni del suo temperamento e della sua stessa personalità morale.
Francesco divenne cristiano in S. Maria degli Angeli, oggi S. Anna, ricostruita nel 1700, dopo il disastroso terremoto del 5 giugno 1688; ed a questa chiesa i secoli pesano addosso malamente; perché quasi fatiscente, ma anche così mal ridotta si sente orgogliosa, perché piena di Francesco Forgione bambino e adolescente, di Fra Pio studente cappuccino e di PadrePio sacerdote.
È tanto vicina alla casa Forgione, che forse sentì i primi vagiti di Francesco quando venne alla luce; in essa divenne cristiano e soldato di Cristo (fu cresimato il 27 settembre 1899); imparò i primi elementi della dottrina cristiana e undicenne ricevette la prima comunione; si estasiava davanti a Gesù sacramentato da adolescente quando, ascoltata la santa Messa, d'accordo col sagrestano, si faceva chiudere in chiesa, fissandogli l'orario per andargli ad aprire; in essa celebrò le sue «lunghe Messe», quando la salute lo infiacchiva di più e si stemperò in lagrime amorose e dolorose per sé e i suoi fratelli d'esilio (cf. Epist I, lett. 44).
Il direttore spirituale di Padre Pio, Benedetto da S. Marco in Lamis, ci fa sapere che già a cinque anni gli apparve all'altare maggiore il Sacro Cuore di Gesù, fece segno di accostarsi all'altare e mise la mano in testa al piccolo Francesco, manifestando di gradire e confermare l'offerta di se stesso e la consacrazione al Suo amore.
Davanti alla chiesa vi è il piccolo sagrato, pochi metri quadrati selciati di pietra, teatro abituale dei giochi dei ragazzi del rione; protetto da un parapetto, chiuso fra chiesa e case, è una finestra spalancata su un orizzonte incantevole e sconfinato. Dalla facciata della chiesa a sinistra di chi entra dalla porta maggiore, affiora una irregolare curva di roccia: qui Francesco sedeva e guardava i compagni che giocavano o leggeva, pregava, quando trovava la chiesa chiusa; e da studente e da sacerdote, quando restava in paese, nelle ore pomeridiane di calura opprimente, vi si portava a respirare un po' di frescura ed a pregare.
Sul parapetto del sagrato era solito fermarsi, seduto assieme all'arciprete don Salvatore Pannullo, circondato dai fedeli che avevano assistito alle funzioni.

Tutta nel mio cuore

Anche l'attuale chiesa parrocchiale S. Maria degli Angeli, anticamente SS. Annunziata, a croce greca ed a tre navate, ampliata nella seconda metà del secolo scorso e completata tra il 1920 e il 1925, fu testimone muto delle Messe «lunghe» di Padre Pio e dei suoi «interminabili» ringraziamenti; delle preghiere ardenti rivolte con cuore di figlio alla «cara» Madonna della Libera - sempre, sino all'ultimo giorno di sua vita - ch'egli affettuosamente chiamava «la Madonnella nostra».
In questa chiesa Padre Pio iniziò, da diacono, il suo apostolato, amministrando il primo battesimo, ma fu così salato che il malcapitato neonato, aprendo la boccuccia, strabuzzava gli occhi, «smerzava l'uocchie» - parole di Padre Pio, che tutto impaurito corse dall'arciprete don Salvatore Pannullo, dicendo: «Zi' Tore, ho ucciso il bambino!...» -.
Oltre alla chiesa di S. Anna e di S. Maria degli Angeli, oggi a Pietrelcina vi è anche un convento ed una chiesa cappuccina, dedicata alla Sacra Famiglia per espresso suggerimento di Padre Pio, il quale, da studente cappuccino, durante una passeggiata serotina verso la via del cimitero con l'arciprete zi' Tore, che mostrò sempre una predilezione per Padre Pio sin da quand'era chierichetto della parrocchia, sentì ove sorgono chiesa e convento «un coro di angeli che cantavano e delle campane che suonavano a distesa».
Padre Pio ha amato sempre moltissimo il suo paese, e sebbene vi mancasse dal 1918, di esso ricordava luoghi, strade, persone con una lucidità sorprendente: «Io di Pietrelcina - diceva - ricordo pietra per pietra»; portava nel sangue le belle qualità della sua stirpe ed era un piacere sentirlo parlare nel «natio vernacolo», attraverso il quale - dichiarava - si possono esprimere meglio i propri pensieri; il ricordo e l'amore per i luoghi nativi e per i suoi abitanti erano così vivi da incarnarli e riviverli nella sua vita di ogni giorno.
In piena maturità della natura e della grazia, manifesterà ancora le belle qualità della sua stirpe, che gli ispirano pronte risposte e scappate mordaci, con una punta di umorismo illuminato; ama i detti popolari e il conversare nel dialetto «pucinaro», specie se paesani, assieme ai quali, quando può, ripassa a memoria tutta Pietrelcina; ha il buon senso della sua gente; e quando desidera allontanare la folla, lo fa come se mandasse avanti un gregge. Nel modo di trattare, cordiale e infastidito, non smentisce l'educazione familiare.
Come tornando dalla chiesa a casa, lungo la via si fermava a conversare coi suoi paesani e al coetaneo Luigi ammoniva di controllare la lingua: «Uagliò, m'arracuman' a vocch»; a Vincenzo calzolaio a confezionare scarpe comode per far camminare «bene» la gente («bene»: comodamente per la retta via): «Ué, Cienz', facimm' i scarp' pe camminà buon'». Così a S. Giovanni Rotondo lungo il breve tragitto dalla cella alla chiesa, al coro, al confessionale, al refettorio: a chi gli si butta ai piedi per volerglieli baciare, confessandosi gran peccatore: «Uagliò, che stai facen'; tu si' peccator' e vu' muzzicà i piedi a me»; a chi gli chiede con insistenza dov'è il congiunto defunto: «Eh sì! Io mo' vengo da llà»; ad una pellegrina che gli domanda che deve dire da parte di lui alla sorella Rosa: «Dille che diventi garofano!...».
Come Pietrelcina era ed è piena tutta di lui, così Padre Pio rinserrava tutta Pietrelcina nel suo cuore: «Salutatemi tutta Pietrelcina, che tengo tutta nel mio cuore - scriveva al fratello Michele. - Le benedizioni del Signore scendano larghe e copiose su tutti e tutti si rendano degni delle odierne ed eterne promesse» (22 dicembre 1926).
E l'amore per il proprio paese Padre Pio lo conserva anche nella vita senza tempo: «S. Giovanni l'ho valorizzata in vita; Pietrelcina la valorizzerò in morte».
Anch'egli s'inserisce nel numero di tanti emigrati «pucinari» che vogliono rendere più bello il proprio paese che non riescono a togliersi dal cuore, ed il suo contributo non è la solita «pezza» americana stentata col sudore, ma una specie di dantesco fulgore d'Oriente...

Zi' Grazio Maria e mamma Peppa

Grazio Maria Forgione e Maria Giuseppa Di Nunzio erano contadini che con il lavoro dei propri campi tiravano su onestamente la prole: due figli e tre figlie, oggi tutti morti, e altri due deceduti piccolini.
Grazio e Giuseppa - nel giudizio di p. Martindale - richiamano straordinariamente i genitori di Giacinta e Francesco Marto, di Fatima, anche nei lineamenti, ma soprattutto per la cordiale amabilità, l'ospitalità, la rettitudine e la dignità vera campagnola. Essi pure erano chiamati «zi'» (zio, zia), proprio come il signor Marto è stato e sarà sempre «zi' Marto».
Grazio non perse mai l'allegria, che comunicava a chi l'avvicinava, condita di scherzi innocenti e battute pronte, conservando - afferma chi ci visse accanto e raccolse il suo ultimo respiro - quel carattere che Dio gli aveva dato: «Come Dio l'aveva creato, così rimase: un uomo forte, uomo giusto, uomo intelligente, di una intelligenza sveglia ed attiva, che traduceva subito ogni pensiero in azione».
Dalla parlata dialettale sonora e sveglia; asciutto, rotto al duro lavoro; statura media, occhi vivi e parlanti; dai modi, a volte, rudi e sbrigativi; sempre pieno di entusiasmo e di spirito. Le sue mani, dure e screpolate, non disdegnavano di scansare una formica per non schiacciarla: «Povero animaluccio - diceva - perché deve morire?».
Viveva la sua fede sinceramente, anche se non poteva accorrere alla chiesa ad ogni suon di campana e se, a volte, gli uscivan di bocca delle giaculatorie che fanno rabbuiare il volto dei buoni cristiani.
Quando Francesco (il futuro Padre Pio) espresse il desiderio di voler continuare gli studi per «farsi monaco», il padre affettuoso non tentennò ad allontanarsi da casa, emigrando, pur di guadagnare il necessario per il figlio studente, perché a Pietrelcina si lavorava soltanto per vivere. Ed allora il peso della famiglia ricadeva tutto sulle spalle della moglie.
Grazio Forgione, padre di Padre Pio

Chi conobbe «zia Peppa» all'età di 65 anni, la ricorda dagli occhi chiari, lineamenti corretti, corpo snello come una adolescente, piedi piccolissimi, colloquiando nel suo ostico vernacolo con una grazia ammirevole.
Tutti rammentano a Pietrelcina la sua snella figura, in bianca camicetta o, a seconda delle stagioni, avvolta nello scialle, con in testa, sempre fresco di bucato, il bianco fazzoletto, secondo l'usanza locale. «Era una popolana - dicono di lei i compaesani - ma aveva tratti da gran signora, ed ogni forestiero, di qualunque ceto fosse, andato a Pietrelcina a visitare la casetta ove nacque Padre Pio, trovava in lei la più disinvolta e cordiale accoglienza. La sua ospitalità era sempre larga, signorile, pur nella sua semplicità».
Anche lei - come il marito - sapeva tenere allegra compagnia,- «sempre pronta a raccontare belle cose e con che maestria!...»
Donna seria, rispettosa, religiosa; oltre al venerdì, non mangiava carne né sabato né mercoledì, in onore della Madonna del Carmine; frequentava la chiesa come tutte le altre buone popolane del paese; ed in quella casa così minuscola, ove sembra che i muri ti accarezzino e ti scaldino col loro respiro, impastato di sacrificio e di affetto semplice e sincero, mamma Giuseppa sfaccendava da mane a sera, quando i lavori campestri non la richiedevano altrove, per tirare avanti dignitosamente la famiglia; e ci riusciva così bene, da non fare impensierire il marito lontano.

Francesco

In questo ambiente tranquillo e sereno venne alla luce Francesco e visse la sua infanzia ed adolescenza. I suoi primi anni di vita non furono «duri», «stentati», di «stomaco vuoto», di «piedi scalzi», di «sognatore irriducibile», di «dure malattie di origine nervosa», né il suo carattere dava segni incipienti di un «misogino», di un «bimbo triste malaticcio», già circonfuso sin dai primi anni con aura da «leggenda dorata». Più tardi lo stesso Padre Pio dirà: «A casa mia era difficile trovarvi dieci lire, ma non ci mancava mai nulla».
Mamma Peppa ci dice che il piccolo Francesco era un bimbo «calmo, quieto»; però, ancora in fasce, una notte col suo pianto insistente ed acuto (periodo, forse, delle «ore nere» che ogni bimbo attraversa, in cui strepita, dà sui nervi a tutta la gente che gli sta attorno e soltanto la mamma, remissiva, lo lascia fare come se niente fosse) innervosì Grazio tanto da farlo esclamare: «Ma che mi fosse nato in casa un diavolo, invece di un cristiano!...» e con ira lo scaraventò sul letto; gesto che provocò la reazione della moglie: «M'hai ammazzato il figlio!...».
«Man mano che cresceva - continua la madre - non commetteva nessuna mancanza, non faceva capricci, ubbidiva sempre a me ed a Grazio». Lo stesso Padre Pio raccontava che i genitori non lo hanno mai battuto. Qualche volta la mamma gli diceva solo: «Vieni qua, svergognatello!...». «Perché?», gli fu domandato. «Piccole cose con le sorelle», rispose.
Una di queste «piccole cose» ce la racconta lui stesso. Alla sorella Felicita (17 settembre 1889 - 25 settembre 1918), che soffrì tanto ed era la più buona, voleva un bene particolare e con lei scherzava volentieri. «Io - dice Padre Pio - quando ero a Pietrelcina, tante volte, quando lei si lavava (non c'erano allora lavandini a muro, erano lavandini alla buona) andavo di dietro, le pigliavo la testa e poi gliela tuffavo nell'acqua. Tanti dispettucci le facevo e lei mai una volta mi rispose male, inquieta, ma «Eh, Franci', ma tu non la vuoi finire mai con me, no?», e sorrideva. E anche da giovane, da grande si conservò buona e semplice».
A volte la mamma esortava Francesco a giocare con i coetanei, ma il suggerimento non era sempre accettato: «Non ci voglio andare - rispondeva - perché essi bestemmiano».
Grandicello, sceglieva con sano criterio: evitava i compagni dall'«occhio falso», ci fa sapere uno del rione Castello, la parte vecchia del paese ove nacque Francesco, coetaneo e pastorello assieme a lui, perché appena i genitori lo reputarono capace, gli affidarono due pecore.
I due pastorelli si recavano a Piana Romana, a Santa Barbara ed altre contrade. Le pecore brucavano l'erba ed essi scherzavano; e qualche volta era ammessa anche la lotta, ma come gioco e non per rissa: «Francisco mi vinceva quasi sempre - racconta il coetaneo Luigi Orlando, nato il 20 marzo 1890 - perché era più grande di me. Una volta, lottando, cademmo e mi inchiodò con le spalle al suolo. Nel tentativo di rovesciarlo e capovolgere la situazione, tutti i miei sforzi furono vani ed allora mi sfuggì una espressione forte. La reazione di Francisco fu immediata: svincolarsi, alzarsi e fuggire fu tutt'uno, perché egli mai, mai disse cattive parole e non ne voleva sentire; perciò evitava i compagni dall'occhio falso, voglio dire gli scostumati dalla parola facile, gli insinceri, quelli che non erano buoni e bravi ragazzi».
Tipo asciutto, ma non malato, Francesco era un ragazzo come gli altri; di «bocca pulita, questo sì». «Quando stava con noi non pregava - almeno questo ricordo io Luigi Orlando, e gli altri -. Non si notava in lui nulla di particolare, con noi era un ragazzo come tutti gli altri, ma di quelli educati e piuttosto riservato. A tante cose, allora, non ci pensavamo e quindi ci saranno anche sfuggite. E poi Padre Pio, allora Francisco, è stato sempre «nu lupo surdo», voglio dire: di poche parole e non faceva mai appurare i fatti suoi».
Di carattere remissivo, ma «fino fino», comple-ta il discorso Ubaldo Vecchiarino (17 luglio 1885 - 21 dicembre 1969), altro compagno pastore: «Dovete sapere che noi la sera andava-mo a scuola. Durante la giornata, Francisco studiava e noi lo cimentavamo, buttando qualche zolletta di terra sul sillabario o, da dietro, zitti zitti, gli rovesciavamo il cappelluccio sugli occhi. E lui pazientava, non reagiva né diceva parole scorrette. Però a scuola soltanto Francisco rispondeva alle interrogazioni del maestro; e perciò lui ha continuato gli studi ed è diventato Padre Pio e noi abbiamo continuato a fare i pecorai e siamo restati «bracciali», cioè zappatori», conclude ridendo Ubaldo Vecchiarino.
Gli anziani del paese lo ricordano composto e diligente a scuola, assiduo e raccolto in chiesa, garbato e socievole con tutti, anche se riservato e meditabondo. Il coetaneo Francesco Orlando (29 maggio 1890 - 23 luglio 1973) lo ricorda «allegro anche da piccolo», intercala il colloquio con un «doveva campare un altro poco, ma lui pregasse per me» e lo presenta «con la giacchettella alla cacciatore, di panno di lana, con una mozzetta corta e sempre pulita» e conclude: «gli volevamo bene da bambino».
C'è chi afferma di averlo visto anche pregare, all'età di nove o dieci anni, quando pascolava le pecore: «Io passavo e vedevo questo ragazzo che aveva la corona in mano e recitava il rosario, chiamai il padre e dissi: «Razio, tieni nu santariello a pasculare le pecore». Il padre sorrise e non disse niente».
La casa natale del piccolo Francesco Forgione

Il dito di Dio

Anche se si evita il vedere il dito di Dio dovunque, in tutti i momenti, quali essi siano, nella vita di un santo uomo, si è pure obbligati a costatare, specie sulla testimonianza dello stesso santo, che alcuni di questi momenti sono stati privilegiati.
Assiduo chierichetto per il servizio liturgico, Francesco «pregava in ginocchio e ben composto», ed anche a porte chiuse, in chiesa d'accordo col sagrestano, «esortando di non dir niente a nessuno e gli fissava l'orario per andargli ad aprire».
Non sempre dormiva nel letto e il sacerdote Giuseppe Orlando (26 ottobre 1877-29 agosto 1958) ricorda che rimproverava Francesco, «perché disubbidiente alla madre, che alla sera gli preparava il lettuccio ed il figlio invece preferiva dormire a terra, avendo per capezzale una pietra».
Il già nominato Ubaldo Vecchiarino, uno dei testimoni per nulla influenzato dal «fenomeno Padre Pio», nelle lunghe serate d'inverno, assieme alla comitiva degli amici, qualche volta decideva di andare a scoprire cosa facesse l'amico Francesco. «Zitti zitti ci avvicinavamo alla casa Forgione e dopo aver posto pietra su pietra sotto la bassa fenestrella protetta da una cancellata di ferro, ci salivamo per spiare. La stanza era buia, ma si sentivano i colpi di uno che con una cordicella di canapa batteva il proprio corpo».
Il fatto delle battiture è confermato dalla stessa madre, che un giorno sentiva dietro il letto rumore di catena, si accostò e vide Francesco che si batteva. La madre lo fece smettere per non fargli sentir male, ma egli ripeteva spesso tale funzione. La madre un giorno s'inquietò dicendo: «Ma perché, figlio mio, ti batti così? La catena di ferro fa male». Ed allora egli rispose: «Mi debbo battere come i Giudei hanno battuto Gesù e gli hanno fatto uscire il sangue sulle spalle». La poverina rimase sbalordita a tale manifestazione, e quando sentiva che il ragazzo si flagellava, lei si allontanava con le lagrime agli occhi».
Ma quel che di veramente eccezionale stava succedendo nell'anima di quell'adolescente, era nascosto all'occhio di chi lo circondava; e nessuno sapeva che a cinque anni già veniva disturbato dal diavolo e si beava della visione della Madonna.
«Le estasi e le apparizioni cominciarono al quinto anno di età, quando ebbe il pensiero ed il sentimento di consacrarsi per sempre al Signore, e furono continue. Interrogato come mai le avesse celate per tanto tempo [sino al 1915], candidamente rispose che non le aveva manifestate, perché le credeva cose ordinarie che succedessero a tutte le anime; difatti un giorno disse ingenuamente: «E lei non la vede la Madonna?». Ad una mia risposta negativa, soggiunse: «Lei lo dice, per santa umiltà!». A cinque anni cominciarono pure le apparizioni diaboliche e per quasi venti anni furono sempre in forme oscenissime, umane e soprattutto bestiali» (1)

Dall'amore alla preghiera ed alla solitudine, nel cuore del fanciullo si radicava quella fermezza di propositi, che non scalfiva menomamente la docilità ed il rispetto ai genitori ed al prossimo; sbocciava la sete di sofferenza e di espiazione, poiché, pur volendo ammettere che la mortificazione è un impegno dell'uomo adulto e non un gioco di un malato mentale o di un fanciullo, ciò non vuol dire che non ci possa essere una propedeutica della mortificazione che inizi prima dell'età adulta, quello che avvenne appunto in Francesco: nella forma minima, ma non inferiore, di «accettazione», sopportando serenamente le sofferenze causategli dagli altri; e nella forma attiva di «mortificazione», imponendosi penitenze, che procurano una relativa sofferenza. E questo con uno stile veramente evangelico: che tutto avvenga «in abscondito». Così risulta - almeno a noi sembra - e si delinea la figura di Francesco, dalla sua stessa testimonianza e da coloro che hanno visto e sentito (2).

(1) AGOSTINO DA S. MARCO IN LAMIS, Diario, a cura di p. Gerardo Di Flumeri, S. Giovanni Rotondo 2ª ed. 1975, p. 58.
(2) Chi desidera saperne di più, può cf. ALESSANDRO DA RIPABOTTONI, Padre Pio da Pietrelcina. Un cireneo per tutti, Foggia 1974; IDEM, Pio da Pietrelcina. Infanzia e adolescenza. S. Giovanni Rotondo 3ªa ed. 1970; LEONE G., Padre Pio. Infanzia e prima giovinezza (1887-1910), S. Giovanni Rotondo 1973; LINO DA PRATA - ALESSANDRO DA RIPABOTTONI, Beata te, Pietrelcina, S. Giovanni Rotondo, 1976.

FRA PIO

Nulla di più personale, di più impegnativo, di più libero - «libertà liberissima messa alla prova, forse la più difficile ma certo la più bella» (Paolo VI) - della vocazione sacerdotale e religiosa. E nello stesso tempo invito misterioso, se davvero è una chiamata che viene da Dio.
È una voce che il Signore può far sentire a tutti, ma sono i giovani che Gesù di preferenza sceglie e chiama ad essere sacerdoti, ad essere testimoni della sua carità assetata di anime, nei vari stati della vita religiosa e della spiritualità consacrata.
Tutti i giovani di cuore generoso devono interrogarsi per sapere se il Signore Gesù non stia parlando proprio al loro cuore.
Non tutti, certo, sono chiamati a questa testimonianza, ma è problema di tutti - oggi «gravissimo» nella Chiesa - e non soltanto dei pochissimi eletti ad un genere di vita così singolare e non certo di moda.

Ti ha chiamato e va'

In particolare Pio XII rivolgeva alle famiglie ed agli sposi cristiani la commossa esortazione: «Che farete voi, qualora il Maestro divino venisse a domandarvi la parte di Dio, cioè l'uno o l'altro dei figli o delle figlie, che egli si sarà degnato di accordarvi, per formare il suo sacerdote, il suo religioso o la sua religiosa? [...]. Ve ne supplichiamo in nome di Dio: no, non chiudete allora in un'anima, con gesto brutale ed egoistico l'ingresso e l'ascolto della divina chiamata».
I genitori di Francesco non ostacolarono nell'animo del figlio l'ingresso all'ascolto della divina chiamata: diedero a Dio «la parte di Dio» e dove e come il chiamato, spinto dalla voce interiore, autentica ed inconfondibile del Signore, era indirizzato: tra i Cappuccini e «monaco di Messa».
Tornato dalla Messa delle sette - era il giorno dell'Epifania dell'anno 1903 - Francesco trova la casa piena di gente come per un lutto. «Mamma - è lo stesso Padre Pio che racconta - al momento di salutarmi mi prese le mani e mi disse: «Figlio mio, tu mi stracci il cuore!... Ma in questo momento non pensare al dolore di tua madre: san Francesco ti ha chiamato e vai!»».
Ricevuta la benedizione ed una corona del santo Rosario dalle mani materne (corona che si conserva tra gli oggetti più cari usati da Padre Pio), perché «allora si diceva il santo Rosario - interviene, polemico ed ironico, Luigi Orlando compagno di Francesco - e guai a chi parlava o rideva; adesso non si fanno più corone», Francesco parte.
Se il distacco dei familiari fu doloroso, non lo fu meno il suo. Raccontando la sua chiamata allo stato religioso, ci fa sapere che nonostante le visioni celesti - di cui subito diremo - rendessero generosamente forte l'anima nel dare l'ultimo addio al mondo,«non è da credersi però che
quest'anima nulla avesse a soffrire nella parte inferiore per l'abbandono da dare ai suoi, ai quali si sentiva fortemente legato».
Più si avvicinava il giorno della partenza e più lo «strazio» cresceva, ma durante l'ultima notte che passava coi suoi il Signore venne a confortare l'anima di Francesco: «vide Gesù e la Madre sua che in tutta la loro maestà presero ad incoraggiarla e ad assicurarla della loro predilezione. Gesù infine le pose una mano sulla testa, e tanto bastò per renderla forte nella parte superiore dell'anima, da non farle versare neppure una lacrima nel doloroso distacco, nonostante il doloroso martirio che la straziava nell'anima e nel corpo».

Il buon seme e il terreno fertile

Egrave; lo squarcio di un manoscritto biografico, steso da Padre Pio «in virtù di santa ubbidienza", dal quale stralciamo altri brani.
Francesco «aveva sentito, fin dai più teneri anni, forte la vocazione allo stato religioso» ed il Signore, per non far soffocare «il buon seme della divina chiamata», favorì la sua anima di una visione: mentre meditava sulla vocazione e come poterla realizzare, «fu subitamente rapita e portata a mirare coll'occhio dell'intelligenza oggetti diversi da quelli che si veggono con gli occhi del corpo. Si vede al suo fianco un uomo maestoso di una rara bellezza, splendente come il sole. Questi il prese per mano e si sentì da lui dire: «Vieni con me, perché ti conviene combattere da valoroso guerriero». Il condusse in una spaziosissima campagna. Quivi erano una gran moltitudine di uomini: questi erano divisi in due gruppi».
Da una parte uomini di volto bellissimi in vesti bianche, candide come la neve; dall'altra volti di aspetto orrido, in abiti neri a guisa di ombre oscure; tra gli uni e gli altri un grande spazio, e quivi la guida vi colloca l'anima che, mentr'era tutta intenta ad ammirare i due gruppi, vede un uomo di smisurata altezza, da toccare con la fronte le nuvole, dal volto spaventoso avvicinarsi avanzando sempre più verso di essa.
La povera anima, sconcertata dall'invito della guida a battersi con tale individuo, impallidisce, trema tutta e, per il terrore, sta per cadere tramortita, ma la guida la sostiene per un braccio, alla preghiera di volerla dispensare dal combattimento per non esporla al furore di quel sì strano personaggio tanto forte da non bastare neppure le forze di tutti gli uomini uniti insieme per atterrarlo, si sente rispondere: «Vana è ogni tua resistenza, con questo ti conviene azzuffarti. Fatti animo; entra fiducioso nella lotta, avanzati coraggiosamente che io ti starò d'appresso; io ti aiuterò e non permetterò che egli ti abbatta. In premio della vittoria che ne riporterai ti regalerò una splendida corona».
L'urto è violento, ma alla fine l'anima supera quel formidabile e misterioso personaggio, lo abbatte, lo vince mettendolo in fuga con l'aiuto della guida che mai si stacca dal suo fianco.
L'uomo maestoso di rara bellezza, fedele alla promessa, estrae da sotto le vesti una corona di incantevole magnificenza, che vano sarebbe il poterla descrivere e gliela pone in testa, ma subito la ritira, dicendo: «Un'altra più bella ne tengo per te riserbata se saprai ben lottare con quel personaggio col quale or ora hai combattuto. Egli ritornerà sempre all'assalto per rifarsi dell'onore perduto; combatti da valoroso e non dubitare del mio aiuto.
Tieni bene aperti gli occhi, perché quel personaggio misterioso si sforzerà di agire contro di te per sorpresa. Non ti spaventi la di lui formidabile presenza, ma rammentati di quanto ti ho promesso: io ti sarò sempre d'appresso; io ti aiuterò sempre, affinché tu riesca sempre a prostrarlo».
Sconfitto l'uomo misterioso, tutta la gran moltitudine dei suoi satelliti si pose in fuga fra urli, imprecazioni e grida da stordire; mentre dai petti di quell'altra moltitudine di uomini di vaghissimo aspetto si sprigionavano voci di applauso e di lodi verso quell'uomo splendido e luminoso più del sole.
Così finì la visione e l'anima del fortunato giovinetto, riempita di coraggio, anelava a «romperla eternamente col mondo per dedicarsi intieramente al divino servigio in qualche istituto religioso» (Cf. Epist. I, ed. 2, 1279-1284).
Il significato della simbolica visione, non appreso chiaramente, venne manifestato con un'altra, pochi giorni innanzi alla sua entrata in noviziato, «puramente intellettuale».
Cinque giorni prima della partenza dalla casa paterna - nella Circoncisione di nostro Signore - dopo la comunione, mentre se ne stava in trat-tenimento col suo Signore, l'anima di Francesco «fu istantaneamente investita di luce soprannaturale interiore. Per mezzo di questa luce purissima fulmineamente comprese che la di lei entrata in religione per dedicarsi al servizio del celeste Monarca altro non era che esporsi alla lotta con quel misterioso uomo d'inferno con il quale aveva sostenuto la battaglia nella visione precedentemente avuta. Comprese ancora, e questo valse a rinfrancarla, che sebbene i demoni sarebbero stati presenti ai di lei combattimenti per ridersi delle di lei sconfitte, dall'altro lato non vi era da temere perché ai di lei combattimenti avrebbero assistito gli angeli suoi per applaudire alle sconfitte di satana. E gli uni e gli altri simboleggiati nei due gruppi di uomini che aveva visto nell'altra visione. Comprese, inoltre, che il nemico, col quale doveva lottare, sebbene terribile, pur non doveva temere, perché lui stesso, Gesù Cristo, figurato in quell'uomo luminoso che le aveva fatto da guida, l'avrebbe assistita e sempre le sarebbe stato vicino per aiutarla e premiarla in Paradiso per le vittorie che ne avrebbe riportato, purché, affidata a Lui solo, avesse combattuto con generosità» (1).
Una rara immagine di Padre Pio (Napoli, novembre 1911)


(1) Cf. Voce di Padre Pio, 3 (gennaio 1972) 4s.

Franci', bravo, bravo!

Francesco bussò alla porta del convento cappuccino di Morcone, distante da Pietrelcina 30 chilometri circa, il 6 gennaio 1903 e si trovò di fronte ad una lieta sorpresa: nel frate portinaio ravvisa colui che lo impressionò tanto da farlo decidere ad entrare nello stesso Ordine. Era fra Camillo da S. Elia a Pianisi (1871-1933), il questuante semplice ed esemplare di Morcone che spesso si recava a Pietrelcina e la sua figura di degno figlio di san Francesco era rimasta impressa nella mente e nel cuore di Francesco.
Fra Camillo, al vederlo, esulta di gioia, l'abbraccia, lo bacia e lo colma di carezze. Poi subito «Eh, Franci', bravo, bravo! Sei stato fedele alla promessa e alla chiamata di san Francesco», e lo accompagna dal padre guardiano Francesco Maria da S. Elia a Pianisi e dal padre maestro dei novizi Tommaso da Monte Sant'Angelo (1872-1932).
Il padre maestro, che in modo particolare deve aiutare il novizio a muoversi nell'ignoto schema della nuova vita, lo dispone ad una buona settimana di riflessione per una giusta visuale delle cose, durante la quale si conversa solo con Dio e con nessun altro.
La stanzetta assegnata provvisoriamente a Francesco è nel corridoio che conduce al coro (n. 18), poi abiterà nella celletta n. 28 nel corridoio dei chierici: un pagliericcio poggiato su quattro tavole sostenute da due cavalletti, un minuscolo tavolino con qualche libro devoto, una sedia, una croce di legno che di notte gli farà compagnia durante i brevi e frettolosi sonni.
Sull'architrave di ogni stanzetta una frase scritturistica ricorda a chi entra ed esce una massima di vita spirituale. Quelle abitate da Francesco hanno un passo del Vecchio Testamento ed uno del Nuovo; la n. 18: «Il molto parlare non sarà senza peccato» e la n. 28: «Voi siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio».
Uno scritto a pennello sulla volta bassa del corridoio ammonisce di rispettare il silenzio, perché luogo di noviziato e perciò di raccoglimento. E Francesco si accorge che quel silenzio «perpetuo» non è un silenzio morto ma vivo, fatto di tante persone; il noviziato è pieno e si lavora tanto e si prega ancora tanto di più, finanche di notte; la vita non è facile ma egli spera in Dio e nella Madre sua che gli hanno promesso aiuto e ricompensa.
Terminati gli esercizi spirituali, il 22 gennaio dello stesso anno 1903 vestì l'abito del novizio cappuccino e si chiamò Fra Pio da Pietrelcina. Delicatamente composto nel «bel saio cappuccino», Fra Pio - nome oggi famoso in tutto il mondo - ben presto si accorge che quei frati «non scherzano».

Un perfetto cappuccino

Con quali propositi entrò in convento e con quale impegno Fra Pio visse l'anno di noviziato? Ce lo dice lui stesso in una lettera autobiografica del 1922 e ce lo raccontano i suoi compagni di noviziato.
Il Signore faceva intendere al quindicenne Francesco che per lui «il posto sicuro, l'asilo di pace era la schiera della milizia ecclesiastica. E dove meglio potrò servirti, o Signore, se non nel chiostro e sotto la bandiera del poverello di Assisi? [...]. Oh Dio! fatti sempre più sentire al povero mio cuore e compi in me l'opera da te incominciata [...]. Che Gesù mi faccia la grazia di essere un figlio meno indegno di san Francesco; che possa essere di esempio ai miei confratelli, in modo che il fervore continui sempre più in me, da far di me un perfetto cappuccino» (Cf. Epist. III, 1005-1010).
Era un fratino «esatto in tutto» - afferma, ammirato, un novizio coetaneo di Fra Pio -. «Nei pochi mesi che mi precedeva mi sembrava già provetto nella vita religiosa. Assai pronta era in lui la docilità e l'ossequio alla voce dei padri superiori, ai quali assieme alla solita risposta: «Padre, sì» era già in movimento per eseguire quanto gli veniva accennato».
Il suo amore alla preghiera era di una «prontezza e disinvoltura ammirevoli»: dopo la lettura in comune della meditazione, che era sempre sulla Passione di nostro Signore Gesù Cristo, Fra Pio «si tratteneva in ginocchio nel tempo stabilito e anche dopo, quando gli era possibile, versando copiose lacrime nella recita di giaculatorie e che ripeteva nel recarsi pei corridoi, nei viali del giardino ed altrove. Allo scopo di prolungare le sue preghiere chiedeva di frequente continui permessi di essere dispensato dalla ricreazione, dal passeggio e talvolta dalla cena per trattenersi in coro o in istanza [...]. Era il primo nel compiere all'occorrenza ogni atto di adorazione e di ossequio col genuflettere dinanzi a Gesù sacramentato, all'immagine di Maria santissima e dei Santi e a indurre tutti i confratelli con modi e segni affabili a non venir mai meno a questi indispensabili doveri».
L'artistica e devota tela della Madonna Addolorata, ch'era posta in cima alla scala del convento, con l'invito di non passare davanti a lei senza averla prima salutata: Hinc transire cave - nisi prius dixeris Ave - sa degli affettuosi saluti ricevuti da Fra Pio.
Il novizio, di scarso appetito, a volte si trovava in imbarazzo a refettorio, perché doveva render conto al padre maestro ed al padre guardiano se voleva lasciar qualche vivanda, però i superiori erano comprensivi e lo lasciavano in pace, dispensandolo dai motivi della richiesta di fronte a tutta la fraternità.
Del silenzio prescritto ai novizi era così amante che «non era possibile sentire una sola parola dalla sua bocca, e se alle volte era necessario di far comprendere ai confratelli novizi obblighi o di rilevare i loro difetti e mancanze, faceva comprendere il suo pensiero o dispiacere con gesti, con l'espressione dello sguardo o dei suoi atteggiamenti».
Le relazioni epistolari con i suoi furono talmente rare, da aver «quasi dimenticato di tenere la penna in mano», diceva lo stesso Padre Pio quando riviveva i ricordi di noviziato: la notizia alla mamma per l'avvenuta vestizione, gli auguri a Pasqua ed a Natale, con gl'immancabili saluti a «zi' Tore» (l'arciprete di Pietrelcina don Salvatore Pannullo) ed al maestro Càccavo ed agli altri familiari. E basta. Tali erano i tempi e non faceva impressione alcuna.
Libero da ogni legame esterno - ma non dall'amore riconoscente e dall'affetto sincero verso i suoi - tenace nei propositi, Fra Pio cerca di capire e vivere la vita del novizio cappuccino per rispondere generosamente alla chiamata divina; ed egli stesso poteva affermare di non aver ricevuto durante il noviziato la «minima riprensione» o punizione, colpevolmente e «gli si stringeva il cuore», quando vedeva puniti gli altri novizi.
Lo stesso padre maestro giudicava fra Pio «un novizio esemplare, puntuale nell'osservanza ed esatto in tutto» e lo proponeva «a tutti come esemplare».
Era il comportamento «impeccabile» di un giovane novizio che s'imponeva a tutti gli altri «per l'attrazione che esercitava su quanti ebbero comunanza con lui».
Al termine dell'anno di noviziato, dopo le tre votazioni a pieni voti della comunità religiosa, Fra Pio si prepara alla professione con un corso di esercizi spirituali; ed esplorata dai superiori la sua volontà, se conosceva sufficientemente lo stato della religione cappuccina e ciò che stava per promettere con la professione dei voti temporanei e se ciò faceva spontaneamente, sinceramente, senza minaccia, sforzo o seduzione di qualsivoglia persona del secolo o della religione e con vera intenzione di obbligarsi a Dio coi tre voti, osservando la vita e regola dei Frati Minori Cappuccini in perfetta vita comune, per più facilmente salvarsi e datane risposta sincera, vera e giurata, si prepara a pronunciare la sua consacrazione a Dio.
La mattina di buon'ora arrivano da Pietrelcina la mamma, il fratello Michele e lo zio Angelantonio, ed alle ore 11 e tre quarti del 22 gennaio 1904, attorniato da tutta la religiosa famiglia, inginocchiato ai piedi dell'altar maggiore, nelle mani del padre guardiano, promette a Dio di vivere in obbedienza, senza proprio ed in castità.
A cerimonia avvenuta, i familiari poterono salutare il neoprofesso e mamma Peppa, al vedere il figlio, tutta commossa e lacrimante, l'abbraccia, lo bacia e gli dice: «Figlio mio, ora sì che sei figlio tutto di san Francesco, e che ti possa benedire».

Studente malaticcio

Secondo l'uso di quei tempi, in genere, la direzione disciplinare e l'insegnamento erano svolti da un solo professore, il quale era insegnante e direttore insieme.
La mattina del 25 gennaio 1904 assieme al compagno di noviziato fra Anastasio da Roio (1886-1947), con il padre provinciale Pio da Benevento (1842-1908) partono per il «professorio» di S. Elia a Pianisi (CB) per iniziare la «rettorica», cioè il ginnasio e poi la «filosofica» cioè il liceo.
Terminato il corso ginnasiale, promosso in filosofia, dopo la metà di ottobre del 1905, Fra Pio parte assieme ai compagni temporaneamente per S. Marco la Catola (FG), perché la volta della chiesa del convento di S. Elia a Pianisi era fatiscente e doveva essere riparata assieme al coro ed altri locali adiacenti.
In questa nuova sede trova p. Benedetto da S. Marco in Lamis, che diventa suo direttore spirituale fino al 1922. Terminato l'anno scolastico, con a lettore (= docente) p. Giustino da S. Giovanni Rotondo, alla fine di aprile del 1906 lo studio torna a S. Elia a Pianisi per continuare il corso filosofico.
Il 27 gennaio 1907 Fra Pio emette la professione dei voti perpetui nelle mani del padre guardiano Raffaello da S. Giovanni Rotondo.
Ai primi di ottobre dello stesso 1907, per essere prosciolti dal corso filosofico ed ammessi allo studio di teologia, i chierici si recano a S. Marco la Catola per sostenere gli esami, eccetto Fra Pio, davanti al definitorio provinciale. Tutti promossi.
Alla fine di ottobre Fra Pio viene trasferito a Serracapriola (FG), sotto la guida del p. Agostino da S. Marco in Lamis ed un'altra porzione di studio va a Vico del Gargano (FG).
Verso la fine di novembre del 1908, in ossequio alle ingiunzioni della Santa Sede sul riordinamento degli Studi, si sopprimono i nomi finora usati di «professorio minore, maggiore... e il professorio si appella ginnasio; la filosofia: liceo, la teologia: università teologica» e i due studi di Vico del Gargano e di Serracapriola si riuniscono a Montefusco (AV), con lettori p. Bernardino da S. Giovanni Rotondo e p. Agostino da S. Marco in Lamis; e quindi Fra Pio e i compagni si recano alla nuova sede.
Il 19 dicembre dello stesso 1908 Fra Pio riceve gli ordini minori a Benevento da monsignor arcivescovo Benedetto Bonazzi e il 21 dicembre, nella stessa città, il suddiaconato da monsignor Paolo Schinosi, arcivescovo di Marcianopoli.
Nel 1909 viene condotto a Pietrelcina presso la famiglia, da p. Agostino da S. Marco in Lamis, perché malato ed i medici consigliavano aria nativa.
Questo non esclude, però, che fra Pio sia andato a casa - sempre per ragioni di salute - altre volte prima di allora, anche se le permanenze erano più brevi.
Per testimonianza dei suoi compagni di studio, dimorò per breve tempo anche nel convento di Gesualdo (AV), luogo di studio per la facoltà di teologia morale.
Tutto qui il «curriculum studiorum» di Fra Pio da Pietrelcina, studente cappuccino.
Nulla ci dicono i documenti ufficiali - per quanto ne sappiamo - del suo profitto intellettuale, perché mancano registri di classe e tra le carte di Fra Pio abbiamo trovato soltanto dei lavori scolastici, un programma settimanale e qualche lettera scritta a casa.
Dal p. Benedetto da S. Marco in Lamis sappiamo che Fra Pio non ha mai sostenuto gli esami di filosofia, sebbene l'abbia percorsa; la teologia dommatica la frequentò tutta nello studio e la teologia morale, invece, privatamente a casa con l'aiuto di un sacerdote locale.

PADRE PIO

Una misteriosa malattia di Padre Pio, le cui cause reali nessuno riesce a diagnosticare e le cui interpretazioni contraddittorie creano uno stato di disagio spirituale, che tocca momenti assai difficili, quasi drammatici, non ideale per l'apertura dell'anima, viene sdrammatizzata dalle relazioni leali e sincere fra direttori e discepolo; la visione soprannaturale degli avvenimenti aiuta a superare le difficoltà e l'anima segue senza interruzione il suo itinerario.
È un periodo, questo, nella vita di Padre Pio di intensa vita interiore e di perseverante ascesa per le vie difficili del cammino spirituale, ampiamente lumeggiato dalla corrispondenza epistolare.

Sacerdote santo

La permanenza di Fra Pio a Pietrelcina, secondo le vedute umane, sarebbe dovuta essere breve con la speranza di un giovamento alla sua malferma salute; invece nei piani di Dio si protrasse per quasi sette anni (maggio 1909 - febbraio 1916), e il fine desiderato dagli uomini non si verificò: Padre Pio si dimena sempre in uno stato abituale di malattia.
La dimora presso i suoi dai superiori non era ben vista ma soltanto tollerata e perciò p. Benedetto da S. Marco in Lamis, provinciale e suo direttore spirituale, lo richiamò più volte in convento, destinandolo in vari luoghi; e Padre Pio, obbediente, partiva ma dopo breve tempo era costretto a ritornare a casa.
Dopo tanti vani tentativi, il provinciale si rassegna temporaneamente a concedergli il permesso di dimorare nella casa paterna: «Mi dispiace, ma adoro l'alto decreto di Dio che, certo per ineffabile pietà, non vi permette di dimorare in quel chiostro, ove egli stesso con tanta degnazione vi chiamava. Forse vi vuole esule nell'esiglio del mondo perché possiate riporre in lui solo tutte le vostre speranze e delizie. Sia benedetto!» (Epist. I, 191).
L'aria nativa porta qualche giovamento, perché in certi periodi si sente «benino», specie per lo stomaco, che prima riteneva soltanto l'acqua; ma non si illude: l'idea della guarigione gli sembra un «sogno», una parola «priva di senso»; al contrario il pensiero della morte lo attrae e la sente assai vicina; la febbre persiste e sale, i dolori al torace sono ostinati, tanto da costringerlo a letto; ma egli gode, per intercessione di Maria, di una grande rassegnazione ed in silenzio adora e bacia la mano di colui che lo percuote, sapendo che lui stesso è che da una parte lo affanna e dall'altra lo consola.
Alle sofferenze fisiche che aumentano di giorno in giorno si aggiunge il tormento spirituale di non essersi confessato i peccati della vita secolare e chiede consiglio al padre spirituale di fare una confessione generale, ed intanto vince la tentazione di tralasciare la comunione quotidiana: «E come, padre mio, potrei vivere senza accostarmi a ricevere Gesù anche per una sola mattina?», (Epist. I, 186).
La grande felicità del suo spirito è una felicità che quasi solo nelle afflizioni il Signore gli dà a gustare: «in questi momenti, più che mai, nel mondo tutto mi annoia e mi pesa, niente desidero, fuorché amare e soffrire»; ed anche se le tentazioni sono «assaissime», confida nella divina provvidenza di non cadere nei lacci dell'insidiatore, pur desiderando, nel periodo che attraversa, qualcuno vicino.
Il padre spirituale Benedetto da S. Marco in Lamis, che non sa cosa farebbe per averlo nel convento al suo fianco, gli consiglia di abbandonarsi ai trasporti dello Spirito Santo, «tanto sapiente, soave e discreto da non causare che il bene»; ed alla domanda: «mi dica ciò che Dio vuole da questa ingrata creatura», sollecito risponde: «Gesù vuole agitarti, scuoterti, batterti e vagliarti, come il grano affinché il tuo spirito arrivi a quella mondezza e purità ch'egli desidera» (Epist. I, 201).
Per timore di cadere nel peccato Fra Pio prega il Signore di cambiare l'implacabile assedio del nemico in dolori fisici, ma «sia come si voglia, a me basta sapere che tutto lo vuole Iddio e son lieto lo stesso» confida al padre spirituale, a cui chiede il permesso di offrirsi vittima per i poveri peccatori e le anime purganti, anche se questa offerta l'ha fatta già più volte, scongiurando il Signore «a voler versare sopra di me i castighi che sono preparati sopra dei peccatori e sulle anime purganti, anche centuplicandoli su di me, purché converta e salvi i peccatori ed ammetta presto in paradiso le anime del purgatorio» (Epist. I, 205-207).
Gesù accetta l'offerta e le sofferenze aumentano, anche se in mezzo a tanto soffrire non cessa di fargli sentire una gioia «inesprimibile»: in certi momenti «poco manca che non mi vada via la testa per la continua violenza che debbo farmi» per non cedere al demonio, che «si sforza di strapparmi dalle mani di Gesù», ma se egli «non ha misurato il suo sangue per la salvezza dell'uomo, vorrà misurare i miei peccati per quindi perdermi?» (Epist. I, 209).
Pur costretto a vivere fuori convento, cerca di non perdere l'anno scolastico, studiando privatamente con l'aiuto di un sacerdote locale, perché ha «un vivissimo desiderio» di essere sacerdote, anzi con «indiscreta modestia» - dice, rivolgendosi al padre provinciale - desidera la dispensa dai mesi che mancano alla richiesta età canonica per l'ordinazione.
Dopo circa sei mesi di attesa, l'1 luglio 1910 il padre provinciale può comunicare la dispensa concessa e fissare il giorno dell'ordinazione sacerdotale, esortandolo a star sereno ed a scacciare le afflizioni e gli scrupoli che tenta suscitare il nemico: «Il timore dei peccati è infondato, perché Dio e la Vergine ti proteggono nei cimenti. Ripeto che la verità la dico io nella pienezza della mia autorità, e non già il tuo pensiero che offuscato com'è dalle tenebre non può conoscere le cose come stanno in realtà davanti a Dio [...]. Le vostre pene non sono castighi, sebbene mezzi di merito che vi dà il Signore e le ombre che aggravano l'anima vostra dipendono dal tentatore che vuole affliggervi. Colpe non ve ne sono, specialmente di quelle che riguardano la santa purezza e molto si compiace Gesù dell'anima vostra che vuole con tante prove purificata ed arricchita» (Epist. I, 189-192). Ed in cambio del «grande amore» che gli porta non deve dimenticare di raccomandarlo al Signore.
Mentre si prepara al giorno sospirato, il demonio non può darsi requie nel vedere in Fra Pio quella pronta volontà di andare incontro a qualunque afflizione «qualora si tratta di piacere a Gesù», e cerca di scemargliela intorbidendo la sua immaginazione con petulanti fantasmi, specie contro la santa purità «alle volte al semplice sguardo delle cose non dico sante, ma almeno indifferenti», però lui preferisce la morte prima di deliberarsi ad offendere il suo «caro Gesù con un solo peccato, benché lieve».
Il 30 luglio 1910 assieme al parroco don Salvatore Pannullo si reca a Benevento per sostenere gli esami e gli esaminatori rimangono contenti; il 10 agosto la sua grande speranza diventa realtà: è ordinato sacerdote nella cappella dei canonici nel duomo di Benevento da monsignor Paolo Schinosi con facoltà di poter confessare; il 14 agosto canta la prima Messa solenne a Pietrelcina e per la circostanza scrive il suo pensiero ricordo, che è anche il suo programma di vita: «Gesù - mio sospiro mia vita - oggi che trepidante - ti elevo - in un mistero di amore - con te io sia pel mondo - Via Verità Vita - e per te sacerdote santo - vittima perfetta».
La gioia della Messa è inesprimibile e continua, turbata soltanto dalla sua ingratitudine - come lui crede e dice. Ogni anno il suo pensiero vola al «bel giorno»: «Domani festa di san Lorenzo, è pure il giorno della mia festa. Ho già incominciato a provare di nuovo il gaudio di quel giorno sacro per me. Fin da stamattina ho incominciato a gustare il paradiso...E che sarà quando lo gusteremo eternamente? Vado paragonando la pace del cuore, che sentii in quel giorno, con la pace del cuore che incomincio a provare fin dalla vigilia, e non ci trovo nulla di diverso. Il giorno di san Lorenzo fu il giorno in cui trovai il mio cuore più acceso di amore per Gesù. Quanto fui felice, quanto godetti quel giorno!» (Epist. I, 297s).
Ogni Messa per Padre Pio è «la prima Messa».
A volte sente un fuoco che brucia, ma è «un fuoco che fa bene»; la bocca gusta tutta «la dolcezza di quelle carni immacolate del Figlio di Dio» e se potesse seppellire nel suo cuore le tante consolazioni divine sarebbe certo in un paradiso: «Quanto mi rende allegro Gesù. Quanto è soave il suo spirito! Ma io mi confondo e non riesco a fare altro se non che piangere e ripetere: «Gesù, cibo mio!...». Ciò che più mi affligge si è che tanto amore di Gesù viene da me ripagato con tanta ingratitudine... Egli mi vuole sempre bene e mi stringe sempre più a sé. Ha dimenticato i miei peccati, e si direbbe che si ricorda solo della sua misericordia... Ogni mattina viene in me e riversa nel mio povero cuore tutte le effusioni della sua bontà» (Epist. I, 265s).
Quando non può celebrare si sente «estremamente sconfortato» (una vera «desolazione»); «ciò che più mi addolora si è il non poter celebrare, né satollarmi delle carni del divino agnello»; e prega il suo Gesù che non voglia privarlo dell'«unico conforto», che gli resta sulla terra.
Padre Pio negli anni Venti


Mi scacci dal tuo Ordine?...

Sempre per motivi di salute Padre Pio continua a restare a casa; malattia «misteriosa», come misteriosa era la permanenza a Pietrelcina: «Un giorno da me interrogato - scrive p. Agostino nel suo Diario, pubblicato dal p. Gerardo Di Flumeri - rispose: «Padre, non posso dire la ragione, per cui il Signore mi ha voluto a Pietrelcina; mancherei di carità!...». E non l'ho più interrogato su tale argomento» (2 ed., p. 255).
E il mistero è rimasto. Noi non azzardiamo ipotesi, proprio per non mancare di carità e ci limitiamo soltanto ad esporre i fatti.
Il provinciale p. Benedetto da S. Marco in Lamis tenta a più riprese di ricondurlo in convento e la permanenza più lunga fu a Venafro, dalla fine di ottobre al 7 dicembre del 1911.
Dall'ordinazione sacerdotale alla partenza per Venafro, dando una rapida scorsa alla corrispondenza epistolare intercorsa tra Padre Pio ed i suoi direttori spirituali padri Benedetto ed Agostino, possiamo formarci un'idea di quel che passava nell'anima del giovane sacerdote.
Grandi tormenti diabolici non lo lasciano un momento libero neppure nelle ore di riposo, «oltremodo amareggiate. Il demonio mi vuole per sé ad ogni costo» (Epist. I, 212s); brevi istanti di requie se pensa e legge gli ammaestramenti dei padri spirituali e poi il nemico è sempre lì da capo; ma in tante sofferenze spirituali, molto maggiori di quelle corporali che non sono lievi, «si faccia sempre di me ed intorno a me in tutto e per tutto la santissima e amabilissima volontà di Dio! Perché è questo quello che mi ha retto! So che lui non opera senza fini santissimi, utili a noi» (Epist. I, 213).
Dal padre spirituale vuol sapere soltanto se nel suo cuore ci sia qualche cosa, benché piccola, che non piaccia a Dio, perché con il suo aiuto vuole strapparla ad ogni costo; e chiede preghiere; anche se afflizioni e guerre spirituali vanno di pari passo con i tormenti corporali, a costo pur di gran violenza serba sempre un animo allegro, con un nuovo coraggio che gli scende dolcemente al cuore: «con fiducia mi gitto nelle braccia di Gesù ed avvenga poi quello che lui ha decretato ed egli certamente ci deve pensare ad aiutarmi» (Epist. I, 214).
«Nel pregare poi ai piedi di Gesù sembrami di non sentire affatto né il peso della fatica, che fo nel vincermi allorché sono tentato e né l'amaro dei dispiaceri» (ivi, p. 215).
Dolori fortissimi di testa, «da non poter quasi vedere dove pongo la penna», ed accresciuti malori, specie quelli del petto che «fanno spasimare ed in certi momenti non posso quasi respirare», le medicine prese sono state gettate come in un pozzo, «ma si faccia il volere di Dio!». L'unica paura: l'offesa al Signore, ma il rimedio c'è e lui lo usa con fiducioso abbandono: la meditazione di Gesù crocifisso, dolore che fa molto bene e che gli fa godere una pace ed una tranquillità indicibili; e il pensiero di Gesù sacramentato, verso cui il suo cuore si sente attratto da una forza irresistibile prima di celebrare e, dopo, la fame di lui si accresce sempre di più.
Quando si vede sull'orlo della disperazione, ricorre «alla comune nostra madre Maria», che non sa come ringraziare «per tali grazie singolarissime».
E chiede lume al direttore p. Benedetto: «Ma, padre mio, quali sono i fini di Dio perché permette al demonio tanta libertà? La disperazione vorrebbe prendermi; eppure mi creda, padre mio, la volontà di dispiacere a Dio non ce l'ho. Io non so rendermi ragione e molto meno intendere come mai possa stare insieme volontà sì risoluta e pronta ad operare il bene, con tutte queste miserie umane [...]. Mi aiuti se non vuole vedermi ridurre in cenere di peccati, perché l'anima la voglio salvare ad ogni costo e Dio non voglio proprio più offenderlo» (Epist. I, 225s).

P. Benedetto lo assicura che l'essere bersaglio significa stare nella servitù divina e «quanto più diventi amico e familiare di Dio tanto maggiore inveirà contro di te la tentazione»; lo incoraggia anche se tali verità sono dure per la nostra povera ed inferma natura la quale fugge la croce e teme ad ogni ombra di male; e gli spiega la contraddizione tra la ferma volontà di amare Dio e la debolezza di sentirsi proclive al male (cf. Epist. I, 227s).
In tanto buio doloroso compare una sfera di sole; il demonio seguita l'arte sua, ma Padre Pio da vari giorni sente una «gioia spirituale da non potersi spiegare», ignorandone la causa: sono diminuite «quelle tante difficoltà che sentivo una volta nel rassegnarmi ai divini voleri. Anzi respingo le calunniose insidie del tentatore con una facilità tale, da non sentirne né noia né stanchezza» (Epist. I, 230).
Alla facilità nel respingere le tentazioni ed all'aumento della rassegnazione ai divini voleri, si unisce spontaneo il sentimento di riconoscenza verso Gesù, bontà e dolcezza per un «perfido e cattivo» quale egli si reputa, e il dolore per la ingratitudine degli uomini: «Quanto poi soffro, o padre, nel vedere che Gesù non solo non viene curato dagli uomini, ma quello che è peggio anche insultato e più di tutto con quelle orrende bestemmie. Vorrei morire o divenir sordo, anziché sentire tanti insulti che gli uomini fanno a Dio» (Epist. I, 231s).
Il padre spirituale gli suggerisce di offrire «con Gesù Cristo a Dio Padre le tue benedizioni, procurando di riparare così le ingratitudini degli uomini. Offriti anche vittima per i loro peccati e prega che la iniquità diminuisca sulla terra» (Epist. I, 232s); e cerca di calmargli le ansie per una bugia che crede di aver detto, esortandolo a confidare al buon Gesù la sua debolezza, senza meravigliarsi né avvilirsi per la manchevolezza: «Il confessore mi assicura che al più ho peccato venialmente, ma che m'importa - si accora Padre Pio - se in ogni modo ho fatto piangere Gesù. E se a Gesù dispiace sommamente l'offesa che gli vien fatta da ogni fedele, molto più gli dispiace l'offesa fattagli da un sacerdote. Glielo dico a Gesù che non voglio fare più peccati; ma se lui non sostiene la mia debolezza, alla prima occasione mi dimostrerò quale sempre sono stato» (Epist. I, 236).
E poi il nodo da sciogliere: «Quanto vorrei vederti in convento - gli ricorda p. Benedetto -: mi sarà dunque sempre negata questa consolazione?» (Epist. I, 228).
È lo stesso desiderio di Padre Pio ed il «maggiore dei sacrifici» per lui è vivere fuori convento, però a casa «è vero che ho sofferto e sto soffrendo, ma non mi sono mai reso impotente in adempire al mio ufficio, il che non è stato mai possibile in convento» (Epist. I, 234).
Il provinciale insiste e non nasconde il suo disappunto: «La permanenza in famiglia mi addolora assai», lo vorrebbe al suo fianco per apportargli personalmente le cure necessarie, «perché sai - gli scrive - che ti voglio bene qual figlio», convinto che il suo dimorare fuori convento non abbia scopo, non migliorando neppure a casa: «Se il tuo male è un volere espresso di Dio e non un fatto naturale è meglio che ritorni all'ombra della santa religione. L'aria nativa non può sanare una creatura visitata dall'Altissimo» (Epist. I, 237s); e lo riconduce personalmente in convento, ma dopo aver chiesto il parere del padre generale dell'Ordine e la visita di uno specialista a Napoli.
Dopo la metà di ottobre del 1911 lo accompagna a Venafro, dove trova il p. Agostino da S. Marco in Lamis, «lettore», cioè docente di sacra eloquenza. La salute di Padre Pio peggiora ed il superiore p. Evangelista da S. Marco in Lamis (1878-1953) lo accompagna di nuovo a Napoli, ma i medici - in verità - «ci capiscono poco».
Durante un mese e mezzo circa, passato a Venafro, la fraternità si accorge dei primi fenomeni soprannaturali: «assistetti - scrive p. Agostino - a parecchie estasi e molte vessazioni diaboliche».
Il suo sostentamento è l'Eucarestia, sia che celebri sia che riceva soltanto la santa comunione, perché costretto a letto.
In una delle prime sere si sentì molto male e delirava: «Nessuno s'era accorto dei fenomeni preternaturali e soprannaturali, neppur io - è il p. Agostino da S. Marco in Lamis -; credevo stesse male davvero, anzi in pericolo di vita. Corsi nella stanza, dov'erano altri frati e vidi il Padre [Pio], coricato a letto, con viso agitato che diceva: «Mandate via quel gatto che mi si vuole avventare...». Io non potei resistere a quella scena e me n'andai in coro a pregare per il padre e dolendomi per il timore che morisse. Dopo più di un quarto d'ora ritornai nella stanza e trovai solo il Padre Pio, rasserenato e giulivo. Mi disse appena mi vide: «È andato in coro a pregare e ha fatto bene... pensava pure al mio elogio funebre... c'è tempo, padre lettore, c'è tempo!...». Fu quella una vera apparizione diabolica» (Diario, 2 ed., p. 268s).
Le vessazioni del nemico non erano lunghe, duravano al massimo un quarto d'ora; le visioni divine duravano anche un'ora ed erano sempre precedute o seguite dalle apparizioni diaboliche (cf. o.c., pp. 56, 269).
Le estasi avvenivano quando Padre Pio era a letto: «Ci accorgemmo la prima volta, io [p. Agostino] e p. Evangelista [superiore del convento], mentre entravamo nella stanza per visitarlo. Il Padre [Pio] aveva gli occhi aperti, fissi come in un punto, mi guardava, senza muovere ciglio, senza muovere pupilla. Pronunziava delle parole di preghiera, di amore, ecc... verso il Signore» (o.c., p. 270).
Da principio il demonio gli apparì «sotto forma di un gatto nero e brutto. La seconda volta sotto forma di giovanette ignude che lascivamente ballavano. La terza volta, senza apparirgli, lo sputavano in faccia. La quarta volta, anche senza apparirgli, lo straziavano con rumori assordanti. La quinta volta gli apparì in forma di carnefice che lo flagellò. La sesta volta in forma di crocifisso. La settima volta sotto forma di un giovane, amico dei frati, che poco prima era stato a visitarlo. L'ottava volta sotto forma del padre spirituale [cioè del p. Agostino]. La nona volta sotto forma di Pio X. Altre volte sotto forma del suo angelo Custode, di S. Francesco, di Maria SS.... Finalmente nelle sue vere fattezze, orribili, con un esercito di spiriti infernali» (o.c., p. 56).
Le apparizioni diaboliche Padre Pio le riconosceva sempre tali con la sola domanda: «Di' viva Gesù! Dopo averle riconosciute, le superava sempre col divino aiuto, anzi quasi ordinariamente seguiva un'immediata apparizione di Gesù, di Maria, dell'Angelo Custode» (ivi).
«Quando satana gli apparve sotto la forma della Madre di Dio dovette - suo malgrado - confessare che esso aveva sofferto più che quando prese altre forme, volendo il Signore manifestare l'obbligo speciale che hanno le creature di onorare la Madre sua» (o.c., p. 57).
Altri testimoni oculari affermano che la «singolare» rassegnazione alla volontà divina di Padre Pio durante l'incrudelire del male gli meritano «grazie speciali di cui noi tutti di quella comunità fummo spettatori fortunati».

I giovani sacerdoti, che frequentavano il corso di sacra eloquenza, volentieri partecipavano alla processione del Santissimo che il padre lettore portava nella celletta di Padre Pio per la comunione, e più volentieri restavano inchiodati sul pavimento non meno di mezz'ora, perché dopo pochi minuti il comunicato «spalancava gli occhi e li teneva così per oltre mezz'ora, indicandoci che qualche cosa di eccezionale doveva esservi dinanzi al suo sguardo... Di questo eravamo convinti - è la testimonianza del p. Guglielmo da S. Giovanni Rotondo - quando il Padre Pio a volte sorrideva, a volte si rattristava, a volte alzava forte la voce, pregando Gesù per la conversione dei peccatori, raccomandandogli i benefattori, chiedendo pace, salvezza per tutti... Da Gesù passava lo sguardo alla Vergine Immacolata, rinnovando le stesse ed altre preghiere; sentivamo anche invocare S. Michele Arcangelo, il padre S. Francesco col nome di potenti intercessori e infallibili protettori dell'umanità [...]. Se in tali momenti sentivamo la voce, le preghiere, i gemiti, le gioie del Padre Pio... non avemmo però la fortuna di sentire la voce di Gesù, della Vergine santissima, dei Santi. Anche un dottore di Pozzilli, dotto e bravo, si trovò presente a tali scene singolari, invitato forse dal molto reverendo p. Agostino, per sentire la sua parola, il suo giudizio e per assistenze mediche».
Ma il medico curante restava perplesso dinanzi a tali insolite manifestazioni. Si trovò presente all'estasi del 29 novembre e a quella del 3 dicembre: "nella prima per pochi minuti, nella seconda una mezz'ora. Nella prima, vedendolo con gli occhi aperti, fissi in alto, senza batter palpebra, accese un cerino e glielo tenne fermo dinanzi alla pupilla", Padre Pio non avvertiva nulla e il medico si pronunzia per la catalessi (cf. Diario, p. 55s).
Lo stesso p. Agostino nel suo diario commenta che "non si trattava di catalessi, ma di vera estasi" e lo stesso dottore che si trovò presente altre volte "cambiò parere", lasciando anche "dichiarazione del fenomeno soprannaturale" (p. 270), da cui stralciamo quello che interessa a noi: "Dopo parecchi giorni fui richiamato per lo stesso Padre Pio e mi fu fatto osservare che il medesimo steso sul letto con gli occhi aperti, rosso in volto, fissati gli occhi come in qualche cosa che gli fosse stata davanti: egli rivolgeva la parola a Cristo, alla Madonna ed all'Angelo Custode. Il dialogo, soliloquio, che faceva non era sconnesso. Ciò durò circa mezz'ora in mia presenza ed in quella dei monaci. Durante questo stato, visto il cuore, il polso, tutto era fisiologico. Finito il dialogo, perché i personaggi coi quali lo faceva si ritiravano, egli chiudeva gli occhi e cadeva nel sonno. Se il guardiano, in questo stato di sonno, lo avesse chiamato da fuori la cella non facendogli sentire la voce, come fece in mia presenza, egli si svegliava, ridendo e scherzando come mai fosse accaduto niente. Durante il periodo del dialogo egli mai avvertiva nulla di tutto ciò che lo circondava. Ciò si ripetette per parecchie volte, come mi fu riferito dai padri. Giudicai quella forma come estasi da cui Padre Pio era preso. Dottor Nicola Lombardi» (per il resoconto di p. Agostino cf. o.c. pp. 35-58, 252-256, 268-272).

Per le peggiorate condizioni di salute il 4 dicembre 1911 p. Benedetto concede l'obbedienza a Padre Pio di tornare in famiglia e tre giorni dopo, accompagnato da p. Agostino arriva a Pietrelcina ed il giorno seguente, festa dell'Immacolata, come se nulla avesse sofferto, canta la Messa solenne, assistito dall'arciprete don Salvatore Pannullo e da p. Agostino.
La cameretta, testimone dei fatti «misteriosi», è stata trasformata in luogo di preghiera e benedetta dal vescovo Achille Palmerini il 7 novembre 1976.
Dopo vani e ripetuti tentativi di ricondurlo al convento, perché dopo pochi giorni si aggrava ed è costretto ad uscirne, il provinciale di fronte a tale situazione di fatto, che esorbita dalla sua competenza, si decide ad esporre il caso al padre generale dell'Ordine, che gli suggerisce di chiedere l'indulto di secolarizzazione.
Tale risoluzione a Padre Pio venne prospettata sin dal 1911, tanto che a Venafro in un'estasi, quando «il reverendissimo padre generale, padre Pacifico da Seggiano, fece sapere al provinciale padre Benedetto che avrebbe chiesto per il Padre Pio il breve di secolarizzazione, questi si spaventò a tale notizia e nella visione che ebbe del serafico padre san Francesco si lamentò con lui dicendo: «Padre mio, ora mi discacci dal tuo Ordine; per carità, fammi piuttosto morire...». Il serafico Padre gli rivelò che sarebbe rimasto a casa con l'abito, finché fosse piaciuto al Signore [...]. Gesù, debbo essere esule..., mi vuoi mandar via?... non mi hai chiamato tu?... ho anch'io il diritto di stare in religione [...]. Dunque mi vuoi cacciare? [...]. Gesù fa' in modo che obbedisca ai miei superiori [...]. O serafico Padre mio, tu mi scacci dal tuo Ordine?... non sono più figlio tuo?... la prima volta che mi appari, padre san Francesco, mi dici di andare a quella terra di esilio?... Ah! Padre mio, è volontà di Dio? Ebbene fiat!... Ma, Gesù mio, aiutami... E quale sarà il segno che tu mi vuoi là?... Dirò la Messa... Ebbene, Gesù mio, sii ringraziato» (Diario, pp. 255, 50).
Prima di chiedere l'indulto, che poi si mutò in esclaustrazione e non secolarizzazione, passarono tre anni (1911-1914) di prova e riprova con malintesi e risentimenti da parte del provinciale, sofferenze e umiliazioni da parte di Padre Pio.
Approfittando della venuta del generale in provincia, p. Benedetto gli espone il caso e «sia ringraziato il Signore - esclama p. Agostino - che anche il provinciale si è persuaso, perché il generale ha detto: «Giacché è volontà di Dio, sia fatta; e noi gli otterremo il «breve ad tempus, habitu retento», ed il buon padre pregherà sempre per l'Ordine, cui sempre appartiene» (Epist. I, 510s).
Quale umiliazione per Padre Pio nel vedersi «quasi scisso dal serafico Ordine»; le tante lagrime «che versai mi cagionarono tanto male anche alla sanità, che fui costretto a mettermi a letto, dove attualmente mi trovo ancora. Sia fatta la divina volontà (Epist. I, 518). Mi sarà data ed accordata da Gesù la grazia almeno di morire, dove egli con tanta paterna bontà mi chiamò? [...]. Giacché Gesù non ha permesso che io consacrassi alla mia diletta madre provincia tutta la mia persona, mi sono offerto al Signore quale vittima per i bisogni tutti spirituali di lei, e tale offerta la vado ripetendo dinanzi al Signore. Sono lieto di poter vedere in parte esaudita una tale mia offerta. Voglia il buon Gesù esaudirla anche pienamente» (Epist. I, 541s).
Tra il suddito e superiore la pace è fatta; forse è meglio dire armistizio, perché il provinciale aspetta soltanto l'occasione buona per richiamarlo in convento e, vivo o morto, farvelo rimanere. Intanto Padre Pio resta a Pietrelcina sino al 17 febbraio 1916, tranne la breve assenza del servizio militare: chiamato alle armi, si presenta al distretto di Benevento il 6 novembre 1915, e dal 6 dicembre al 18 dello stesso mese ed anno si trova a Napoli, assegnato alla 10ª compagnia di sanità.

Verso la cima

Mentre è a Pietrelcina, il suo apostolato sacerdotale si riduce ad aiutare il parroco nell'amministrazione dei sacramenti, esclusa la confessione che il provinciale non gli concesse i primi anni di Messa per ragioni di salute e di non provata scienza morale da parte sua.
Verso la fine di questo periodo inizia la direzione spirituale per corrispondenza di qualche anima, sempre col permesso chiesto ed ottenuto dai superiori.
Ma più che con tali forme visibili, lo zelo per le anime Padre Pio lo attua soprattutto attraverso lo stato di vittima, vissuto intensamente come irradiazione della virtù salvifica di Gesù e della sofferenza del corpo e dell'anima, richiesta ed accettata come partecipazione personale e generosa del riscatto dell'umanità redenta e peccatrice.
La sete di perfezione ci scopre l'itinerario di un'anima che sale la vetta senza sosta, in compagnia dell'amore e del dolore, compagni indivisibili per raggiungere la sospirata unione con Dio, ali che libreranno sempre più verso nuove conquiste.
Consolazioni e gioie spirituali «da non potersi dire» si alternano con pene laceranti e atroci, paragonabili solo ai tormenti dell'inferno. La vita soprannaturale si sviluppa armonicamente tra la munificenza divina e la fedeltà umana.
Le lettere di questo periodo rivelano una esperienza superlativamente dolorosa e drammaticamente vissuta, che si prolungherà negli anni. Le più soavi consolazioni si intrecciano alle più strazianti pene afflittive; la umanità si dibatte in un mare di angosce; è chiaro che la grazia non distrugge la natura e la natura reclama i suoi diritti, anche se regolati in perfetta armonia con il volere divino ed in piena sottomissione ai misteriosi disegni della provvidenza.
Le lotte ingaggiate con satana durante questi quattro anni sono assidue ed accanite; tentazioni dello spirito e tormenti del corpo; spesso la battaglia ha come fondo le supposte infedeltà, le ingratitudini e le mancanze della vita trascorsa. Nell'epistolario molteplici sono gli accenni e non poche le descrizioni colorite delle lotte sostenute contro satana e i suoi satelliti che, contro loro volontà, contribuiscono alla dolorosissima purificazione dello spirito, rendendo con le loro arti diaboliche più densa la prolungata notte oscura.
Ma l'aspra e diuturna lotta col potere delle tenebre non arresta mai l'ascesa di Padre Pio né lo devia dal retto sentiero né attarda i suoi passi verso la cima: resiste da prode, impavidamente; sfida le forze nemiche, apertamente; con la fiducia in Dio, in Maria santissima, nell'Angelo Custode e nella direzione spirituale. E la vittoria gli arride sempre, anche se conquistata a caro prezzo.
A mano a mano che l'anima percorre nuove vie e Dio le si fa incontro con grazie di predilezioni ed il nemico si sforza per intralciare e ritardare i disegni divini, l'intervento dei direttori diventa più necessario e decisivo.
Alla direzione iniziale e quasi esclusiva di p. Benedetto si aggiunge, in seguito, quella di p. Agostino. Per circostanze più favorevoli di tempo e di luogo è proprio p. Agostino che occupa il primo posto per un periodo di tempo. Superati poi alcuni equivoci e chiariti certi malintesi, la direzione diventa, per così dire, collegiale, ma con un unico indirizzo; però l'intervento di p. Benedetto rimane sempre più autorevole e de-cisivo; a lui sono indirizzati personalmente i resoconti di coscienza più importanti e più minuziosi.
I rapporti di Padre Pio con i direttori sono improntati ad uno spirito di fede incrollabile. La loro voce per lui è la voce di Dio. Sostenuto dall'autorità indiscussa di chi gli rappresenta Dio, percorre le vie non sempre facili dello spirito senza sosta e senza tentennamenti, anche quando si vede avvolto da dense tenebre e circondato da oscurità terrificanti.

ALL'OMBRA DI SAN FRANCESCO

La grazia che Padre Pio chiede a Gesù, di farlo «almeno» morire dove egli con tanta bontà lo chiamò, dopo un anno di «dolce speranza», attraverso avvenimenti umani preparati con studiato piano di accerchiamento, è concessa.
Sempre per motivi di salute, tornato all'ombra di S. Francesco, in cerca di aria di montagna che lo solleva alquanto, dalla pianura passa alla collina, dove la Provvidenza lo pianta e non lo fa sradicare da nessuno evento umano.
L'iniziato apostolato della penna e della direzione si allarga ed egli si trova al centro di un movimento di intensa spiritualità e diventa un ricercato direttore: una turba di anime, assetate del divino gli «piomba addosso», impegnandolo in una «voragine di occupazioni».
La cura degli altri, però, non fa dimenticare se stesso: Dio l'assiste con la sua grazia, che cade in terreno fertile e fruttifica il cento per cento, perché l'anima sale e progredisce incessantemente per la via della perfezione.

Fatelo confessare

Durante il servizio militare, dopo la prima licenza del dicembre 1915, i padri Agostino e Benedetto partecipano alla gioia di Padre Pio e ringraziano Iddio per averlo salvato, almeno temporaneamente «dalla Babilonia», e tornano ad insistere che il suo posto è il convento. Dopo parecchi tentativi finalmente un giovedì di febbraio, giorno 17 dell'anno 1916, Padre Pio assieme al p. Agostino che lo aspetta alla sta-zione di Benevento, perché accostarsi a Pietrelcina è pericoloso per la reazione dei «pucinari» che non vogliono farsi rubare il loro «santariello», giunge in mattinata a Foggia e resta, sette mesi circa, nel convento di Sant'Anna.
Venuto soltanto per pochi giorni per assistere l'anima della nobil donna Raffaelina Cerase, p. Benedetto, che l'aspettava, gl'ingiunge di restare «vivo o morto» in convento e Padre Pio non si mosse.
Consegnati i pochi soldi del viaggio di ritorno, scrive alla mamma e comunica la notizia anche all'arciprete don Salvatore Pannullo.
Padre Pio, che già dirigeva per corrispondenza epistolare Raffaelina Cerase (cf. tutto l'Epist. II), nelle ore pomeridiane dello stesso giorno 17, accompagnato da p. Agostino, si reca da donna Raffaella, il cui palazzo era vicino al convento di Sant'Anna; e nei giorni seguenti visitava l'inferma, celebrando spesso nella cappella gentilizia, dedicata al Cuore sacratissimo di Gesù, intrattenendosi due o tre ore e poi se ne tornava in convento; e così sino alla fine, quando il 25 marzo 1916, l'ammalata, assistita fino all'ultimo momento dal suo «caro», «buono», «santo» Padre Pio, rese la sua bell'anima a Dio.
È questa santa donna che insisteva presso p. Agostino a far tornare Padre Pio in convento, perché avrebbe fatto tanto bene alle anime: «Fatelo tornare e fatelo confessare, ché farà molto bene!». E vide giusto: Padre Pio con la confessione avrebbe salvato tante anime, iniziando una nuova feconda tappa della sua attività ministeriale, perché egli a Foggia si trova al centro di intensa spiritualità, anche se non tutti, forse, si rendevano conto della responsabilità del maestro e dell'ampiezza di quel movimento.
Pochi giorni prima della partenza per S. Giovanni Rotondo, confidava al suo direttore: «Dovete sapere che non mi si lascia un momento libero: una turba di anime assetate di Gesù mi si piomba addosso da farmi mettere le mani nei capelli. Di fronte a tanto abbondante raccolto, da una parte mi sento rallegrato nel Signore, perché vedo che le file delle anime elette si vanno sempre più ingrossando e Gesù più amato; da un'altra parte mi sento affranto da tanto peso e quasi come avvilito» (Epist. I, 805).
Il «punto tanto oscuro», travaglio durato oltre sei anni e considerato «suicidio» da Padre Pio che era assediato dall'interno e dall'esterno, «grande illusione» e «grazia di Dio» dall'affettuoso p. Agostino, «grazia da fare a Gesù» dall'angosciato p. Benedetto, si risolve nel modo più pacifico, saremmo tentati di dire più banale, nel brevissimo tempo di due mesi circa.
E di fronte alle grandi alternative poste in gioco, come necessaria componente dei temperamenti umani in ciò che accade e si vuole che accada, la elementare soluzione ci sembra la migliore conferma di una filigrana di saggezza nei fatti strani o, se si vuole, contraddittori della vita: filigrana che è sempre molto semplice, ma che è «misteriosa» per noi che non sappiamo individuarla in trasparenza giusta.

Il diavolo in convento

Da un manoscritto del superiore del tempo, p. Nazareno d'Arpaise (1885-1960), stralciamo altre notizie.
Arrivato a Foggia, Padre Pio «tutto contento», con i confratelli era sempre «giulivo e faceto».
Dopo breve soggiorno fu colpito da una «febbraccia» e, visitato dal medico del convento Del Prete, gli furono riscontrati «focolai di microbi all'apice destro, con lievi soffi al sinistro». Un consulto col dottor Tarallo conferma la stessa diagnosi.
«Ogni sera i due medici s'incontravano nella stanza dell'infermo e con loro somma meraviglia dovettero confessare ch'era un morbo che appariva e scompariva [...]. La febbre durò parecchio e poi scomparve completamente con grande confusione dei medici».
Assieme a Padre Pio arriva anche il diavolo e un diavolo rumoroso. La comunità di Foggia ne parla apertamente e gli ospiti, per questo motivo, prendono altre vie, perché i diavoli fracassoni fanno paura e si sta da loro alla larga; erano diavoli all'antica, buoni per quei tempi; oggi, invece, anch'essi aggiornati, sono diventati talmente silenziosi da far credere addirittura che siano spariti e così possono lavorare indisturbati, senza incutere spavento, in mezzo ad una numerosa clientela.
Padre Pio non cenava e si ritirava nella stanzetta. Una sera, mentre la fraternità era riunita a refettorio per la refezione, «s'intese una forte detonazione nella sua stanza, ch'era sulla volta del refettorio, mandai fra Francesco da Torremaggiore (1876-1951) alla stanza di Padre Pio, immaginando che avesse bisogno di qualche cosa ed avendo chiamato invano avesse lanciato una sedia in mezzo alla stanza per essere inteso. Il fratello andò su e domandò di che cosa avesse bisogno, ma Padre Pio rispose: «Non ho chiamato né ho bisogno di niente». Assicuratomi che non aveva bisogno di niente, si continuò a cenare. Nelle sere successive la detonazione avveniva egualmente. A refettorio i frati incominciarono ad immaginare ed a fantasticare».
Terminata la cena, i frati si recavano con piacere a far ricreazione nella stanza di Padre Pio, perché in mezzo a loro ci stava «molto bene», «la nota allegra non gli mancava mai e poi quando raccontava qualche fatterello era tanto felice» ed i frati «provavano gusto a sentirlo».
Però, dopo la detonazione, lo si trovava «in un bagno di sudore e bisognava cambiarlo da capo a piedi. Ricordo, non esagero, che una volta con le sole mutande riempii un bacile d'acqua».
Testimoni di tali manifestazioni rumorose furono anche un Vescovo col suo domestico ed un cappuccino di un'altra fraternità.
«Si trovò di passaggio una sera monsignor D'Agostino, vescovo d'Ariano Irpino, al quale credetti bene d'informarlo di quanto avveniva in convento, e lui: «Padre guardiano, il medioevo è finito e voi credete ancora a queste panzane?» Va bene - dissi nell'animo mio - costui è come l'apostolo Tommaso, che se non vede, non crede... Ci crederà. Bussò il segnale della cena e si andò a refettorio. Dispensai dal silenzio regolare per onorare l'ospite e mentre si parlava io intesi un calpestìo sulla volta del refettorio, calpestìo che avvertivo sempre prima della detonazione. Imposi silenzio a tutti ed ecco la detonazione. Il domestico del Vescovo, che mangiava in foresteria scappò a refettorio con i capelli ritti e pieno di paura. Il Vescovo rimase così impaurito che quella sera non volle dormire solo ed il giorno seguente lasciò il convento e più non ritornò».
P. Paolino da Casacalenda (1886-1964), scendendo a Foggia dal convento di S. Giovanni Rotondo, dov'era superiore, una sera si presentò nella stanza di Padre Pio e, «facendo lo spiritoso - racconta lui stesso - dissi al padre che giacché mi trovavo presso di lui, sarei rimasto sino all'ora della cena nella sua stanza per vedere se lo spirito maligno aveva il coraggio di venire alla mia presenza. Padre Pio sorridendo mi sconsigliò dicendo che aveva molta speranza che il fatto non avvenisse quella sera. Io però tenni duro e rimasi col Padre Pio, conversando con lui, mentre i frati cenavano. Intanto il tempo passava, e vedendo che niente avveniva, dissi al Padre Pio: «Vedi? Finora niente è avvenuto, ma non andrò a cena se prima i confratelli non escono dal refettorio per la ricreazione»».
Persuaso che il demonio non voleva testimoni e che ormai l'orario della lotta fosse passato, pregato anche da Padre Pio che si mortificava col dare «soverchio fastidio» (parole sue) ad un confratello, p. Paolino esce dalla stanza e s'avvia a refettorio.
«Non l'avessi mai fatto!... Appena discesi il primo scalino immediatamente udii il tonfo formidabile che - essendo la prima volta - mi scosse da capo a piedi. Come un bolide raggiunsi la stanza del Padre, pieno di rammarico, perché non mi sarei aspettato un colpo così improvviso, e rimasi male nel trovarlo pallidissimo come sempre accadeva. Aiutai anch'io a cambiare il padre e mi accorsi attraverso la propria esperienza, che il sudore era abbondantissimo e che tutto corrispondeva a quello che mi era stato detto».
I rumori cessarono quando il padre provinciale Benedetto da S. Marco in Lamis espresse a Padre Pio il desiderio che non dovevano più sentirsi.
Padre Pio pregò ed il Signore esaudì la sua preghiera. Però cessarono i rumori ma non gli assalti del demonio che «sceglieva sempre la stessa ora, dopo cena, per tormentare il povero Padre». I confratelli che lo andavano a salutare «lo trovavano nelle stesse condizioni delle sere precedenti nelle quali si sentivano i rumori: pallido, sfinito di forze, bagnato completamente del solito abbondante sudore».
Il padre superiore del convento di Sant'Anna parla anche di «risposte in lontananza», di «visioni» e di «Messe lunghe» di Padre Pio.
La stanzetta ove dimorò è stata restaurata ed il visitatore può intrattenersi tra quelle pareti, testimoni muti di fatti straordinari.

La spaventosa tempesta

Il 14 maggio 1914 Padre Pio, rispondendo al provinciale, esortava alla preghiera, perché «le cose - scriveva - si vanno piuttosto imbrogliando, e se lui, [il Signore], non vi pone rimedio l'affare andrà malissimo», essendo stato dai cuori «volontariamente scacciato l'amabilissimo Gesù» (Epist. I, 468).
Purtroppo anche l'Italia, sorda alla «voce di amore» e nulla imparando dalle «sventure altrui» diventa campo bruciato dall'odio ed arrossato di sangue fraterno; e «la più innocente vittima della guerra fratricida, che assorda d'armi e d'armati e riempie di terrore l'Europa tutta», è Pio X, «anima veramente nobile e santa», che non regge alla «spaventosa tempesta ed il suo cuore che per tutta la vita era stato una fonte di apostolato di pace su tutto il mondo, si spezzò in uno schianto di dolore» (Epist. I, 494).
Anche Padre Pio, come ogni anima buona che crede all'amore ed aborre l'odio, vive in una continua «mortale agonia». La strage e la carneficina continua ed assieme alle case si svuotano anche i conventi: «Quasi una trentina di religiosi della nostra provincia sono stati richiamati ed alcuni si trovano al fronte. Gesù l'aiuti e li salvi!», implora p. Agostino (Epist. I, 584); ma tutti «siamo chiamati a compiere il penoso dovere, rappresentato dalla guerra - esorta Padre Pio - a seconda delle nostre forze», accettando «con animo sereno e con coraggio l'ordine che ci viene dall'alto [...]. Solleviamo il cuore in alto, a Dio; da lui ci verrà la forza. Tutti dobbiamo cooperare al bene comune e renderci propizia la misericordia del Signore e in quest'ora grave, coll'umile e fervente preghiera e colla emendazione della vita» (Epist. I, 587).
Tutto il nostro dovere e secondo le nostre forze, ma Padre Pio «insaccato» in una divisa militare è proprio fuori posto. Il suo «servizio» per cooperare al bene comune è la preghiera fervente e l'offrirsi vittima per i propri fratelli. Egli la tragedia della guerra l'ha vissuta dal principio alla fine e non soltanto quei pochi mesi effettivi in grigioverde.
Sempre disposto alla volontà divina, è pronto ad affrontare con serenità anche quest'altra prova, pregando il Signore che il suo spirito «non abbia di nulla a lamentarsi ed il nemico nostro di nulla a gloriarsi».
Nel distretto militare di Benevento trova un capitano medico «feroce» ma giusto, il quale dopo una scrupolosa visita gli riscontra la «tanto temuta malattia, quale appunto l'è la tisi». Quale sia la sua sorte, tutto accetta «con animo tranquillo», come se gli venisse «offerta immediatamente dalle mani benedette del Padre celeste». Anche se Gesù richiede dal suo povero servo una «grandissima» prova, sia egli sempre benedetto.
La sua perfetta uniformità alla volontà divina, però, non gl'impedisce di pregare e di far pregare il Padre celeste che gli apra le braccia della «paterna tenerezza», per porre fine alla prova che la sente «terribile» e «durissima», alleviata in certo modo da persone di «nobile cuore» che lo circondano di «straordinario affetto e di squisita cura», incontrate anche «in mezzo a gente di ogni condizione».
E fra le tante pene fisiche e spirituali non dimentica, con delicata premura, che deve soffrire soltanto lui e non gli altri.
Estremamente sfinito di forze, solo per miracolo si regge «in gambe»; il petto duole fortemente; lo stomaco, che incomincia a fare il «solito scherzo», si va sempre ostinando a non ritenere cibo alcuno, eccetto Gesù ostia. Alla visita collegiale viene riconosciuta la malattia («infiltrazione ai polmoni») e gli accordano un anno di convalescenza. Sia ringraziato il Signore per la sua bontà, che non ha permesso al nemico che toccasse lo spirito durante questo «duro tirocinio»; e, sia detto a gloria di Dio, ha «ricavato più frutto nello spirito da questa prova [...] che da un corso di santi esercizi spirituali» (Epist. I, 700s).
Tra visite e licenza di convalescenza, torna al distretto di Napoli il 19 agosto 1917 e questa volta è dichiarato idoneo ai servizi interni, nonostante che il suo corpo risulti un corpo «patologico: catarro bronchiale diffuso, aspetto ischeletrito, nutrizione meschina e tutto il resto. Mio Dio! quante ingiustizie si commettono» (Epist. I, 937). Pazienza! - sospira afflitto e rassegnato -: «Gesù vuole mortificarmi e sia fatta la sua santissima volontà in ogni cosa. Non ci perdiamo di coraggio, Gesù è buono. Egli non permetterà che si estingua il lucignolo fumigante» (Epist. I, 939).
Il povero padre provinciale è desolato nel sapere la sua idoneità: «Farai dunque il soldato a letto?», domanda con ironica preoccupazione, pensando ai conventi ormai ridotti tutti all'osso; anche se dal Signore «meritiamo tutto e peggio», «sarà impossibile ottenere pietà?» (Epist. I, 940).
In mezzo ai tanti mali fisici rispunta «quella vecchia prova dello spirito, cioè il dubbio atroce se ciò che fo nel corso della vita sia di gradimento a Dio: se nelle mie azioni che vado facendo vi sia oppure no l'offesa di Dio. Questo dubbio è sì fitto nella mente e nel cuore, che mi trafigge l'animo. Se dovessi offendere Dio anche per una volta, preferirei di subire infinite volte il martirio il più straziante [...]. Compiacetevi di delucidarmi di bel nuovo questi punti oscuri per me. Con me dovete comportarvi come si diporta un padre col suo figliuoletto, perché nelle vie dello spirito per ciò che mi riguarda sono più che bambino» (Epist. I, 945).
P. Benedetto lo calma, esortandolo a non impensierirsi affatto per le sue pene di spirito, perché «è croce voluta dal divino amore e non altro. Le tenebre non ti spaventino. Sta fermo in ciò che ti dichiarai più volte a voce ed in iscritto».
Finalmente tra richiami e licenze, annunzia la tanto desiderata notizia: «Fra giorni mi si firmerà il foglio di via, e così potrò lasciare con animo soddisfattissimo Napoli, facendo voti di non ritornarci mai più. Non vedo l'ora di partire e di arrivare presto a destinazione, perché mi trovo ripieno d'insetti fino ai capelli» (Epist. I, 15 marzo 1918, p. 1005s.).
Così termina «con fedeltà ed onore» il servizio militare di Padre Pio, al secolo Francesco Forgione, rimandato a casa per morire a breve scadenza, secondo il verdetto dei medici, sconfitti di fronte a questo malato singolare.
Una tonaca di Padre Pio intrisa di sangue


Vieni a S. Giovanni Rotondo

Scendendo da S. Giovanni Rotondo (8 luglio 1916), p. Damaso da S. Elia a Pianisi si ferma a Foggia, prima di proseguire per Morcone ove conduce i futuri novizi cappuccini. Va a salutare Padre Pio «e lo trovai - scrive - seduto sul letto. Mi fece impressione la sua barba nera e il suo volto molto macilento, con la faccia di vero malato». Assieme agli altri malanni Padre Pio era tormentato dal grande caldo che lo soffocava, senza dargli un momento di respiro.
P. Paolino da Casacalenda, venuto da S. Giovanni Rotondo per predicare il novenario di S. Anna, nei momenti in cui lo vedeva penare di più, lo invitava a passare qualche giorno nel convento di sua residenza.
Presa la benedizione del padre guardiano Nazareno d'Arpaise e salutati gli altri religiosi, accompagnato da p. Paolino, giunse nel convento di S. Giovanni Rotondo «accolto con grande affetto dai pochi frati che non ancora erano chiamati al servizio militare e da tutti gli allievi del seminario serafico. Era la sera del 28 luglio 1916. I giorni nei quali Padre Pio si trattenne a S. Giovanni Rotondo - continua p. Paolino - furono di grande sollievo per il suo fisico. Egli respirava davvero con piacere quell'aria fresca delle montagne che circondano il convento e non sentiva più la sonnolenza e la pesantezza da cui era preso nella calura di Foggia. Cominciò pure a riposare nelle ore in cui la comunità andava a letto; così tutta la persona sentì rinascere le forze. Quantunque il diavolo ogni sera lo tormentava e io me ne accorgevo dal sudore che impregnava la sua camicia quando lo aiutavo a cambiarsi, io però ero molto soddisfatto e non mi pentivo di averlo spinto a venire con me».
Nel 1916 attorno al convento non vi era anima viva e si scendeva al paese per un viottolo campestre; dopo la soppressione degli Ordini religiosi del 1866, il convento era ridotto in misere condizioni e la chiesetta spesso era ricovero di capre; i Cappuccini vi ritornarono nel 1909 e fino alla venuta di Padre Pio fu sempre luogo solitario, «un convento di desolazione - leggiamo in una lettera del 1915 di p. Isaia da Sarno - è lontano dal paese, raramente in chiesa vengono persone, profondo silenzio mi circonda, solo ascolto di tanto in tanto il suono del campanaccio, appeso al collo di qualche capra o di qualche pecora, che i pastori accompagnano a pascolare sulla montagna che sorge dietro al convento». Però in quel luogo solitario regnava la pace e l'allegria per la presenza di tanti «fratini».
Nella nuova residenza all'inizio le occupazioni di Padre Pio erano «la lettura di libri ascetici - ci fa sapere p. Paolino - in modo principale la Sacra Scrittura, la direzione di tante anime che per corrispondenza gli chiedevano consigli ed alle quali egli - avendo ricevuto il permesso dai superiori - rispondeva; la direzione spirituale dei nostri collegiali, i quali si confessavano volentieri da lui ed ascoltavano con molta attenzione le sue conferenze», e, quantunque non perfettamente in salute, spinto da un vivo desiderio, chiede il permesso di offrirsi «vittima al Signore per il perfezionamento del collegio, che amo teneramente e per esso non risparmio disagi personali. È vero che ho gran motivi per ringraziare il celeste Padre pel mutamento in meglio avvenuto nella maggior parte di essi [collegiali], ma non sono ancora pienamente soddisfatto. Quindi ve ne supplico, a non volermi negare ciò che vi ho chiesto. Gesù mi darà la forza per sopportare quest'altro sacrificio» (Epist. I, 874).
Superati i disagi e le difficoltà iniziali di questa nuova forma di apostolato e la ritrosia quasi diffidente dei seminaristi, Padre Pio conquistò il cuore e l'apertura delle anime adolescenti ed incominciò a provare la gioia di trovarsi in mezzo ai futuri ministri del Signore, anche se non mancavano delusioni ed incorrispondenze.
Non abbandonò mai nessuno dei suoi ragazzi, anche durante e dopo il noviziato; e seguiva i venuti meno come poteva con la parola e con lo scritto.

S. Giovanni Rotondo

Sulla catena del versante meridionale del Gargano, a 560 metri di altezza sul livello del mare, a piè del monte Castellano, su cui, in tempi remotissimi, sorgeva il castello Pirgiano, si estende la cittadina di San Giovanni Rotondo.
La sua posizione topografica, simile a un paesaggio svizzero, per l'incanto e la bellezza del panorama, rapisce lo sguardo dei turisti, dei pellegrini e di quanti vi arrivano la prima volta dal Tavoliere di Puglia.
A settentrione i monti verdeggianti di alberi, di cespugli e di erbe aromatiche, formano uno sfondo meraviglioso alla veduta del paese, adagiato dolcemente in una leggera conca.
L'orizzonte è limitato dalle vicine montagne di levante e di ponente; a mezzogiorno dalle prominenze quasi uniformi delle colline sottostanti.
Dal centro del paese, man mano che si sale verso la zona alta, alle pendici della montagna, si apre un vasto orizzonte verso il Tavoliere, fino alle Murge di Bari, ai monti del Vulture, dell'Irpinia e del Molise.
Dal convento dei Cappuccini si gode una splendida visuale del Golfo di Manfredonia e della riviera adriatica.

Origine del borgo

Le origini di S. Giovanni Rotondo, come di tutte le città e dei paesi della Daunia e del Gargano, risalgono a tempi molto remoti, al 1270 avanti Cristo, quando Diomede, re di Etolia nella Grecia, sbarcò col suo esercito nella Puglia e l'occupò.
La Puglia («Apulia» nome orientale, dalla voce ebraica «Apulah») significa nebbia, foschia, caligine.
Infatti dalle paludi, dai pantani di acque stagnanti, che prima della bonifica infestavano la Puglia, e dai pochi fiumiciattoli a lento corso, si sprigiona il vapore acqueo, che si solleva e si spande sul Tavoliere.
Nell'estate produce un calore soffocante e un'afa insopportabile, da costringere le folle di gente ad evadere dalle città e dai paesi per cercare rifugio nelle campagne ventilate e fresche, sulle colline e in gran parte al mare.
Il Gargano è un promontorio montuoso, che si prolunga nel mare adriatico e fa parte della Puglia, come un'oasi nel deserto del Tavoliere.
Da studi fatti, il nome «Gargano» si fa derivare dalla parola greca «gargara o gargaros», che ha diversi significati: rimbombo, risonanza, rumore, gorgoglio, mormorio.
Geofisicamente il Gargano sovrabbonda di valli profonde, di anfratti, di caverne sotterranee intercomunicanti per chilometri, di colline e di pareti rocciose, che riproducono rimbombo, rumore, risonanza di voci di uomini e di animali, mormorio di venticelli, sibili acuti di venti gagliardi e impetuosi.
Alcuni studiosi della natura del Gargano hanno voluto aggiungere un significato più poetico di «allegrezza» per l'incanto della natura ancora vergine, lussureggiante di vegetazione mediterranea e ricca di meravigliosi orizzonti.
È logico che Diomede e i suoi soldati, sfibrati dalla calura e dall'afa del Tavoliere, sentissero la necessità di salire sul Gargano a respirare aria pura e fresca e a rinvigorire le forze.
Inoltre, Diomede con la sua gente, avendo gettato le fondamenta di città e di borghi nella vasta pianura, per assicurarsene il dominio, non poteva trascurare di costruire opere di fortificazione nei luoghi più idonei e lontani dai centri abitati per meglio controllare i nemici.

Castel Pirgiano

A tale scopo scelse i monti del Gargano come luoghi più adatti per osservare il nemico a grande distanza e prepararsi accuratamente alla difesa, costruendo castelli, torri, fortezze, fra cui il Castello Pirgiano, il cui nome deriva dalle voci greche: «Pirgos» piccolo castello e «Jano», Giano, il Dio adorato in tutto il Gargano.
Col passare degli anni, attorno al Castel Pirgiano, sorsero alcuni casali, che, unificatisi nel 280 avanti Cristo, formarono un borgo, abitato dai discendenti Pirgiani.
La vita del borgo, situato sulle rocce della montagna, era magra e misera per la mancanza di terra coltivabile e di acqua. Si viveva di pastorizia.
Gli abitanti, desiderosi di migliorare le condizioni di vita, erano costretti a scendere nel pianoro sottostante, dove vi era terra da coltivare, comodità di lavoro e abbondanza di acqua.
Scendere ogni giorno dal borgo per il lavoro e risalire stanchi la sera per il riposo era un grave disagio e un grande sacrificio.
Nel decimo secolo gli abitanti di Pirgiano scesero nella pianura e diedero inizio alla fondazione di un nuovo borgo a piè del monte Castellano, abbandonando definitivamente il castello e i vecchi casolari, che attraverso i secoli andarono del tutto distrutti.

Perché Borgo S. Giovanni Rotondo?

I Pirgiani del nuovo borgo, dipendenti dall'Abazia di S. Giovanni in Lamis, per ragioni di territorio e di giurisdizione, a contatto coi monaci Benedettini e coi cristiani, abbandonarono il culto delle false divinità e si convertirono alla fede di Cristo. A testimonianza della loro fede, scelsero come protettore del borgo, S. Giovanni Battista al quale dedicarono il tempio di Giano, costruito dai loro antenati, tuttora esistente nella zona orientale della città e aperto al pubblico.
Da questo tempio, che in origine era perfettamente rotondo, il borgo prese il nome di S. Giovanni Rotondo.

Celebrità del Gargano

Il Gargano divenne celebre nel quinto secolo dopo Cristo, quando per ben tre volte, nel 490, 492 e 493, l'Arcangelo S. Michele apparve in una grotta del monte sovrastante alla città di Siponto, sulla cui sommità si estende la città di Montesantangelo.
In quel tempo, Pontefice della Chiesa Cattolica era Gelasio I e Vescovo di Siponto S. Lorenzo Maiorano, i quali riconobbero e confermarono le apparizioni di S. Michele Arcangelo.
Divulgatasi la notizia nel mondo cristiano, cominciarono ad affluire i fedeli dei popoli latini, orientali e nordici. Numerosissimi furono i Longobardi e i Normanni, che fondarono conventi e ospizi lungo la valle santa, che da S. Maria di Stignano porta alle pendici di Montesantangelo.

Pellegrini illustri

Pontefici, Vescovi, Imperatori, Re, Principi, e molti Santi, fra i quali: S. Lorenzo Maiorano, S. Bernardo, S. Anselmo, S. Brigida, S. Francesco d'Assisi, S. Camillo, S. Alfonso, S. Gerardo Maiella, Padre Pio da Pietrelcina visitarono e diedero importanza e splendore al Santuario di S. Michele Arcangelo.
Padre Pio, devotissimo di S. Michele, ne incrementò e diffuse il culto, indirizzando migliaia e migliaia di figli spirituali e di fedeli alla grotta santa, per impetrare dall'Arcangelo protezione e aiuto nelle tentazioni e nella lotta contro gli spiriti maligni.
La visita di S. Francesco d'Assisi al Santuario di S. Michele Arcangelo risale intorno al 1216.
La tradizione vuole che, attraversando la valle santa insieme coi suoi compagni, abbia fatto sosta nel borgo di S. Giovanni Rotondo, su cui invocò dal Signore grazie e benedizioni. Volendo lasciare il seme della figliolanza spirituale e monastica, pensò alla fondazione di un piccolo convento, che fu costruito in breve tempo e abitato per alcuni secoli dai suoi frati.
Poiché nel decorso degli anni andò in rovina e divenne quasi cadente, l'amministrazione comunale, nel 1470, ne edificò un altro, a cui annesse una chiesetta dedicata a San Francesco. Quest'ultimo fu abitato dai Frati Minori Conventuali fino al 1700, anno in cui fu demolito e ricostruito più grande e più comodo dallo zelante Frate concittadino Padre Giambattista Lisa.
Nel 1810, con la soppressione degli Ordini Religiosi, il convento fu abbandonato dai Frati e destinato a Palazzo Comunale. La Chiesa di S. Francesco rimase aperta al culto pubblico fino al 1860, poi fu trasformata da luogo di preghiera e di santità in carcere per i delinquenti.

Il convento dei Frati Cappuccini

Il convento dei Cappuccini con la Chiesetta di S. Maria delle Grazie fu costruito negli anni 1538-1540 su un'amena collina, nella zona Patariello, a richiesta e a spese del popolo, con il consenso dell'Arcivescovo di Siponto, Cardinale Giammaria di Monte Sabino, che fu eletto Papa col nome di Giulio III.
La Chiesa fu consacrata nel 1676 sotto il titolo di S. Maria delle Grazie.
L'immagine della Madonna, dipinta su tela, risale al secolo XIII ed è molto venerata dai fedeli. Il 2 luglio 1959, per la circostanza dell'inaugurazione della nuova Chiesa, fu incoronata solennemente dal Cardinale Federico Tedeschini con la partecipazione di molti Vescovi, Sacerdoti e Frati, e di una folla ingente di fedeli di ogni parte d'Italia.
Il sito per la costruzione del convento con l'annessa vigna e casa rurale, che si conserva ancora nell'orto dei Frati, fu donato da un benefattore del luogo, un certo Orazio Antonio Landi.
Nel 1540 i Frati Cappuccini ne presero possesso, testimoniando il Cristo nella preghiera, nella penitenza e nella santità della vita, ricevendo in compenso la divina assistenza e la carità dei fedeli.
Il Boverio riferisce nei suoi «Annali» un fatto sorprendente.
Nel 1548 cadde tanta neve che il fratello cerca-
tore non poté uscire per la questua. Le riserve di pane e di legumi si assottigliavano sempre più. I frati fecero ricorso al Signore. Verso sera, comparvero al convento quattro giovani di nobile aspetto: uno col pane, l'altro col vino, gli altri due con cibi vari. Il fratello portinaio chiese loro chi fosse il generoso benefattore che si era preoccupato di inviare tutto quel ben di Dio, onde poterlo ringraziare; i giovani risposero: «Benedite e ringraziate il Signore, il Quale, nella necessità, non abbandona mai coloro che sanno servirLo con completa dedizione»; e partirono.
Quando nel paese si venne a conoscenza dell'intervento divino in soccorso dei Frati, il Comune stabilì che, per il futuro, non appena la neve si fosse alzata più di un palmo da terra, fosse subito somministrato il necessario vitto ai Cappuccini.
Il convento, distante circa due chilometri dal paese, sito in un luogo salubre e silenzioso, fu quasi in permanenza sede del noviziato e abitato da Frati, vissuti in concetto di santità.
S. Camillo di Lellis fu ospite nel convento di S. Giovanni Rotondo.
Le cronache narrano che S. Camillo, prima della conversione, fosse un giovane scapestrato, amante della bella vita e del giuoco.
Un giorno, mentre egli attraversava la valle dell'inferno ed era giunto a metà strada tra S. Giovanni Rotondo e Manfredonia, scoppiò un pauroso temporale con lampi, fulmini e tuoni. Nel bagliore dei lampi Camillo vide il demonio, che gli fece tanto spavento da farlo decidere fermamente a cambiare vita ed entrare nell'Ordine dei Cappuccini.
Indossato il saio francescano nel noviziato del convento di S. Giovanni Rotondo, per ben due volte dovette uscirsene a causa di una piaga incurabile.
Il Signore lo aveva scelto per un'altra missione, l'assistenza agli infermi e ai moribondi.
A Roma fondò la Congregazione dei Chierici Regolari, ministri degli infermi, detti comunemente «Camilliani».
Il convento dei Cappuccini subì la sorte di tutti gli altri conventi per l'iniqua legge della soppressione degli Ordini Religiosi.
Fu chiuso una prima volta il 1811 e riaperto sette anni dopo; la seconda volta all'inizio dell'anno 1867 e adibito dal Comune a ricovero di mendicità fino al 1908.
Sgombrato dai poveri e rimasto libero, per interessamento del Ministro Provinciale, P. Benedetto Nardella da S. Marco in Lamis, coadiuvato dal canonico Don Giuseppe Massa, il convento ritornò ai Frati Cappuccini, accolti festosamente dalle autorità e dalla popolazione nel settembre 1909.
Nel 1911 il convento divenne sede del seminario serafico.
Padre Pio vi salì la prima volta da Foggia il 28 luglio 1916 per pochi giorni.
Vi ritornò nel settembre dello stesso anno con l'incarico di Direttore spirituale del seminario: incarico che svolse scrupolosamente fino alla chiusura del seminario, avvenuta nel 1932.

Prima dell'arrivo di Padre Pio

San Giovanni Rotondo nel 1916, prima dell'arrivo di Padre Pio, era un piccolo paese, povero e sconosciuto, nel centro del promontorio garganico. Vi erano poche famiglie possidenti e benestanti.
La maggior parte degli abitanti apparteneva alla classe lavoratrice. Molti andavano a lavorare in campagna: altri risiedevano in permanenza nel tavoliere di Puglia, in zone paludose, dove con facilità si ammalavano di malaria, di anemia perniciosa e di tubercolosi. Altri esercitavano un mestiere qualsiasi per tirare avanti con sacrifici e privazioni una vita di stenti.
I più fortunati erano quelli che potevano emigrare nelle Americhe. Imperava l'analfabetismo. I ragazzi, dopo la terza o la quinta elementare, non potendo proseguire gli studi, per mancanza di mezzi finanziari, venivano dai genitori avviati al lavoro: come garzoni nelle campagne; da manovali coi muratori; da apprendisti nelle botteghe degli artigiani.
Nel paese vi erano pochi e sforniti negozietti di cose di prima necessità, per cui bisognava recarsi a Foggia o a San Severo per gli acquisti.
Si cucinava una volta al giorno per il pranzo principale, che consisteva in un minestrone di legumi, di ortaggi, di patate o nel caratteristico pancotto paesano. La pasta asciutta era considerata pranzo di festa. La carne era un alimento di lusso: si mangiava nelle grandi solennità e nelle domeniche da chi poteva acquistarla.
I vestiti e le scarpe venivano confezionati dai sarti e dai calzolai locali. Gli abiti e gli indumenti, disusati dai genitori e dai figli più grandi, venivano rammendati e adattati ai più piccoli. Nulla si gettava, ma tutto veniva consumato fino al completo logorio.
Quasi la metà degli abitanti, specie i contadini, i braccianti, gli operai, i manovali e i ragazzi, non avendo la possibilità di acquistare un paio di scarpe ogni anno, dall'inizio della primavera fino all'autunno inoltrato, calzavano i così detti «scarpuni» consistenti in piantelle di cuoio grezzo, lavorate a forma di rozzi sandali e applicate ai piedi con cordicelle di cuoio. Pare che l'origine di tali calzature debba attribuirsi alle colonie slave, approdate sulle coste del Gargano e stabilitesi nell'interno. Ormai sono scomparse da un trentennio e, se esistono ancora degli esemplari presso alcune famiglie, fanno parte del folclore paesano.
Nel 1916 San Giovanni Rotondo era un agglomerato di vecchie case, addossate l'una all'altra, con stradine storte e strette nella parte alta; più larghe e comode nella parte bassa. Il paese aveva la forma rotonda. Entrando da Via Foggia e dirigendosi verso ponente, le case a piano terra o a un solo piano, terminavano nel punto d'incontro delle due strade principali, corso Umberto I e corso Regina Margherita. Nella zona dove sorge la Chiesa Parrocchiale di S. Giuseppe Artigiano vi erano le piscine, che davano acqua agli abitanti del paese: ora alcune sono chiuse, altre ripiene di terra. All'inizio della strada per S. Marco in Lamis, vi era un solo fabbricato, adibito a taverna per alloggiare i viandanti forestieri e i pellegrini diretti a Montesantangelo. In seguito fu trasformato in molino.
Il giardino pubblico non esisteva. Il terreno a sinistra della via per S. Marco, sprofondato di oltre due metri e adibito ad orti, fu espropriato, riempito e portato a livello della strada, dall'amministrazione comunale del Podestà Avv. Francesco Morcaldi.
Sul suolo rialzato ed allargato, fu sistemato un piccolo Parco della rimembranza e nel centro fu eretto il monumento ai Caduti della guerra mondiale del 1915-1918. Dopo la seconda guerra mondiale del 1940-1943, fu distrutto il Parco della rimembranza, venne allargato e prolungato il terrapieno e sistemata l'attuale Piazza Europa col giardino pubblico e con una nuova prospettiva, più artistica e più appariscente del monumento ai Caduti.
Sulla via di S. Marco in Lamis, in contrada «Santa Croce lu quarto», così detta perché quel punto era ad un quarto di cammino dal paese al Convento dei Cappuccini, si biforcava la strada per il Santuario di S. Maria delle Grazie.
Non era certamente l'attuale viale comodo e spazioso, ma un tratturo impraticabile, stretto, fiancheggiato da rovi e da sterpi, disseminato di sassi e di fossetti; d'inverno ricoperto di fango e di pozzanghere, d'estate infestato di serpi e di vipere.
L'accesso al convento era molto disagevole e faticoso, per cui poche persone frequentavano la mistica chiesetta di S. Maria delle Grazie.
Così era S. Giovanni Rotondo, quando nel 1916 arrivò Padre Pio da Pietrelcina.

Dopo l'arrivo di Padre Pio

La venuta e la presenza di Padre Pio nel 1916, nel convento dei Cappuccini di S. Giovanni Rotondo, suscitò un grande risveglio di spiritualità francescana mai notata negli anni precedenti e richiamò, presso il Santuario di S. Maria delle Grazie, un numero sempre crescente di anime generose, anelanti alla perfezione cristiana, sotto la guida illuminata di un Sacerdote tanto prediletto dal Signore. Man mano che si divulgava la fama della sua santità, si moltiplicavano anche i figli spirituali di ambo i sessi, che cominciarono a chiamarlo «il Monaco Santo», voce diventata familiare presso i fedeli di S. Giovanni Rotondo e di S. Marco in Lamis.
La sua crocifissione cruenta, avvenuta miracolosamente il 20 settembre 1918, se arrecò grande gioia ed emozione nel popolo, destò intenso livore e sdegno nei suoi nemici, che la ricoprirono di ignominie e di vergognose calunnie. Le forze di Satana si scatenarono con violenza contro il mite ed umile figlio di S. Francesco d'Assisi, per impedire e annientare l'immenso bene che avrebbe fatto alle anime e alla Chiesa di Cristo.
La venuta di Padre Pio a S. Giovanni Rotondo non fu occasionale, ma predestinata dal Signore. Dieci anni prima, nel 1906, nostro Signore Gesù Cristo la preannunziò in un colloquio allegorico alla sua prediletta serva, Lucia Fiorentino, anima semplice e di santa vita.
Lucia, il 19 agosto 1923 annotava nel suo diario:
«Gesù mi diceva: «Ti ricordi di quanto ti ho manifestato nel 1906, mentre eri inferma?». Sì, - mi ricordo - Gesù mi aveva detto, sempre in locuzione: Verrà da lungi un sacerdote, simboleggiato in un grande albero, che si doveva piantare in convento. Albero così grande e ben radicato, doveva coprire con la sua ombra tutto il mondo. Chi, avendo fede, si sarebbe rifugiato sotto questo albero, così bello e ricco di foglie, avrebbe avuto la vera salvezza; al contrario chi avrebbe disprezzato e deriso questo albero, Gesù minacciava di castighi. E così ora mi spiega che l'albero è Padre Pio, che, venuto da lontano è radicato al Convento per volontà di Dio, e a rifugiarsi sotto, sono quelle anime, da Lui guidate, che ubbidiscono con fede ed andranno avanti: mentre quelle che lo disprezzano, lo deridono e lo calunniano, saranno da Dio castigate».

La prima visita di Padre Pio a S. Giovanni Rotondo avvenne il 28 luglio 1916, quando da Foggia, accompagnato da P. Paolino da Casacalenda, volle portare un messaggio di conforto e di serenità nella famiglia Fiorentino, provata da croci e malattie.
Infatti Lucia Fiorentino scrive nel suo diario: «La visita di Padre Pio fu la visita di Gesù. Era Gesù che si aspettava e Gesù venne nella persona del Padre a confortarci. Subito ho sentito in me una grande gioia».
Quando, qualche mese dopo, Padre Pio ritornò a S. Giovanni Rotondo, come membro della Famiglia Religiosa nel convento di S. Maria delle Grazie, prese la direzione spirituale di Lucia, la plasmò secondo il cuore dello sposo celeste e la portò alla più alta vetta della perfezione cristiana, tanto da meritarsi i carismi, le confidenze e le rivelazioni di Gesù, che un giorno le disse: «... se tu conoscessi chi ti guida... sono io che agisco in quell'anima, in lui ho trovato tutte le disposizioni e sono sceso... Tutto ciò che Padre Pio opera è tutto permesso da me... Io farò grande questo mio figlio, che aderisce ai miei voleri, anche a costo di atroci dolori e di stentate fatiche. Senti figlia mia, io sono molto dolente per tutto quello che succede: lui è la mia tromba, dove passa la mia voce, che annunzia la verità, l'amore e la misericordia... Lo farò operare con meraviglia di tutti per attirare anime a me. La sua missione si esprime come la mia e con me condivide le pene...».
Da queste parole, si può dedurre che Gesù era in Padre Pio, operava ed agiva in Lui.
Lucia si offrì vittima per la reintegrazione di Padre Pio nel pieno esercizio del ministero sacerdotale proibitogli nel 1931.
L'offerta venne gradita da Dio. Lucia prima di morire disse alla cognata Filomena Fini, ministra del Terz'Ordine Francescano per molti anni «quando andrai a confessarti, dì al Padre che io mi sono offerta vittima per la sua liberazione: la mia vita non vale quanto la sua. Lui può fare alle anime più bene di me».
Lucia moriva serenamente il 16 febbraio 1934.
La fama della santità di Padre Pio, divulgatasi in pochi anni nell'Italia e nel mondo, fu l'inizio dell'evoluzione e della trasformazione del paese di S. Giovanni Rotondo nella moderna e ridente cittadina.
La cruenta crocifissione, avvenuta il 20 settembre 1918 con l'impressione delle stimmate del Signore nelle sue membra, fu un potente richiamo delle folle sul monte Gargano.
Dopo la seconda guerra mondiale, un gran numero di luminari della scienza e dell'arte, di uomini politici e di statisti, di industriali e di dignitari, di centinaia di migliaia di fedeli, di turisti e di curiosi, sono saliti sul Gargano per vedere, conoscere e parlare con Padre Pio, influendo positivamente nello sviluppo e nel benessere del paese.
In pochi anni S. Giovanni Rotondo cambiò fisionomia: da paese povero e sconosciuto, divenne noto e celebre in tutto il mondo.
Il suo nome si identifica col nome di Padre Pio.
La moderna cittadina non può non riconoscere che la sua trasformazione, prosperità e celebrità è legata al nome di Padre Pio.
A sua volta Padre Pio ha teneramente amato e prediletto la terra e il popolo di S. Giovanni Rotondo, dove ha vissuto il periodo più lungo della sua vita terrena e ha prodigato generosamente i tesori della sua carità e santità; dove ha sofferto la tremenda tragedia del suo doloroso Calvario; dove con le sue ardenti preghiere e con le sue lacrime, ha fatto scendere dal cielo una pioggia inesauribile di grazie e miracoli, su quanti, angosciati e fiduciosi, sono accorsi ai suoi piedi per conforto ed aiuto.
Il popolo di S. Giovanni Rotondo, sensibile a tanta benevolenza e predilezione, ha corrisposto con un amore filiale, sincero ed unanime, sempre pronto a sacrificarsi per lui e a difenderlo contro tutti.
Quando nel 1923 si parlava di un suo trasferimento dal convento di S. Maria delle Grazie, il popolo insorse unito e compatto, anche a costo di spargimento di sangue, per impedire la partenza dell'amato Padre.
Padre Pio era un dono di Dio, di inestimabile valore, per la cittadinanza di S. Giovanni Rotondo, che non avrebbe mai permesso che fosse portato via.
Dinanzi a tanto amore e generosità, mentre - in alto loco - si decideva il suo allontanamento, Padre Pio in segno di affettuoso legame, scriveva su un foglio di carta il suo ultimo desiderio di essere sepolto in un cantuccio di questa terra. Le bellissime parole del testamento del caro Padre sono state incise su una lapide di marmo bianco, attaccata ad una colonna della Cripta. Così scrisse il padre:
«Ricorderò sempre questo popolo generoso nelle mie povere preghiere, implorando per esso pace e prosperità e quale segno della mia predilezione, null'altro, potendo fare, esprimo il desiderio che ove i miei Superiori non si oppongano, le mie ossa siano composte in un cantuccio di questa terra. 12.8.1923 - Padre Pio da Pietrelcina».

Il primo manipolo

A S. Giovanni Rotondo Padre Pio sin dai primi giorni continuò anche la direzione spirituale di qualche anima, conosciuta personalmente a Foggia e con la quale aveva avuto corrispondenza epistolare da Pietrelcina.
A quest'anima si univa qualche altra «buona devota del paese» e lo sparuto gruppetto delle prime figlie spirituali ogni tanto si presentava al convento con qualche nuova unità.
Padre Pio, col beneplacito dei superiori, accoglieva tutte senza eccezione di persone: «A me non importa - diceva - di chi porta il fazzoletto e chi porta il velo; e difatti io così ammiravo nel Padre che lui voleva bene in noi l'anima e di perfezionarla, ed ammiravo ancora quanti sacrifici faceva», testimonia una del primo manipolo.
Incominciava così, e si sviluppava quel seme che Padre Pio aveva iniziato a coltivare sin dalla sua permanenza a Pietrelcina ed a Foggia, ma in una forma più specifica ed organica, anche se forma e metodo nel corso dei suoi lunghi anni di direzione spirituale per circostanze interne ed esterne, pubbliche e personali e numeriche, non si son potuti conservare identici, pur applicando sino all'ultimo le linee fondamentali dei principi primordiali.
Metodo direzionale non trascendentale ma semplice e tradizionale, nutrito di praticità e sviluppato con esperienza; principi elementari ma fondamentali di vita cristiana, suggeriti ed inculcati secondo i bisogni e le capacità di ciascun'anima; e sempre e dovunque buon esempio che trascinava alla conquista della virtù, aiutate molto generosamente dalla preghiera e dal sacrificio personale del direttore spirituale: «Tu saresti finita in manicomio. Vedrai nel giorno del giudizio quello che ho fatto per te». Così Padre Pio ad una scrupolosa guarita con infinita pazienza.
Iniziò la guida del manipolo - nel quale possiamo ravvisare il primo «gruppo di preghiera» senza, forse, andare errati - con delle conferenze in comune, tenute generalmente il giovedì e la domenica, spiegando i principali mezzi di perfezione cristiana ed alla fine sciolse le adunanze generali e disse: «Il materiale è pronto, ora incominciate a costruire».
Insisteva molto sulla meditazione quotidiana e sulla lettura spirituale, spiegandone l'efficacia, la necessità, suggerendo i temi preferiti ed insegnandone il metodo.
Le anime sante che meditano spesso e bene, non fanno che raccomandare l'orazione mentalle; e per il cristiano «ogni verità di nostra santa religione - scrive Padre Pio - può e deve essere oggetto di meditazione» (Epist. II, 250), però l'anima «abitualmente» si ferma sulla vita, passione, morte e risurrezione di Gesù Signor nostro, tema più appropriato, soave, delizioso e proficuo che si possa scegliere: «il mio unico libro - diceva il santo laico cappuccino Corrado da Parzham - è il Crocifisso», e difatti contemplare spesso Gesù è riempire l'anima nostra di lui: conoscendo il suo modo di agire, modelleremo le nostre azioni sulle sue azioni.Egli è la luce del mondo: in lui, da lui e per lui dobbiamo essere illuminati.
Metodi di «conversare con Dio per migliorare l'anima nostra» - questa è l'essenza del meditare - ve ne sono tanti, forse troppi o troppo complicati... Comunque, ogni metodo è buono se aiuta, e finché aiuta, a pregare; ed è necessario, almeno all'inizio della vita di perfezione, per evitare ai principianti il pericolo di perdersi nel vago.
Premesso che i due tempi più indicati - ma non esclusivi - per meditare sono l'ora mattutina, perché lo spirito è meno distratto e più fresco, e la sera dopo la recita della corona, perché l'animo è già preparato dai misteri del Rosario, il metodo suggerito da Padre Pio è contenuto in una lettera del 16 settembre 1916, inviata ad una figlia spirituale (cf. Epist. III, 249 ss), di cui riportiamo soltanto lo squarcio conclusivo: «Vi esorto a stabilirvi almeno due tempi al giorno, in cui vi ritirerete nel praticar questo esercizio. Procurerete di spender possibilmente non meno di una mezza ora per ciascuna volta - sta scrivendo ad una signorina maestra che vive lontana dalla famiglia -. Procurerete che detti periodi di tempi, in cui voi possiate meditare, siano possibilmente il mattino per prepararvi alla pugna ed alla sera per purificare l'anima vostra da ogni affetto terreno che in giornata si sia potuto attaccare» (ivi, p. 251).
Il luogo ideale per la meditazione è la chiesa, davanti a Gesù nel tabernacolo. La presenza reale dell'Amico divino favorisce il colloquio. Però, purché si eviti l'ambiente che disturbi, ogni luogo è buono: l'aperta campagna, l'alta montagna ed anche la propria stanzetta possono offrire un ottimo rifugio all'anima che cerca la pace in Dio. Padre Pio non esclude neppure il letto: «La meditazione del mattino, a causa della rigida stagione, potete farla anche stando a letto; il Signore si contenterà anche di questo» (Consiglio dato ad una malaticcia, Epist. II, 275).
Tralasciando le altre riflessioni che l'insegnamento di Padre Pio su tale tema suggerisce, facciamo soltanto notare che la sua voce ben si inserisce nel coro dell'insegnamento classico della perfezione cristiana. La meditazione è utilissima per salvarsi e assolutamente necessaria per iniziare seriamente il cammino della propria santificazione. È una verità così evidente, questa, che tutti i libri che trattano di perfezione cristiana ripetono gli stessi concetti: la nostra anima, fatta per Dio, tende naturalmente a lui; ma finché viviamo sulla terra, l'influsso dei sensi è così vivo e deleterio, che ci fa dimenticare il nostro fine. Chi non medita, o poco o tanto, finisce col perdere l'indirizzo naturale della vita e perciò esistono molti uomini che vivono abitualmente in peccato, anche se non hanno un cuore cattivo, semplicemente perché non riflettono. Difatti basta un corso di esercizi spirituali, una conferenza, una predica, l'incontro di una persona che li scuota intimamente, per capire il loro stato e mutar vita.
A ragione quindi S. Alfonso afferma che l'orazione mentale è incompatibile col peccato: «con gli altri esercizi di pietà, come dire il Rosario, l'ufficio della Beata Vergine, il digiuno, si può purtroppo continuare a vivere in peccato mortale; ma con la meditazione non si può rimanere a lungo nel peccato grave: o si lascerà la meditazione o si rinunzierà al peccato».
Un altro mezzo che può aiutare a vivere in grazia e raggiungere la perfezione cristiana è la lettura di libri che stimolano alla virtù. Chi vuole sapere quali scegliere e come leggerli per ricavare il frutto desiderato, non ha che da consultare i manuali di teologia spirituale e il proprio direttore.
Leggendo una lettera di Padre Pio ad una figlia spirituale (cf. Epist. II, 141-147) vi troviamo tutti i motivi tradizionali di questo esercizio tanto ordinario e tanto raccomandato.
Lo scopo di tutta la vita spirituale è la imitazione di Cristo, ma per seguirlo bisogna conoscerlo e la fonte più sicura è il Vangelo e le Lettere degli Apostoli (S. Paolo è l'autore «preferito» da Padre Pio, «guida e maestro della mia dottrina»): la lezione della Sacra Scrittura e degli altri libri santi e devoti ci fa «cercare» Dio; la lettura dei libri santi è «un forte scudo per rigettare tutti i pensieri malvagi da cui è combattuta l'età giovanile»; «ignorare la Scrittura è ignorare Cristo»; i libri spirituali sono come uno specchio che Dio ci pone davanti: «mirandoci in essi ci correggiamo dei nostri errori e ci adorniamo di ogni virtù [...]. Il cristiano deve spesso porsi davanti agli occhi i libri santi per iscorgere in quelli i difetti di cui si deve correggere e le virtù di cui deve abbellirsi per piacere agli occhi del suo Dio».
E conclude: «se la lettura dei libri santi ha tanta forza per convertire le persone mondane in spirituali, quanto non deve essere potente tale lettura per le persone spirituali per indurle a maggior perfezione?».
Per ricavare il tanto sperato frutto, esorta a spogliarsi dal «pregiudizio dello stile e della forma» ed a chiedere «il divino aiuto», che sarebbe la «breve preghiera» prima e dopo la lettura, consigliata dagli scrittori di ascetica.
Inculcava molto l'obbedienza, fin dai primi giorni che l'anima si affidava alla sua direzione; esortava alla frequenza della confessione e comunione: «Una sera papà mi domandò: «Ogni quanti giorni ti confessi?» «Ogni settimana» - è la testimonianza di una figlia spirituale -. «Eh!... così spesso? e che cosa dice al Padre?» «Dico i peccati!...» «Ma che peccati fai tu? Io ti ho sempre davanti e vedo che peccati non ne fai». Appena vidi il Padre, gli riferii il colloquio avuto con papà. Il padre mi portò un paragone così ad hoc che mi servì di esempio per tutti quelli che non vogliono confessarsi, perché dicono che non hanno peccati. Il Padre, dunque, mi disse: «Dirai a papà che una stanza ben pulita e anche non praticata, se ci ritorni dopo otto giorni, vedrai che c'è la polvere e ha bisogno di essere rispolverata»».
A chi venisse in mente che oggi tale suggerimento di Padre Pio non è più attuale, ricordiamo soltanto due documenti ecclesiastici: uno del 1974 (Rito della Penitenza): «Come diversa e molteplice è la ferita causata dal peccato nella vita dei singoli e della comunità, così diverso è il rimedio che la penitenza arreca [...]. Coloro che commettono peccati veniali, e fanno così la quotidiana esperienza della loro debolezza, con la ripetuta celebrazione della penitenza riprendono forza e vigore per proseguire il cammino verso la piena libertà dei figli di Dio [...]. Anche per i peccati veniali è molto utile il ricorso assiduo e frequente a questo sacramento. Non si tratta infatti di una semplice ripetizione rituale né di una sorta di esercizio psicologico; è invece un costante e rinnovato impegno di affinare la grazia del Battesimo, perché, mentre portiamo nel nostro corpo la mortificazione di Cristo Gesù, sempre più si manifesti in noi la sua vita. In queste confessioni, l'accusa dei peccati veniali deve essere per i penitenti occasione e stimolo a conformarsi più intimamente a Cristo, e a rendersi sempre più docili alla voce dello Spirito» (Premesse, n. 7).
La Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede (16 giugno 1972), dettando le Norme pastorali circa l'assoluzione sacramentale generale, al n. 12 ha: «Per quanto riguarda la pratica della confessione frequente o «di devozione», i sacerdoti non si permettano di dissuaderne i fedeli. Al contrario, facciano rilevare i frutti abbondanti che essa apporta alla vita cristiana, e si dimostrino sempre pronti ad ascoltarla, ogni qual volta i fedeli ragionevolmente ne fanno richiesta. Bisogna assolutamente evitare che la confessione individuale sia riservata ai soli peccati gravi; ciò, infatti, priverebbe i fedeli dell'ottimo frutto della confessione e nuocerebbe al buon nome di coloro che si accostano singolarmente al sacramento».
Padre Pio dosava con discrezione e discernimento la mortificazione corporale e spirituale: «Quando il Padre sciolse le adunanze settimanali [in comune], stabilì i turni di ascolto. Ogni giorno della settimana due o tre di noi venivano ricevute dal Padre e ne ricevevano la direzione». «Noi avremmo voluto - sono testimonianze del primo manipolo - che per tutte avesse impiegato il medesimo tempo, e brontolavamo e facevamo risentimento quando tratteneva di più qualcuna. Essendo ancora principianti non capivamo che non tutte le anime hanno gli stessi bisogni e quindi come l'agricoltore ha cure diverse per le piante, così un saggio direttore di anime deve adattarsi alle varie necessità di ciascuna di esse. Povero Padre!... quanta pazienza ha avuto per noi!».
Per evitare borbottamenti, invidie e gelosie, cercava di far capire il suo modo di agire diverso: «Fra noi sempre s'investigava perché il Padre a quella la trattava con più dolcezza, a quell'altra con durezza, ad altre tante preferenze ed altre niente [...]. «Vi dovete convincere - disse - che io non agisco per caso, ma per volontà di Dio». E così rimanevo tranquilla, anzi grazie a Dio, ho riconosciuto l'operato del padre ch'era sempre più giusto e santo».
A chi poteva sopportare le penitenze corporali gliele suggeriva, «per riparare i propri e gli altrui peccati, per aiutare Gesù nella salvezza delle anime»; a chi, invece, non credeva opportuno gliela sconsigliava: «Quando era quaresima domandavo per fare il digiuno e lui mi rispondeva: «Figlia mia, tu non ti reggi in piedi, che digiuno puoi fare?»».
A mano a mano che le anime progredivano nella virtù ci pensava lui stesso alla prova purificatrice: «Era una mortificazione singolare che lui solo sapeva dare [...]; per mezzi di contrasti provocati da lui, sbatteva l'interno dell'anima e ne faceva venire a galla tutti i moti, tutte le passioni buone per esercitarle nella pratica della virtù, le cattive per sradicarle».
Nel seguire Padre Pio - confessa candidamente un'altra figlia spirituale «si soffriva fortemente: le sue prove, le sue sgridate, il suo trattamento diverso delle anime, il cuore si spezzava dal dolore e ci voleva molta fede per dire che il suo operato così era giusto».
Sacrificio personale, preghiera, cura assidua, consigli, incoraggiamenti a chi veniva la tentazione di tornare indietro: «Qualche volta qualcuna di noi si angustiava per non poter progredire come altre con facilità, e il Padre diceva: «Alcune vanno in Paradiso in treno, altri in carrozza ed altri a piedi. Questi ultimi però hanno più merito degli altri e un posto maggiore di gloria in Paradiso»».
Suggeriva anche devozioni particolari ed aveva una predilezione per la virtù della purezza; era d'opinione che il padre spirituale non dovrebbe essere differente dal confessore, «altrimenti può capitare che mentre uno costruisce l'altro demolisce»; «tratteneva di più e parlava più a lungo con le anime principianti, tenendo più in disparte le proficienti e le perfette»; usava lo stesso trattamento anche con le suore, ed a qualche loro lagnanza rispondeva: «hanno la regola per santificarsi; osservino quella e diverranno perfette; ma voi principianti avete bisogno di tutto e di essere guidate passo passo».
La sua direzione non si restringeva al solo interesse spirituale, ma abbracciava tutta la vita con le sue attività: «Entrava in tutte le azioni della nostra giornata, in tutta la vita della nostra famiglia, per poterla indirizzare secondo le leggi cristiane morali e civili. Ognuna di noi doveva essere come un faro della famiglia; in tal modo tutta la famiglia finiva con indirizzarsi verso il Padre e riceverne le direttive».

Ricordava alle sue figlie spirituali che il Signore ci ha chiamati non solo per la nostra santificazione, ma anche per la salvezza del prossimo; il suo intento era di formare «poche anime e bene, le quali a lor volta saranno semenza per altre anime. Il venerato padre in questi ultimi tempi parlava poco, pochissimo in confessione con i suoi figli vissuti accanto a lui per moltissimi anni, io ne conto esattamente cinquantadue - testimonia una figlia spirituale -. Ad un mio doloroso lamento per tale privazione, rispose: «Vi ho parlato per tanti anni, mettete in pratica quello che vi ho detto»».

Il gruppetto, che Padre Pio amò sempre con amore di predilezione, divenne gruppo e poi numero senza numero; se il suo insegnamento orale a poco a poco diminuiva e spariva quasi del tutto alla fine dei suoi giorni, parlano ancora e con immenso bene spirituale le lettere inviate ai suoi figli, lavoro a cui si sobbarcava con vero spirito di apostolato e con tanto sacrificio, rubando le ore alle notti. Per chi desidera saperne meglio e di più suggeriamo la lettura e meditazione dei volumi dell'epistolario.

Noi crediamo di essere nel giusto se affermiamo che Padre Pio è nella scia dei direttori spirituali tradizionali di alta levatura, sempre utili a prestare aiuto ad un altro perché diventi sé stesso nella propria fede.

Alla ricerca dell'Amore

Il bene spirituale del prossimo non fa trascurare il bene dell'anima propria e l'itinerario di Padre Pio verso Dio è un continuo crescendo, anche se la sua vita intima è tale da non comprenderla neppure lui stesso e crede sia «meglio uno stretto silenzio che un mal parlare».
Fra tanto «buio pesto», di tanto in tanto appaiono anche «brevi sprazzi di luce» durante i quali riesce a descrivere in maniera realistica ed assai vivace le dolorosissime manifestazioni attraverso le quali si compie la totale purificazione, che prepara l'unione trasformante con Dio.
In mezzo alla furiosa tempesta che lo «sconvolge e rugge intorno e dentro», confessa sinceramente che mai gli manca il coraggio e che è «rassegnatissimo al divin volere».

La ricerca dell'Amore è il segreto animatore del suo vivere e del suo soffrire. Non vi è sofferenza più grande e dolorosa di quella che proviene dalla paura di offendere Dio con il peccato, ossia di negare l'amore, di non corrispondere all'amore. L'amore è la molla della sua attività, della sua fedeltà e corrispondenza, della perseveranza e della resistenza. Lo ha detto con una frase scultorea: «o morire o amare Dio».
D'altra parte Padre Pio è convinto che la sua vita non sarà altro che un continuo percorrere la via dolorosa. Prega, lavora e soffre all'ombra della croce, anzi inchiodato alla croce e sa che da essa mai discenderà. Cerca quindi il dolore e Dio l'ascolta; lo fa partecipare sì vivamente ai dolori di Gesù «da non potersi affatto né descrivere né immaginare» quanto siano acuti, benché, sopportati per amore, diventino se non dolci almeno tollerabili.
Rinnova spesso l'offerta di vittima e ne accetta senza mitigazioni di sorta tutte le conseguenze: «Dio mio, io ti chiedo la forza pel mio patire, nudo di ogni conforto».
L'unico sostegno valido nelle lotte continue ed incalzanti dello spirito, nei dubbi e nelle incertezze che attanagliano l'anima e nelle furiose tempeste che minacciano il naufragio - è la direzione. Le assicurazioni dei direttori riguardo alle predilezioni divine ed all'autenticità dei fenomeni che le accompagnano, si ripetono con la monotonia di un ritornello. Padre Pio le accetta senza discuterle, anche se si tratta di un'adesione libera della volontà e non di una persuasione convincente dell'intelligenza; è «una credenza secca, senza alcun conforto e sola bastevole a non gittare l'anima nella disperazione». «In tali rigori dell'Altissimo», egli si affida al direttore «qual bambino sulle braccia della madre».

LA SUA CROCIFISSIONE

Nel crescendo continuo dell'itinerario di Padre Pio verso Dio, tra i fenomeni più salienti e significativi, ne segnaliamo alcuni non ordinari: deliquio e letargo delle potenze dei sensi, ferite d'amore al cuore, tocco sostanziale, trasverberazione.
Sente così vivamente e in modo così misterioso la presenza di Dio nel centro dell'anima o «nella punta dello spirito», da precipitarlo ad ogni istante, in certi periodi, in un deliquio estremamente penoso e persino il fisico ne risente fortemente gli effetti.
Il 15 agosto 1918, in seguito ad altre ferite d'amore, riceve lo straordinario favore della trasverberazione che lo fa «spasimare assiduamente».
Mentre l'anima sale incessantemente e senza soste verso l'unione trasformante, ha presentimenti di qualcosa di nuovo.
La intimità con Dio si fa sempre più intensa ed esigente e l'anima vuole corrispondere e moltiplicare le sue affannose ricerche del sommo bene.
Il 20 settembre 1918 ha mani, piedi e costato traforati e grondanti sangue.
La «solitudine» e la «pace» del convento incominciano ad essere un dolce ricordo, rotte dal frastuono di folle disordinate giunte per la «grande notizia», che si allarga come macchia d'olio.

Una ferita sempre aperta

Gli studiosi di mistica, guidati dagli stessi mistici, parlano di «ferite d'amore» che, secondo S. Giovanni della Croce, sono «alcuni tocchi di amore i quali, come saette di fuoco, feriscono e trapassano l'anima, lasciandola cauterizzata con fuoco amoroso»; e di «piaghe d'amore», anch'esso un fenomeno simile alle ferite, ma più profondo, più impregnato d'amore e più durevole, che lo stesso S. Giovanni della Croce così distingue: «la piaga nell'anima si imprime maggiormente e quindi dura di più, mediante la quale l'anima si sente veramente piagata d'amore».
La «ferita» - spiega ancora il santo dottore - nasce nell'anima dalle notizie dell'Amato, che riceve dalle creature «le quali sono l'opera più perfetta di Dio»; la «piaga» viene prodotta in lei dalle notizie delle opere dell'Incarnazione del Verbo e dei misteri della fede che sono «le maggiori opere di Dio», ed inoltre appare in qualche modo all'esterno o trapassando fisicamente il cuore (trasverberazione) o manifestandosi in alcune parti del corpo, come alle mani, ai piedi ed al costato (stigmatizzazione).
La «trasverberazione», da alcuni chiamata «assalto del Serafino», è una grazia eminentemente santificatrice e - secondo la classica dottrina di S. Giovanni della Croce - l'anima, «infuocata di amore di Dio», è «interiormente assalita da un Serafino», il quale, bruciandola, «la trafigge fino in fondo con un dardo di fuoco», e l'anima è pervasa da soavità deliziosissime.
Padre Pio ricevette questa grazia la sera del 5 agosto 1918 e la descrive in questi termini in una lettera del 21 agosto, stesso anno, inviata al p. Benedetto, suo direttore spirituale: «In forza di [obbedienza] mi induco a manifestarvi ciò che avvenne in me dal giorno cinque a sera a tutto sei del corrente mese. Io non valgo a dirvi ciò che avvenne in questo periodo di superlativo martirio. Me ne stavo confessando i nostri ragazzi la sera del cinque, quando tutto d'un tratto fui riempito da un estremo terrore alla vista di un personaggio celeste che mi si presentava dinanzi all'occhio dell'intelligenza. Teneva in mano una specie di arnese, simile ad una lunghissima lamina di ferro, con una punta bene affilata e che sembrava da essa punta che uscisse fuoco. Vedere tutto questo ed osservare detto personaggio scagliare con tutta violenza il suddetto arnese sull'anima, fu tutto una cosa sola. A stento emisi un lamento, mi sentivo morire. Dissi al ragazzo che si fosse ritirato, perché mi sentivo male e non sentivo più la forza di continuare. Questo martirio durò, senza interruzione, fino al mattino del giorno sette. Cosa io soffrii in questo periodo sì luttuoso io non so dirlo. Persino le viscere vedevo che venivano strappate, e stiracchiate dietro di quell'arnese, ed il tutto era messo a ferro e fuoco. Da quel giorno in qua io sono stato ferito a morte. Sento nel più intimo dell'anima una ferita che è sempre aperta, che mi fa spasimare assiduamente» (Epist. I, 1065). E conclude la relazione con queste parole piene di angoscia: «Non l'è questa una nuova punizione inflittami dalla giustizia divina? Giudicatelo voi quanta verità sia contenuta in questo e se io non ho tutte le ragioni di temere e di essere in una estrema angoscia».
La risposta non si fece aspettare e chiara, illuminante, proprio d'un autentico maestro di spirito. P. Benedetto lo rassicurava: «Tutto quello che avviene in voi è affetto di amore, è prova, è vocazione a corredimere, e quindi fonte di gloria [...]. Egli, l'amore paziente, penante, smanioso, accasciato, pesto e strizzato nel cuore, nelle viscere, tra l'ombre della notte e più della desolazione nell'orto di Getsemani è con voi associato al vostro dolore e associandovi al suo [...]. Il fatto della ferita compie la passione vostra come compì quella dell'amato sulla croce. Verrà forse la luce e gioia della risurrezione? Io lo spero, se a lui così piace. Baciate la mano che vi ha trasverberato e stringetevi dolcissimamente cotesta piaga che è suggello d'amore» (Epist. I, 1069).
Padre Pio ringrazia il direttore per i suoi orientamenti e le sue assicurazioni e ritorna a parlare degli effetti del misterioso fenomeno: «Io mi veggo sommerso in un oceano di fuoco; la ferita che mi venne riaperta sanguina e sanguina sempre. Dessa sola basterebbe a darmi mille e più volte la morte». (Epist. I, 1072s); «da più giorni avverto in me una cosa simile ad una lamina di ferro che dalla parte bassa del cuore si estende fino a sotto la spalla in linea trasversale. Mi causa dolore acerbissimo e non mi lascia prendere un po' di riposo» (Epist. I, 1106).

Mani, piedi e costato traforati

La grazia santificatrice della trasverberazione in Padre Pio è come il preludio della grazia carismatica della stigmatizzazione, da Dio concessa a vantaggio degli altri. Nel nostro caso però la si può considerare anche piaga d'amore, perché è, per così dire, il completamento, l'estrinsecazione e la proiezione della ferita dell'anima.
I primi segni del prodigio apparvero nell'autunno del 1910. Rispondendo ad una lettera del p. Benedetto, l'8 settembre 1911 gli comunica anche un fenomeno che si va ripetendo da quasi un anno, «però adesso era un pezzo che più non si ripeteva», taciuto soltanto perché vinto «sempre da quella maledetta vergogna. Anche adesso se sapesse quanta violenza ho dovuto farmi per dirglielo!».
«Ieri sera mi è successa una cosa che io non so né spiegare e né comprendere. In mezzo alla palma delle mani è apparso un po' di rosso quanto la forma di un centesimo accompagnato anche da un forte e acuto dolore in mezzo a quel po' di rosso. Questo dolore era più sensibile in mezzo alla mano sinistra, tanto che dura ancora. Anche sotto i piedi avverto un po' di dolore» (Epist. I, 234).
In seguito scomparvero i segni, ma continuarono i dolori: «Dal giovedì sera - scrive il 21 marzo 1912 a p. Agostino - fino al sabato, come anche il martedì è una tragedia dolorosa per me. Il cuore, le mani ed i piedi sembrami che siano trapassati da una spada; tanto è il dolore che sento» (Epist. I, 266).
Poi il prodigio del 20 settembre 1918 e da allora rimase perennemente visibile. Padre Pio, umiliato e confuso da tale fenomeno, cerca di nasconderlo come può; ma se ne accorgono le sue figlie spirituali, se ne avvede la comunità, il padre guardiano ne dà notizia al padre provinciale p. Benedetto e lo invita a salire a S. Giovanni, sebbene non si muova.
Dopo ripetute richieste del direttore spirituale e superando la enorme ripugnanza che sentiva nel dover parlare di un favore così straordinario, il 22 ottobre 1918 gli invia un commovente e verace ragguaglio dell'avvenimento, che segna una tappa decisiva nella esistenza terrena:

«[...]. Cosa dirvi a riguardo di ciò che mi dimandate del come sia avvenuta la mia crocifissione? Mio Dio, che confusione e che umiliazione io provo nel dover manifestare ciò che tu hai operato in questa tua meschina creatura!
Era la mattina del 20 dello scorso mese in coro, dopo la celebrazione della santa Messa, allorché venni sorpreso dal riposo, simile ad un dolce sonno. Tutti i sensi interni ed esterni, non-ché le stesse facoltà dell'anima si trovarono in una quiete indescrivibile. In tutto questo vi fu totale silenzio intorno a me e dentro di me; vi subentrò subito una gran pace ed un abbandono alla completa privazione del tutto e una posa nella stessa rovina. Tutto questo avvenne in un baleno. E mentre tutto questo si andava operando, mi vidi dinanzi un misterioso personaggio, simile a quello visto la sera del 5 agosto, che differenziava in questo che aveva le mani ed i piedi ed il costato che grondavano sangue. La sua vista mi atterrisce; ciò che sentivo in quell'istante in me non saprei dirvelo. Mi sentivo morire e sarei morto se il Signore non fosse intervenuto a sostenere il cuore, il quale me lo sentivo sbalzare dal petto.
La vista del personaggio si ritira ed io mi avvidi che mani, piedi e costato erano traforati e grondavano sangue. Immaginate lo strazio che esperimentai allora e che vado esperimentando continuamente quasi tutti i giorni. La ferita del cuore gitta assiduamente del sangue, specie dal giovedì sino al sabato. Padre mio, io muoio di dolore per lo strazio e la confusione susseguente che io provo nell'intimo dell'anima. Temo di morire dissanguato, se il Signore non ascolta i gemiti del mio povero cuore e col ritirare da me questa operazione. Mi farà questa grazia Gesù che è tanto buono? Toglierà almeno da me questa confusione che io esperimento per questi segni esterni? Innalzerò forte la mia voce a lui e non desisterò di scongiurarlo, affinché per sua misericordia ritiri da me non lo strazio, non il dolore perché lo veggo impossibile ed io sento di volermi inebriare di dolore, ma questi segni esterni che mi sono di una confusione e di una umiliazione indescrivibile ed insostenibile [...]» (Epist. I, 1093s).
Un'immagine di Padre Pio risalente al 19 agosto 1919


Il parere della scienza medica

La notizia rapidamente fa il giro del mondo ed attira folle di curiosi, di fanatici, di fedeli pellegrini desiderosi e bisognosi di aiuto e per il corpo e per lo spirito. Non mancano visite di illustri personaggi e, per motivi ben diversi, a S. Giovanni Rotondo arrivano anche gli specialisti, per ordine dell'autorità ecclesiastiche, per esaminare le stimmate sotto l'aspetto scientifico.
La prima visita medica fu fatta nei mesi di maggio e luglio 1919 dal professor Luigi Romanelli, primario dell'ospedale civile di Barletta; nel mese di luglio dello stesso anno seguiva quella del professor Amico Bignami, ordinario di patologia medica nell'università di Roma; nel mese di ottobre arriva il dottor Giorgio Festa il quale, accompagnato dal dottor Romanelli, ripete la visita nel luglio dell'anno successivo 1920.
Il dottor Romanelli nella relazione del 15-16 maggio 1919 sulle «lesioni» del Padre Pio da Pietrelcina, «osservate in giorni ed ore differenti senza riscontrare alcuna modificazione», tra l'altro, afferma: «Nelle regioni palmari di ambo le mani e propriamente al livello del terzo metacarpo alla semplice ispezione notasi una pigmentazione della cute di color rosso vinoso per una superficie della grandezza di una moneta di bronzo da cinque centesimi per la mano destra e di due centesimi per la mano sinistra; a contorni lievemente franciati; di forma quasi circolare. Osservando bene, si nota che in quella zona invece della cute vi è un epitelio o meglio membrana lucente alquanto sollevata al centro, formando un piccolissimo bottoncino, da cui partono tante sottili strie più oscure e tendenti quasi al nero. Tutta questa zona è sollevata sui tessuti circostanti, che sono integri e normali. Alla palpazione, delicatamente fatta, non si percepisce al di sotto alcuna resistenza ossea, né muscolare, invece si nota che questa membrana è spiccatamente elastica e non vi è alcun foro o fuoriuscita di liquido. Nelle regioni dorsali di ambo le mani ed in punto quasi corrispondente alle prime, la cute presenta identiche note, senza però alcun sollevamento e senza strie.
Applicando il pollice nella palma della mano e l'indice nel dorso, coprendo in tal guisa le due zone descritte e facendo pressione, che riesce oltremodo dolorosa, si ha la percezione esatta del vuoto esistente fra le due dita, soltanto divisi dalle due membrane e da tessuto sottile e molle, che alla pressione dà l'idea di sabbia, mentre non si percepisce alcuna resistenza né da parte delle ossa, né dei tessuti molli esistenti in dette regioni.
Tutti i movimenti attivi e passivi delle mani riescono indifferenti e sono perfettamente fisiologici. Da ciò ne deriva che quelle zone pigmentate non sono altro che membrane, che ricoprono un foro, che si origina in una parte e termina nell'altra, per cui vi è discontinuità di tessuti nello spessore della mano» (n. 2).
Sul dorso d'ambo i piedi inoltre notasi una zona di forma circolare, della grandezza di una moneta di cinque centesimi, ricoperta anch'essa da membrana di colore rosso vivo e di aspetto lucente con contorni ben netti e precisi, circondato da tessuti normali. Alla palpazione la membrana è anch'essa elastica e lascia ricevere l'impressione del vuoto sottostante. Nelle regioni plantari notansi identiche zone con i medesimi caratteri. Comprimendo contemporaneamente sia nella regione dorsale che plantare appare manifesto che esiste uno spazio vuoto e che il piede è perforato e ricoperto su fori dalla membrana descritta. Come nelle mani così ai piedi tutti i movimenti delle articolazioni e delle dita sono normali e non provocano disturbo alcuno (n. 3).
Nell'emitorace sinistro e propriamente tra la linea mammillare e l'ascellare anteriore quasi in corrispondenza del 6°; spazio intercostale sinistro notasi una ferita lacera, lineare, secondo la direzione delle costole, lunga circa sette centimetri a margini netti e leggermente accartocciati, interessante i tessuti molli. All'ispezione la ferita pare diretta dal basso in alto ed alquanto da fuori in dentro con fuoriuscita di sangue arterioso [...]. I caratteri della ferita sono quelli d'una ferita da taglio (n. 4).
Non sono, secondo il mio modo di giudicare, classificabili tra le ferite comuni, siano esse d'origine infettive, siano traumatiche [...]. (n. 5).
[...]. Le lesioni del Padre Pio dal settembre fino ad oggi conservano lo stesso aspetto e si mantengono nel medesimo stato e quello che è più meraviglioso non producono alcun disturbo ed alcuna difficoltà nella funzione degli arti, come sono le ferite comuni. È da escludersi che la etiologia delle lesioni di Padre Pio sia di origine naturale ma l'agente produttore debba ricercarsi senza tema di errare nel soprannaturale e che il fatto costituisce per se stesso un fenomeno non spiegabile con la sola scienza umana (n. 6)».
Il professor Bignami, descritta brevemente la personalità e la configurazione delle ferite di Padre Pio, annota: «sulla natura delle lesioni descritte si può affermare che rappresentano un prodotto patologico, sulla cui genesi sono possibili le seguenti ipotesi:
a) che siano state determinate artificialmente e volontariamente;
b) che siano la manifestazione di uno stato morboso;
c) che siano in parte il prodotto di uno stato morboso e in parte artificiali».
Esclusa a priori la prima ipotesi - «non credo di poter ammettere senz'altro, e specialmente in mancanza di una prova diretta, la prima ipotesi» - il Bignami continua: «La seconda ipotesi, è almeno in parte, attendibile. È nota ai patologi la così detta necrosi neurotica multipla della cute di cui molti si sono occupati, ed è noto anche il fenomeno patologico della ematoidrosi [...].
Ora le alterazioni riscontrate nelle mani di Padre Pio non sono che il risultato di una necrosi superficiale dell'epidermide e forse delle parti più esterne del derma, e si possono ravvicinare alle necrosi neurotiche sopraccitate». Ciò non può spiegare, però, «la localizzazione perfettamente simmetrica delle lesioni descritte e la loro persistenza senza modificazioni notevoli. Ma questi fatti possono, a mio avviso - continua il Bignami - trovare una interpretazione soddisfacente nella terza ipotesi. Possiamo infatti pensare che le lesioni descritte siano cominciate come prodotti patologici (necrosi neurotica e multipla della cute) e siano state forse inconsciamente e per un fenomeno di suggestione, completate nella loro simmetria e mantenute artificialmente con un mezzo chimico, per esempio con la tintura di iodio.
Questa ci sembra l'interpretazione - conclude il Bignami - più attendibile dei fatti da me osservati. Ad ogni modo si può affermare che nulla vi è nelle alterazioni della cute che non possa essere il prodotto di uno stato morboso e dell'adozione di agenti chimici noti».

Tale interpretazione positivistica del fenomeno delle stimmate, avente una sufficiente spiegazione in cause naturali, fu impugnata energicamente dai dottori Giorgio Festa e Luigi Romanelli.
Il dottor Festa, in data 15 ottobre 1919 consegnava al padre generale dei Cappuccini una lunga e dettagliata relazione sulle stimmate. Il 15 luglio del 1920, assieme al dottor Romanelli, sale di nuovo a S. Giovanni Rotondo, per una seconda visita ed in seguito ne stende una relazione, datata da Bagni di Chianciano (13 agosto 1920).
Nel 1933 dà alle stampe un libro: Tra i misteri della scienza e le luci della fede, Roma 1933 (noi citiamo l'ed. del 1949), dove presenta i risultati delle sue investigazioni scientifiche su tutti i fenomeni che si riscontrano in Padre Pio ed a quello della stimmatizzazione dedica due capitoli, descrivendo la forma e indagando la genesi di queste lesioni tanto singolari.
«Quale la genesi di siffatte lesioni? - si domanda - Si tratta di prodotti patologici dei quali la scienza può con certezza affermare la natura e la origine, o non ci troviamo piuttosto dinanzi ad uno di quei fenomeni che le cognizioni da noi possedute non sono in grado di spiegare? (p. 176).
Debbo in primo luogo affermare che esse [lesioni] non sono il prodotto di un traumatismo di origine esterna, e che neppure sono dovute all'applicazione di sostanze chimiche potentemente irritanti... Non sono conseguenti ad un trauma, qualunque possa esserne la natura e meccanismo di azione, perché non presentano nessuna delle caratteristiche di queste lesioni; non sono dovute all'applicazione diretta di sostanze caustiche od irritanti, perché l'azione di queste non si limita mai strettamente, come nel nostro caso sarebbe avvenuto, alla zona lesa [...]. E, in ogni caso, una volta cessata l'azione della presunta causa vulnerante, sia essa di natura chimica o traumatica, sarebbe pur naturale che ne dovessero cessare anco gli effetti: sarebbe pur naturale, in altre parole, che da quel momento la reazione vitale della natura, se pur non soccorsa dai mezzi che l'arte consiglia, provvedesse per proprio conto e con le proprie energie, come noi sempre constatiamo in tutte le specie di lesioni, alla riparazione progressiva del male avvenuto. Come è dunque che le lesioni osservate nel Padre Pio, dopo tanti anni, conservano ancora così tenaci i caratteri, la vivacità e la freschezza del primo momento in cui si manifestarono? (p. 178).
[...]. Possono i segni che si osservano in lui essere considerati come frutto di autolesioni, sia pure involontarie, o, peggio ancora, come conseguenza di una volgare simulazione? Il fatto che egli ponga ogni studio perché questi sfuggano all'attenzione altrui, e che per l'animo suo costituiscono, non un motivo di compiacenza, ma una sorgente di vera mortificazione, congiunto al perfetto equilibrio che ad ogni istante si rivela tra le funzioni del suo sistema nervoso e le facoltà della sua mente, induce ad escludere in modo assoluto questa ipotesi (p. 179s).
E se deve ritenersi che, per i caratteri che presentano in se stesse e nei tessuti circostanti, non possano derivare dall'azione di agenti esterni, non vi potrebbe essere nel suo organismo uno stato morboso costituzionale, capace di determinarle spontaneamente?
Il dottor Festa respinge anche il semplice dubbio di questa ipotesi. Infatti le lesioni di Padre Pio non possono provenire dalla tubercolosi, prima perché dopo un lungo volger di anni «questa diagnosi non ha ricevuta conferma da ulteriori manifestazioni, e che anche oggi l'osservazione obbiettiva più scrupolosa, benché ripetutamente eseguita, non riesce ad accertare nulla di patologico nelle sue vie respiratorie»; e poi, «comunque, le lesioni che si osservano sulla sua cute non presentano nessuna delle caratteristiche proprie alle lesioni che talvolta si manifestano in soggetti tubercolotici, anzi non sono neppure da rassomigliare a semplici piaghe, essendo assolutamente prive delle secrezioni che a queste sono comuni (p. 182).
Inoltre le piaghe riscontrate su Padre Pio, data la loro perfetta simmetria, la loro localizzazione, il tempo così lungo trascorso dal momento della loro apparizione, senza aver mai dato luogo ad alcuna variazione nei caratteri che le distinguono, «inducono ad escludere in modo assoluto» l'ipotesi di «necrosi neurotica multipla della cute», consistente in «alterazioni necrobiotiche circoscritte, aventi sedi qua e là sulla superficie del corpo, ma in modo asimmetrico, in punti lontani dal centro impulsore della circolazione, facilmente sanabili col cessar della causa che le aveva prodotte» (p. 183).
Escluse tali ipotesi, potranno considerarsi come una conseguenza di «eventuali condizioni psicopatiche del suo organismo?... Potranno all'occhio indagatore dello scienziato apparire come il frutto della potenza suggestiva della sua mente?... » (p. 184).
«Le ricerche compiute sull'argomento - risponde il Festa - nella prima parte del nostro lavoro e le deduzioni che ne sono derivate, rispondono esaurientemente anche a questo quesito, dimostrano a luce meridiana quanto una tale interpretazione sarebbe essa pure in contrasto con la verità». Quindi «nessuna ipotesi - conclude -, è evidente, sarebbe possibile per giungere alla interpretazione naturale dell'avvenimento» (p. 185).
Nel 1968 il dottor Andrea Cardone di Pietrelcina (23 nov. 1876 - 28 apr. 1969), medico della famiglia Forgione ed anche di Padre Pio durante le sue permanenze a casa, dichiara di aver riscontrato «in ambedue le mani fori del diametro di circa centimetri uno e mezzo che attraversavano il palmo delle mani da parte a parte tanto da vedere la luce filtrare ed alla pressione i polpastrelli del mio indice e pollice si toccavano».
Una immagine delle stimmate di Padre Pio

Le stigmate di Padre Pio

Testimonianze di contemporanei

Alle relazioni scientifiche si affiancano le constatazioni dei superiori, confratelli e figli spirituali. Ne scegliamo qualcuna.
P. Damaso da S. Elia a Pianisi, congedato nel 1919 e recatosi a Foggia, incontra p. Basilio da Mirabello Sannitico, che gli si fa vicino e gli dice «con un tono di voce di chi comunica una cosa meravigliosa: «Damaso, non sai che Padre Pio ha le stimmate?». Ed io alquanto meravigliato, risposi: «Ma vattene!...», non perché non credessi alla bontà di Padre Pio, ma perché mi sembrava una cosa troppo bella. E poi mi resi conto ch'era vero. Vidi il molto reverendo p. Francesco da Fragneto l'Abate che era pazzo dalla gioia. Dovunque si andava, era un continuo domandare del fatto».
Il giorno delle ceneri del 3 marzo 1919, dopo essersi trattenuto alcuni giorni a S. Giovanni Rotondo, da Foggia il p. Benedetto da S. Marco in Lamis scriveva al p. Agostino da S. Marco in Lamis e, tra l'altro, gli diceva: «In lui [Padre Pio] non sono macchie o impronte, ma vere piaghe perforanti le mani e i piedi. Io poi gli osservai quella del costato; un vero squarcio che dà continuamente o sangue o sanguigno umore. Il venerdì è sangue. Lo trovai che si reggeva a stento in piedi; ma lo lasciai che poteva celebrare e quando dice Messa il dono è esposto al pubblico, dovendo tenere le mani alzate e nude» (Epist. I, 1129).
Il p. Pietro da Ischitella, provinciale dal 5 luglio 1919: «[...] Nella palma delle mani si osserva una crosta di color rosso cupo rotondeggiante, della larghezza di una moneta di cinque centesimi a contorni netti, in parte distaccata dalla cute. Una crosta identica e corrispondente, ma poco più piccola si trova nel dorso delle mani. Similmente nella pianta e nel dorso dei piedi. Nel torace a sinistra, si osserva una specie di croce, la cui branca più lunga, disposta obliquamente va dalla 5ª alla 9ª costola per circa sei centimetri mentre la branca trasversale è della metà circa più breve. La pelle di color rosso bruno è quasi sempre sanguinante da inzupparne parecchi pannolini al giorno [...].
Lasciando all'autorità competente di giudicare quanto d'insolito avviene in lui, posso riferirle che religiosi prudenti, che meglio di me conoscono intimamente il Padre Pio, testimoniano con massima sicurezza il pregio intimo del suo spirito. Sebbene nulla apparisce all'esterno, salvo una spiccata impronta di serenità ed ingenuità di angelo, il sovrumano si rivela in lui, specie nella eroica volontà di subire un continuo martirio. Da anni soffre senza mai lamentarsi, riuscendo anzi a nascondere le sue sofferenze interne ed esterne. La sua vita è la preghiera e l'unione intima, diretta, direi quasi ininterrotta con Dio [...]».
Il professor Amico Bignami, dopo la visita fatta a Padre Pio, ordinò di fasciare e suggellare le ferite alla presenza di due testimoni - leggiamo nelle memorie del p. Paolino da Casacalenda - e di controllare i suggelli delle stesse alla presenza degli stessi testimoni per otto giorni affinché si potesse avere la certezza che le ferite non erano state affatto toccate, molto meno curate; e dopo otto giorni stendere una coscienziosa relazione per dire se le ferite si erano rimarginate oppure no.
Il padre provinciale Pietro da Ischitella, con precetto d'ubbidienza e sotto giuramento, diede l'incarico a tre padri di eseguire il controllo. Ogni mattina aiutano Padre Pio a togliersi l'abito, la maglia e le calze, con sua immensa sofferenza nel mostrare quelle piaghe che cercava sempre di tener nascoste agli occhi di tutti: «Chi avesse potuto guardare in quei momenti il viso del Padre - è p. Paolino che parla - vi avrebbe letto chiaramente la grande ripugnanza ed insieme la più viva confusione del pallore che lo contrassegnava, come ho potuto costatare con i miei occhi».
Al contrario, i padri fiduciari del provinciale erano contenti ed eseguivano il mandato «tanto volentieri, che non si può immaginare», perché potevano «vedere bene la ferita del costato e quelle dei piedi e delle mani stesse, che non è tanto facile vedere, perché sempre coverte dai guanti».
Per lo spazio di otto giorni ogni mattino si toglievano le bende del giorno precedente, dopo aver verificato il sigillo, e si mettevano le nuove. L'ottavo giorno in cui furono definitivamente tolte «le fasce al Padre Pio, mentre egli celebrava la Messa, colava tanto sangue dalle mani, che fummo costretti a mandare - attingiamo sempre dalle memorie manoscritte di p. Paolino - dei fazzoletti, perché il Padre potesse asciugarlo. Nella relazione che mandammo al padre provinciale, sottoscritta dai testimoni e da me, nel riferire coscienziosamente che nei controlli giornalieri le fasce e i sigilli furon trovati sempre a posto, facemmo notare questa circostanza del sangue durante la Messa».

Ed ecco la relazione, senza data ma è chiaro che è del luglio 1919: «Noi qui sottoscritti attestiamo con giuramento che, avendo ricevuto dal m. r. padre Pietro da Ischitella l'ordine di fasciare le piaghe al padre Pio da Pietrelcina, sacerdote cappuccino, abbiamo costatato quanto segue: 1. Lo stato delle piaghe durante gli otto giorni è rimasto lo stesso, eccetto l'ultimo giorno in cui queste hanno preso un colore rosso vivo. 2. Ogni giorno, come si può rilevare dai pannolini che conserviamo, tutte le piaghe hanno dato sangue; l'ultimo giorno poi fu più abbondante, tanto che fummo costretti a mandare, mentre egli celebrava, un pannolino per asciugare il sangue che gli scorreva sul dorso delle mani. Si avverte che nel fare queste fasciature non abbiamo adoperato nessun medicinale e che pur avendo intera la fiducia nel Padre Pio, abbiamo tolto, per evitare qualunque sospetto, anche la boccetta di tintura iodica che egli conservava nella sua camera. In fede etc. Firmati: 1°; P. Paolino da Casacalenda, Sup. Capp.no; 2°; P. Basilio da Mirabello Sannitico; 3°; P. Ludovico da S. Marco in Lamis».

Gli atteggiamenti ecclesiastici

I superiori, circospetti, non parlavano e non volevano che si parlasse, ma la fuga di qualche notizia incominciava a farsi strada.
P. Benedetto in una lettera del 5 giugno 1919, indirizzata al p. guardiano di S. Giovanni Rotondo Paolino da Casacalenda, richiamava i sudditi alla prudenza e disapprovava con forti e chiari termini qualunque parola in più, «sia pure confidenziale, con secolari, dovendosi temere le indiscrezioni. Usata da noi la diligenza necessaria a non permettere e volere che le cose divine siano portate in piazza e più in pascolo a giornali, specialmente profani, possiamo accettare e adorare la permissione dell'Alto, come e quando vuole, nella divulgazione di ciò che serve alla gloria del Creatore e della creatura».
Lo stesso pensiero e le stesse direttive erano quelle del padre generale, ma leggendo «Il Mattino» - continua il p. Benedetto - «noto con afflizione che le indiscrezioni sono avvenute non senza colpa di cotesta comunità. So che direttamente non vi sarete prestati alla curiosità del corrispondente, ma certi particolari non si sarebbero saputi se non fossero stati manifestati dai religiosi ai secolari. La quasi «letterale riproduzione» della constatazione del Romanelli è certo un indizio di poca o niuna cautela, e fa dedurre che se n'è cercata e comunicata a qualcuno la copia conforme. Su ciò v'è l'offesa di Dio, perché si contravviene al volere del generale e mio».
«Voi [cioè p. Paolino da Casacalenda] che sapete - continuiamo a citare sempre dalla stessa lettera - quale confusione e ritrosia mostrò il Padre Pio nel dover subire la constatazione; sapete quale forza di autorità mi bisognasse per indurlo a fare l'ubbidienza, quantunque nel penetrale di una cella e con la protesta di dovermene servire alla pura gloria di Dio, osate prendere il segreto di un'anima con tutto il sentimento della sua delicatezza e l'offrite ai giornali quale oggetto di cronaca? È enorme!!! Proibisco d'ora innanzi «sub gravi», di comunicare a chiunque e per qualunque motivo, altre notizie intime di fatti, o avvenuti o che avverranno, ritenendo per fermo esser nocivo al decoro dell'abito e alla causa del nostro caro Padre ogni divulgazione originata da noi o in cui possa scoprire il nostro intervento».

Sulla stessa linea di riserbo cammina il nuovo provinciale p. Pietro da Ischitella, ma la notizia straordinaria fa il suo corso, contornata anche da bagliori non comuni, che suscitano meraviglia, scetticismo, cautela, ironia, curiosità, bisogno di aiuto spirituale, fede, richiamo a mutar vita, conversioni, gelosie, ricorsi, accuse, calunnie...

«La stampa «cattolica italiana» - scrive p. Pietro da Ischitella il 27 novembre 1919 - ha finora taciuto; ed ho voluto così perché ho deciso di non favorire alcuna pubblicità, e di permettere che uomini incompetenti abbiano a giudicare del fatto certamente straordinario. La diffusione della notizia fu fatta sul principio dai giornali non certamente clericali [...]. Forse le relazioni di simili giornali fecero maggiore impressione sul pubblico; alcune grazie che si riferirono alle preghiere del buon religioso alimentarono la fiducia dei credenti... ed il resto venne da sé.
Da ogni parte del mondo giungono domande di preghiere - spesso ringraziamenti di grazie ottenute; dalle più lontane regioni giungono visitatori guidati non da malsana curiosità, ma da vero spirito di devozione. Padre Pio confessa a volte fino a 16 ore al giorno. Vi furono nella buona stagione migliaia di comunioni al giorno, non mancarono visite di persone distinte, ritorni alle pratiche religiose, conversioni alla fede. E tutto ciò costituisce per me il vero prodigio ed attesta che il Signore ha voluto rivelare questo suo Eletto per il bene delle anime e per la gloria del suo Nome».
Ecclesiastici insigni vengono o mandano ad osservare e consultare il fatto, ormai reso di pubblico dominio.

Il segretario di Stato card. Pietro Gasparri scrive al padre guardiano di S. Giovanni Rotondo (19 novembre 1919), raccomandando la famiglia Rosi che si reca colà, «attratta dalla fama di santità del Padre Pio» e desidera «confessarsi a lui e ricevere la santa comunione dalle sue mani».
E poi due cose ancora desidera il cardinal di Stato: «1. Dica al Padre Pio che ogni giorno nella santa Messa preghi fervidamente il Signore per il Santo Padre e per me affinché ci illumini e ci sorregga nei tanti guai in cui ci troviamo; 2. Una mia nipote cugina è venuta a visitare il padre Pio [Antonia Veda], desidera avere un oggetto qualsiasi personale del Padre; me lo mandi per mezzo della famiglia Rosi».
Il provinciale Pietro da Ischitella confessa al padre generale di non sentirsi in grado di pronunziare un giudizio su Padre Pio: «La Grazia del Signore opera straordinariamente in un soggetto umano ed è difficile distinguere gli atti ispirati da Dio da quelli che non procedono da divina ispirazione». Però piuttosto che esprimere personali convinzioni, in materia tanto delicata, preferisce presentare impressioni di altri degni di fede.
Ne scegliamo una: quella del vescovo di Melfi e Rapolla, monsignor Alberto Costa (14 settembre 1919) che riduce le sue impressioni ad una sola: «A quella cioè di aver parlato e conversato con un Santo. Le stimmate, sulle quali ho potuto imprimere caldi baci, e che, dopo gli esami di persone competenti, non si possono ragionevolmente mettere in dubbio, sono bocche troppo eloquenti, come quelle che rappresentano il suggello dell'amore, che Dio stampa su di coloro che a Lui sono più cari e più intimamente uniti per la Fede viva e per la Carità ardente. Ma oltre le stimmate, altre circostanze concorrono a confermare in me la detta impressione: a) il tenore di vita del Padre Pio; b) la semplicità e l'umiltà, senza ombra di sforzo e di affettazione; c) l'unanime consenso dei padri e dei laici ; d) gli effetti che si ottengono mercé l'esempio e l'opera di Padre Pio».
Non potendo riportare tutto il testo della lettera, ne trascriviamo soltanto l'ultimo paragrafo: «Ex fructibus eorum - diceva il divin Maestro - cognoscetis eos. Anime innumerevoli, che tornano a Dio; risveglio della fede, riforma dei costumi, frequenza ai ss. sacramenti, da parte specialmente di uomini che da anni ed anni ne erano lontani; persone che, a centinaia e centinaia, ogni giorno, da ogni provincia d'Italia e non solo, ma dall'estero scrivono ringraziando Padre Pio dei favori ottenuti e raccomandandosi alla sua intercessione per nuove grazie, per nuovi favori.
Di tanto e di altri, che troppo lungo sarebbe ora riferire, è frutto la mia impressione, che ha acuito il desiderio di far ritorno in questa casa imbalsamata dal profumo delle eccezionali virtù del giovane religioso [...]Oh, voglia il Signore conservare a lungo quest'angelo in carne, a bene delle anime, a confusione degli empi!
Padre Pio che, per dirla coll'Alighieri «par che sia una cosa venuta - di Cielo in terra a miracol mostrare», continui a diffondere l'aroma della santità in mezzo a questo secolo paganeggiante; poiché, come bene fu detto, solamente un Santo potrà ristorare le rovine morali della società presente [...]».
Ma non tutti la pensano e giudicano allo stesso modo: chi è «apertamente avverso» ed è «malamente commentato» per il suo «atteggiamento»; altri «studiosamente» evita di recarsi a S. Giovanni Rotondo, proferendo frasi «non certamente benevole» verso i religiosi; e con p. Paolino incomincia l'«initium dolorum» dei guardiani di questo convento.
Il detto padre, saputo da fonte sicura l'inoltro di ricorsi formali contro la comunità, si dice pronto a difendere sé e la sua famiglia religiosa «con documenti inoppugnabili, officiosi ed officiali» per dimostrare la loro «completa prudenza» e il loro «supremo disinteresse».
Durante il periodo di cui ci stiamo occupando (1918-1922) accuse - per usare una voce morbida - anche le più «banali» contro i frati e Padre Pio se ne sfornano alacremente, ma un papa - Benedetto XV - che giudica Padre Pio «un uomo veramente straordinario, che Dio manda di tanto in tanto sulla terra per convertire gli uomini», ben informato dai suoi inviati speciali e fidatissimi, ammonisce che «è bene andar cauti, ma è male mostrarsi tanto increduli» ed invita un monsignore, che oltre a mostrarsi di diverso parere parlava anche male dello stimmatizzato, a portarsi a S. Giovanni Rotondo per riparare lo strappo alla carità: «Eccellenza reverendissima, è certamente male informata, per cui le ordino di recarsi dal Padre Pio per convincersi della sua mancata carità e del suo errore» (1).
Benedetto XV morì improvvisamente il 22 gennaio 1922.

(1) Cf. Casa Sollievo della Sofferenza 27 (1-15 ott. 1976) 18s

Fine di una direzione

Il 2 giugno 1922 il Santo Uffizio (oggi Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede), presi in esame i fatti avvenuti in questi ultimi anni nella persona del religioso cappuccino Padre Pio da Pietrelcina, ritiene necessario che intorno al detto Padre si stia in osservazione: evitare ogni singolarità e rumore intorno alla sua persona, non fargli celebrare più la Messa ad ora fissa ma a qualunque ora e di preferenza «summo mane» ed in privato, non dia benedizione sul popolo, per nessun motivo mostri le così dette stimmate e ne parli o le faccia baciare, e tutta la condotta del detto padre sia uniformata a tali direttive dichiarando apertamente con le parole e i fatti, tanto ai confratelli quanto agli estranei, il suo fermo volere di essere lasciato tranquillo ad attendere alla propria santificazione.
Deve avere un altro direttore spirituale diverso dal p. Benedetto da S. Marco in Lamis, col quale dovrà interrompere ogni comunicazione anche epistolare.
Per la esatta esecuzione di tali ordini, inoltre, sarebbe necessario che il Padre Pio fosse allontanato da S. Giovanni Rotondo e collocato in altro luogo fuori della sua provincia religiosa, per esempio in un convento dell'alta Italia col desiderio che un tale trasloco si effettuasse subito; tuttavia, perché qualche difficoltà di ordine locale potrebbe opporsi a questo immediato allontanamento, si comanda almeno di preparare la cosa in modo da trovarsi quanto prima in grado di compierla.
Infine da parte di Padre Pio o di altri per lui, non si risponda più a quelle lettere che gli verranno indirizzate da persone devote per consigli, per grazie o per altri motivi.
Al p. Benedetto si dà ordine di consegnare la cronistoria da lui scritta intorno al Padre Pio, con l'ingiunzione di astenersi dal parlare o dallo scrivere intorno al detto padre e dal mantenere con lui corrispondenza anche semplicemente epistolare.
Padre Pio chinò il capo ed obbedì e lo stesso fece il p. Benedetto, dichiarando la sua sottomissione agli ordini emanati, per mezzo del padre provinciale Pietro da Ischitella: «Sul riserbo del p. Benedetto da S. Marco in Lamis posso attestare che, sebbene egli conoscesse lo spirito di Padre Pio fin dal 1909, da quando cioè era neoprofesso e fosse l'unico ad averne la continua scienza, nessuno mai, a cominciar da me [...], seppe fuori e dentro lo stesso ambiente religioso alcuna cosa dell'anima sua. Eppure era tale l'aura della pietà e il devoto raccoglimento da causare l'ammirazione dei religiosi e di quanti l'avessero visto»; dopo la stimmatizzazione, «nulla lasciò d'intentato perché se ne omettesse la pubblicità», ordinando ai religiosi, se interrogati, di tacere con tutti e «specialmente coi giornalisti, ai quali proibiva rigorosamente di concedere qualsiasi intervista»; «non nega che, diffusa la fama, dové convenire con chi gli chiedeva informazioni sui fatti storicamente certi, come le piaghe, la temperatura elevatissima fino a raggiungere i 48°;, due scrutazioni di cuore con cui salvò due povere anime dallo stato sacrilego, ecc. Ma egli riferiva tali fatti oggettivamente senza spiegarli e non ricorda mai di aver confermato le voci di guarigioni miracolose, non essendo da lui personalmente constatate»; non scriveva nessuna cronistoria o biografia di Padre Pio, ma aveva soltanto «raccolto materiale e date storiche riferentisi all'evoluzione del suo spirito, con l'intento di scriverne in futuro la vita, se avesse santamente finito il suo corso mortale e Dio si fosse degnato di dire la sua parola sulla tomba»; aggiunge che «per quanto ha potuto e saputo, con l'aiuto divino, ne ha diretto l'anima come si è presentata, e, in generale, di non essere stato facile a credere allo straordinario. Protesta però che ciò non toglie di aver potuto errare e perciò con animo grato accoglie le disposizioni della Santissima, vi si uniforma con divota ed incondizionata sommissione, promettendo per la divina grazia di farne tesoro».
Convinto che si chiudeva definitivamente un capitolo della sua attività spirituale, p. Benedetto per venti anni (morì nel 1942) non rivide e non parlò mai più col suo «dolcissimo» e «carissimo Piuccio».

Affogato nel pelago immenso dell'Amore

Padre Pio percorre senza soste il faticoso cammino della trasformazione in Dio: la trasverberazione del cuore e le stimmate visibili e sanguinanti del corpo proiettano una luce sulla via dolorosa da percorrere. Malgrado le difficoltà, anzi la impossibilità di tradurre esattamente in termini umani le esperienze divine, l'epistolario di questo periodo è ricco di notizie sulla fenomenologia mistica (cf. Epist. I, 1081-1085).
L'amore e il dolore continuano ad essere le «coordinate» della nuova tappa.
L'amore nella duplice dimensione: verticale verso Dio ed orizzontale verso il prossimo: «sono divorato dall'amore di Dio e dall'amore del prossimo» (Epist. I, 1247). Ha un valore di sintesi la frase scritta il 29 gennaio 1919: «mi sento affogato nel pelago immenso dell'amore del Diletto» (Epist. I, 1122), e l'altra del 20 novembre 1921: «Dio per me è sempre fisso nella mente e stampato nel cuore» (ivi, 1247).
Non meno incisive sono le espressioni rivelatrici della dimensione orizzontale dell'amore che «lo divorava». Ne citiamo qualcheduna: «Stanco ed immerso nella estrema amarezza, nella desolazione la più disperata, nell'angustia la più angosciosa non già di non poter, no, ritrovare il mio Dio, ma di non guadagnare tutti i fratelli a Dio» (ivi, 1152); «sono vertiginosamente trasportato a vivere per i fratelli» (ivi, 1243).
La tappa che sta percorrendo è un continuo susseguirsi di «grandi voluttà spirituali e di grandi desolazioni spirituali», rendendosi appena conto «chi è l'autore di tanto godere e di tanto soffrire contemporaneamente».
L'anima avanza abitualmente nella caligine dolorosa della notte oscura. Un dubbio atroce di non fare mai cosa gradita a Dio, anzi la quasi certezza di offenderlo in tutto, la tortura e la fa agonizzare; «è un chiodo che mi schianta il cuore e buca il cervello». I giorni trascorrono «in una estrema straziante agonia».
Le frequenti ed accorate richieste di aiuto ai direttori sono una prova eloquente di questa fase veramente dolorosa. Offre a Gesù, ed a lui solo, «l'estremo mio martirio», non cercando sollievo umano alle sue atrocissime pene interiori, ma rendendo con animo lieto grazie a Dio che «di questo mio stato nulla fa trapelare al di fuori».
In questo periodo è abbondantemente illustrata anche la direzione spirituale sia passiva che attiva. Il ricorso ai direttori da parte sua si fa sempre più angoscioso e appassionato; unica tavola di salvezza nell'imperversare della tempesta è l'autorità, l'unico faro di luce nella foschia caliginosa della notte dello spirito è l'autorevole parola di chi lo guida, anche se le categoriche e ripetute dichiarazioni ed assicurazioni non riescono ad acquietare in profondità lo spirito sconvolto, aderendovi con «la sola volontà, nuda e cruda, senza conforto e senza refezione di spirito», senza mai «trovare un po' di sostegno e di riposo».
Il panorama, invece, cambia totalmente quando si invertono le parti e Padre Pio diventa direttore dei suoi direttori. Quando dirigeva gli altri, riusciva egregiamente a risolvere quegli stessi problemi che così atrocemente torturavano il suo spirito, privandolo d'ogni conforto; ha veramente il dono di sollevare, fortificare, illuminare ed orientare le anime da lui dirette. Egli sa scoprire le predilezioni divine, i tranelli satanici, le debolezze umane. Sa trovare in ogni caso la parola adatta, il consiglio saggio e prudente, il principio e la norma illuminante. Ha il segreto di tranquillizzare le coscienze, egli che non trova mai serenità e tranquillità per se stesso.
Senza falsi rispetti umani, senza tentennamenti e senza eufemismi si esprime con autorità, sicuro di quanto afferma e certo dell'efficacia delle soluzioni proposte: «questa è la verità, e tutta la verità»; «questa è tutta la verità»; «credete a me che vi ho parlato da parte di Gesù»; «il mio monito, che alla fin fine non è mio ma di Gesù».

UN TRASFERIMENTO MAI ESEGUITO

Quello che diremo in questo capitolo a noi sembra il cozzo di due ragionamenti.
Chi pecora si fa, il lupo se la mangia - dicono alcuni. L'innocente calunniato e perseguitato deve essere difeso a tutti i costi; accada quel che accada, se chi amministra la giustizia è sordo o si muove lentamente.
Nell'elenco delle tante virtù che Dio richiede ai suoi, c'è anche la santa pazienza - rispondono altri - ben radicata nella protezione divina. Anche se si perde tutto, rimane la fede e tutto si salva: finché siamo pecore, vinciamo e, ancorché circondati da numerose orde di lupi, riusciamo ad avere il sopravvento, perché il pastore non pasce i lupi ma le pecore.
E, in questi casi, chi si crede in obbligo di eseguire ordini emanati e ricevuti, si imbatte in una via sbarrata dai «decisi a tutto» e si trova, come suol dirsi, tra l'uscio e il muro; l'uno ti preme e l'altro ti schiaccia.

La folla cresceva sempre più

Padre Pio «non parlava mai di se stesso» - appunta il padre guardiano di S. Giovanni Rotondo, Paolino da Casacalenda, nelle sue memorie manoscritte - e neppure in «questa circostanza così solenne della sua vita» credette necessario accennargli la sua crocifissione, «anzi faceva tutto il possibile per occultare il dono di Dio, cercando di coprire le mani con l'abito prima di aver escogitato il mezzo dei guanti».
Constatato il fatto, padre Paolino scrive al provinciale, invitandolo a recarsi al più presto a S. Giovanni Rotondo, ma questi - con meraviglia e disappunto del padre guardiano - non si muove, ma spedisce soltanto una lettera, in cui «pareva di non dare tanta importanza a quello che era avvenuto; solo raccomandava di mantenere sopra di esso il più grande silenzio».
Il «grande» silenzio del provinciale nella preoccupazione prudenziale del guardiano divenne «massimo», con la calda preghiera, a chi frequentava il convento e conosceva il prodigio, di non propagare la notizia; ma nel giro di pochissimi giorni a S. Giovanni Rotondo, «in segreto», moltissimi già conoscevano il fatto anche se se ne parlava in famiglia e non in pubblico; e si estese a parecchi della vicina città di S. Marco in Lamis.
La notizia incominciò a comparire sui giornali ai primi di maggio 1919 e l'intento dell'articolista non era quello di far conoscere il fatto straordinario, ma di richiamare, invece, l'attenzione della Santa Sede, mentre provocò quel che non desiderava, richiamando l'attenzione di altri giornali che pubblicarono la «sensazionale notizia e la diffusero nel mondo».
Nel mese di giugno arriva per preparare «un pezzo» per «Il Mattino» il primo inviato speciale di tanti che, per mezzo secolo, giungeranno a S. Giovanni Rotondo per scrivere del frate che tutto il mondo conosce e che perciò «fa notizia» sempre.
Da questo articolo molto commosso e molto
erudito, in cui si parla di Padre Pio, «figura purissima fatta di fede veramente e intensamente sentita», stralciamo soltanto due brani che confermano la riservatezza del padre guardiano e la non disponibilità di Padre Pio a parlare con i giornalisti e tanto meno a concedere interviste.
Padre Paolino è un uomo «dall'aspetto intelligente, dai modi cortesi, sui 45 anni.Egli mi ha accolto con grande amabilità, ma con sorriso non meno amabile, mi ha dichiarato di non potermi accordare né una intervista, né un privato colloquio».
«Potrebbe almeno dirmi qualche cosa intorno alla vita di Padre Pio; potrebbe dirmi qualche sua impressione personale...».
«Non posso, ho assoluto divieto da parte dei miei superiori. Lei comprenderà: non ci troviamo in una situazione delicatissima: qualsiasi «avance» da parte nostra, una parola azzardata, un'idea sinceramente manifestata potrebbero dar luogo ad equivoco che non può né deve esservi.Noi siamo nient'altro che degli spettatori, così come lo sono tutti i fedeli che qui convengono, di quanto opera Padre Pio.Noi constatiamo quanto avviene, ma non ci è dato dire neppure ciò che è nell'animo nostro» (Il Mattino, 20-21 giugno 1919).
Prima che la «solita folla» lo avesse sottratto a qualsiasi altra occupazione, per mezzo di un amico, il giornalista poté avvicinare Padre Pio e «la prima impressione» che ne ricevette fu - passato il primo momento di curiosità - «quella di una persona profondamente buona. Buona la sua figura così come buona è l'intonazione della sua voce».
Appena l'amico mi ha presentato - continua l'inviato speciale, Renato Trevisani - Padre Pio mi si è rivolto dandomi cordialmente la mano. È bene però premettere che a PadrePio è stata taciuta la mia qualità di giornalista.In caso contrario mi sarebbe stato molto difficile il poter essergli vicino. Dai suoi modi, dallo stile dei suoi discorsi, si rivela che egli ama assai poco la «réclame»: non ha caro che intorno alla sua persona si addensi la curiosità del pubblico: è felice soltanto con le anime semplici che vanno a lui con sincerità di fede, affrante da un dolore, racchiudenti nella divinità ogni loro voto, ogni loro speranza.
La sua persona non presenta, ad una prima osservazione, niente di eccezionalmente particolare: il pallore delle sue guance spicca in contrasto con i capelli castani e la barba bruna, tagliata a forma quasi rettangolare. Nel complesso Padre Pio ha l'aspetto di un convalescente; quando cammina sembra trascini con uno sforzo il suo corpo stanco; gli occhi neri, grandi, tagliati a mandorla appaiono come lievemente velati; le dita delle mani, uscenti dai mezzi guanti che ne coprono le palme, bianchissime, affusolate, rivelano un corpo consunto» (ivi).
Come si allarga la conoscenza della notizia, così aumenta l'accorrere della gente a S.GiovanniRotondo, tanto che un corrispondente locale nota che il suo paese «sta minacciando di diventar famoso in tutta Italia. Sino a ieri cominciava ad esserlo disgraziatamente pel brigantaggio che infieriva nelle campagne: oggi lo è per l'esistenza di un umile fraticello in concetto di santità».
Aveva inizio quel vasto movimento di folle che avrebbero assediato il convento e gli avrebbero tolta la pace fino allora goduta. Il 3 giugno 1919 lo stesso Padre Pio - scrivendo a p. Benedetto da S. Marco in Lamis - conferma la nuova situazione che si stava creando attorno al convento, fino allora tanto solitario: «Non ho un minuto
libero: tutto il tempo è speso nel prosciogliere i fratelli dai lacci di satana. Benedetto ne sia Dio. Quindi vi prego di non affliggermi più assieme agli altri col fare appello alla carità, perché la maggior carità è quella di strappare anime avvinte da satana per guadagnarle a Cristo. E questo appunto io fo assiduamente e di notte e di giorno [...]. Qui vengono persone innumerevoli di qualunque classe e di entrambi i sessi, per solo scopo di confessarsi e da questo solo scopo vengo richiesto. Vi sono delle splendide conversioni. Quindi si rassegnino tutti a contentarsi del semplice ricordo che di tutto fo assiduamente dinanzi a Gesù» (Epist. I, 1045s).
Per far fronte alla nuova situazione, si cercò di organizzare un servizio, perché tutto procedesse con un certo ordine, «nel senso che - spiega il padre guardiano - mentre si cercava di non esporre tanto il Padre Pio, dall'altro lato la folla non rimanesse scontenta».
Poiché, grazie a Dio, tutta la gente che voleva parlare con Padre Pio - continuiamo ad attingere dal manoscritto di p. Paolino - chiedeva di confessarsi, venivano impegnati tutti i sacerdoti disponibili, «ma la folla cresceva sempre più»: la chiesetta del convento «era zeppa di gente che andava, veniva, entrava, usciva senza sosta e che guardavano intorno per vedere se loro venisse fatto di incontrarsi con qualche religioso e rivolgere a lui tutte le domande che credevano opportuno. Né verso la metà di maggio, specialmente verso la fine, mancarono le cosiddette compagnie di pellegrini, i quali recandosi nei santuari vicini dell'Incoronata, San Marco in Lamis e San Michele, sostavano nel nostro convento ed accrescevano il numero delle persone e insieme la confusione. Si trattava - e non esagero - di migliaia di persone, che pur di vedere il Padre, oltre al denaro speso per il viaggio, si assoggettavano ai più duri sacrifici in un paese dove mancavano alloggi ed altre attrezzature del genere, e si adattavano a dormire sulla nuda terra oppure sulle rocce della montagna, quando non avevano la possibilità di andare via il giorno stesso del loro arrivo».

Uno spettacolo edificante lo dava in modo particolare il gran numero degli uomini che, pur di confessarsi da Padre Pio, aspettavano fino a dieci e quindici giorni, «dormendo sulla nuda terra nei campi intorno al convento e rimanevano contenti, pur rilasciando i loro interessi materiali, in quei mesi di giugno, luglio ed agosto, nei quali come è noto a tutti, i contadini sono obbligati ad attendere alla mietitura ed alla trebbiatura del grano».
E Padre Pio cosa faceva in mezzo a questo tumulto di gente? La risposta al più delle volte citato e qualificato testimone: «Padre Pio che da diversi mesi aveva ricevuto la confessione «utriusque» (il permesso cioè di poter confessare uomini e donne) confessava esclusivamente gli uomini in sagrestia, mentre tutti gli altri padri della comunità e i forestieri si davano il turno in chiesa per confessare le donne e con essi anch'io passavo delle ore nel confessionale per disimpegnare questo dovere».
Solamente nelle ore pomeridiane, verso l'imbrunire, Padre Pio, assieme agli altri confratelli, potevano riposare dal lungo e faticoso lavoro delle confessioni. Così nei mesi di maggio, giugno, luglio e agosto.

Ad Ancona: con prontezza e prudente audacia

Di fronte a tale movimento di massa, il S. Ufficio vigila e segue con occhio attento il fenomeno e il 31 maggio 1923, «premessa una inchiesta sui fatti che vengono attribuiti a Padre Pio da Pietrelcina [...], dichiara non constare da tale inchiesta della soprannaturalità di quei fatti, ed esorta i fedeli a conformarsi nel loro modo di agire a questa dichiarazione».

Il 24 luglio 1924, ricordato il precedente monito col quale «volle ammonire i fedeli che da un'inchiesta sui fatti [...] nulla si era potuto provare della pretesa soprannaturalità, «assunte altre informazioni da molte e sicure fonti», ammonisce "di nuovo con più gravi parole i fedeli ad astenersi dal mantenere qualsiasi relazione, sia pure epistolare a scopo di devozione con il suddetto Padre»».
Nel 1926 Giuseppe De Rossi [Emanuele Brunatto] pubblica un opuscolo su Padre Pio (1), senza alcun permesso dell'autorità ecclesiastica. Il 23 aprile, stesso anno, lo stesso organo della Santa Sede fa noto e dichiara che la detta pubblicazione «a termini del can. 1359, 5°; del codice canonico, è «ipso iure» proibita». Ed in tale occasione «crede opportuno di richiamare alla memoria dei fedeli le precedenti sue dichiarazioni ed istruzioni, relative al sunnominato Padre [...], perché i fedeli sappiano esser loro dovere di astenersi dall'andare a visitare e mantenere con lui relazioni anche semplicemente epistolari».

Lo stesso concetto, le stesse parole, lo stesso richiamo vengono ripetuti in un altro «comunicato» dell'11 luglio 1926 per l'opuscolo di Giuseppe Cavaciocchi e del 22 maggio 1931 per il libro di Alberto Del Fante (2).
Il «monito» direttamente non contiene nessuna censura su Padre Pio, ma intende mettere in guardia i fedeli dall'attribuire carattere di soprannaturalità a fatti che tale carattere non hanno; e costatato che l'entusiasmo di molti continua anche dopo le ripetute ammonizioni, lo stesso organo della Santa Sede ritorna sull'argomento insistendo presso i fedeli che si astengano dal visitare Padre Pio e dal corrispondere con lui per lettera a scopo di devozione.
Padre Pio si chiude in un grande riserbo ed in perfetta obbedienza accoglie la decisione, però non tutti seguono il suo esempio. La interpretò nel giusto senso la comunità di S. Giovanni Rotondo, quando il guardiano annotava nel suo diario: «Dal giornale apprendiamo un nuovo monito del Santo Ufficio, vietante che i fedeli si rechino a visitare il Padre Pio, a scopo di devozione. Dalla comunità tutta è stato appreso senza lamenti e neppure desiderio di dargli interpretazione di sorta, riguardano più i visitatori che noi. Parecchie persone, scrivono lamentando il fatto, pur con ogni soggezione all'autorità».
Altri, invece, vi scorsero gli effetti di accuse e calunnie di alcuni, che a tutti i costi volevano che Padre Pio sparisse da S. Giovanni Rotondo e il popolo insorse energicamente, disposto anche a gesta sanguinarie, perché ciò non avvenisse.
Di questo tribolato periodo cerchiamo di vedere brevemente il comportamento di Padre Pio, dei Cappuccini e del popolo.
Nell'agosto del 1922 il padre generale dei Cappuccini si sente ripetere con viva insistenza la raccomandazione di cambiar convento a Padre Pio, ma di tale trasferimento si parlava sin dal 1919, come apprendiamo da una lettera del provinciale Pietro da Ischitella (10 ottobre 1919) al generale dei Cappuccini: «Fui a S. Giovanni Rotondo dal 7 all'11 settembre. A titolo di cronaca riferisco la poco simpatica accoglienza avuta alla sera del mio arrivo. Il giorno precedente era giunto a S. Giovanni Rotondo il molto reverendo p. Benedetto da S. Marco in Lamis in compagnia di monsignor Valbonesi. La presenza del molto reverendo ex provinciale e di un vescovo sconosciuto fece nascere il sospetto che si volesse portar via Padre Pio e bastò a qualcuno che venisse il sospetto, perché la voce si spargesse in tutto il paese in modo allarmante. Le assicurazioni stesse di Padre Pio non valsero a convincere la folla che, preceduta dal concerto musicale, si era recata al convento per una protesta quasi minacciosa, sicché quando arrivai fui circondato da tutta quella gente e ci volle del bello e del buono per indurla a più miti consigli. Nonostante tutte le mie e le altrui assicurazioni, il convento fu guardato durante la notte. Non erami fatto mai illusione sulla possibilità di allontanare il Padre Pio da S. Giovanni Rotondo, ma l'episodio potrà servire a persuadere chi non conoscesse bene [questa popolazione]».
Uno degli attori principali di questo turbolento periodo - Francesco Morcaldi - nel 1922 scrive: «Nuovi ordini, nuova insurrezione popolare, che ebbe stavolta manifestazioni di eccezionale violenza. La folla era esasperata. Essa cominciava ad identificare [...] i sobillatori [...]. Chi pagava per tutti era naturalmente Padre Pio. Una mattina, al termine della Messa, da un gruppo di giovani che affollavano il presbiterio, uno si mosse armato di rivoltella e la puntò alle spalle di Padre Pio dicendo che «voleva farlo restare morto a S. Giovanni Rotondo, piuttosto che li avesse abbandonati». Fra le grida di spavento dei fedeli si riuscì, a stento, a disarmare lo scalmanato. Eccesso pazzesco, senza dubbio, e brutale della passione popolare, che ne aveva abbastanza di lottare contro l'ignoto per difendere il suo Giusto così noto!» (3).
Dal settembre dello stesso anno 1922 il nuovo padre guardiano di S. Giovanni Rotondo è il p. Ignazio da Ielsi. Situazione non invidiabile la sua!
Alle ripetute e vive insistenze che venivano da Roma di «cambiar convento al Padre Pio», il padre provinciale (28 giugno 1922) si affrettava ad assicurare al padre generale l'impegno suo di mettere in esecuzione nel miglior modo i comandi ricevuti per «concretare il tanto desiderato cambiamento».
Nel frattempo arriva a S. Giovanni Rotondo la notizia che è imminente l'ordine di trasferire Padre Pio ed il popolo si organizza, si agita e minaccia e il 16 ottobre - sempre del 1922 - il signor sindaco invia al padre guardiano una seconda lista di cinquanta fogli pieni di firme, significandogli che, «data la grande venerazione che la cittadinanza nutre per Padre Pio, venerazione ingigantita dalle quotidiane ed infinite opere di bene spirituali e caritative che il prefato Padre Pio prodiga in paese e fuori, il suo allontanamento darebbe luogo a seri e gravi inconvenienti, essendo la popolazione decisa ad impedire con tutti i mezzi il ripetuto trasferimento [...]. Rassegno fin da ora ogni responsabilità di tutte le incresciose conseguenze e del perturbamento dell'ordine pubblico che inevitabilmente apporterebbe il cennato provvedimento, responsabilità che ricadrebbero intere sull'autorità che mettesse in non cale le giuste e legittime rimostranze di questa popolazione».
Nel maggio del 1923 il superiore locale è avvisato officiosamente che a Padre Pio verranno fatte ancora severe proibizioni e restrizioni; il 31 maggio viene emanato un comunicato e lo stesso giorno la cronaca del convento annota: «Il guardiano attende ordini dal provinciale e questi risponde: «Gli ordini verranno»».
Gli ordini puntualmente arrivano ed il padre provinciale cerca di disporre gli animi, scrivendo a Padre Pio: «Si prepari a bere l'amaro calice come l'ho dovuto sorbire io". Padre Pio rimane calmo, come già dinanzi ad altre comunicazioni del genere; dice soltanto: «Non ci facciano aspettar tanto. Ci dicano presto che cosa dobbiamo fare».
Il 17 giugno il padre guardiano riceve gli ordini, «brevi» e «secchi»: che il Padre Pio non celebri più in pubblico e ad ora fissa, ma dica la santa Messa nella cappella interna del convento, non permettendo a persona alcuna di assistervi e che lo stesso Padre Pio non risponda più né per sé né per altri a quelle lettere che gli vengono indirizzate da persone devote per consigli, per grazie o per altri motivi.
P. Ignazio da Ielsi, esecutore immediato di tali incresciose disposizioni, scende a Foggia e manifesta le sue apprensioni, temendo una sommossa popolare. Il padre provinciale, pur condividendo le stesse perplessità, mortificatissimo, non può far nulla; il padre guardiano, in compagnia dei suoi preoccupanti pensieri, ritorna al suo convento e la mattina del 25 giugno Padre Pio celebra privatamente nella cappella interna del convento.
Nel pomeriggio una fiumana di gente si riversa in convento e non certo per congratularsi con la comunità religiosa: «Il popolo, - scrive p. Ignazio (25 giugno 1923) al padre provinciale - notato che Padre Pio non celebrava più in pubblica chiesa, ha ritenuto questa disposizione come offensiva e quasi una punizione a lui inflitta e, persuasa che ciò fosse un primo provvedimento, al quale altri più gravi sarebbero seguiti, si è sollevata in comizio, tenutosi in piazza, nel quale fu deliberato di nulla lasciare intentato per ottenere la revoca del detto provvedimento; ed il sindaco a nome della stessa popolazione ha spedito telegrammi di protesta alle autorità ecclesiastiche.
Una fiumana di popolo di circa tremila persone, accompagnata da musica e dalle autorità civili e militari, salì al convento, chiedendo assicurazioni sia per la non rimozione del Padre Pio, sia per la celebrazione della Messa in pubblico. Il sindaco ed altre autorità del paese vennero in convento a persuadermi di sospendere l'esecuzione dell'ordine; ed io, a fin di evitare altri gravi inconvenienti e per sedare l'eccitazione del popolo, ho creduto bene accondiscendere alla loro richiesta facendo di nuovo celebrare Padre Pio in pubblico, sino a quando vostra paternità non mi comunicherà altre istruzioni in proposito».
Padre Pio il giorno seguente, 26 giugno, celebra di nuovo in chiesa; il prefetto di Foggia, informato dal sindaco di S. Giovanni Rotondo, pur riconoscendo l'incompetenza nel revocare o sospendere gli ordini dei superiori maggiori, prega il padre provinciale di non insistere a far celebrare Padre Pio privatamente, per non causare di nuovo perturbazione dell'ordine pubblico.
L'8 agosto 1923 Padre Pio viene a conoscenza dell'ordine (datato 30 luglio) di trasferirsi ad Ancona, presso il provinciale di quella provincia, a disposizione del padre generale.
Il 31 luglio il padre generale comunicava al provinciale delle Marche di aver inviato l'ubbidienza al Padre Pio da Pietrelcina, «destinandolo a cotesto convento di Ancona e sottomettendolo completamente a lei, affinché disponga di lui come meglio giudicherà nel Signore [...] Devesi evitare che si formi attorno a lui quella solita corrente di voci esagerate e false sul suo conto. Potrà destinarlo - continua la lettera - in un convento remoto della provincia, ed è pregato di vigilare affinché non si accostino a lui persone curiose, o che possano creare un ambiente nocivo alla quiete di lui e degli altri. Si usi la massima riservatezza col pubblico, e non si risponda alle lettere indirizzate al Padre Pio. Se su qualche punto nascesse qualche dubbio mi scriva e mi si chiedano chiarimenti. Mi tenga anche informato di ciò che può accadere di straordinario».
Il padre provinciale delle Marche, convinto che la sua responsabilità non è poca e costatato che Ancona «non è luogo adatto per i santi», pensa di destinare il «prezioso dono» al convento di Cingoli: «in cotesto convento remoto - scriveva il 4 agosto 1923 al padre guardiano - potrebbe vivere in pace e fare un po' di bene a cotesti collegiali (confessare)», e concludeva la lettera con un interrogativo: «il convento di S. Giovanni Rotondo è circondato - giorno e notte - dai devoti e interessati, i quali non vogliono che Padre Pio si allontani. Riusciranno quei frati a farlo partire?».

(1) DE ROSSI G., Padre Pio da Pietrelcina, Roma 1926.
(2) CAVACIOCCHI G., Padre Pio da Pietrelcina. Il fascino e la fama mondiale di un umile e grande francescano, Roma 1924; DEL FANTE A., A Padre Pio da Pietrelcina, l'araldo del Signore, Bologna 1931. Cf. Acta Apostolicae Sedis 15 (1923) 356; 16 (1924) 368; 18 (1926) 186, 308; 23 (1931) 233.
(3) MORCALDIF., Lettera alla Chiesa, Lipsia 1929, p. 6s.

Gli eventi hanno risposto di no.

Intanto i superiori di Foggia danno al padre generale le «più ampie assicurazioni» che tutto si porrà in opera «con prontezza e prudente audacia, perché sia effettuato il trasloco del Padre Pio da Pietrelcina, dal convento di San Giovanni Rotondo a quello di Ancona, secondo l'obbedienza».
Però..., ricordata la presa di posizione dei sangiovannesi, si fa noto ai superiori di Roma che il convento è vigilato di giorno e di notte e che il sindaco «dichiarò, in presenza del consigliere provinciale e di alcuni assessori, essere sua precisa intenzione di tenere in permanenza entro il convento due guardie campestri, con l'incarico di suonare la sirena d'allarme ogni qualvolta avessero notato qualche movimento insolito o sospetto, specie all'avvicinarsi di automobili portanti persone non conosciute ed esercitarne rigoroso controllo; alla cinturia fascista avrebbe data la consegna di correre armata in convento al primo avviso della sirena, allo scopo di frustrare ogni tentativo di allontanare il Padre Pio».

Di fronte a tale situazione, sarà un «compito «audace» - riflette e fa riflettere il vicario provinciale Luigi d'Avellino (il provinciale era gravemente malato) - ma verrà eseguito lo stesso, «con ogni cautela ed a costo di qualunque sacrifizio», ponderando circostanze e studiando il piano più spedito e sicuro, incaricando persone prudenti e serie per la esecuzione.
Di fronte a tale «rapporto» circa «l'affare di Padre Pio» ed un suo trasferimento immediato, ferme restando le precedenti disposizioni, si prende la saggia risoluzione di differire l'operazione.
Mentre tanta gente si occupa e si preoccupa di Padre Pio, egli tutto questo lo sa, ma non si sconcerta di nulla: segue la sua via tranquillo ed obbediente al minimo cenno - è il suo padre guardiano che lo dice - non fa osservazione a qualsiasi innovazione al suo consueto modo di vivere; il solito sorriso sfiora sempre il suo labbro, la solita cordialità continua ad usare con tutti; «una cosa sola sembrami scorgere: la preoccupazione in lui se assolve alla sua missione di bene nelle anime. Per me sì - risponde affermativamente a se stesso il padre guardiano - perché è un esempio di sacrificio della propria volontà a quella dell'autorità».
Serenità conquistata e non calma del macigno, perché anche Padre Pio è un uomo che soffre, segue con preoccupazione ciò che per lui e attorno a lui succede, e uniforma la propria volontà, a goccia a goccia, penosamente ma generosamente a quella di Cristo, crocifisso per obbedienza.

Vengo con lei, quando e dove vuole

Le acque sono torbide ed agitate; voci insistenti circolano in paese per una imminente rimozione di Padre Pio; la popolazione potrebbe essere spinta a eccessi deplorevoli; la matassa s'ingarbuglia ma se la situazione diventa difficile non è certamente per colpa di Padre Pio o dei suoi confratelli.
Venuto a conoscenza del trasferimento, egli con la sua calma abituale risponde al padre vicario provinciale. «Eccomi qui, pronto a fare la volontà dei superiori; solo chiederei in grazia, se fosse possibile, di rimanere in qualche convento della madre provincia».
Comunicati gli ordini al superiore locale Ignazio da Ielsi, «religioso esemplare» e di carattere «freddo e sistematico», «punto smettendo il suo carattere refrattario alle emozioni, ha risposto ch'era pronto a tutto, che anzi, ad evitare conseguenze clamorose e disastrose, preferirebbe si allontanassero per ora i collegiali, con il pretesto delle vacanze, e poi, quando si noterà maggiore calma, effettuare il trasloco del Padre Pio e dei religiosi superstiti, che porterebbero seco quel poco di prezioso che c'è in suppellettili, arredi sacri, ecc. ed abbandonare completamente il convento».
Dagli appunti di diario dello stesso p. Luigi d'Avellino stralciamo una pagina chiarissima, su cui come in uno specchio rifulge la figura di Padre Pio, senza contorni di ombra, rispondendo anticipatamente ad affermazioni inesatte di cui diremo appresso.
1°; - L'obbedienza mandata al Padre Pio porta la data del 30 giugno 1923, con la clausola «donec aliter»; cioè il Padre Pio doveva mettersi a disposizione del provinciale di Ancona, fino ad ulteriori disposizioni [...].
2°; - Nella prima quindicina di agosto 1923 reduce da Roma, portai personalmente l'obbedienza al Padre Pio, gliela mostrai e lessi, ordinandogli di mettersi a mia disposizione per essere consegnato al provinciale delle Marche. Il Padre Pio chinò il capo e con le braccia conserte mi rispose: «Eccomi a sua disposizione; partiamo subito; quando sono con il superiore sono con Dio» Allora soggiunsi: «Ma verresti subito con me? È notte inoltrata, dove andiamo?».
«Non so. Vengo con lei, quando e dove vuole vostra paternità».
Era mezzanotte. Dominando la mia emozione, risposi tranquillo: «Ho ordine soltanto di comunicarti l'obbedienza, la quale sarà esecutiva solo quando riceverà da Roma ulteriori disposizioni». Riferii al generale [dei Cappuccini] il colloquio avuto, e mi fu risposto: «ordo suspendatur donec aliter».
3°; - Il Padre con lettera scritta di suo pugno, a me diretta in data 27 agosto 1923, così si esprimeva: «Credo non ci sia bisogno di dirle quando io, grazie a Dio, sia disposto a ubbidire a qualunque ordine mi venga notificato dai miei superiori. La voce loro è per me quella di Dio, cui voglio serbar fede fino alla morte; e, coll'aiuto suo, ubbidirò a qualsiasi comando per quanto penoso possa riuscire alla mia miseria».

Il 12 agosto 1923 Padre Pio, preoccupato di quanto sarebbe potuto accadere, indirizzava al sindaco Francesco Morcaldi la seguente lettera: «I fatti svoltisi in questi giorni mi hanno profondamente commosso e mi preoccupano immensamente perché mi fanno temere che io possa essere involontariamente causa di luttuosi avvenimenti per questa mia cara cittadina. Io prego Iddio che voglia allontanare tale iattura, riversando su di me una qualunque mortificazione.
Però se, come ella mi ha comunicato, è stato deciso il mio trasferimento, io la prego di adoperarsi con ogni mezzo perché si compia la volontà dei superiori che è volontà di Dio ed alla quale io obbedirò ciecamente.
Io ricorderò sempre cotesto popolo generoso nelle mie povere ed assidue preghiere, implorando per esso pace e prosperità e quale segno della mia predilezione, null'altro potendo fare, esprimo il mio desiderio che, ove i miei superiori non si oppongano, le mie ossa siano composte in un tranquillo cantuccio di questa terra.
Con osservanza mi dico tutto suo nel dolce Signore, Padre Pio da Pietrelcina».
Il popolo sta all'erta e minaccia. Il padre guardiano la sera del 15 agosto 1923, Assunzione di Maria Vergine, annota sul diario: «La serata viene chiusa con la minaccia di otto fascisti armati di randello, per far conoscere che il Padre Pio deve rimanere a S. Giovanni Rotondo, altrimenti: «Crocifiggeremo Padre Pio - dicono - e padre guardiano!. «Cerco di calmarli e li rimando tranquilli, ma ostinati e pronti ad agire secondo il loro modo di vedere. Una tale sorpresa non è piaciuta neppure a Padre Pio, ma pazienza!».
Ed è proprio la pazienza dei frati che spinge fino all'audacia i malevoli, «consci purtroppo della nostra delicata posizione [...]; ora si vuol di più, si pretende l'insostenibile» (p. Luigi Avellino, 15 agosto 1923).
Il padre generale, a cui si rivolgeva il vicario provinciale, cerca di comprendere e di farsi comprendere e informa meglio sulla realtà delle cose: rispetta il dispiacere di tutti i confratelli per l'allontanamento di Padre Pio dai conventi della provincia, ma non dipende da lui; egli ha proposto la provincia di Ancona, come quella che meglio, a suo giudizio, può accogliere Padre Pio, ricevendo, però, l'obiezione che quella provincia è troppo vicina e quindi non sa se siano per venire altri ordini; cambiare in modo «estremamente energico» P... Pio «non sarebbe pienamente conforme ai consigli venuti dall'alto [...] non si assumono responsabilità! [...] Se mai in seguito al nostro agire, energico e risoluto, accadesse un qualche doloroso incidente, ne verrebbe attribuita a noi tutta la responsabilità e noi ne avremmo la generale disapprovazione. Atteniamoci adunque ad una grande prudenza e non siamo troppo frettolosi a compiere un dovere, che non esige troppa fretta» (18 agosto 1923).

Venite a portarmi via?

Il malumore ed il fermento arriva ai paesi vicini, i cui abitanti partono e si recano al convento per salutare dicono - Padre Pio per l'ultima volta prima che si perda per destinazione ignota.
Ogni movimento dei frati viene notato e commentato ed è persuasione comune che essi non ci tengono a stare lassù per forza e che la loro permanenza in quel convento è quasi assolutamente insostenibile, perché non intendono rappresentare la parte di vittime incoscienti nelle mani di una folla armata.
Intervenga pure il direttore generale della Pubblica Sicurezza, perché prima si risolve tale spinosa situazione tanto meglio è per tutti: Padre Pio e i religiosi «sono a disposizione dell'autorità ecclesiastica e per essa agli ordini della potestà civile, al minimo cenno [...]. Disposti a qualunque sacrificio, a condizione, beninteso, che ci salvino la vita» (p. Luigi d'Avellino al padre generale, 27 agosto 1923).
Sua Eccellenza Emilio De Bono, capo della Polizia, invia a S. Giovanni Rotondo un suo funzionario, Carmelo Camilleri, per gli accertamenti ed i provvedimenti del caso, tra cui, se lo avesse ritenuto opportuno, quello di coadiuvare alla discreta emigrazione di Padre Pio; mentre il prefetto di Foggia si crede in dovere di informare il funzionario della situazione delicatissima, affermando che l'allontanamento di Padre Pio avrebbe potuto arrecare gravi perturbamenti all'ordine pubblico e violente reazioni.
«Giunto al convento - testimonia il funzionario -Padre Pio, che non mi conosceva e che non sapeva lo scopo della mia visita, appena al suo cospetto, mi disse: «Venite a portarmi via? Sono ai vostri ordini, però vi prego di agire con discernimento, non per me, ma perché non vorrei che si facesse del male a quei poveretti che cercano di difendere la mia permanenza a S. Giovanni Rotondo». Rimasi profondamente colpito dalla facoltà di intuizione del frate e volli rassicurarlo. Egli mi rispose: «Capisco che siete galantuomo».
Lo scopo della mia missione si propagò subito per S. Giovanni Rotondo ed immediatamente una turba di fedeli, con a capo il podestà cavalier Francesco Morcaldi [...] , si precipitò al convento tumultuando. Per calmare gli animi eccitati, assicurai che la mia visita non aveva alcun carattere inquisitorio e che nessun ordine di trasferimento era stato ancora emanato. In tale opera di persuasione fui efficacemente coadiuvato dal cavalier Morcaldi.
La folla si placò, ma nei più scalmanati rimase un acceso senso di diffidenza, tanto che una scorta vigilante di contadini fu posta permanentemente a guardia del convento, decisa a tutto per evitare il trasloco del Padre».
Il signor Camilleri si trattenne diversi giorni a S. Giovanni Rotondo ed accertatosi dei fatti con prove «documentali irrefutabili e testimonianze degne della maggior fede», rientrò a Roma per riferire l'esito delle sue indagini al generale De Bono, soggiungendo che «chiunque avvicina Padre Pio resta privo di qualsiasi volontà di perseguitarlo», e che per portarlo via dal convento di S. Maria delle Grazie «sarebbe stata necessaria una azione di forza con sicuro spargimento di sangue».
Il generale De Bono rimase talmente colpito dalla relazione del suo funzionario, assieme alle circostanze di fatto ed altre prove raccolte, che «si rese promotore, a mezzo di autorevoli emissari, della revoca dell'ordine di trasferimento dato dalle autorità ecclesiastiche», conclude Camilleri (1).
E così stando le cose, «per ora - comunica il padre generale al vicario provinciale Luigi d'Avellino - non è da pensare al trasloco di Padre Pio».
Tra accuse e difese, tatticismi, ordini e contrordini, minacce, sospiri e speranze l'anno sta per spirare; i fedeli che gremiscono la chiesetta del convento ascoltano la Messa della mezzanotte santa, celebrata solennemente da Padre Pio, e quasi tutti ricevono la comunione.
Il nuovo anno non promette calma e serenità ed inizia con la stampa, che deve appurare - secondo il corrispondente del «Messaggero» di Roma - il modo di vivere del Padre Pio e difendere gl'Italiani, accusati dai Francesi di aver creato «il Santo» per far denaro. Il servizio non è esente dalle solite inesattezze.
Nel febbraio muore a 44 anni di sincope cardiaca, il p. provinciale Pietro da Ischitella e la provincia perde in lui un prezioso elemento: «Buono, assai buono, tanto da amareggiare il suo cuore per non amareggiare quello degli altri [...]. In cinque anni di governo ciò che maggiormente gli causò dispiacere inaudito fu la questione intorno a Padre Pio da Pietrelcina».
(p. Ignazio da Ielsi, nel suo diario, 24 febbraio 1924).

Come primo consigliere, succede nel governo della provincia p. Luigi d'Avellino in qualità di vicario. Pesante eredità!
Nell'aprile dello stesso anno gli viene ordinato di «allontanarsi dalla provincia per essere sostituito da un forestiero, acciò possa con meno preconcetto e più energicamente risolvere la questione di Padre Pio».
Il giovedì santo, 17 aprile, sale a S. Giovanni Rotondo lo stesso p. Luigi, rassegnato ma dispiaciuto e mortificato, per comunicare alla fraternità il nome del nuovo superiore della provincia: p. Bernardo d'Alpicella.
Dai superiori di Roma «è stato dichiarato che essi non hanno alcun rilievo da fare al vicario provinciale ed alla provincia, ma che l'ordine di allontanamento è venuto dall'alto, per motivi che facilmente si suppongono. Da circostanze e fatti antecedenti è lecito dedurre che il provvedimento sia stato preso per risolvere la questione del trasferimento di Padre Pio, quasi che il p. Luigi opponesse ostacoli per scongiurarlo» (p. Luigi d'Avellino, Memoriale, novembre 1924).

(1) Cf. CAMILLERI C., Padre Pio da Pietrelcina, Città di Castello 1952, pp. 86-88.

TRE VISITATORI APOSTOLICI

A S. Giovanni Rotondo in quattro anni arrivano tre visitatori apostolici per inquisire e sulla comunità religiosa e sul comportamento di qualche ecclesiastico del clero diocesano.
La lotta «sorda ed aperta dei soliti» continua e i dicasteri romani interessati mandano i loro fiduciari per capirci qualcosa.
La luce che sprigiona dalle virtù di Padre Pio non è offuscata dalle nubi con le quali si tenta vanamente di intralciare il suo cammino e la sua ascensione.
Chi ha la fortuna di avvicinarlo ne resta «entusiasta» e parte sollevato dalle miserie e dolori deposti ai suoi piedi.
Coro, chiesa e cella: questa è la vita di Padre Pio.
Va in coro per le mattinali preghiere; dopo la celebrazione della santa Messa, vi ritorna per il ringraziamento che dura circa un'ora: indi si reca, se vi sono persone che attendono, in confessionale; terminate le confessioni, si ritira in cella a leggere e studiare.
Nel pomeriggio ritorna con gli altri confratelli al coro per il vespro e vi si trattiene, per conto suo, circa un'ora in santa meditazione. Se vi è da confessare, va in chiesa e poi ritorna alla propria stanza: «Sempre per lui la stessa vita - continuano le relazioni bimestrali - lo stesso lavoro, la stessa ritiratezza. Si può davvero affermare essere egli morto al mondo!».

Guardiano poco zelante

Il 20 aprile 1924 il guardiano del convento di S. Giovanni Rotondo, Ignazio da Ielsi, annota nel suo diario: «Il p. Celestino da Desio riceve il mandato di informarsi intorno ad alcune cose riguardanti la comunità»; ordina a tutti i suoi sudditi di mettersi a sua completa disposizione e il giorno dopo (21 aprile) è chiamato a deporre ed a rispondere personalmente «sul movimento dei forestieri, per quelli che rimangono in convento, come si trattengono col Padre Pio, come è quando il Padre Pio dice la Messa, se egli chiede elemosine, con chi si consiglia. Chi sono le famiglie che più lo stimano, chi si fosse avvantaggiato economicamente attorno a lui. Come va l'amministrazione, quanto se n'è avvantaggiata la provincia. Come la pensano i frati del Padre Pio, se fanno ostruzionismo per non farlo partire. Per conto mio ho risposto esaurientemente, esibendo l'amministrazione completa di ciò che è stato mandato a Padre Pio. Pronto a tutto, ma senza nascondere la responsabilità morale e penale, cui si può andare incontro per rimuovere Padre Pio».
Nel pomeriggio dello stesso giorno il padre guardiano accompagna il visitatore apostolico dal signor sindaco ed ha la non gradita notizia che il primo cittadino ha querelato l'arcivescovo di Manfredonia per diffamazione, specie per l'accusa di aver ricevuto somme di denaro da Padre Pio per difenderlo e che vive alle spalle di Padre Pio. «È certissimo, ed io posso deporre - afferma coscienziosamente il padre guardiano - che il sindaco Morcaldi non ha mai ricevuto e mai mandato nulla a nessuno del convento».
Mentre gli altri inquisiscono, litigano e si querelano, Padre Pio «con meravigliosa pazienza contenta tutti», nonostante stia poco bene, debolissimo e l'assedio dei forestieri, da qualche giorno, sia continuo.
Il p. Celestino da Desio si recò a S. Giovanni Rotondo in veste di visitatore apostolico anche nel 1922, per far luce su accuse contro i frati, infamati col «mezzo vile della calunnia» ano-nima.
Arrivato in convento il 23 luglio, il 29 dello stesso mese stende la relazione, in cui fra l'altro si dice: «Dalle indagini da me fatte coscienziosamente è risultato che i detti Padri sono puramente vittime dell'invidia di alcuni malintenzionati, i quali vedono di mal occhio il molto bene che compiono quei religiosi, e per paralizzarlo si divertono ad inventare cose totalmente false [...]. I religiosi del convento sono tutti, compresi i fratelli laici, persone scelte, il fior fiore della provincia monastica di S. Angelo, di una condotta e di una osservanza così regolare, che edifica il visitatore; tra loro vi è sempre stata perfetta armonia; armonia che si rivela subito a chi ha la fortuna di passare, non dico alcuni giorni, ma anche poche ore in loro compagnia».
Il p. Celestino da Desio non è il primo visitatore apostolico che sale a S. Giovanni Rotondo e non sarà neppure l'ultimo.
Nel maggio del 1920 arriva monsignor Bonaventura Cerretti, primo visitatore apostolico, arcivescovo di Corinto e segretario per gli Affari Ecclesiastici Straordinari e, lieto della visita, prima di lasciare il convento ringrazia il padre superiore della «cordiale e veramente francescana accoglienza, in modo particolare il reverendo Padre Pio», alle cui preghiere «vivamente» si raccomanda.
Due mesi dopo Benedetto XV mandava p. Besi, postulatore generale dei Passionisti, e il suo medico personale professor Bastianelli e l'incontro con Padre Pio avvenne il 12 luglio 1920.
Per p. Besi fu «una visita giocondissima» e giudica Padre Pio un «privilegiato da Dio come la Gemma [cioè S. Gemma Galgani], anzi più».
Benedetto XV, in seguito alla relazione dei due illustri personaggi e suoi cari amici, cambiò in certezza l'opinione e si schierò dalla parte di Padre Pio.
Un anno dopo (25 ottobre 1921) andò a visitare Padre Pio per inquisire anche il card. Augusto Sili, prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura e delegato apostolico del santuario di Pompei, accompagnato da monsignor De Angelis della stessa delegazione pontificia.
Nel Registro dei visitatori illustri del convento (f. 7) leggiamo: «Ho con molta soddisfazione spirituale visitato il reverendo Padre Pio nel convento di S. Giovanni Rotondo. Raccomando alle sue orazioni tutte le mie intenzioni espostegli a voce, e ringrazio il molto reverendo padre guardiano della cortese ospitalità accordata a me e al mio compagno di viaggio monsignor Giuseppe De Angelis. 25 ottobre 1921. Augusto card. Sili».
A S. Giovanni Rotondo si recarono, e più di una volta, anche i familiari del cardinale, il quale nella sua visita si procurò una pezzuola del costato di Padre Pio, che poi distribuì a pezzetti ai devoti.
Qualcuno avanza l'ipotesi che sia stato proprio il card. Sili, marchigiano (nato a Visso nel 1846) e membro della Congregazione dei Religiosi, a scegliere le Marche, quando il Santo Ufficio decise il trasferimento di Padre Pio.
I mesi passano e la situazione si aggrava. Il padre guardiano viene considerato un disattento vigilante e svanito esecutore di ordini precisi e tante volte ripetuti ed egli si rammarica del rammarico dei superiori, promette da parte sua di usare «maggiore vigilanza in avvenire», ma soltanto su «tutto ciò che cade sotto i miei occhi» - risponde al procuratore generale dei Cappuccini, 13 maggio 1924 - perché «da che fu proibito a noi rispondere, una quantità innumerevole di lettere vengono scritte a privati amici e nemici, i quali rispondono per conto proprio, e senza neppure interrogare i religiosi. Da tutto ciò può facilmente comprendersi a quali inconvenienti si va incontro, ma credo di non dovermi richiamare su ciò responsabile [...].
Per ciò che riguarda le persone che più facilmente ricevono lettere per sapere del Padre Pio, avviserò e richiamerò a dovere, ma quest'opera potrei svolgerla solo se vostra paternità potrà mandarmi le firme delle persone che presenteranno gli scritti o che hanno scritto, altrimenti non saprei che cosa fare».
In mezzo a tutte queste miserie Padre Pio continua ad amar Dio ed il prossimo meglio che può e come lo permettono tutti quelli che lo comandano: in molte pagine del diario del padre guardiano è cosa ordinaria leggere: «La mattina è stata occupata dal padre nelle confessioni; sino alla sera un via vai di persone che vengono per confessarsi; si rimase in confessionale sino alle undici in tre e dalle tre e mezzo alle sei e mezzo pomeridiane sempre a confessare uomini e donne; giovedì santo sulle 800 persone (in quella chiesetta!...); uomini 350; comunioni 700, tutti comunicati da Padre Pio celebrante; Padre Pio è sempre pronto a confessare, anche se debole e indisposto. In tutto il giorno il Padre è occupato a sentire miserie e dolori di uno e di un altro, e veramente con pazienza ammirevole e da santo, perché con la sola forza umana non potrebbesi resistere così a lungo e quotidianamente» (7 giugno 1924).
La domenica di Pentecoste celebra la Messa quasi alle dieci, canta il Veni Creator, secondo la consuetudine, sparge rose sul popolo. Gente che si trattiene da quasi quindici giorni; all'ultim'ora persone che si licenziano con Padre Pio per partire l'indomani: «È commovente - annota il padre guardiano - vedere questa gente non sapersi distaccare; piangono e sono donne anziane, giovani, uomini che un giorno furono del mondo. Vanno via col corpo, ma si ha tutta l'impressione che lascino il cuore. Gesù le benedica e le faccia sante queste anime che bene spesso, ricevuta la luce, temono di allontanarsi per paura di ripiombare nelle tenebre, tornando alle loro case».
Mentre fra tensioni, attenzioni, vigilanza e richiami i frati si consolavano nel Signore, a lui chiedendo aiuto per la retta osservanza di ciò che gli organi competenti comandavano, altri cercavano di difendere la propria onorabilità, subodorato il pericolo di perderla. È certo che non vi è aria di quiete - constata il padre guardiano -, «continua la campagna più o meno accentuata e non manca di far capolino qualche calunnia» (15 settembre 1925), «ma da parte nostra, non potendo fare nulla perché i superiori così vogliono, ci affidiamo nelle mani del dolcissimo Gesù» (25 agosto 1925).
Alcuni frati per ordine superiore sono allontanati da S. Giovanni Rotondo e partono con l'unico rammarico di lasciare Padre Pio, il quale, sereno sempre, è oltremodo appenato e versa lagrime nel sapere così mortificati i confratelli, supponendo che ciò avvenga tutto per colpa sua. «Non è per colpa sua - commenta amareggiato p. Ignazio guardiano - ma buona parte è perché [...] senza una difesa, sacrificano uomini e cose» (10 settembre 1925).
Un secolare protesta che se non sarà dato corso alla giustizia si servirà di altri mezzi, perché non vuole apparire assolutamente come calunniatore, mentre ha in mano prove schiaccianti delle accuse fatte. Il padre guardiano non riesce a dissuaderlo: «quanto male si può prevedere, se sui giornali cominciasse una polemica simile, si vede chiaro; ma ogni nostra esortazione alla pazienza non serve a calmare l'animo dell'interessato» (10 settembre 1925).

Caro dottore, nelle tue mani

Nel settembre del 1925, trovandosi a S. Giovanni Rotondo il dottor Festa, Padre Pio gli esprime il desiderio di una visita, perché da lungo tempo soffriva.
Sottoposto ad un attento esame, gli fu osservato nella regione inguinale destra una voluminosa ernia, resa irriducibile da estese aderenze tra il viscere erniato e la parte del sacco erniario, e gli fu suggerito un intervento operativo, possibilmente sollecito.
Dopo un breve colloquio col superiore, si decide che l'atto operativo si sarebbe eseguito al più presto ed in convento, dopo i necessari preparativi.
Il mattino del 5 ottobre, dopo numerose confessioni e la celebrazione della Messa, soltanto verso le ore 12 Padre Pio poté risalire in convento: «lo vedemmo avanzare con passo lento - scrive il dottore - pallido in volto per la fatica sostenuta e pel dolore fisico che gli procuravano il male e le sue piaghe. Giunto dinanzi a me disse: "Caro dottore, eccomi nelle tue mani, però non voglio essere cloroformizzato!"».
A nulla valse l'energica opposizione del dottore e le riflessioni di carattere tecnico, ma rimase fermo nel suo proposito assicurando che non si sarebbe mosso durante l'operazione dalla posizione nella quale l'avrebbe messo e soggiungendo: «Ti sapresti astenere, dopo avermi cloroformizzato, dal visitare le piaghe che già altra volta hai studiato su di me?». «No, Padre, risposi con lealtà: sarebbe anzi proprio questo il primo legittimo desiderio che, dopo tanto tempo, mi parrebbe di dover soddisfare». «Vedi, dunque, quanto ho ragione di rifiutare la narcosi. A me personalmente nessun divieto è stato fin ad ora impartito di farmi rivisitare da te o da altri; so però che quest'ordine fu dato ai miei superiori, ed è mio dovere fare in modo che venga rispettato. Ecco perché, anche durante l'operazione, intendo rimanere padrone dei miei atti e della mia volontà».
Nonostante la non breve durata di un'ora e tre quarti, non uscì dalle labbra di Padre Pio un lamento. Solo, mentre il dottore eseguiva la resezione del sacco erniario ed il distacco dalle aderenze che alcune anse del tenue avevano contratto col peritoneo parietale, in questo punto fortemente congesto ed inspessito, due grosse lagrime gli scesero dagli occhi giù per le gote, e poi, in un singulto supremo: «Gesù - implorò - perdonatemi se non so soffrire quanto dovrei!...».
Come era da prevedere, alla forza d'animo dimostrata nel corso dell'operazione, subentra uno stato di intenso collasso, durante il quale più volte rimane privo di sensi ed il dottore, approfittando di uno di quei momenti, riesamina a sua insaputa le piaghe studiate cinque anni prima e le rivede con gli «identici caratteri». Per amore di verità ed esattezza «debbo solo aggiungere che la sottile escara, da cui nel precedente esame avevo trovato ricoperta la ferita che ha sull'emitorace sinistro, è ora caduta; di modo che questa appare fresca e vermiglia, in forma di croce, e con brevi, ma evidenti "radiazioni luminose", che si sprigionano dai suoi contorni».
A giustificazione del suo operato, apertamente contrario alla volontà di Padre Pio, il dottore accampa la «coscienza di studioso» che imponeva «il dovere di regolarmi in modo che, nella continuità organica delle mie ricerche, non rimanesse quella lacuna che in avvenire non sarebbe stato più così facile poter riempire» (1).
Dopo breve convalescenza, Padre Pio riprende la sua attività con maggior lena e senza affaticarsi come in passato.
Fu in questa occasione che Padre Pio, interrogato dal dottor Festa, rispose: «Se mi comandassero di andar via, partirei anche in mezzo alle baionette».
Eppure era tacciato di disubbidienza!
La risposta non meravigliò il dottore; però, parlando con alcuni padri della provincia religiosa di Foggia, capì che autorevoli personaggi, interrogati sui fatti di Padre Pio, avevano ripetutamente esclamato: «Se Padre Pio fosse un buon religioso obbedirebbe, abbandonando subito S. Giovanni Rotondo».

La situazione non era così semplice come si voleva far credere: Padre Pio non partiva, perché i superiori non volevano che partisse!... Sembra un controsenso, eppure è così: non sono mai riusciti a trovare - i superiori - il modo ed il momento buono per il trasferimento e perciò quegli stessi che desideravano insistentemente l'esecuzione degli ordini dati, di fronte ad una reazione popolare incontrollata si facevano guidare sempre dalla realtà dei fatti con prudenza.

(1) Cf. FESTA G., Misteri di scienza e luci di Fede. Le stigmate del Padre Pio da Pietrelcina, 2ª ed. 1949 Roma, p. 222 ss.

Un altro visitatore

Dopo l'inchiesta del p. Celestino da Desio e prima della visita di un nuovo fiduciario della Santa Sede «un ardimentoso e intelligente giovane - così si autodefinisce - che da cinque anni [scrive nel 1926] vive a San Giovanni Rotondo», spera di farla finita rivelando al Santo Uffizio «le sozzure» dei calunniatori, dopo «una breve e rigorosa inchiesta».
Il poliziotto dilettante, con una ricca cartella di documentazioni e lettere autografe dei colpevoli, si presentò a Roma a domandare giustizia.
Egli scendeva dalla raccolta chiesa montanina pieno di fede e di ardore e giungendo a Roma e varcando tremante le anticamere dei porporati egli immaginava e credeva...
La sua disillusione fu grave.
È il resoconto, in terza persona, dello stesso protagonista «ardimentoso e intelligente giovane» che corrisponde al nome di Emanuele Brunatto (2).
In un diario di un anno imprecisato - ma se non andiamo errati è del 1925 - del giorno 23 giugno inizia la sua prima peregrinazione romana e annota i suoi incontri e scontri, colloqui, promesse, suggerimenti, speranze, delusioni e propositi bellicosi. Nella lista dei tanti personaggi compare anche il nome di don Orione, «occhi dei santi che parlano nella loro calma dolcezza e dicono cose infinite».
Tornando a S. Giovanni Rotondo, ha la brutta sorpresa che gl'incriminati già conoscono le accuse contro di loro, perché in possesso dei dossiers presentati a Roma e quindi agiscono di conseguenza, difendendosi come possono e con mezzi calunniosi; e si parla di nuovo di un trasferimento di Padre Pio.
Riparte per Roma per seguire più da vicino gli avvenimenti e avendo incontrato ancora più resistenza e difficoltà di prima, decide di compendiare in un libro le sue inchieste a S. Giovanni Rotondo, pensando che lo choc salutare avrebbe provocato una decisione.
L'editore romano Berlutti accetta l'offerta e nel 1926 il libro vien messo in vendita, esaurito in pochi giorni. Alla proposta dell'editore di una seconda edizione, l'autore si oppose, perché il Santo Uffizio tre giorni dopo la comparsa del libro lo aveva condannato.
Così stavano le cose, quando un giorno fu invitato da monsignor Felice Bevilacqua del vicariato di Roma a fornirgli alcune spiegazioni sui dossiers presentati al cardinal Pompili, che richiesero più di un incontro. Alla fine gli rivelò, sotto il sigillo del segreto, ch'egli era stato nominato visitatore apostolico a S. Giovanni Rotondo, precisando che il mandato non riguardava Padre Pio.
E propose al Brunatto di accompagnarlo durante la visita come coadiutore privato, avendo evidentemente ricevuto ordini di poter derogare alla regola delle inchieste canoniche.
L'esito della visita fu pesante e i provvedimenti severi.
Il padre provinciale, sollevato e soddisfatto, informa il padre generale che il risultato della visita è buono e spera che sia «l'inizio della fine».
Speranza vana!
Dalle relazioni bimestrali del 1927 e 1928 che il padre provinciale deve mandare a Roma, stralciamo qualche brano per far sapere il comportamento di Padre Pio in un ambiente così saturo di miseria umana.
Mena sempre «la stessa vita», svolge sempre «lo stesso lavoro», osserva sempre «la stessa ritiratezza»; scende soltanto per celebrare e confessare; nessuna singolarità o speciale riguardo viene usato dai confratelli: «in tutto e per tutto come gli altri», secondo il tante volte ripetuto comando.
«A volte celebra la conventuale, ma più spesso questa viene celebrata da altri e allora egli celebra - durante la stessa - a un altarino. Il preparamento e ringraziamento alla Messa ha l'ordine - da tempo - di farlo sempre in coro e non in sacrestia e ciò per evitare che la gente che sta in chiesa si avvicini a lui. Detto ringraziamento lo fa durare un'ora e più. Così dopo l'ufficio divino continua a stare in meditazione circa un'ora. E tutte le sere, dopo l'orazione in comune, egli resta a pregare, meglio a meditare ancora un'ora incirca.
La Messa ho potuto constatare che la celebra con vera devozione e grande raccoglimento. Vi impiega, ordinariamente, da 25 a 35 minuti. Il resto del tempo lo passa parte in confessionale e parte in cella a leggere libri di morale, di ascetica, ecc.
Tale - su per giù - è la sua vita quotidiana».

(2) Cf. DE ROSSI G., Padre Pio da Pietrelcina, Roma 1926, p. 117.

E un altro ancora

Intorbidate di nuovo le acque, il Vaticano nomina un altro visitatore apostolico nella persona di monsignor Bruno, che verso la fine del mese di maggio 1928 si reca a S. Giovanni Rotondo per un ennesimo accertamento della veridicità dei fatti.
Lo stuolo degli amici e dei nemici è sempre attivo. Il cappuccino p. Ilarino Felder scrive da Friburgo che un giornale socialista ha fatto sapere al pubblico che «il ben noto Padre Pio» è stato «accusato, incarcerato e condannato per delitti contro la moralità» e per sfatare tale calunnia vorrebbe notizie esatte.
Il padre provinciale può affermare che la maggioranza del paese, che è poi «la più buona, morigerata e seria», continua ad amare e stimare grandemente Padre Pio, che prega «moltissimo» e celebrando «edifica grandemente per la compostezza, raccoglimento e devozione che mostra dal tutto l'insieme, specie dal volto e nel compiere le varie cerimonie».
Non è molto, dicevami un celebre avvocato: «Solo nel vedere celebrare il Padre Pio, ho compreso come il sacerdote sia veramente l'intermediario tra Dio e il popolo. Mai lo avevo compreso prima!».
Il 1928 si chiude con la consolante conversione del dottor Francesco Ricciardi che, vissuto sempre da ateo, gravemente malato e in fin di vita, esprimeva il vivo desiderio di voler ricevere i sacramenti soltanto da Padre Pio, avendo rifiutato ripetute volte qualunque altro sacerdote.

Conoscete Padre Pio?

Verso l'imbrunire di un giorno di aprile del 1919, due persone scendevano dal convento dei Cappuccini di S. Giovanni Rotondo e tre salivano, portando ciascuna un canestro di vimini, perché avevano saputo che Padre Pio aveva ricevuto «le piaghe» - com'esse dicevano - e, impressionate, pensando che fossero piaghe malefiche, corsero a visitarlo.
All'imbocco della mulattiera che conduce al convento i tre forestieri domandano alle due paesane se conoscono Padre Pio: «Sì - rispondono - proprio ora l'abbiamo lasciato in corridoio e ci abbiamo parlato». «Sicché non sta a letto malato? Noi siamo la famiglia di Padre Pio: padre, madre e io cognata e veniamo per vederlo».
Liete di quel felice incontro, le due paesane tornarono indietro ed accompagnarono i tre forestieri al convento.
L'incontro tra genitori e figlio fu cordiale e rassicurante, perché lo videro in piedi, sano e gioviale.
La madre venne a trovare il figlio anche qualche altra volta. In una di queste visite si trattenne quarantaquattro giorni, perché una nipotina che condusse con sé, la ottenne Giuseppina, aveva bisogno di aria di montagna.
Il 5 dicembre 1928 la signorina Maria Pyle, benefattrice insigne dei Cappuccini, dopo una breve permanenza a Pietrelcina, torna a S. Giovanni Rotondo, conducendo a casa sua, vicinissima al convento, mamma Peppa per farle passare il Natale accanto al figlio. Giunte in tempo per incontrare Padre Pio sul piazzale della chiesetta: incontri che ripeterono nei giorni seguenti nella sagrestia.
Malgrado la neve, il freddo rigido e il vento tagliente mamma Giuseppa saliva sempre la ripida strada per le sue devozioni e per salutare il figlio. «L'ultima sera che la vidi in chiesa, mi disse: "Padre guardiano, vogliate bene a mio figlio Padre Pio"».
Era una donna tanto buona e semplice, come tutte le nostre mamme contadine ed amava il figlio di un amore più che materno «Zia Peppa, state tranquilla - la rassicurò il padre guardiano, ch'era Raffaele da S. Elia a Pianisi - non temete di nulla; intanto fate attenzione che c'è molto freddo».
Si era presentata a S. Giovanni Rotondo in abito dimesso e leggero per la stagione invernale e nessuno aveva potuto indurla a presentarsi a suo figlio con un buon vestito di lana, che alcune amiche le avevano regalato al suo arrivo per difenderla dai rigori del freddo, perché «l'umile contadina temeva di sembrare una signora».
La notte di Natale si recò in chiesa, piena come un uovo, e seduta tra l'altare dell'Immacolata ed il confessionale di Padre Pio, assistette alla Messa e baciò il Bambinello Gesù che le porse il figlio. Scesa a casa, si mise a letto e dopo tre giorni il medico diagnosticò una polmonite doppia.
Padre Pio, ch'era tutto per la mamma, più volte andò a trovarla, accompagnato dal padre guardiano che ogni mattina portava all'inferma la santa comunione.
Stette al suo capezzale sino all'ultimo; tra la commozione di tutti, le amministrò gli ultimi sacramenti e quando vide ch'era per spirare, non ne poté più, la baciò in fronte, diede un forte singulto e svenne. Mamma Peppa tornò al Creatore alle 6,15 del 3 gennaio 1929.
Adagiato su un lettuccio di una stanza attigua Padre Pio sfogava il suo dolore in un mare di lagrime. Una testimone oculare ci fa sapere che «era un pianto straordinario e straziante il suo; inzuppava di lagrime un cumulo di fazzoletti e faceva piangere anche i presenti col suo lamento doloroso e con la viva espressione di "Mamma mia bella!... Mammella mia!..."».
Qualcuno per confortarlo gli disse: «Ma caro Padre, lei stesso ci ha insegnato che il dolore non deve essere che una espressione dell'amore, che noi dobbiamo offrirlo a Dio. Perché dunque lei piange così?». Ed egli - fattosi improvvisamente grave - rispose: «Ma questo è appunto: lacrime di amore e niente altro che di amore».
Vestita da terziaria francescana, mamma Peppa restò in casa di Maria Pyle sino alle 4,30 pomeridiane, visitata da una folla immensa. Portata nella chiesa del convento, la mattina del 4 si svolsero i funerali imponentissimi: sebbene conosciuta appena da qualche persona, tutto il paese vi prese parte ed anche molti forestieri. L'attestato di sincero rimpianto reso all'estinta - povera contadina e forestiera - fu oltremodo commovente per la spontaneità corale.
Dopo la morte, anche i vivi vorrebbero movimentare la solita vita di ogni giorno, che si mena al convento.
Verso la metà di aprile l'Ispettore del Ministero degl'Interni sale a S. Giovanni Rotondo, in compagnia del Questore di Foggia. Si afferma
che era andato a rendersi conto se era possibile la rimozione di Padre Pio, interrogando a riguardo il Commissario prefettizio, il Pretore e il Maresciallo.
Si porta in convento, parlando brevemente con Padre Pio che già conosceva e questo, naturalmente, provocò allarme in paese e qualche protesta; e per maggior sicurezza si intensifica la vigilanza notturna al convento.
Notizia vera, confermata dal padre guardiano.
L'Ispettore aveva incontrato Padre Pio in giardino e la prima domanda che gli rivolse fu: «Padre, mi conoscete? Sono stato qui cinque anni fa per raccomandare una sorella inferma. Poi ha soggiunto - è il padre guardiano che racconta - se a S. Giovanni gli vogliono bene e se, in caso di una rimozione, si ripetesse la scena di quando lo volevano a qualunque costo o vivo o morto...».
Padre Pio risponde umilmente che lo stare o partire da S. Giovanni non dipende dalla sua volontà.
Prima di salire in convento, l'Ispettore si era già recato al municipio ed aveva interrogato il Commissario, il Pretore ed il Maresciallo, per conoscere le intenzioni del popolo e le conseguenze di un trasferimento.
Il fatto si diffonde rapidamente in paese e tutti domandano e minacciano; e molti salgono al convento per sapere.

Una cosa poco seria

Il cappuccino monsignor Cornelio Sebastiano Cuccarollo, vescovo di Bovino, ai primi di maggio del 1925 in fortuiti incontri udiva cose poco serie sulla persona di Padre Pio e per sfatarle si muniva di testimonianze giurate.
Discutendo sulle recenti disposizioni del Santo Uffizio circa Padre Pio, un illustre personaggio uscì a dire: «Immaginatevi che Padre Pio fu sorpreso nella sua cella a darsi cosmetici e simili unguenti che vi tiene seco; da ciò si può pensare ad una cosa poco seria. L'anno scorso un commissario di Pubblica Sicurezza mi dichiarava che negli anni passati fu mandato a S. Giovanni Rotondo per una inchiesta all'insaputa del paese. Egli si recò anche in convento, volle entrare nella cella di Padre Pio mentre questi era in chiesa, e sentendovi la fragranza di cui aveva udito parlare, curiosò negli angoli e sotto il letto quali aromi e boccette di essenze vi stessero nascoste: con sua sorpresa trovò una bottiglia che conteneva o aveva contenuto acido solforico».
Il 10 giugno monsignor Cuccarollo, trattenendosi alcune ore nel convento dei Cappuccini di Foggia, pregò il p. Agostino da S. Marco in Lamis, teste auricolare, a voler mettere in iscritto con tutta oggettività, l'incontro di Padre Pio e di colui che aveva affermato di averlo sorpreso in quell'operazione poco seria.
E p. Agostino attesta, «confermando tutto con la santità del giuramento», che chi aveva giurato «di aver visto coi miei occhi Padre Pio incipriarsi nella sua stanza, quando fui a S. Giovanni Rotondo [...] e il Padre rimase male nell'essere colto in flagrante, tanto che poi si vergognò di presentarsi il dopo pranzo a ricreazione», era uno spergiuro, perché non era mai entrato nella stanza di Padre Pio.
A tutto è avvezzo un cappuccino, ci ricorda il Manzoni.
Una gemma di vescovo scrive al padre superiore di S. Giovanni Rotondo: «Il 13 del prossimo mese di ottobre [1929] farà un anno da che ebbi la consolazione di passare due giorni in cotesta santa casa ed in compagnia del venerato e carissimo Padre Pio. Perciò ho voluto scrivere a Vostra paternità per salutar tutti e con affetto e per pregarla di dire al Padre Pio che la mia coscienza non mi accusa di peccato grave, che preghi per me e che se egli vede che sono in inganno dinanzi a Dio, sono reo di colpa grave, me lo faccia sapere per carità per fare i miei conti. Di più che se vede che per la salvezza della mia anima è necessario lasciare la diocesi che me lo dica e subito lo farò».
Un ottimo parroco, per l'antica, santa amicizia che lo lega al Padre Pio, si raccomanda di pregare per lui e di accompagnarlo in ispirito: «Sono molto depresso - gli confida - fisicamente e moralmente e sogno e sospiro il momento di fare una scappata a S. Giovanni per rinfrancarmi nell'anima».
Un direttore spirituale di un seminario si sente ispirato di pregare in modo particolare per Padre Pio, «affinché il Dator d'ogni bene le conceda grazia copiosa e gagliardia robusta a perseverare costante sino alla fine sulla via regia della santa Croce. E procuro di farlo ogni giorno, soprattutto nella celebrazione della santa Messa, fermamente risoluto di continuare finché sia per bastarmi la vita. Oggi poi mi sento ispirato di raccomandare me alle preghiere di vostra riverenza, e perché mi sia dato di compiere meno male il mio importantissimo ufficio, e perché giunga a conseguire di presentarmi al giudizio con benissima lucrata indulgenza del beato Cafasso. Preghi in tal senso, caro Padre, e non avrà fatto in sua vita atto più fiorito di carità».
Un allievo ufficiale della Regia Accademia di Modena, trovandosi in difficoltà spirituali, anch'egli si rivolge alla «santa creatura»:
«Varie volte nella mia giovane vita ho avuto bisogno di assistenza spirituale, tante volte ho avuto bisogno di chi mi raccomandasse al Signore nostro misericordioso. Parecchie di queste io mi sono ricordato che, molto lontano, sopra una collina verdeggiante in purità di spirito, una santa creatura, sensibile a tutte le miserie umane, prega il Padre, intercede per i poveri derelitti del mondo. E, ricordando, ho scritto un biglietto, implorato una preghiera. Eccomi nuovamente assoggettato ad una dura prova, soggetto ad una disciplina inflessibile, ad una educazione guerriera. Io sento di non poter impugnare la spada senza portare incisi nell'anima i segni della Croce. Sento che non potrò vincere senza la forza che dà il Signore a coloro che l'invocano, che non potrò perseverare se Dio non mi darà la sua santa grazia.
M'indirizzo a diventare ufficiale e dovrò a suo tempo educare, giudicare, dirigere. Prometto a Dio la più completa dedizione alla bontà e alla giustizia, ma la prego, padre buono, di rivolgere al Signore una parola, perché scacciasse dall'anima mia l'angoscia nera presente e mi mettesse nel cuore una santa letizia per ben operare.
Le serberò un grato ricordo e, come potrà pregare una povera, giovane creatura piena di mille difetti, così io pregherò Dio che le concedesse tante nuove grazie, tante benedizioni e che la conservasse ancora a tutti coloro che cercano la pace per intercessione delle sue preghiere.
Le bacio la mano con affetto filiale».
Le anime bisognose di aiuto spirituale si rivolgevano fiduciose alla «santa creatura», pur sapendo di non ricevere neppur un rigo di risposta; ma erano certe, però, che Padre Pio pregava per esse: «lui nulla vede ed a nessuno risponde», assicura alle autorità romane il padre provinciale.
Al termine del 1929 monsignor Pasquale Gagliardi è sollevato dal peso della diocesi di Manfredonia e nominato arcivescovo titolare.
Il 2 dicembre dello stesso 1929 sale a S. Giovanni Rotondo l'amministratore apostolico monsignor Macchi ed il giorno dopo si reca anche in convento, accompagnato dall'arciprete, afferma il padre guardiano del tempo.
L'amministratore apostolico si trattenne quasi un'ora nella stanza del superiore. Il colloquio fu vivace, animato e risoluto, ma sempre entro i limiti del rispetto all'autorità. Il padre superiore sottolineò con forza le gravi conseguenze della immediata esecuzione di un ordine che prevedeva la partenza di Padre Pio nelle ore del mattino successivo insieme all'amministratore apostolico.
Il padre guardiano doveva evitare i pericoli a cui il convento, vigilato di giorno e di notte dai Sangiovannesi, andava incontro e doveva «a qualunque costo rispettare la consegna affidatagli dai superiori maggiori», che suggerivano prudenza massima per il trasferimento di Padre Pio.
Uscito dalla stanza del padre guardiano, l'amministratore si portò da Padre Pio, trattenendosi soltanto per pochi minuti. Al superiore disse che monsignore «si era confessato e non altro». Parlava pochissimo Padre Pio, ma soffriva tanto sia «moralmente che fisicamente - afferma il padre guardiano - per cui nel novembre guardò il letto per alcuni giorni con febbri reumatiche, ed il termometro salì a 44°; ed anche 46°;. È bene notare che Padre Pio usava sempre il termometro da bagno e non quello ordinario. In simili attacchi febbrili egli scottava come un fuoco».

L'anno nuovo non si presenta migliore di quello passato: soldi e calunnie!...
Persona degna di fede riferiva al padre provinciale che a Roma fu detto e scritto, che una certa signorina di nome Maria Pyle, residente a S. Giovanni Rotondo, scriveva lettere, «spacciando grazie e miracoli del Padre Pio», allo scopo di far danari per i frati. «Ero sicuro - scrive il padre provinciale - che si trattava di una delle solite calunnie, ma trovandomi sul posto, volli interrogare al riguardo più persone, non esclusa la stessa signorina, persona molto seria e incapace di scendere così in basso... e potei constatare che non mi sbagliavo, così pensando. Sì, sono sempre le solite calunnie che escono dalla bocca o dalla penna dei soliti calunniatori».

È uno squarcio della relazione bimestrale del 4 marzo 1930. Sfogliando le altre vi troviamo non soltanto chiarificazioni, smentite a calunnie, assicurazioni di vigilanza e piena sottomissione ad ordini emanati, ma anche l'elogio più eloquente alla vita di Padre Pio: l'albero buono produce frutti buoni.
Si può dire - apprendiamo dalle su nominate relazioni - che il Padre passi quasi tutta la giornata in continua orazione, specie mentale; nel pomeriggio, recitato il vespro assieme agli altri confratelli e fatta un'ora di meditazione, si reca in chiesa a confessare; la sera permane in coro fino a tarda ora; sempre è da tutti ammirata la sua attenzione, devozione e raccoglimento, quando celebra; il preparamento e ringraziamento lo fa sempre in coro e quest'ultimo dura un'ora e più.
Le vere conversioni di anime non sono rare e chi ebbe lì la grazia di ritornare alla fede, scrive: «È bastato che io mi accostassi a lui, perché io mi accostassi a Dio. Sono felice, divinamente felice. Più volte mi chiedo se sono vittima di una allucinazione, se sono sano di mente, come lo sono di corpo, tanto strano mi sembra ciò che è avvenuto in me. Io l'ateo, io il massone, io il gaudente impenitente e insoddisfatto sempre, sono totalmente cambiato». «Io lo penso sempre - dice un altro convertito di fresco - e sempre lo considero presente e questo è per me un gran bene, perché mi tiene sempre - quanto è più possibile - nella retta via. Persisto nelle pratiche religiose che mi fanno tanto bene».
Un venerando prelato con ammirabile semplicità e candidezza gli apre, con parola scritta, l'interno della propria coscienza e termina con queste parole: «Mio venerando Padre, voglio fare in tutto la volontà di Dio e piacere soltanto a Dio».
Un massone, da poco convertito: «Mio adorato Padre - scrive - credo che abbia il diritto di chiamarla così, perché per mezzo suo io rinacqui a nuova vita, rinacqui alla vera vita e conseguentemente mi devo considerare un suo figlio, figlio spirituale. Stamane mi sono di nuovo confessato e comunicato. Mi sento tranquillo».

IL SEGREGATO

La Messa di Padre Pio: meraviglioso spettacolo di fede e di devozione!
«Nessuno di noi - attesta un signore salito al convento per mettere in pace la sua coscienza - nessuno di noi fiatava; non si udiva il solito stropiccio dei piedi, né il rumore di sedie mosse. Tutti avevano l'animo sospeso. Chi lo ha visto una volta celebrare non lo dimentica più - aggiunge il padre provinciale - tale è l'impressione che se ne riceve» (Relazioni bimestrali, 20 gennaio 1931).
E da questa fonte inesauribile Padre Pio attinge tutta la forza di amore a Dio ed al prossimo, il coraggio e la rassegnazione per le prove continue, pesanti, amare.
La sua giornata continua a passarla pregando, leggendo e confessando, sia al mattino che al pomeriggio, le persone che lo attendono. Spesso sono forestieri che vengono da lontano e solo «per confessarsi. E il Padre con tutta pazienza ascolta le loro confessioni e li rimanda - ordinariamente - contenti e soddisfatti, perché lì trovano la pace che da tempo avevano perduto. Anche le comunioni che ivi si fanno, generalmente sono fatte con sentita devozione. «Affermo- diceva giorni fa un distinto signore - che dopo la mia prima comunione, quella di stamane è stata la comunione più vera che abbia fatto»» (ivi).
Quando gli fu proibita ogni attività ministeriale, Padre Pio restò fiducioso e sereno in Dio; ma con questo parlare non vogliamo ingenerare idee sbagliate: egli non era un insensibile come una tegola su cui l'acqua piovana scivola e non penetra, perché vedeva, comprendeva quel che succedeva intorno a lui e per lui - anche se non per colpa sua - e si mortificava, soffriva moralmente e fisicamente.

La disavventura di un povero frate

Il 31 marzo 1931 - quel che racconteremo lo stralciamo da testimonianze scritte del guardiano del tempo e del malcapitato frate minore - il superiore del convento sa dal provinciale che a S. Giovanni Rotondo sarà mandato da Roma come guardiano un cappuccino della provincia di Milano.
Tutto in segreto - commenta p. Raffaele da S. Elia a Pianisi, guardiano - eppure la notizia già era a conoscenza di alcuni secolari del paese e qualche giorno dopo era sulla bocca di tutti ed il podestà, salito in convento per gli auguri pasquali (4 aprile), ne parla apertamente con il superiore, che smentisce; ma il primo cittadino del paese ribatte chiaro e tondo: «Padre guardiano, voi non potete parlare, perché avete il segreto, ma io non ho segreti: debbo parlare ed è mio dovere difendere il nostro Padre Pio».
Il creduto dovere fu esercitato immediatamente a spese di un sacerdote, capitato a S. Giovanni Rotondo in circostanze poco propizie ed il fatto potrebbe portare per titolo: la disavventura di un povero frate minore...
«Nella notte 6-7 aprile - racconta il frate minore malcapitato p. Eugenio M. Tignola - mentre dormivo nel convento dei padri cappuccini di S. Giovanni Rotondo, venne una turba di popolo reclamando che fossi mandato via a quell'ora. Il padre guardiano e Padre Pio fecero di tutto per calmare quel popolo, per un'ora e mezza, fino a che venne il podestà con i carabinieri e si calmarono ed andarono via».
Il popolo era salito armato fino ai denti per sorvegliare il convento e proteggere Padre Pio, pretendendo a tutti i costi che il guardiano avesse consegnato loro quel forestiero per ricondurlo a Foggia; ma l'ospite è sacro e non cedette alle pressioni.
Risultato vano ogni tentativo, ad ora tarda, verso mezzanotte, trasformando in ariete un palo di luce ch'era sul piazzale, forzarono il portone del convento ed irruppero nel chiostro: potevano essere un centinaio di uomini, con altrettanti ragazzi e le solite «beate».
Dice il padre guardiano: «Ero in coro, quando m'accorsi ch'erano penetrati nel chiostro. Subito scesi giù, risoluto e con voce imperiosa comandai a tutti di uscire dal convento. Fu un azzardo che feci, perché tutti erano armati; ma andò bene...».
Usciti dal chiostro, promise loro che sarebbe andato a chiamare Padre Pio e così si calmarono un poco. Padre Pio era in cella, con lui andò anche il frate minore più morto che vivo. Si affacciò alla finestra della prima stanza vicino al coro per calmare la popolazione, assicurando che il padre venuto era un povero forestiero e che, di ritorno dalla predicazione quaresimale, era salito a far visita ai confratelli.
I protestatari diffidavano; le parole erano suggerite a Padre Pio - dicevano - dal superiore. Intervennero il podestà, il maresciallo dei carabinieri e qualche maggiorente del paese; dopo aver parlato con Padre Pio, a poco a poco tornarono alle loro case, organizzando, però, per tutta la notte un servizio di vigilanza attorno al convento.
«Non so come si potrà andare avanti di questo passo - conclude la lettera-rapporto del 7 aprile 1931 del padre guardiano al provinciale - e con persone capaci di tutto... Forse l'unica cosa sarebbe di scappare tutti...».
Meno male che la fuga non è stata effettuata!

Una pattuglia volontaria

Appena ricevuta la lettera del padre guardiano, il provinciale scrive lo stesso giorno al generale, raccontando l'accaduto, suggerendo «assicurazione - da parte di lui - che lassù non si recherà nessun religioso forestiero per restarvi», per tranquillizzare e calmare la popolazione oltremodo minacciosa ed evitare così fatti di sangue.
Intanto il superiore del convento, in nome di tutta la religiosa famiglia, il 10 aprile 1931 protestava altamente e denunziava alle autorità competenti, per via legale, «l'ostile dimostrazione da parte di malintenzionati» contro il convento «con lancio di sassi alle finestre, forzamento di porta d'ingresso e violazione di domicilio».
Tutto, poi, si accomodò pacificamente «per non rovinare tanta gente», con la promessa rassicurante che non si sarebbero verificati più simili inconvenienti, ritirando la protesta e dichiarando al funzionario di pubblica sicurezza di non intendere «assolutamente procedere contro coloro che presero parte alla dimostrazione di affetto verso il Padre Pio, benché vi sia stato qualche deplorevole eccesso».
Il padre generale da Roma (11 aprile 1931), venuto a conoscenza dell'increscioso incidente, vuol sapere con urgenza il parere del prefetto di Foggia e che cosa suggerì durante il colloquio col provinciale e quale è il di lui atteggiamento nei riguardi del «caso Padre Pio».
Il prefetto di Foggia - risponde il padre provinciale (12 aprile 1931) - «mi chiese subito se vi era qualche ordine a riguardo del Padre Pio. Risposi di no, aggiungendo che trattavasi solo di cambiare l'attuale superiore, essendo ormai al termine del triennio. E ciò a norma delle nostre regole. Il prefetto «desidererebbe il detto Padre si lasciasse in pace... e non si turbasse per nulla l'ordine pubblico». Credo bene avvertirla che a S. Giovanni Rotondo vi è attualmente una pattuglia volontaria che sorveglia, a turno, il convento. L'ultima sollevazione superò le precedenti [...]. Dio voglia che non succeda nessun fatto di sangue! Certo che lì adesso di tutto si teme, di tutto si sospetta. È necessaria, perciò, la massima prudenza. Stando così le cose, sarà d'uopo - per evitare gravi incidenti - nominare a superiore del detto convento un religioso della provincia. Tale è il mio parere».
Dà un giudizio positivo sulla provincia religiosa, che «può fare benissimo da sé» e prega «in visceribus Christi» a non voler contare più sulla sua persona. Preghiera non esaudita.
E per allora non se ne fece nulla neppure per il guardiano forestiero, dopo informazioni ampie, riservate e sollecite sulla situazione, sui motivi di tale atteggiamento e sugl'inconvenienti reali che sarebbero potuti nascere da una tale decisione.
«Gl'inconvenienti che potrebbero derivare
dalla presenza di un guardiano d'altra provincia in questo convento potrebbero essere seri e gravi - risponde il guardiano del convento al generale (18 aprile 1931) -. Il popolo che già da tempo non ha nessuna fiducia in noi, tanto meno l'avrebbe per un guardiano d'altra provincia, cosicché il minimo che potrebbe accadere, sarebbe che le autorità del luogo, per ragioni di ordine pubblico, si recassero in convento per invitare il nuovo superiore a salire in macchina e ad uscire da S. Giovanni Rotondo per non più tornarvi. E ciò lo desumiamo dalle insistenze continue da parte delle autorità locali per avere schiarimenti e assicurazioni su qualunque religioso o ecclesiastico che casualmente arrivi in convento e dagli ultimi fatti avvenuti. Il convento ora è vigilato continuamente».
Le previsioni del padre provinciale, documenti alla mano, sono ancora più pesanti e tinte di rosso, nella risposta al padre generale: «È bene non pensare più a sistemare - com'è stato previsto - il convento di S. Giovanni Rotondo; ché i soliti sobillatori o organizzatori - sebbene quasi tutti identificati e ammoniti dal funzionario locale di Pubblica Sicurezza - sono pur sempre lì pronti ad agire - scrive il 10 maggio 1931-. Un superiore forestiero vi potrebbe solo accedere attualmente se accompagnato dalla forza [...]. Lassù [cioè a S. Giovanni Rotondo] vi sono persone disposte a tutto. In data 14 aprile u.s. un sangiovannese, lamentandosi della protesta e della denunzia dal suddetto superiore fatta, scrivevami: "La cittadinanza non ha bisogno, per insorgere di un sol cuore, di sobillatori, per difendere 'anche a mano armata' il Padre che ci è più caro della nostra medesima vita". E ancora: 'Il popolo sangiovannese lo difenderà 'a tutto sangue'. E di tanto son davvero capaci"».

Il grave provvedimento

La sera del 9 giugno 1931 al padre guardiano di S. Giovanni Rotondo arriva da Roma una lettera in cui si suggerisce, «se fa bisogno», di convincere Padre Pio che «si sottoponga docilmente al grave provvedimento, e faccia opera, per quanto è da lui, di persuadere anche altri che ne avessero bisogno».
Padre Pio, grazie a Dio, non ha avuto mai bisogno di esortazione ad obbedire: ha osservato qualunque ordine sempre prontamente e docilmente.
Il «grave provvedimento» (23 maggio 1931) è del seguente tenore: Padre Pio viene privato di tutte le facoltà di ministero, eccetto la santa Messa che potrà celebrare non in chiesa ma privatamente nella cappella interna del convento, senza la partecipazione di alcuno.
«Letto il decreto - attingiamo dal manoscritto del padre guardiano - fui preso da un senso di scoraggiamento e di avvilimento. Che fare? Non potevo parlarne con nessuno. La mattina del 10 scendo a Foggia dal provinciale, ma nulla da fare: tutto doveva essere eseguito per non figurare dei ribelli... e così tornai a S. Giovanni Rotondo.
Dovevo assolutamente comunicare il decreto a Padre Pio, decreto che feci noto prima ai padri della comunità religiosa.
Mi feci coraggio e, dopo il vespro, mentre Padre Pio, come al solito, si tratteneva in coro a pregare, lo chiamai nel salottino ove subito venne, e gli comunicai il decreto del S. Uffizio che gli proibiva di celebrare in pubblico e di ascoltare le confessioni sia dei fedeli che dei religiosi. Egli, alzando gli occhi al cielo, disse: «Sia fatta la volontà di Dio!». Poi si coprì gli occhi con le mani, chinò il capo e più non fiatò. Cercai di confortarlo, ma il conforto egli lo trovò solo in Gesù pendente dalla croce, perché poco dopo tornò in coro e vi restò fino alla mezzanotte ed oltre.
In seguito Padre Pio non fece neppure la minima lagnanza durante i due anni della dura prova; sempre, come a solito, docile umile e paziente con tutti. Quelli poi che cercavano in qualche modo di confortarlo, mai sentirono un lamento o un minimo accenno contro l'autorità; per lui era la volontà di Dio».
La mattina dell'11 giugno Padre Pio celebra nella cappellina del convento con il solo inserviente, restando sull'altare per oltre tre ore; e così quasi tutte le mattine.
La sua più grande mortificazione fu la proibizione di strappare anime a satana e ricondurle pentite a Dio, di non poter più guidare quelle che già si erano distaccate dal peccato e che si erano affidate alle sue cure spirituali.
La notizia del «grave provvedimento» si sparse in un baleno, non soltanto in chiesa e in paese, ma anche in regioni lontane; numerosi furono i telegrammi e le lettere di dispiacere e di conforto di tante anime che a lui si univano nella preghiera.
In paese le autorità locali si preoccuparono dell'ordine pubblico, rafforzarono la vigilanza intorno al convento chiedendo rincalzi anche alle stazioni vicine per fronteggiare possibili sommosse. Il podestà consigliava calma e fiducia nei buoni uffici delle autorità responsabili; l'arma dei carabinieri, tempestivamente e con buone maniere, riuscì a dissuadere la sera del primo giorno (11 giugno) quelli che si erano recati al convento con l'intenzione di inscenare una dimostrazione di protesta.
Ma non per questo la tempesta era scongiurata; il malumore del popolo anzi cresce sempre più e, se calma c'è, è perché si spera in una revoca del provvedimento con mezzi pacifici, mediante l'interessamento delle autorità civili, «ma in progresso di tempo - si domanda il padre guardiano - svanita questa speranza, non saprei dire come andranno a finire le cose». E nella stessa lettera inviata al padre generale il 17 giugno 1931, fra le tante istruzioni chieste di fronte a casi che si potrebbero presentare, c'è anche questo: «Inoltre espongo ancora un dubbio, a cui prego di voler rispondere con paterna sollecitudine. In caso che il popolo prenda il Padre Pio a viva forza e lo porti in chiesa, pretendendo che dica la Messa pubblicamente, può il Padre Pio in coscienza celebrare, e posso permetterlo? In caso negativo, chi ne assumerà le responsabilità di possibili conseguenze, se la forza pubblica non riuscirà a contenere il furore del popolo?».
A questo interrogativo non fu data risposta scritta - per quanto è a nostra conoscenza - ma vi fu una chiamata a Roma il 22 luglio e «con massima segretezza», ed invece «quando fui là - dice il padre guardiano - già vi erano alcuni che sapevano della mia chiamata; altro che segreto!...».
Si desiderava sapere la reale situazione di S. Giovanni Rotondo, perché si voleva ancora tentare di mandare il superiore forestiero, che provvisoriamente si era portato a respirar aria montanina a Frascati. Il tanto desiderato insediamento non avvenne.

Via dolorosa e gaudiosa

Pur privato completamente della sua attività ministeriale, Padre Pio si mostra sempre lo stesso, come al primo giorno: calmo sereno tranquillo, tutto sopportando per amor di Dio e facendo sempre la divina volontà.
Celebrata la santa Messa che dura non più mezz'ora, ma un'ora e mezza ed il giorno del santo Natale oltre cinque ore, si intrattiene un'ora in ringraziamento e, passata un'altra ora di orazione mentale in coro, si reca in biblioteca per la lettura e lo studio. Al pomeriggio, dopo il vespro e l'ora di orazione, torna alla sua lettura fino a sera, quando si reca di nuovo in coro per altre due ore di orazione mentale, andando poi a letto ad ora tardissima.
Si può dire, senza esagerazione, che durante il giorno prega continuamente, perché le labbra si muovono sempre ed i chicchi di corona scorrono tra le dita.
Il vitto è scarsissimo: non cena mai, come pure non prende caffè od altro al mattino; le sue condizioni di salute sono più giù del solito, per le attuali circostanze morali e per quelle di un continuo paziente, perché le stimmate permanenti da quasi tredici anni alle mani, ai piedi ed al costato danno sofferenze per l'emissione del sangue, come si può osservare dai guanti, calze e pezzuole di ricambio al costato intrise di sangue, che egli per obbedienza consegna sempre al superiore (altrimenti le avrebbe distrutte), sia ancora per il modo di camminare, perché a volte a stento può dare qualche passo per i dolori ai piedi.
Egli però di tutte queste sofferenze mai fa cenno alcuno; ed alle volte se qualche imprudente entrasse in discorso, è sempre pronto a deviarlo ed alludere ad altro. Prende parte a tutti gli atti della comunità e regolare osservanza, eccetto alle ore del mattino, perché per obbedienza si leva alquanto più tardi dell'orario comunitario.
È la testimonianza del superiore locale che credeva alla santità di Padre Pio, vissuta giorno per giorno lungo la via dolorosa e gaudiosa del calvario, sotto i suoi occhi.
Mentre i forestieri si accontentavano di andare, pregare in chiesa la Madonna delle Grazie e raccomandarsi alle preghiere di Padre Pio, anche se non lo potevano vedere e parlare con lui, il popolo di S. Giovanni non è calmo e non si rassegna, perché Padre Pio lo vuol vedere ed avvicinare.
Chi non può recarsi personalmente al convento, affida allo scritto la sua riconoscenza e la sua supplica, pur sapendo che non avrà, perché non si può, risposta alcuna.
Una testimonianza soltanto: un massone convertito un anno prima e che frequenta tutti i giorni la santa comunione: «Io costantemente - scrive al padre superiore del convento - mi ricordo di Padre Pio giornalmente e prego per lui, per ogni suo bene spirituale e temporale, ed il buon Gesù accoglierà ed esaudirà le mie preghiere e non terrà conto che esse partono da un'anima che tanto ha peccato. Iddio mi deve fare ancora la grazia di rivedere il mio Padre Pio, per potere sempre più ricevere da lui maggiore fede e la costanza di proseguire nella via del bene e della santità. Sono assai contento e felice della luce che egli mi diede l'anno scorso, di avermi redento e di avermi messo nella grazia del Signore: ogni avversità della vita ora non mi pesa più, e mi mantengo calmo e tranquillo e spero migliorare sempre più. Se non mi trovassi ora in questo stato, quanto infelice sarei...» (Relazioni bimestrali, 9 novembre 1931).

Il 2 aprile 1932 Padre Pio scrive all'arcivescovo di Manfredonia monsignor Andrea Cesarano, perché dal profondo silenzio della sua celletta sente da un pezzo «l'eco di sinistre voci» che si fanno intorno alla sua persona: «tutto è falso» e si dichiara completamente estraneo a ciò che si è detto e si dice a suo riguardo, «disgustato per la condotta indegna che tengono alcuni falsi profeti, che pur si dicono miei, perché più e più volte, a mezzo dei miei confratelli e di pie ed anche autorevoli persone, ho fatto sapere a costoro che tutto quello che essi fanno e dicono è una ferita che maggiormente lacera il mio cuore [...] ed intanto hanno sempre seguitato nel loro morboso fanatismo, non curandosi della suprema autorità della Chiesa. Sono giunto anche alla diffida [...], per fermare questo loro falso entusiasmo e per richiamarli all'osservanza di quanto aveva disposto il S. Ufficio» e si è ottenuto l'effetto contrario, anche se messi alla porta per il loro contegno ribelle contro le disposizioni ecclesiastiche, ma sempre invano; ed auspica che si diradino «queste ombre fosche che avvolgono la mia povera persona e che gravano sulla mia povera madre provincia che soffre e tace da tanti anni, e sul divoto popolo di S. Giovanni».
Il Signore sembra di non aver fretta a mutare una tale situazione e gli uomini perdono la pazienza nell'attesa, almeno alcuni di loro, e non desistono dal realizzare ciò che minacciano, non ascoltando neppure la voce di Padre Pio.
I mesi si susseguono ai mesi e qualcosa di nuovo si notò nel 1933, mese di marzo, quando il giorno 14 verso le ore 8 si presentarono al convento i monsignori Pasetto cappuccino e Bevilacqua, quello della visita canonica del 1927.
Il papa Pio XI, chiamato d'urgenza monsignor Pasetto, gli ordinava di recarsi subito a S. Giovanni Rotondo dal Padre Pio; e la notte stessa partiva alla volta del convento garganico, accompagnato da monsignor Bevilacqua, già abbastanza pratico dei fatti e delle persone.
Giunti, domandano del superiore «ed io - racconta il guardiano - li accompagno nel salottino, fo loro i soliti doveri di convenienza e poi domandano di Padre Pio, con il quale doveva parlare monsignore Pasetto».
Padre Pio è in cappella per la santa Messa e non sarà pronto prima delle ore dieci, essendo già dalle sette all'altare.
Terminata la celebrazione ed avvisato, appena pronto, si reca da monsignore e si trattiene a lungo con lui; dopo lo saluta anche monsignor Bevilacqua, ma in modo molto sbrigativo.
A mezzogiorno si va a pranzo con la comunità, compreso Padre Pio; poi nell'orto per un po' di ricreazione, mentre Padre Pio si ritira in cella: «Monsignor Pasetto mi chiama in disparte e per una buona mezz'ora passeggiamo lungo il viale di mezzo dove sono i cipressi, con in fondo l'edicola di Gesù [agonizzante] nell'orto. Certamente tutto il colloquio fu su Padre Pio. Egli restò tanto ammirato per la sua umiltà, docilità e su tutto il suo comportamento; lo riconobbe uomo di preghiera e tutto di Dio».
La settimana santa Padre Pio la passò a letto con temperatura sino a 48°;, rivivendo in quei giorni i dolori della Passione del Signore, incapace di proferire anche una sola parola: si vedeva soffrire e lacrimare.
Nel giugno, sempre del 1933, alla vigilia di S. Giovanni Battista, il nuovo arcivescovo di Manfredonia fa il suo ingresso a S. Giovanni Rotondo, accolto da una «fiumana di gente»perorando la sua intercessione per la liberazione di Padre Pio.
Il giorno dopo sale in convento per conoscere e salutare Padre Pio, verso il quale si mostra tanto cordiale ed affabile. In tale occasione monsignore viene accompagnato dall'arciprete del paese Prencipe. L'incontro avveniva dopo oltre dieci anni e fu commovente: tutti e due si abbracciarono fraternamente. Padre Pio era sempre pieno di carità verso tutti e mai nutriva neppure il minimo rancore.

Finalmente la buona notizia

Giorno 14 luglio 1933, festa di S. Bonaventura: anno di grazia. Il provinciale p. Bernardo d'Alpicella, tornato da Roma, il 15 sale a S. Giovanni col cuore leggero e le ali ai piedi ed appena arrivato informa di tutto il padre guardiano. Resta a cena con la comunità, poi dice al guardiano di andare a chiamare Padre Pio che è in coro a pregare e meditare.
«Ch'è successo?...», domanda Padre Pio.
«Siamo tutti sospesi "a divinis"», risponde il guardiano.
«Eh!...», esclama Padre Pio, accorgendosi che il superiore è allegro.
Arrivati a refettorio, il padre provinciale: «Deo gratias - dice - ho da comunicarvi una consolante notizia: Padre Pio può dire la Messa in chiesa e confessare i religiosi fuori della chiesa».
Padre Pio si alza, va ad inginocchiarsi davanti al padre provinciale, gli bacia la mano e ringrazia il Santo Padre per la sua paterna bontà.
La mattina del 16 del giorno dopo Padre Pio scese in chiesa a celebrare alle ore nove tra «la visibile e profonda» commozione dei presenti ed un silenzio «veramente edificante». Diffusasi la notizia, riprende l'afflusso dei fedeli ed aumentano le confessioni e comunioni.
Ordinariamente celebra verso le 7,30, vi impiega circa tre quarti d'ora compresa la comunione ai fedeli, nelle domeniche e feste fa il turno con gli altri padri della comunità dopo la Messa delle ore 9; il preparamento e ringraziamento lo continua a fare in coro e quest'ultimo dura un'ora e mezza e a volte anche più.

Nel pomeriggio, recitato il vespro con la comunità, resta in coro per un'ora - bisogna tener presente che ancora non può confessare i fedeli - e lo stesso fa la sera, dopo che i religiosi si sono recati a far visita a Gesù sacramentato. Qualche volta lo si è visto fino a mezzanotte. Il resto della giornata la passa leggendo libri scritturali o ascetici.
La santa Messa, celebrata sempre con grande devozione e raccoglimento, incatena i fedeli. Un alto personaggio ecclesiastico arriva in convento proprio nell'ora in cui Padre Pio deve celebrare; vuole ascoltare anche lui la sua Messa e resta talmente impressionato ed edificato che: «Padre - confida al superiore locale - mentre Padre Pio celebrava, ho voluto meditare sulla santa Messa e posso dire che, in ventidue anni di sacerdozio, mai ho meditato con tanto raccoglimento e né assistito ad una Messa celebrata con tanta devozione come stamane. Dico questo perché lo sento dal profondo dell'animo e senza simulazione alcuna». Un sacerdote bavarese scrive: «Per me S. Giovanni Rotondo è stata una novella Assisi; ed ascoltando la Messa di Padre Pio, ho visto Gesù Cristo sulla terra rivivere dopo venti secoli!...».

Con Dio e tra le anime

All'occhio umano la vita di Padre Pio, se non intervenissero elementi eterogenei, è talmente «metodica», «svolta, come sempre, tra la cella e il coro», che «nulla vi è di nuovo o straordinario».
Cerca di prendere parte alla vita comunitaria, anche se la malferma salute a volte glielo impedisce: «Soffre, e spesso, di forti dolori di capo - apprendiamo dalle relazioni bimestrali - inappetenza quasi continua e, di quando in quando, la febbre lo costringe a guardare il letto. E mangiando ordinariamente pochissimo a mezzogiorno e niente al mattino e alla sera, e perdendo quotidianamente sangue dalle ferite, specie da quella del costato, non può non essere gracile e malfermo di salute. Soffre anche d'insonnia e la maggior parte della notte la passa in coro pregando. Infatti è lui che sveglia, uscendo dal coro, i religiosi per la recita notturna, e solo dopo l'ufficio si porta nella propria stanza per un po' di riposo. Il Padre Pio può chiamarsi ed è veramente un uomo di orazione».
I fedeli vanno a S. Giovanni Rotondo «in discreto numero», e si notano anche sacerdoti, personalità politiche e civili e militari. Di esteri «solo qualcuno dalla Baviera».
Pur sapendo che Padre Pio non legge e non risponde alle lettere a lui inviate, tuttavia sentono il bisogno di manifestargli la loro gratitudine: «Padre - scrive un capitano - ho ancora l'anima piena di gioia e di pace dal giorno che ho avuto la grazia di parlare con lei; Padre, per carità, mi ricordi solo un istante nelle sue preghiere: ho tanto bisogno. Nelle mie, mi rivolgo al Signore pensando a lei. Non oso sperare una parola di fede scritta da lei. Le bacio come quel giorno con la stessa anima la croce e la mano. Mi benedica».
Un'anima traviatissima, che dopo due o tre abboccamenti con Padre Pio ritrovava la via che porta a Dio, scriveva: «Alla vigilia del mio matrimonio religioso che avverrà domani, e dopo che la santa confessione è già avvenuta, sia per me come per la mia compagna, lasciando in noi quella profonda soddisfazione che solo la divina misericordia del Signore può provocare, e ciò dopo fasi alterne in cui il demonio ha messo i tentacoli ch'egli aveva a propria disposizione, non posso fare a meno di rivolgere il mio pensiero riconoscente alla maestà del Signore ed a lei Padre, che con tanta misericordia ha ottenuto dal Signore ch'io fossi ricondotto sulla via della redenzione. Con animo profondamente e devotamente grato, assieme alla compagna, colgo l'occasione per augurarle un buon Natale, spiacente di non aver potuto recarmi da lei, onde poter fare la santa comunione ed avere la sua santa benedizione. Mi permetta di baciarle devotamente le mani, elevando il pensiero a Gesù crocifisso immolatosi per noi peccatori, e mi consenta anche di abbracciarla con affetto e di credermi il suo figlio spirituale».
In tutti era vivo il desiderio di volersi confessare da lui, voto che fu appagato la domenica delle Palme, 25 marzo 1934, giorno in cui ricominciò ad ascoltare le confessioni degli uomini ed il 29, 31 marzo e 1 aprile, insieme agli altri padri, confessò dall'alba fino a mezzogiorno, perché «l'affluenza di uomini fu grandissima».
Non è raro il caso che inveterati peccatori tornino a Dio e diventino ferventi cristiani. Uno che mai aveva avvicinato sacerdoti e viveva una vita da vero mondano, tornato a casa: «Dopo aver fatto stamane la santa comunione - scrive - mi appresto a rivolgere a lei, mio caro Padre, l'espressione della mia fervente gratitudine per avermi chiamato e posto sulla via tracciata dal Signore per la mia redenzione morale, ponendomi nella condizione di poter raggiungere, quando il Signore vorrà, la meta da me sempre sognata, e precisamente quella della mia dedizione al bene del mio prossimo in Cristo [...]. Grazie, grazie della sua grande bontà per la mia meschina persona. Quanto mi è cara la sua protezione in Cristo!».
Il 12 maggio 1934 riprende ad ascoltare anche le confessioni sacramentali delle donne: «Ogni mattina il numero dei fedeli che ascoltano la di lui Messa, è discreto. Nel celebrare vi impiega ordinariamente un'ora e un quarto e, a volte, un'ora e mezza. Da tutti è sempre ammirata la di lui devozione ch'è davvero straordinaria, edificante [...]. In media, nei giorni feriali, confessa da 10 a 15 uomini, e da 30 a 50 donne; nelle feste un po' di più».
Traboccante è l'affetto e la riconoscenza espressa per iscritto: «Vivere nella memoria delle persone - un dottore in medicina a Padre Pio - è una delle felicità più grandi a questo mondo; ed io mi lusingo che voi serbate per me quel ricordo che io ho per voi. Pregate per me il Signore, caro Padre; voi già sapete quello che insistentemente chiedo a lui: aiutatemi ad ottenerlo».
«In casa - è un avvocato di fresco convertito - non si fa che pensare continuamente a lei e non si parla che di lei, con il grande desiderio di ritornare costì per attingere nuova spinta dalla sua santa e fraterna parola».
«Con umiltà francescana - gli manifesta un altro convertito - mi prostro e mi umilio ai vostri piedi, ringraziandovi dell'infinito bene spirituale che voi mi avete donato e con cui avete arricchito l'anima mia. Io nulla sono, io nulla ho fatto di bene che non sia vostro».
«Cinque anni fa - è un preside di liceo - ebbi il gran conforto spirituale di visitarla e di ascoltare la sua parola. Non ho mai dimenticato quella visita e in modo particolare quei dolci momenti passati nella sua cella».
«Il 31 luglio - scrive un padre domenicano al provinciale - potei assistere alla santa Messa del Padre Pio e ne restai edificato e commosso. Però dove mi si rivelò più chiaramente la santità di lui, fu nella conversazione affabile, piena di spirito sovrannaturale, pur attraverso un tratto squisito e bonario. Potei anche confessarmi e restai soddisfatto dei suoi consigli dati senza sforzo e corrispondenti ai miei particolari bisogni».
«Pensavo poter venire quest'anno - dice un vescovo al padre guardiano - ma le conferenze episcopali me lo hanno impedito. Le accludo l'elemosina per 5 sante Messe che prego far celebrare a Padre Pio secondo le mie intenzioni. Dica al caro Padre che mi faccia sapere quando sarà opportuno che io lasci la diocesi per prepararmi meglio alla morte».
E un altro presule: «Benedizioni e saluti ex corde e a lei e al sempre carissimo Padre Pio dal primo vescovo che ebbe la consolazione di passare alcuni giorni costì, a S. Giovanni, riportandone, allora, 1919, e nelle visite degli anni seguenti fino al 1922, le più care, le più sante impressioni, che non si cancelleranno mai più».

Un lenzuolo bianchissimo

Se la prudenza non è mai troppa, attorno a Padre Pio non c'è prudenza che basti. Si dubita di lui sul voto di povertà e lo si accusa di maneggio di denaro senza i dovuti permessi. «Mi ha risposto - stralciamo dal diario di p. Agostino da S. Marco in Lamis - che avrebbe dato al provinciale spiegazione di tutto. Intanto a me ha detto che alle volte si è trattato di restituzione confessionale ed altre volte di passare una somma di denaro da una persona ad un'altra, perché la persona che dava il denaro non trovava persona di fiducia. Altre volte ha raccomandato persone bisognose ed in tanti hanno dato a lui l'elemosina, designando la persona bisognosa che non voleva essere conosciuta. Insomma dal complesso dei colloqui avuti mi sono convinto - come del resto lo ero prima - della rettitudine del padre in materia di povertà» (6 ottobre 1937).
Altra ombra a cui si tenta di dar corpo è il sospetto «che di notte si siano accostate donne al convento e che siano entrate anche in chiesa. «Si tratta però di lettera anonima al superiore locale, smentita poi da un'altra, anche anonima. Il Padre Pio interrogato, ha risposto: «Posso giurare che né io né i miei confratelli abbiamo aperto di notte la porta della chiesa o del convento, per intromettere donne; credo che nessuno può testimoniare con certezza di aver visto ciò con i propri occhi» (ivi).
Interrogato di nuovo dallo stesso p. Agostino sui sospetti e su certe dicerie che corrono sul suo conto, Padre Pio risponde che «a lui basta la testimonianza della buona coscienza davanti a Dio. Col provinciale farà tutte le dichiarazioni che si vorranno»; compativa, perdonava e pregava: «Mai mi è passato per il pensiero - dice - l'idea di qualche vendetta: ho pregato per essi e prego. Se mai qualche volta ho detto al Signore: Signore, se per convertirli c'è bisogno di una sferzata, dalla pure, purché si salvino» (p. 127).
Ma poiché in certi periodi, al superiore del convento lettere anonime arrivavano «a catena» e toccavano anche Padre Pio, volle sincerarsi personalmente dei fatti, per sfatare le vili menzogne, pur se personalmente non sfiorasse nemmeno il dubbio alla sua mente, «conoscendo la vita di preghiera e di penitenza e la bella virtù» del suo suddito prediletto da Dio.
«Sia d'inverno che d'estate - attesta il padre guardiano del tempo, ch'era p. Raffaele da S. Elia a Pianisi - mi toglievo i sandali, e così a piedi nudi andavo ispezionando, tanto da prendermi un buon catarro bronchiale, di cui purtroppo ancora ne porto le conseguenze. Questo lavoro durò parecchio, finché non cessarono completamente le anonime. Posso affermare con sicura coscienza e con giuramento che mai, né io né il p. Vittore, abbiamo notato il minimo inconveniente: mai ho trovato le strisce di carta [applicate come spie alle porte] lacerate».
A volte di notte si notava qualche gruppo di pellegrini che, recitate le loro preghiere, in genere il santo rosario e le litanie lauretane dietro la porta chiusa della chiesa, andavano via.
Padre Pio nei venerdì, specie di quaresima, la sera scendeva in chiesa per il pio esercizio della Via Crucis e poi risaliva, ritirandosi in cella, non pensando neppure che per lui il padre guardiano era in vedetta.
Il 24 febbraio 1939 tra la corrispondenza in arrivo vi è un'anonima ed il superiore, deciso anche questa volta a rendersi conto personalmente, «senza sandali, a piedi nudi - faceva freddo - si reca dietro l'uscio del coro per assicurarsi se Padre Pio fosse ancora là, e con mia somma sorpresa - esclama - e grande umiliazione sento che il povero Padre, tanto calunniato da anime vendute al diavolo, si disciplinava dicendo il «Miserere» a voce abbastanza chiara. E fu per me di grande consolazione constatare personalmente come il Padre macerasse le sue carni innocenti a scorno di quelli che lanciavano contro di lui le più nere calunnie».
La mattina dopo ancora la solita anonima: «Capii tutta la trama diabolica - conclude nelle sue memorie il padre guardiano - e d'allora in poi mandai tutto alla malora e più non diedi importanza alle solite anonime, avendo constatato che proprio in quelle ore citate dal maligno, o da qualche isterica invidiosa, il padre stava in coro a disciplinarsi», e poi scendeva in chiesa a meditare, nei venerdì di quaresima, sulla via dolorosa del suo Gesù ed a pregare, sostando all'altare di S. Francesco d'Assisi.
Da testimoni degni di fede sappiamo che in Padre Pio colpe non ve ne erano «specialmente di quelle che riguardano la santa purezza» (Epist. I, 192), e lo stesso Padre Pio confida al suo padre spirituale: «Il demonio non può darsi requie per farmi perdere la pace dell'anima e scemare in me quella tanta fiducia, che ho nella divina misericordia. E ciò principalmente si sforza di ottenerla a mezzo delle continue tentazioni contro la santa purità, che va suscitando nella mia immaginazione e dalle volte anche al semplice sguardo delle cose non dico sante, ma almeno indifferenti. Di tutto ciò me ne rido come cose da non curarsi, seguendo il suo consiglio. Solo però mi addolora, in certi momenti, di non esser certo se al primo assalto del nemico fui pronto a far resistenza. Certo che ad esaminarmi presentemente preferirei la morte prima di deliberarmi ad offendere il mio caro Gesù con un solo peccato, benché lieve. Mi dica un poco come debbo comportarmi intorno a ciò e ne sia sicuro, che coll'aiuto di Dio, le prometto di essergliene grato» ( Epist. I, 196).
P. Agostino da S. Marco in Lamis ci fa sapere quanto abbia fatto soffrire Padre Pio un brutto sogno: «Mi ha confidato un brutto sogno che ha fatto poche notti prima, dicendomi che l'aveva scombussolato profondamente, tentando di fargli lasciare anche la celebrazione della santa Messa. "È la prima volta che mi accade questa cosa - m'ha detto - e mi ha fatto dolorosa impressione che ancora non mi passa. Sono rimasto male... e prego e spero che non mi accada più, altrimenti sarei perduto"»; ed è disposto a giurare che Padre Pio ha conservato la sua verginità e non ha mai peccato neppure venialmente contro l'angelica virtù e le altre virtù (p. 87).
Padre Pio non è stato il primo e non sarà neppure l'ultimo uomo di Dio calunniato su tale materia. Lo furono i santi canonizzati, puniti da altrettanti santi canonizzati, che poi dovettero ricredersi di fronte alla innocenza dei poveri calunniati.
È proprio vero che ciascun uomo è per il suo prossimo o una rosa olezzante o una spina pungente!...
E se è anche vero che colui che mantiene il suo cuore puro e calmo avvolge Gesù in un lenzuolo bianco e lo seppellisce nel suo cuore, quello di Padre Pio è bianchissimo e Gesù vi si riposa con delizia.

SOLLIEVO AI SOFFERENTI

Chi pensa di amare Dio e trascura il prossimo, non lo ama veramente; e chi crede di ricordarsi di Dio solo quando «fa qualcosa per gli altri», erra. La strada, l'unica rivelata da Gesù, così stupendamente semplice, è: amore di Dio e del prossimo.
Uno fa qualcosa per gli altri nella misura in cui prega ed ama Dio.
Padre Pio amava gli uomini, e li amava sinceramente come figli di Dio e fratelli suoi, perché pregava molto. Per il loro bene spirituale era diventato «il cireneo di tutti»; per lenire le sofferenze della carne inventò «la cattedrale della carità» e la chiamò «Casa Sollievo della Sofferenza».

Fra le «molte grazie» con cui il Signore arricchì la sua anima - ce lo fa sapere lui stesso (Epist. I, 462s) - vi era una «grandissima» compassione verso il prossimo: vedere un povero, era subito sentire un «veementissimo» desiderio di soccorrerlo, spogliandosi «perfino dei panni per rivestirlo».

«Se so poi che una persona è afflitta, sia nell'anima che nel corpo, che non farei presso il Signore per vederla libera dei suoi mali? Volentieri mi addosserei, pur di vederla andar salva, tutte le sue afflizioni, cedendo in suo favore i frutti di tali sofferenze, se il Signore me lo permettesse» (ivi).

Casa Sollievo della Sofferenza

S. Giovanni Rotondo - per bocca dei suoi stessi abitanti - lamentava la mancanza d'un ospedale, degno di una cittadina civile; poté realizzare questo desiderio, che per il paese fu sempre «un mito», nel gennaio del 1925, quando si inaugurò il piccolo «Ospedale civile San Francesco», fondato con l'aiuto di volenterosi collaboratori da Padre Pio, il quale «volle che in questo Comune - ricordano le parole dell'epigrafe - sorgesse un ospedale. Egli raccolse tra i fedeli ammiratori i fondi necessari all'erezione dell'opera».
Due corsie, una per gli uomini ed una per le donne, con sette letti ciascuna e due camere riservate; attrezzatura idonea ai bisogni; presidente amministrativo dottor Leandro Giuva, direttore Francescantonio Giuva, e vice il dottor Angelomaria Merla, con la collaborazione del dottor Bucci che saliva da Foggia due volte la settimana; assistenza prestata prima dalle Suore Adoratrici del Sacro Cuore e poi dalle Suore del Preziosissimo Sangue.
Umile opera, ma che soddisfaceva «in modo egregio le esigenze più urgenti». Le cure ai poveri erano gratuite.
Dopo tredici anni di attività assistenziale, il piccolo ospedale chiudeva i battenti, perché il terremoto del 1938 aveva arrecato gravi danni ai locali. Restaurato e trasformato, il locale divenne asilo infantile.
Il terremoto aveva fatto crollare le mura che servivano alla carità per i fratelli, ma non aveva seppellito sotto le sue macerie la carità stessa, che nel cuore di Padre Pio cresceva a dismisura e che più tardi divampò in vasto incendio.
La miseria e il dolore bussavano alla porta del convento per trovare lenimento e speranza nel cuore, nella parola, nella preghiera di Padre Pio: quante volte si rattristava per le tante sofferenze che a lui si presentavano - attestano confratelli lungamente vissuti accanto a lui - e il più delle volte erano persone che giacevano nella miseria; «erano diecine e diecine gl'infermi che raccomandava a me (p. Raffaele da S. Elia a Pianisi), perché li mandassi dal professor Federico D'Alfonso, allora - sebbene residente a Pescara - direttore e chirurgo dell'ospedale di Atri; e il professor D'Alfonso, per riguardo a Padre Pio e perché suo figlio spirituale, li operava gratis senza pretendere nulla; anzi, a volte, rimettendoci anche del suo».
Finalmente la sera del 9 gennaio 1940 nasceva, nella sua cella, la «Casa Sollievo della Sofferenza» e l'idea divenne immediatamente operante.
I membri del minuscolo comitato, costituito lo stesso giorno, «per la fondazione di una clinica secondo le intenzioni di Padre Pio» - si legge nel verbale - sono: Padre Pio da Pietrelcina, fondatore dell'opera; dottor Mario Sanvico, segretario; dottor Carlo Kiswardaj, cassiere contabile; dottor Guglielmo Sanguinetti, tecnico-medico; signorina Ida Seitz, direttrice organizzazione interna; e «si conviene che tutto ciò che dovrà essere attuato dovrà essere sottoposto al consiglio del Padre».
Padre Pio frugò in una tasca della sua tonaca, estrasse una piccola monetina d'oro, donatagli per le sue opere di carità e, porgendola, disse: «Voglio farvi io la prima offerta per la Casa Sollievo della Sofferenza».
Da quel momento cominciarono ad affluire offerte: tante offerte, piccole e grandi, ed ebbe inizio «la mia grande opera terrena» dell'uomo spinto da un «veementissimo» desiderio nel soccorrere i fratelli sofferenti.
Il 25 maggio dello stesso 1940 i suoi amici per la prima volta vengono a conoscenza di un «sogno» di alcuni figli spirituali, da molto tempo vagheggiato: la costruzione nella regione del Gargano, a S. Giovanni Rotondo, di «un grandioso ospedale», «espressione della carità di Cristo» e che «potesse accogliere gratuita-mente, come un nuovo Cottolengo, tutti gli ammalati».
«Più volte - continuano questi figli spirituali - abbiamo raccolto dalle labbra e dal cuore sacerdotale di chi ci è Padre questo ardente desiderio e, fiduciosi nella divina Provvidenza, abbiamo deciso di attuarlo».
Dal 1940 al 1947 la marcia della carità sembrava soffocata dall'odio fratricida della guerra e da altre inenarrabili difficoltà.
Il 16 maggio 1947 si svolgeva la cerimonia per la posa della prima pietra e tre giorni dopo la brulla montagna incominciava ad essere squarciata dagli esplosivi per scavare le fondamenta del monumento alla carità fraterna.
Iniziata e proseguita senza un vero e proprio piano finanziario, il denaro affluisce dalle più varie ed impensate direzioni ma le fonti sono sempre quelle: carità ed amore.
Padre Pio pregava - e la Provvidenza apriva il cuore - «spiava» dalle finestre del convento il cantiere di lavoro, ascoltava i suoi diretti collaboratori e li consigliava ed incoraggiava, visitava personalmente la sua creatura, che cresceva a vista d'occhio, e bella, ed era contento: nel settembre del 1949 il rustico dell'edificio - cinque piani su un fronte di 110 metri per una profondità di 46 - era quasi terminato.
L'11 maggio 1951, a sette mesi di distanza dalla prima visita, Padre Pio va a rivedere il suo ospedale; si porta in cappella e rimane incantato di fronte alla bella vetrata istoriata, sale sull'ampia terrazza e s'indugia a guardare l'incantevole panorama, sosta nella camera operatoria, siede su uno dei seggiolini di metallo che compongono l'arredamento e conversa pacatamente con il seguito.
Di fronte al lavoro compiuto si allarga il cuore e si prende coraggio per il molto ancora da compiere; una rete di amici collabora instancabilmente perché gli aiuti non manchino e il danaro, che «affluisce come un fiume inestinguibile», si converte immediatamente in apparecchi, in cemento, in lettini.
Mentre la Casa è quasi pronta e si presenta all'occhio ammirato del visitatore nella sua «armonia e gaiezza», si comincia a pensare alle qualità tecniche e morali del personale di assistenza, il cui principio ispiratore - secondo il pensiero e la parola di Padre Pio - deve essere: «in ogni bisognoso c'è Cristo».
Oltre alla preparazione tecnica, le infermiere devono possedere in alto grado i requisiti morali, atti a renderle buone ed umili «ministre degl'infermi». È su quest'ultima caratteristica che poggia la funzionalità ideologica della «Casa»; ché, se per sfortuna, il personale d'assistenza (ma anche il personale medico) dovesse esserne sprovvisto «la nostra clinica non si distinguerebbe più dalle altre e moralmente sarebbe un fallimento».
La solida formazione spirituale è necessaria per poter comprendere e realizzare in ogni momento della giornata l'esortazione evangelica: «In verità vi dico: tutte le volte che avete fatto qualche cosa a uno di questi minimi, l'avete fatto a me». Questa è «la chiave di tutto il meccanismo della Casa, il marchio che la distinguerà dalla maggior parte delle cliniche consorelle».
Non si rigetta il profilo scientifico, e cioè la lotta della scienza contro il male; viceversa, lo si valorizza al massimo con l'apporto di tutti i mezzi moderni. Ma a questo motivo strettamente umano si sovrappone un motivo soprannaturale, l'attuazione del precetto della carità: «Tutte le volte che avete fatto...».
Il malato, il fratello malato, deve essere l'«hospes Christi». La mano del maestro che ha concepito e realizzato, nella monumentalità delle linee architettoniche, il sollievo della sofferenza ha inteso dare al complesso simmetrica maestà di un altare: l'altare di sorella Carità, l'altare dell'Amore cristiano. Chi ha concepito e chi ha realizzato l'Opera con un tale carattere, ha voluto anche dare, non solo ai sofferenti assistiti ma anche a tutti coloro che profonderanno nell'assistenza il loro fraterno amore, la sensazione precisa che le fatiche dell'assistenza si attenuano se essa è riscaldata dalla carità.
Il 26 luglio 1954 segna la prima meta raggiunta: si aprono gli ambulatori ed inizia il sollievo della sofferenza; il 5 novembre successivo entra in funzione la banca del sangue; il 5 maggio 1956 la notizia che tutti attendono: inaugurazione della «Casa Sollievo della Sofferenza».

La creatura della Provvidenza

Alla straripante folla presentava la creatura della Provvidenza lo stesso Padre Pio: «Signori e fratelli in Cristo, la Casa Sollievo della Sofferenza è al completo. Ringrazio i benefattori d'ogni parte del mondo che hanno cooperato. Questa è la creatura che la Provvidenza, aiutata da voi, ha creato; ve la presento. Ammiratela e benedite insieme a me il Signore Iddio.
È stato deposto nella terra un seme che egli riscalderà coi suoi raggi d'amore. Una nuova milizia fatta di rinunzie e d'amore sta per sorgere a gloria di Dio, a conforto delle anime e dei corpi infermi. Non ci private del vostro aiuto, collaborate a questo apostolato di sollievo della sofferenza umana, e la Carità divina che non conosce limiti e che è luce stessa di Dio e della vita eterna accumulerà per ciascuno di voi un tesoro di grazie di cui Gesù ci ha fatto eredi sulla Croce.
Quest'opera che voi oggi vedete è all'inizio della sua vita [...]. Una tappa del cammino da compiere è stata fatta.
Non arrestiamo il passo, rispondiamo solleciti alla chiamata di Dio per la causa del bene, ciascuno adempiendo il proprio dovere: io, in inincessante preghiera di servo inutile del Signore nostro Gesù Cristo, voi col desiderio struggente di stringere al cuore tutta l'umanità sofferente per presentarla con me alla misericordia del Padre celeste».
La voce di Pio XII convalida la bontà dell'Opera e la benedice e la loda: «L'ospedale di S. Giovanni Rotondo è il frutto di una delle più alte intuizioni d'un ideale lungamente maturato e perfezionato a contatto con i più svariati e più crudeli aspetti della sofferenza morale e fisica dell'umanità [...]. L'Opera progredita pazientemente tenace, si presenta come un magnifico successo, uno degli ospedali meglio attrezzati d'Italia, mercé i perfezionamenti della tecnica moderna, e uno dei migliori del Mezzogiorno; i servizi di radiologia e cardiologia, in particolare, sono stati provvisti di installazioni perfettissime» (8 maggio 1956).
Il 10 maggio 1956 entra il primo ammalato e pochi giorni dopo la clinica già ospitava un nutrito gruppo di degenti ed altri, da molte parti d'Italia, chiedevano informazioni circa le modalità di ricovero.
Padre Pio non faceva mancare la sua presenza anche fisica e alla festa del Corpus Domini si recava alla Casa per la processione di Gesù sacramentato. In questa occasione scrive anche il suo pensiero sul registro dei visitatori illustri: «Veni, vidi et exclamavi: benedictus Deus qui facit mirabilia magna solus: sono venuto, ho visto ed ho esclamato: benedetto il Signore il quale solamente fa cose grandi e mirabili ».
Al 31 dicembre dello stesso anno 1956 nella Casa si erano avvicendati duemila malati e sin dall'inizio del 1957 i trecento letti erano costantemente occupati ed era necessario aggiungere letti supplementari e già si chiedeva l'ampliamento dell'Opera.

Facciamo più grande l'Ospedale

Nel giorno del primo anniversario (5 maggio 1957) Padre Pio, tra l'altro, diceva: «Dio ha riscaldato con i suoi raggi d'amore il seme deposto [...]. Da oggi riprendiamo la seconda tappa del cammino da compiere»: adeguarsi «tecnicamente alle più ardite esigenze cliniche», aumentare il numero dei letti, completare la sistemazione perché l'Opera «diventi tempio di preghiera e di scienza, dove il genere umano si ritrovi in Gesù crocifisso, come un solo ovile sotto un solo pastore» [...].
«Quest'Opera se fosse solo sollievo dei corpi, sarebbe solo costituzione di una clinica modello, fatta con mezzi della vostra carità, straordinariamente generosa. Ma essa è stimolata e incalzata ad essere richiamo operante all'amore di Dio, mediante il richiamo della carità.
Il sofferente deve vivere in essa l'amore di Dio per mezzo della saggia accettazione dei suoi dolori, del suo destino a Lui.
In essa l'amore a Dio dovrà corroborarsi nello spirito del malato, mediante l'amore a Gesù crocifisso, che emanerà da coloro che assistono la infermità del suo corpo e del suo spirito. Qui, ricoverati, medici, sacerdoti, saranno riserve di amore, che tanto sarà abbondante in uno, tanto più si comunicherà agli altri».
Nel frattempo Padre Pio a volte si mostra «preoccupato ed anche un poco immalinconito»: si avvicina il momento in cui bisognava dire di no a chi veniva a picchiare alle porte della Casa Sollievo della Sofferenza. Già questo momento sarebbe venuto da tempo se - quando i sanitari sono andati a dirgli: «Padre, la clinica è al completo, non possiamo più ricevere nessuno» - Padre Pio non avesse risposto: «Mettete altri letti, sacrificate gli uffici, la biblioteca; ma non dite di no ai malati».
Ma quando non ci restò un centimetro quadrato di spazio e i malati non potevano essere sistemati nell'androne e per le scale, si provò di nuovo a dire al Padre: «Bisogna rifiutare ospitalità agl'infermi...», Padre Pio risoluto: «Ai malati non si nega mai nulla, non gli si può chiudere la porta in faccia. Che gli racconterai - parlava con il medico incaricato a riferire sulla situazione - a San Pietro? Io ho una bella laurea in medicina, ma ho chiuso la porta dell'ospedale sulla faccia degli ammalati?». Ed alla domanda: «Ma allora, Padre?...», la risposta secca e improvvisa: «Facciamo più grande l'ospedale».
Il 5 maggio 1958 Padre Pio, con accensione a distanza, nello studio del cappellano della clinica, faceva brillare la mina: segno d'inizio dei nuovi lavori; il 16 luglio benediva la prima pietra della nuova ala, riversava nello scavo una cucchiaiata di calcestruzzo e firmava la pergamena ricordo che, sigillata in un tubo di piombo e riempita da tante altre firme, veniva interrata accanto alla prima pietra.
A lavori ultimati (1966), la capacità recettiva di Casa Sollievo sale a 600 letti.
In questo primo ampliamento, oltre ai nuovi reparti, viene data una nuova e dignitosa sede all'alloggio delle Suore ed alla Scuola Convitto, esistente sin dal 1958: comodo soggiorno, corridoi spaziosi, stanze, aule, direzione.
Oltre alla Scuola Convitto per Infermiere professionali, nel 1963 entrava in funzione anche la Scuola per Infermiere e Infermieri generici e corsi di specializzazione tecnici di radiologia medica.
Alla nuova ala della clinica è collegata, da porte che immettono direttamente nei reparti, la nuova cappella di stile neoclassico, nata dall'assoluta insufficienza della primitiva cappella e di essa quattro volte più grande: ha l'altare maggiore, consacrato il 23 dicembre 1968, un altare laterale, una navatella, due matronei ed il coro.
Per la sua ampiezza si potrebbe chiamare chiesa, affiancata anche da un campanile, rimasto incompleto.
Nel 1970 fu arricchita di 14 stazioni della Via Crucis del pittore ceramista marchigiano Bruno Baratti di Cattolica.
Questa serie di «cotti» dagl'intenditori è giudicata opera di «scultura autentica», «una delle realizzazioni più importanti e originali della scultura italiana contemporanea».
Alla parete destra su un altarino vi è un quadro della «Natività» di Rutilio Manetti, della scuola del Caravaggio (?); alla parete sinistra un recente grande mosaico.

Sempre più grande e più bella

Con la raddoppiata disponibilità di letti, gl'indici di ricovero salgono rapidamente e già nel 1967 raggiungono i valori limiti. Particolarmente pressante si fa la necessità di una maggiore disponibilità di letti per il ricovero dei bambini e dei malati di medicina generale.
Padre Pio dispone tempestivamente per il secondo ampliamento e tra gli ultimi atti della sua vita terrena vi è l'approvazione di tale progetto, già pronto.
Il 6 luglio 1969 il card. Sergio Guerri pone la prima pietra del modernissimo padiglione e la costruzione, progettata dall'ingegner Poma Murialdo e tecnicamente diretta dal geometra Franco Gandolfi, viene inaugurata il 1 giugno 1973 dal card. Mario Nasalli Rocca di Corneliano.
La costruzione si articola in tre piani: il pianterreno è destinato ai servizi generali; il primo per l'ostetricia, con sala medici, sala ostetriche e ginecologia, direzione del primario, sale operatorie parto-travaglio, sala nido, psico-profilassi ostetrica, colposcopia, colpocitologia, con una capacità recettiva di 98 letti.
Il secondo piano è occupato dalla pediatria: direzione del primario, sezione neo-natali, sezione seconda infanzia, sezione prematuri, sezione malattie infettive; con una capacità recettiva di 150 letti.
L'impostazione funzionale della pediatria risponde a concetti modernissimi: si articola in un asse generale di disimpegno, su cui si innestano i servizi generali e si accede ai settori di degenza, che posseggono anche servizi propri con autonomia completa.
Ampie e magnifiche vetrate consentono ottima visibilità e accoglienza di soggiorno; i nuovi padiglioni sono collegati al corpo centrale da una luminosa galleria.

Una nave che tiene bene il mare

Ad ogni ampliamento della Casa corrisponde l'aggiunta di un cappellano cappuccino che, oltre all'assistenza dei degenti e del personale, insegnano cultura religiosa e morale professionale nelle scuole interne.
Il personale consta di 35 Suore dell'Istituto Apostole del Sacro Cuore di Gesù, di 75 medici e 600 impiegati. Anche se classificata casa di cura privata, la clinica ha sempre svolto funzione di pubblico ospedale, di cui ha tutti i requisiti organizzativi e funzionali, e perciò - seguendo il pensiero e il desiderio di Padre Pio - ricoverò indistintamente, a proprio rischio, qualsiasi malato, anche se privo di assistenza.
I criteri e le modalità proprie del pubblico ospedale, funzionanti nella Casa per la ospedalizzazione degl'infermi, hanno ricevuto il giusto e necessario riconoscimento giuridico il 4 agosto 1971 con la nuova legge ospedaliera, classificando la Clinica, con decreto del medico provinciale «Ospedale generale Provinciale», salva sempre la sua autonomia giuridico-amministrativa e il suo carattere privatistico.
I due aspetti, classificazione come ospedale e carattere privatistico, sono fondamentali per l'Opera perché possa perseguire liberamente i suoi fini istituzionali.
I servizi ed i titoli acquisiti dal personale della Casa sono stati equiparati ai servizi ed ai titoli acquisiti dal personale in servizio presso ospedali generali dipendenti da enti ospedalieri.
Prima di arrivare a tale riconoscimento si sono dovute creare le condizioni legislative richieste dall'art. 1, comma 5°; e 6°; della legge ospedaliera: costituzione di un Ente ecclesiastico di assistenza ospedaliera e suo riconoscimento dall'autorità civile. E di questo se ne interessò la Segreteria di Stato di Sua Santità, perché Padre Pio con testamento dell'11 maggio 1964 nominava il Sommo Pontefice pro-tempore erede universale di tutti i suoi beni.
Il Cardinale Segretario di Stato costituiva «Casa Sollievo della Sofferenza - Opera di Padre Pio da Pietrelcina» in «Istituto di religione e di culto», in «ente ecclesiastico non collegiale ai sensi dei canoni 1489 e seguenti del C.J.C. canonicamente eretto in persona morale di diritto pontificio» (6 aprile 1970).
Con decreto del Presidente della Repubblica (14 gennaio 1971, n. 14) veniva riconosciuta la personalità giuridica dell'Ente ecclesiastico, con lo statuto della fondazione stessa, che tra l'altro stabilisce: «L'Istituto dipende unicamente dalla Santa Sede, e per essa dalla Segreteria di Stato» (art. 4): «L'Istituto è presieduto e rappresentato da un Presidente nominato dal cardinale Segretario di Stato» (art. 6).
I membri del minuscolo comitato, costituito il 9 gennaio 1940, «per la fondazione di una clinica secondo le intenzioni di Padre Pio», non ci sono più: il «tecnico-medico» Guglielmo Sanguinetti di Parma, già medico condotto a Borgo S. Lorenzo, morì il 6 settembre 1954, all'età di 60 anni; il «segretario» dottor Mario Sanvico, agronomo, di Perugia, morì l'anno dopo, 1955; il «cassiere contabile» dottor Carlo Kiswarday, già farmacista a Zara, morì nell'agosto del 1960; e la «direttrice organizzazione interna» signorina Ida Seitz morì nel 1976.
Angelo Lupi, a cui è toccato in sorte di costruire l'edificio monumentale, ritornato a S. Giovanni Rotondo dalla sua Pescara, decedette nella «Casa» che egli aveva costruito, a 65 anni, il 1°; settembre 1969. «Con la sua morte si è chiuso il ciclo degli artefici della grande impresa, compiuta in mezzo a difficoltà che non sono state ancora fissate in un resoconto storico. La scomparsa di quelli che possiamo chiamare i pionieri non ha arrestato però il progressivo sviluppo della Casa, la quale, come una nave che tiene bene il mare, continua la navigazione con nuovi equipaggi e con la protezione del Signore».
Padre Pio è sempre vivo, «e per questo è viva la «Casa» che, con la carità dispensata a larghe mani, ne celebra ogni giorno la bontà e ne canta le lodi in cospetto del Signore. Esse salgono in Cielo, in ringraziamento delle grazie ottenute dal Signore tramite la sua intercessione» (1).
L'Opera è in continua espansione. Nel mese di maggio 1991 compiva 35 anni. Per l'occasione andava a San Giovanni Rotondo il cardinale Agostino Casaroli, già segretario di Stato di Sua Santità. Il giorno 24 l'eminentissimo porporato benediceva ed inaugurava nuovi reparti: sale operatorie, neurochirurgia, neurologia, urologia, endocrinologia, ampliamento di pediatria, ostetricia e ginecologia. E il giorno seguente (25 maggio 1991) lo stesso cardinale benediceva ed inaugurava la casa di riposo per persone anziane: palazzine, servizi generali e centrali tecnologiche.

(1) Cf. TRABUCCO C., Padre Pio e la sua Opera, S. Giovanni Rotondo 1974, pp. [54], [80].

TENEBRA E LUCE

Un tema suggestivo e importantissimo nella vita di Padre Pio - che merita di essere studiato ampiamente - non è tanto il «mare magnum»delle vicende a cui è andato incontro, per buona e mala fede da parte di una porzione del gregge, anch'essa del buon Pastore - e che indubbiamente non poteva non tormentarlo - ma il dramma che si svolge nell'intimo del suo essere, con le sconcertanti peripezie di uno spettacolo svelatoci, in parte, da lui stesso e dai suoi direttori spirituali.
I mistici e gli studiosi di mistica ci dicono che non si sale e non si tocca la cima dell'alta contemplazione, se non attraverso la morte delle purificazioni passive.

La vita di Padre Pio - da giovane (staremmo per dire da adolescente), da maturo, da vecchio - è caratterizzata da uno stato interiore perpetuamente contrastato, dove la pace mantenuta sulla «punta dell'anima» regna su una coscienza bruciata dall'angoscia, anche se non sempre della stessa intensità.

Noi qui lo segnaliamo e ne diciamo soltanto qualcosa per rapidi accenni, facendo notare che, anche se questo doloroso interno tormento non ha avuto sempre la tortura della fase acuta della vera «notte oscura», tuttavia non ha mai abbandonato Padre Pio (cf. Epist., I, 117 ss).

Mi preparai alla pugna

La dolorosa prova della notte oscura si protrae per lungo tempo nel suo itinerario spirituale; e presenta tutta la gamma delle purificazioni e dei tratti più significativi che contraddistinguono questa dolorosa tappa che prepara l'unione trasformante dell'anima con Dio.
Il fattore «divino», «diabolico», «morale», e «psicologico» sono gli elementi prevalenti di questo fenomeno mistico.
Dio con desolazioni sconvolgenti, abbandoni apparenti e con ogni sorta di dolori e sofferenze purifica l'anima chiamata alla divina unione e la spoglia da ogni impedimento che potrebbe ostacolare, ritardare o rendere impossibile quella meta irraggiungibile umanamente: «Mio Dio, e perché scuoti e rimordi, riscuoti ancora e sconvolgi con sì fatta violenza quest'annuvolata anima, quest'anima di già annientata, ed il suo annientamento dicesi mosso, causato e voluto di tuo stesso comando e permissione?» (Epist. I, 1037). «Con ripetuti colpi di salutare scalpello e con diligente ripulitura soglio preparare le pietre che dovranno entrare nella composizione dell'"eterno edificio". Queste parole mi va ripetendo Gesù ogni qualvolta mi regala nuove croci» (ivi, p. 329; cf. anche p. 339).
Con il solito zelo maligno, satana sfrutta questo stato doloroso dell'anima, abitualmente avvolta in dense tenebre, impedita a concretamente distinguere il bene dal male, la verità dall'errore, aumentando - la maledetta bestia - la confusione dello spirito e spingendo, non di rado, l'anima verso il precipizio della disperazione, mediante una lotta continua e spietata.
È un duello a morte, combattuto senza tregua e risparmio di colpi, tra l'anima e il suo accanito nemico. Assalti diabolici, camuffati sotto mentite spoglie, prima: forme spaventose, incrudelimento sui sensi, agendo, per così dire, sul mondo esterno; attacchi prevalenti alla parte superiore dell'anima, poi: assalti all'intelletto e alla volontà, con lo scopo preciso di impedire l'esercizio delle virtù teologali ed il progresso nell'amore divino.
Il «cosaccio» suscita nell'anima uno stato di sfiducia e di diffidenza nella divina misericordia, ma la reazione è immediata e vigorosa, con qualche strascico d'incertezza - a volte - causata più che altro dalla sincera disponibilità in cui si trova l'anima di non voler dispiacere minimamente al Signore: Padre Pio soffre non tanto per «la continua violenza» che deve fare a sé stesso, quanto per «la bruttezza e continuata ostilità» delle tentazioni.
Attacchi continui, e di giorno in giorno sempre più virulenti: «L'altra notte la passai malissimo. Quel "cosaccio" da verso le dieci, che mi misi a letto, fino alle cinque della mattina non fece altro che picchiarmi continuamente. Molte furono le diaboliche suggestioni che mi poneva davanti alla mente: pensieri di disperazione, di sfiducia verso Dio. Ma viva Gesù, poiché io mi schermii col ripetere a Gesù "vulnera tua, merita mea". Credevo proprio che fosse propriamente l'ultima notte di mia esistenza; o anche, non morendo, perdere la ragione. Ma sia benedetto Gesù che niente di ciò s'avverò. Alle cinque del mattino, allorché quel "cosaccio" andò via, un freddo s'impossessò di tutta la mia persona da farmi tremare da capo e piedi, come una canna esposta ad un impetuosissimo vento. Durò un paio d'ore. Andai del sangue per la bocca» ( Epist. I, 292).
«E tutt'altro che spaventarmi, mi preparai alla pugna con un beffardo sorriso sulle labbra verso costoro. Allora sì che mi si presentarono sotto le più abominevoli forme e, per farmi prevaricare, incominciarono a trattarmi con guanti gialli; ma grazie al cielo, li strigliai per bene, trattandoli per quelli che valgono. Ed allorché videro andare in fumo i loro sforzi, mi si avventarono addosso, mi gittarono a terra, e mi bussarono forte forte, buttando per aria guanciali, libri, sedie, emettendo in pari tempo gridi disperati e pronunziando parole estremamente sporche» (ivi, p. 330).
«Quei "cosacci" ultimamente, nel ricevere la vostra lettera, prima di aprirla mi dissero di strapparla ovvero l'avessi buttata nel fuoco [...]. Risposi che nulla sarebbe valso a smuovermi dal mio proposito. Mi si scagliarono addosso come tante tigri affamate maledicendo e minacciandomi che me lo avrebbero fatto pagare. Padre mio, hanno mantenuto la promessa! Da quel giorno mi hanno quotidianamente percosso. Ma non mi atterrisco» (ivi, p. 334).
«Ormai sono sonati ventidue giorni continui che Gesù permette a costoro [brutti ceffoni] di sfogare la loro ira su di me. Il mio corpo, padre mio, è tutto ammaccato per le tante percosse che ha contato fino al presente per mano dei nostri nemici» (ivi, p. 338).
«Ed ora, babbo mio, [p. Agostino] chi potrebbe narrarvi tutto quello che ho dovuto sostenere? Sono stato solo di notte, solo di giorno. Una guerra asprissima s'impegnò da quel giorno con quei brutti "cosacci". Volevano darmi ad intendere di essere stato rigettato da Dio» (ivi, p. 361).

La morte, prima che un solo peccato

Alla diabolica perseveranza, una tenace resistenza: Padre Pio è risoluto a tutti i costi a non venir meno all'amor di Dio, disposto a sopportare ogni sorta di tormenti e tribolazioni.
La incertezza di non corrispondere alle esigenze dell'amore e la paura di dispiacere a Gesù è la sofferenza più atroce per lui: «Di tutto ciò [le tentazioni impure] me ne rido come cose da non curarsi, seguendo il suo consiglio. Solo però mi addolora, in certi momenti, di non esser certo se al primo assalto del nemico fui pronto a far resistenza» (ivi, p. 196); «queste tentazioni mi fanno tremare da capo a piedi di offendere Dio» (ivi, 200); «ma di niente ho paura, se non della offesa di Dio» (ivi, p. 216).
La paura provocata dalla tentazione è grande, ma è pur certa la coscienza di non aver deliberatamente accolta la suggestione diabolica: «Certo che ad esaminarmi presentemente, preferirei la morte prima di deliberarmi ad offendere il mio caro Gesù con un solo peccato, benché lieve» (ivi, p. 196).
Coscienza tranquilla, ma vittoria conquistata a caro prezzo: «Mi trovo nelle mani del demonio, che si sforza di strapparmi dalle braccia di Gesù. Quanta guerra, mio Dio, mi muove costui! In certi momenti poco manca che non mi vada via la testa per la continua violenza che debbo farmi. Quante lacrime, quanti sospiri, padre mio, indirizzo al cielo per esserne liberato. Ma non m'importa. Io non mi stancherò di pregare Gesù» (ivi, p. 200).
Di tutte queste diavolerie successe in vita sua Padre Pio ne ha un così vivido e orrido ricordo, che il «cosaccio» non lo vuol vedere neppure in maschera: «25 gennaio 1923. A ricreazione un collegiale mette un berretto cornuto e la maschera da diavolo - stralciamo dal diario del guardiano p. Ignazio da Ielsi - preparata con cartone per rappresentazioni nelle ultime sere di carnevale. Vi è presente Padre Pio e gli dice: «Togli quella roba! Neppur per ischerzo», e fa atto di ribrezzo verso quella figura».
Eppure c'è chi al diavolo non crede; chi lo commisera ed alla fine dei tempi gli fa trovare misericordia presso Dio; e chi fa la storia della sua nascita, del suo declino e della sua morte.
Padre Pio ci crede - e come!... - trema per la sua debolezza di fronte alla potente astuzia di lui e ricorre a chi lo può aiutare: «Io non mi stancherò di pregare Gesù». Questo lo scriveva nel 1910 e Padre Pio veramente non si è mai stancato di pregare. Quell'abbozzo di propositi - senza data ma certamente stesi dopo il 1910 - trovati nella sua stanzetta n. 5: «In nomine Domini Nostri Jesu Christi. Amen. Devozioni particolari giornaliere. Non meno di quattro ore di meditazione, e questa d'ordinario su la vita di nostro Signore - nascita, passione e morte. Novene: alla Madonna di Pompei - a S. Giuseppe - a S. Michele Arcangelo - a S. Antonio - al p. S. Francesco - al SS. Cuore di Gesù - a S. Rita - a S. Teresa di Gesù. Giornalmente non meno di cinque rosari per intiero», sono stati abbondantemente superati: tutti sanno, per esempio, che Padre Pio era diventato un Rosario vivente.

Signore, salva la mia fede

Nella nuova strategia escogitata dal «cosaccio» - non spettacolare ed esterna, ma fatta di lancinanti torture interiori - che è quella di ostacolare gl'intimi rapporti tra l'anima e Dio, che si nasconde o manifesta attraverso una misteriosa caligine purificatrice sempre più densa e dolorosa; di tentare di scardinare il fondamento su cui poggia tutto l'edificio spirituale - la fede - proprio nel periodo in cui l'anima teme d'inciampare ad ogni piè sospinto; di giocare col dubbio quasi permanente sulla realtà delle relazioni dell'anima con Dio, mediante il rimorso di infedeltà apparenti o reali commesse e non riparate, la paura di offendere Dio, la incertezza di piacere o di dispiacere a Lui con la sua condotta...; di intensificare la lotta tra luce e tenebre, verità ed errore, sanità e peccato - Padre Pio sa dove attinger forza e coraggio: prega e fa pregare, con ripetute insistenti esortazioni ai suoi figli spirituali e devoti e, d'altra parte, non disdegna d'invocare con animo pieno di angoscia l'aiuto morale dei suoi padri spirituali, dalla cui intelligente ed oculata direzione ricava incalcolabili vantaggi.
Era un docile ed umile discepolo Padre Pio: «Mi sforzo di stare alle assicurazioni di chi tiene le veci di Dio» (Epist. I, 751), «mi sforzo a tutto studio di stare fermo a quanto mi è stato da voi detto da parte di Gesù» (ivi, p. 127).
L'anima, assetata di verità, inorridiva dinanzi alla possibilità di essere vittima delle insidie di satana o delle proprie illusioni. Consapevole che nulla vi è di più efficace nella presente economia della salvezza per vivere nella realtà, se non ascoltare la voce di Dio che parla attraverso i suoi legittimi rappresentanti, vi si dirige con assoluta sincerità per conoscere il loro parere e i loro orientamenti.
D'altra parte, poiché il solo pensiero della possibilità di non piacere a Dio gli causava indicibili sofferenze morali, che spesso si ripercuotevano dolorosamente anche nel fisico, l'autorevole assicurazione dei ministri di Dio si rendeva necessaria per conservare o riacquistare la pace e la tranquillità dello spirito: «Esaminate, ve ne prego, il presente scritto, e trovandovi in ciò inganno del demonio, non mi risparmiate di disingannarmi. Questo pensiero mi fa tremare; io non vorrei essere vittima del demonio» (Epist. I, 385); «vi scongiuro, per amore di Gesù, di esaminare attentamente la cosa e di non essere facile e tenero a voler giudicare bene di me; ma conoscendo di essere nell'inganno, aiutarmi, colla grazia del celeste Padre, ad uscirne il più presto» (ivi, p. 420).
I consigli, le norme, i suggerimenti del direttore producevano l'effetto desiderato: «Solo un po' di calma la trovo nel pensare e nel leggere i suoi ammaestramenti» (ivi, p. 214), solo questa [la voce che lo dirige] io seguo e da questa solo provo in qualche istante un po' di calma in mezzo a tante tempeste» (ivi, p. 850), «il solo sostegno che mi rimane in mezzo a tanto ruggire di tempesta è la sola autorità, cruda e nuda, senza refezione di spirito» (ivi, p. 1210), anche se non sempre riuscivano a portar luce allo spirito - specialmente in determinate circostanze dello stato di purificazione - e l'assoluta, incondizionata adesione alla volontà di Dio, manifestata per mezzo dei direttori, si risolveva in una «credenza secca», priva di «ogni affetto dolce»: accettazione dolorosa per la natura, sostenuta da fede pura, senza nessun conforto sensibile: «Mi sforzo di stare alle assicurazioni di chi tiene le veci di Dio, ma nell'anima non può mai scendere un raggio di luce. Una credenza secca, senza alcun conforto e solo bastevole a non gittare l'anima nella disperazione» (ivi, p. 751 s), «a questa autorità mi affido qual bambino sulle braccia della madre e spero e confido in Dio di non andare errato, sebbene il mio sentimento mi vuol far credere tutto il possibile» (ivi, p. 800).

Dov'è andato il mio Gesù?

Accettazione penosa che il tentatore aggravava, ingenerando nel suo animo il timore che fosse adesione apparente, puramente esterna e non obbedienza sincera e profonda: dubbio che diventava «posizione quasi disperata» quando, scomparso il ricordo delle assicurazioni ricevute, l'anima si abbatteva contro l'altro scoglio, se cioè quell'atto di obbedienza al direttore fosse veramente uniformità o no al volere di Dio: «Vorrei, e mi sforzo sempre a volerlo, anche per rendere meno malagevole la posizione mia, quasi disperata, acquietarmi alle dichiarazioni fattemi dalla guida. Ma che! Il solo dire «credo», costituisce per me un atroce martirio; e quando si è giunti a proferire questo «credo», che amarezza rimane in fondo all'anima che si va spegnendo alla luce creata senza vedere altra luce! E il più delle volte, e questo è ordinario ed il peggio si è che sparisce dalla mente ogni assicurazione, ogni dichiarazione, ogni esortazione, ogni consiglio che le è venuto dalla guida» (ivi, p. 1097).
La totale sottomissione del suo spirito al giudizio ed al controllo del direttore l'accompagnò sino alla tomba; quel che scrisse nel 1916 si può applicare a tutti gli anni di sua vita: «Non mi sono affidato mai a me stesso e posso dire davanti alla mia coscienza di non aver mai dato un passo senza l'altrui consiglio. E su certi passi specialmente già dati, ci sono sempre ritornato sopra, chiedendo sempre nuovi lumi a quante persone mi sono capitate» (ivi, 725).
Da questa norma e necessità nacque il dispiacere («rimase amareggiato») quando fu privato della direzione di p. Benedetto da S. Marco in Lamis, anche se «si sottomise con santa rassegnazione alla disposizione», annota nel suo diario p. Agostino (p. 61): «Non vedo che tenebre nell'anima mia - diceva al p. Agostino -. Sarà contento di me il Signore?» Si acquietava poi a qualunque assicurazione del padre spirituale. Alle volte io gli dicevo: «Ma rispondi a te stesso in codeste prove ciò che dici a tante anime!...». Egli aggiungeva: «Nelle altrui anime io vedo chiaro per grazia di Dio, ma nella mia non vedo che buio». La risposta della direzione spirituale lo calmava sempre [...]. Da due anni il Signore gli ha mandato una prova terribilissima, quasi continua. In qualunque sua azione il povero padre non può avere, non dico la certezza morale, ma neppure il ragionevole sospetto che l'azione sia accetta a Dio. Senza dubbio non è uno scrupolo (perché questa prova degli scrupoli la soffrì da studente forse nel 1905 o 1906) ma è un timore che non sparisce neppure ricorrendo ai principi generali e riflessi della morale. La voce dell'obbedienza lo sostiene e lo fa andare avanti. Alle volte gli succede di dire con la bocca ciò che non sente né vorrebbe dire. È una prova terribile: ma il Signore non ha mai permesso di recare nocumento alle anime che egli dirige e consiglia (ivi, p. 65).
Di questa prova spirituale sempre tormentosa, con i suoi alti e bassi, se ne accorsero anche le anime dirette, a lui più vicine; difatti una di esse attesta: «Vi fu un tempo in cui Padre Pio doveva trovarsi in grande aridità di spirito, perché lo si sentiva sospirare e mormorare sotto voce: «Dov'è andato il mio Gesù?...».
Vi fu un tempo in cui fu assalito dal dubbio che non guidava bene le anime, ed allora se ne andò a S. Marco la Catola. Ivi si trattenne per qualche tempo; noi ne bramavamo il ritorno. E tornò fra noi che fu una gioia per tutti. Molte volte lo sentivamo biascicare fra i denti: «Nel dubbio libertà... E queste parole le ripeteva spesso».
Questa tortura «è un chiodo sempre conficcato nell'anima» e p. Agostino nel suo diario ne parla spesso (cf. per es. pp. 76, 78, 80, 86, 100, 102, 114,127, 236...).
A questa spina conficcata nell'anima; a questo chiodo duro, fisso, straziante che gli trapana il cervello; a questo «sempre buio», in cui vagola il suo agire morale, che qualche giorno «comincia con la Messa e finisce col confessionale», non mancano altre sofferenze: estrema stanchezza fisica, nutrimento scarsissimo, lavoro esuberante, accuse calunniose, visite frequenti di febbri con temperatura altissima (oltre i 42°;), coliche renali, foruncoli al naso...
Eppure per nascondere le sue sofferenze Padre Pio si mostra ilare e gioviale, mentre Dio solo sa che soffre nell'anima. Oh veramente servo buono e fedele! Sotto il peso della sua «cara croce», che - pensa - durerà sino alla morte, «non si persuade» delle assicurazioni del direttore spirituale «ma crede», prega e si raccomanda alle altrui preghiere con la condizione, però, che sia fatta sempre la volontà divina.

Buio per sé, luce per gli altri

Buio per sé, anche se saputo abilmente celare; luce per gli altri: Padre Pio ha veramente il dono di comunicare la pace e la tranquillità alle anime che a lui ricorrono, anche perché il suo magistero, scaturito dal suo tratto intimo con Dio, è condito e rivestito da una sensibilità squisita e profondamente umana: si rallegra vivissimamente del bene che fanno le anime a lui affidate, delle mete da esse raggiunte, della pace riconquistata; si rattrista, invece, davanti alle loro pene e vorrebbe che il Signore le riversasse su di sé, lasciandone tutto il merito a chi soffre; fa suoi i problemi degli altri, i dolori degli altri, le gioie degli altri. Egli è come l'incarnazione dell'ideale paolino: «Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno» (1 Cor. 9,22).
«Interrogato sul conto spirituale di alcune anime, a lui note dinanzi a Dio, m'ha risposto meravigliosamente, con giudizio ponderato e retto e secondo coscienza. Il Signore tiene il padre nell'oscurità per sé, nella luce per gli altri» (p. Agostino, o. c., p. 88).
Consapevole di trasmettere norme e dottrina attinte non da esperienza umana o da dialettica fredda e astratta, ma da mozioni divine: «Dio sa quanto ho poi pregato Gesù ché mi manifestasse la sua volontà in proposito di quell'angelica creatura! Il pietoso Gesù mi assista e la sua santissima Genitrice diriga la mia mano, perché possa ritrarne in iscritto fedelmente, almeno in parte, ciò che essi mi vanno suggerendo» (Epist. I, 379), dirige con mano ferma e decisioni asciutte e categoriche, con indovinata applicazione dei principi ai singoli casi personali, con chiarezza, sincerità e franchezza, sia nel riprendere che nel consigliare ed incoraggiare.
Il risultato della sua direzione felice ed efficace è aiutato anche dal dono particolare di scoprire le insidie con cui satana impedisce l'ascesa delle anime, di mettere in evidenza l'azione della grazia e la realtà delle divine predilezioni e di tranquillizzare quelle turbate e sconvolte da dubbi, incertezze e tentazioni, con parola sobria, schiva di disquisizioni dottrinali, con diagnosi sempre accurata e precisa, seguita da una terapia appropriata e positivamente risolutiva.
Scomparendo dietro l'autorità di Dio, sapendo di trasmettere un messaggio non suo ma di Gesù, compie la sua missione con una certa audacia e linguaggio franco e schietto - anche se addolcito da amabili trovate - esigendo che quel messaggio sia accettato senza discuterlo e seguito con prontezza e fedeltà: «Non vi spaventate per cotesta novella croce, a cui il Signore vuole assoggettarvi. Il tutto riuscirà a gloria di Dio ed a maggior vostra santificazione. Statene sicuro di questo. Ed intanto preparatevi, padre mio, ad altre maggiori prove, alle quali il buon Gesù vi assoggetterà. Sono crudele, purtroppo, nel manifestare a voi tutto ciò: ma mi si perdoni; la corona che il Signore mi fa vedere, e che per voi si va lassù intrecciando, mi fanno uscire dal mio riserbo» (Epist., I, 543); «ed al riguardo Gesù è disgustato alquanto di voi; ed egli mi ha fatto sentire che dovete saldare il conto con lui di tutto ciò che è avvenuto ed avverrà a quell'anima in seguito. Perdonatemi, padre mio, se ho avuto tanta sfacciataggine di trascrivervi queste ultime parole. Voi intanto sapete il tutto e ben comprenderete se mi è potuto o no riuscire possibile il non farlo» (ivi, p. 550).
L'efficacia e i buoni frutti di una tale direzione li possiamo conoscere da coloro ai quali Padre Pio dirigeva i suoi insegnamenti: «dilucida egregiamente la mia condizione interiore», dice p. Benedetto da S. Marco in Lamis e parlando della forza persuasiva dei suoi argomenti: «La sua assicurazione mi ha calmato e procuro tenermi stretto ad essa».
Fatto veramente paradossale: avvolto nelle più dense tenebre, Padre Pio che non vede il cammino da seguire nell'ascesa verso il Signore, incapace di risolvere i propri dubbi ed incertezze, impotente a discernere da solo l'influsso di satana dall'azione di Dio e di calmare lo spirito sempre in tempesta, quando prende in mano la direzione degli altri sembra un'altra persona: «dilucida egregiamente» i problemi più complessi della vita interiore, detta norme e consigli che irradiano nelle anime luce vivificante, pace rasserenante ed incrollabile sicurezza; le sue parole, dette o scritte, hanno un calore ed una unzione che conquidono, una forza irresistibile che trascina; tutti aderiscono fiduciosi alle sue direttive e tutti ne traggono copiosi e benefici risultati.
E le anime in cerca di pace e tranquillità sono una turba che aumenta di giorno in giorno, colorata anche di grigioverde negli anni quaranta e seguenti, cataclisma mondiale irrorato di sangue e carne umana sbrindellata dalla brama di dominio e dall'odio di razza, che rode l'animo e lacera il simile ed a cui Padre Pio pone una diga come può, pagando sempre di persona: «In questo periodo così burrascoso, Padre Pio non si risparmiò. Difatti un giorno mi chiese - è il guardiano p. Damaso da S. Elia a Pianisi che racconta - con mia grande meraviglia, di voler dormire nella scoletta (quando c'era il collegio, ivi si tenevano le lezioni) tutta disordinata, ripostiglio di arredi, buoni e fuori uso. Insistette che gli avessi fatto preparare il letto in tale locale. Il giorno dopo, accontentato il suo desiderio, abbiamo dovuto chiamare il medico. E per non far vedere quello spettacolo al dottore, spettacolo di disordine, cercai di coprire alla meglio tutto con le lenzuola. E Padre Pio, dimentico dei suoi mali, celiando elogiava quello spettacolo di bianco. Il medico venne - Merla - lo visitò e gli ordinò una buona tazza di caffè (oh Padre Pio in Paradiso pensasse a noi!...). Dietro la mia premurosa insistenza oppose una calda preghiera di offrire la tazza di caffè a fra Crispino da Deliceto (povero fra Crispino era così bravo; che stiano tutti in Paradiso!...) che era ammalato nella stanza dirimpetto. Io gli feci capire che c'era anche per fra Crispino, ma Padre Pio mi pregò con tanta garbata insistenza, che mi convinse e non insistetti e gli feci il piacere tanto bramato. Padre Pio non mi disse niente, ma capii che egli soffriva molto e si manteneva solo con la comunione (oltre venti giorni senza mangiare e senza bere); e pregava il Signore di risparmiare il Gargano dal disastro della guerra. Io son convinto che San Michele e Padre Pio ci hanno salvato il Gargano».
Le relazioni bimestrali di quegli anni (1944, 1945 e seguenti) parlano di «sfollati e soldati in buon numero», «di molti soldati di varie regioni d'Italia», «di parecchi ufficiali del nostro esercito», «di soldati ed ufficiali alleati che avvicinano il Padre Pio», «di domenica la sua Messa è affollatissima di soldati ed ufficiali alleati, che vi assistono con grande raccoglimento. Molti di essi si accostano alla santa comunione. Anche i protestanti vi assistono con edificazione di altri fedeli: spesso si vedono commossi».
Padre Pio è sempre assiduo nell'ascoltare le sacramentali confessioni ed «il suo confessionale è sempre affollatissimo»; da quando il continuo aumento dei visitatori fa «scoppiare» la povera chiesetta, si cerca di risolvere il problema dello spazio con la celebrazione all'aperto, almeno per la stagione estiva.

La sua agonia è tanta grazia

Dove Padre Pio prende tanta energia fisica, pur essendo il suo corpo spesso visitato da malattie brevi ma sfibranti, accompagnate da febbri altissime; e come alimenta vigorosamente il suo zelo per la salute - e corporale e spirituale - del prossimo, è facile rispondere: «Quando gli si parla ed egli parla - diario di p. Agostino da S. Marco in Lamis - ci si accorge che il suo cuore e la sua mente non si distraggono dal pensiero e sentimento di Dio (15-19 dic. 1942); dopo l'ufficio, resta quasi due ore solo in coro in raccoglimento e preghiera ed unione intima con Dio (2-6 genn. 1943); l'unione spirituale con Dio è abituale. Difficilmente si distrae dal pensiero incessante di Dio. Circa il fenomeno di molta gente che va o a confessarsi con lui o a consultarlo egli serba la massima indifferenza, quale strumento docile ed umile nelle mani della Provvidenza (6-12 febbr. 1943); la vita del padre si sviluppa sempre col solito ritmo, sull'altare del Sacrificio, nel tribunale di Penitenza, nel coro per l'Ufficio e le preghiere in comune ed in particolare. Dopo vespro si trattiene sempre in coro nel suo raccoglimento con Dio. È il suo vero riposo dopo le fatiche del ministero (21 genn. 1945)».
Mentre sente la nostalgia del cielo, la divina volontà lo tiene sulla terra per la salvezza di tante anime ed egli compie a puntino questa volontà, senza mai lamentarsi della condotta di Dio nei suoi riguardi. Non nasconde ai confidenti le sue pene, fa capire anche che il dolore lo sente, ma la conclusione è sempre la stessa, e manifestata con tanta e tale convinzione e sottomissione al volere di Dio, da infondere nell'anima una dolce rassegnazione: «Ma sia fatta sempre la volontà di Dio».
È la lucerna che il Signore ha posto sul moggio: non può occultarsi e attira tante anime con il suo chiarore e calore.
Tra i visitatori che si recano a S. Giovanni Rotondo, vi è anche il generale dell'Ordine dei Cappuccini, il cui viaggio ha uno scopo ben preciso. Eletto nel giugno 1938, il reverendissimo p. Donato da Welle ebbe in consegna tutta la documentazione sul «caso Padre Pio da Pietrelcina».
Informatosi, come meglio poté e sulle carte e degli uomini, invocato lo Spirito Santo - è lui che lo dice nella sua relazione - partiva alla volta di S. Giovanni Rotondo per incontrarsi (era la prima volta) con lui, trattenendosi alcuni giorni per rendersi «esattamente conto» di tutto ciò che riguardava lo «stimmatizzato» e l'«ambiente» in cui viveva. "Ho esaminato le stimmate ed ho parlato spesso con Padre Pio d'ogni genere di questioni: volevo in questo primo incontro indagare circa - se posso esprimermi così - l'uomo naturale del Padre. Era forse neuropatico? isterico? molle? violento? immaginario? poco intelligente? triste? esaltato?... Dopo ripetute prove, in tutti i sensi, ho potuto concludere che Padre Pio era assolutamente sano di spirito e mi rimase la certezza d'una semplicità e sincerità ch'era incapace d'ingannare o di dire un «sì» per un «no»».
Partì confortato e sollevato, con grande speranza di buon esito anche per le future visite, tenendosi sempre informato per mezzo dell'«ottimo» p. Agostino da S. Marco in Lamis, «uomo di Dio pio e sapiente», da molti anni direttore e confessore di Padre Pio.
Da parte sua il padre generale, approfittava di ogni occasione per recarsi a S. Giovanni Rotondo personalmente: visita canonica alla provincia religiosa (7 agosto 1941), presidenza al capitolo provinciale, convegno dei direttori del Terzordine francescano ed altri viaggi (anche durante la guerra, grazie al passaporto vaticano come direttore del collegio etiopico).
Ogni nuovo incontro era un aumento di stima «per la pratica eroica della virtù» di Padre Pio: «Non parlavo mai né col Padre né con l'ambiente delle cose straordinarie che vedevo e sentivo attorno a me: miracoli, guarigioni, estasi, conversioni. Forse faccio bene a riferire qui un fatto vissuto personalmente. Un mattino alle cinque stavo per recarmi in chiesa. Un religioso mi disse: «Padre Pio è tanto sofferente». Difatti lo trovai in gravissimi dolori, che il medico accanto a lui tentò vanamente di calmare. Dopo qualche parola di conforto, mi recai in sagrestia e celebrai la santa Messa, che Padre Pio soleva celebrare in quell'ora. Alla fine della santa Messa fui seguito da un gruppo di uomini in sagrestia. Volevano confessarsi. Io mostrai le mani aperte per mostrare che non ero io il Padre Pio. Dissi loro che il Padre si trovava nell'impossibilità di venire e chiedevo se non potevano aspettare l'indomani. Mi risposero che questo era impossibile. Avevano viaggiato tutta la notte; disponevano di quella giornata e dovevano lavorare in una fabbrica la mattina seguente. Io dissi loro: «Voi sapete che ogni sacerdote autorizzato può absolvere tutti i penitenti ben disposti e domanderò un altro padre per ascoltare la vostra confessione». Mi chiesero se non potevo ascoltarli io. Lo feci volentieri. Esperimentai così che quasi tutti questi operai ed impiegati non avevano più frequentato i sacramenti da molti anni. Non ho potuto impedirmi di vedere un rapporto tra l'agonia di Padre Pio e la presenza simultanea di tanta grazia».

La breve relazione del padre generale termina con testimonianze vissute «in loco e personalmente»: «Posso e devo affermare che in tutti i contatti che ho avuto col Padre Pio sono stato profondamente impressionato della pratica delle virtù:
1) - la sua serenità ovunque e sempre;
2) - l'umiltà: non parlando mai di se stesso;
3) - il parlare: mai una parola dura riguardo a chi tanto lo offese;
4) - raccoglimento abituale - ma in ricreazione allegria e spontaneità, però senza mai una parola triviale o meno conveniente;
5) - un tenero affetto verso i superiori ed una perfetta obbedienza a tutte le autorità ecclesiastiche o religiose;
6) - pietà sana, modestia, senza enfasi.
Quanto ho riferito qui sopra riposa su l'esperienza mia personale durante le mie funzioni - prolungate di due anni (causa della guerra). Dopo il mio ritorno nella mia provincia del Belgio, il p. Agostino da S. Marco in Lamis mi tenne al corrente di quanto accadeva a S. Giovanni Rotondo fino alla sua morte.
Nel Belgio il Padre Pio era già molto conosciuto. Gruppi di preghiera si sono formati. Ho ricevuto e trasmesso centinaia di lettere con offerte per raccomandarsi alle preghiere del Padre Pio. Personalmente devo aggiungere che considero il Padre come un gran santo. Lo tengo presente in tutta la mia vita d'apostolato nel confessionale e celebro ogni mattina la santa Messa in unione con lui. So che molti pii sacerdoti fanno altrettanto e che numerosissimi sacerdoti, religiosi e laici pregano nel Belgio per la pronta beatificazione di Padre Pio. Devo chiudere questa breve relazione e scusarmi, come feci già in principio, della povera scrittura e degli sbagli di lingua e di grammatica. Ma ho scritto in coscienza dinanzi a Dio in tutta verità».
Ai principi di ottobre 1946 Padre Pio ebbe un'acuta sofferenza per la perdita del genitore: «Zi' Grazio» volò al cielo il 7 del detto mese. Degente nella casa della signorina Maria Pyle, poco distante dal convento, aggravatosi la notte del 4 ottobre, Padre Pio scese a visitarlo e stette al suo capezzale, sino al mattino. Vi ritornò i giorni seguenti e «Zi' Grazio» morì alla sua presenza. Il giorno 8 si svolsero i funerali nella chiesetta del convento e nelle ore pomeridiane il mesto corteo s'avviò al cimitero del paese.
Padre Pio rimase a letto, a soffrire e a pregare; sino al giorno 14 poté soltanto celebrare la santa Messa, portandosi poi a letto, perché si sentiva accasciato: il suo spirito era sollevato, perché rassegnato e unito a Dio, ma la carne era depressa. Il 15 cominciò di nuovo la sua vita ordinaria, confessando e ricevendo quelli che a lui ricorrevano.

Andate, ne avrete del bene

Il fuoco divoratore che da cinquant'anni arde nel cuore di Padre Pio per il Signore e i suoi redenti, continua a consumare la vittima: è il prezzo dei doni «belli e tremendi».
La guerra esterna di persone, «collegate con satana, continua; ma il Padre va avanti nel nome di Dio - annota nel suo diario p. Agostino da S. Marco in Lamis il 3 sett. 1952 - come se nulla lo riguardasse, mentre il suo animo è amareggiato».
Quale «provvidenziale strumento del Signore», richiama anime a Dio, che gli esprimono la loro riconoscenza a voce e per iscritto con molte lettere «davvero commoventi», per grazie temporali e spirituali ricevute, od esprimendo «sentimenti di anime che soffrono, che domandano un consiglio, una parola di salvezza».
Il 22 gennaio 1953, cinquantesimo di vestizione religiosa di Padre Pio, è giorno solenne: la chiesina non può contenere «la folla di popolo».
«Gli attestati di grazie crescono. Si notano conversioni di comunisti e di increduli - diario di p. Agostino, giorno 8 febb. 1953 - La corrispondenza epistolare cresce. In mezzo a tante dimostrazioni di ammirazione, di amore Padre Pio rimane nella sua semplicità ed umiltà, attribuendo il tutto alla gloria di Dio, autore di ogni bene. L'immagine ricordo è stata dettata dal padre stesso».
Verso la fine del 1954 circola la voce di voler portare via Padre Pio: un trasferimento, questo, riproposto da un monsignore curiale romano. Pio XII, invece, riafferma benevolenza e stima al venerato Padre, il quale, commosso e grato per la benedizione che il Santo Padre si è benignato inviargli, ricambia il gesto del Papa con la preghiera per la sua «preziosa salute».
Ad un gruppo di pellegrini francesi, che chiedevano a Pio XII se potevano recarsi a S. Giovanni Rotondo, rispondeva: «Sì, sì andate, ne avrete del bene». E nel 1949 si tratteneva brevemente in udienza privata con alcuni missionari della provincia cappuccina di Foggia:

«Il Papa: "Missionari in Eritrea? Di quale provincia siete?".
Padre Ferdinando: "Di Foggia, Santità".
Padre Francesco: "Della provincia di Padre Pio".
Il Papa: "Lo so! E come sta Padre Pio?".
Padre Ferdinando: "Sta bene, Santità".
Il Papa: "Ci va molta gente? È vero?".
Padre Ferdinando: "Sì, Padre Santo, e fa tanto bene".
Il Papa: "È un sant'uomo!".
Padre Francesco: "Padre Santo, gli mandi una benedizione speciale".
Il Papa: "Sì, di gran cuore".
Poi il Papa, muovendo il capo prosegue: "Tanto buono... tanto buono... beato lui!..."».

Padre Pio sentì «tutto il dolore per la morte del Papa Pio XII. Ma poi il Signore glielo ha fatto vedere nella gloria del Paradiso», afferma p. Agostino da San Marco in Lamis nel suo diario (giorno 18 nov. 1958).
In quegli anni l'afflusso della «tanta gente» affrettò la soluzione del problema dello spazio e il 31 gennaio 1955 si iniziarono i lavori di sterro per l'erezione della nuova chiesa e il 2 luglio del 1956 vi fu la cerimonia per la posa della prima pietra.
Mentre le opere si moltiplicano, di pari passo aumentano le sofferenze di Padre Pio: sembra che il bene a S. Giovanni Rotondo non nasca e non cresca se non ci sia una buona porzione di sue pene: «Egli soffre e molto per l'opera provvidenziale della clinica che, dicono, sarà inaugurata il 5 maggio. Soffre anche per la nuova chiesa, i cui lavori sono cominciati da quasi un anno. È la lotta di satana che ora combatte le opere di Dio che vuole la gloria del nostro amato Padre» (p. Agostino, o.c., 23 marzo 1956).

Voglio morire in convento

Padre Pio continuava a camminare per la sua via, consumando la vita per i due grandi amori: Dio e anime; e assieme al quotidiano, sfibrante ministero prende parte, come può, alla vita comune. Lo sforzo di ogni giorno, imposto al suo fisico, bisognoso invece di riposo (i santi si riposano in Paradiso), fece sì che «quel malessere che avvertiva già dalla seconda metà di aprile - stralciamo dalla relazione bimestrale 10 luglio 1959 - si aggravò ai primi di maggio, tanto da non poter dire la santa Messa neppure il giorno del suo onomastico. Trattavasi di pleurite essudativa per cui dovette mettersi nelle mani dei medici per le cure del caso, che non finiscono ancora. Si celebra la Messa nella sua stanza e fa la santa comunione».
Il 4 giugno i professori Gasbarrini e Pontoni, venuti a S. Giovanni Rotondo, non consigliarono più l'estrazione del siero, praticato già tre volte, ma suggerirono l'assorbimento con le medicine. Padre Pio soffre, perché «non può continuare la vita quotidiana col suo ministero spirituale per il bene delle anime. Nella sua camera per mezzo del microfono ascolta le funzioni che si svolgono in chiesa e dopo la funzione rivolge al popolo sante parole e dà a tutti la sua benedizione. Le lettere dall'Italia e dalle altre nazioni si sono moltiplicate, dalle quali si vede che milioni di anime pregano per la salute del Padre» (ivi, 8 giugno 1959).
Il 30 giugno, dopo un consulto medico tra i professori Gasbarrini, Pontoni, Valdoni e Toniolo, a Padre Pio viene consentita una ripresa parziale dell'attività.
Il 1°; luglio celebra nella cappella di Casa Sollievo della Sofferenza; per mancanza di forze rimane in clinica ed il giorno seguente non celebra: gli si era formato di nuovo abbondante liquido pleurico, che gli venne in gran parte estratto, e fu obbligato dai medici curanti a lunga cura ed a riposo assoluto. Il liquido non gli si formò più; quello rimasto dopo l'ultima estrazione veniva lentamente assorbito, ma le forze non ritornavano, Padre Pio si sentiva estremamente debole.
L'1 e il 2 luglio si svolgevano con grande fervore e con eccezionale partecipazione di fedeli, le annunciate celebrazioni per la consacrazione della nuova chiesa, dedicata alla Madonna delle Grazie, la cui immagine veniva solennemente incoronata dal cardinale Federico Tedeschini.
La mattina del 3, stesso mese, con un perentorio intervento del padre provinciale Agostino da S. Marco in Lamis, Padre Pio fu riportato in convento: «Qualcuno brigò presso Roma - appunta nel suo diario al giorno 13 agosto 1959 - che il Padre [Pio] fosse ricoverato in clinica. Egli mi disse: «Se viene qualche ordine da Roma, obbedirò, ma poi se peggioro, voglio tornare in convento, dove voglio morire». L'ordine venne dalla Segreteria di Stato. Mandai subito a Roma il primo definitore molto reverendo padre Amedeo [da S. Giovanni Rotondo] con la relazione del dottor Sala e con la lettera del molto reverendo padre Raffaele [da S. Elia a Pianisi], il quale ripeteva quanto il Padre Pio aveva detto a me, anzi preferendo di essere curato in convento dove voleva morire. Alla Segreteria di Stato si capì la cosa e così il Padre è rimasto con noi».

Mamma mia, mi lasci ancora malato?

Il 5 agosto 1959 la statua della Madonna di Fatima pellegrina per i capoluoghi di provincia, eccezionalmente viene portata a S. Giovanni Rotondo, per riguardo a Padre Pio, e viene solennemente accompagnata nella chiesa del convento.
Padre Pio è a letto e prega; ma il giorno dopo, 6 agosto, verso le tredici, poco prima che la Madonna andasse via, è portato giù su una sedia, facendo sosta ogni tanto per non stancarlo; seduto nella vecchia sagrestia attende che termini la Messa d'addio.
Ai piedi della Madonna, abbassata sino al suo viso, commosso e con le lagrime agli occhi, la bacia affettuosamente e mette un rosario da lui benedetto nelle sue mani; poi si riporta su, perché stanco e per timore di qual che collasso.
La Madonna è portata nella Casa Sollievo della Sofferenza, fa il giro di tutti i reparti e poi sale in terrazza, dov'è l'elicottero per la partenza: «Padre Pio espresse il desiderio - apprendiamo dagli appunti di p. Raffaele da S. Elia a Pianisi, testimone oculare: di volerla salutare ancora una volta prima che partisse, e così, sempre sopra una sedia, lo si porta nel coro della nuova chiesa, e si affaccia all'ultima finestra a destra di chi guarda la chiesa dal piazzale. Ecco che tra gli evviva di una massa di popolo l'elicottero si solleva; prima però di prendere la rotta designata, fa tre giri su convento e chiesa per salutare Padre Pio.Egli al vedere l'elicottero che si muove con su la Madonna, tutto commosso, con fede e lacrimante, dice:«Madonna, mamma mia, sei entrata in Italia e mi sono ammalato; ora te ne vai e mi lasci ancora malato». Detto questo, abbassa il capo, mentre un brivido lo scuote e pervade tutto.Padre Pio ha ricevuto la grazia, e si sente bene.Il giorno dopo vuol celebrare in chiesa, ma quasi tutti lo sconsigliano. Intanto la sera, provvidenzialmente arriva il professor Gasbarrini, che lo visita minuziosamente, lo trova guarito clinicamente e dice ai padri presenti, tra i quali ero anch'io: «Padre Pio sta bene e domani può celebrare liberamente in chiesa».Quale giubileo fu per noi e per tutto il popolo. In breve si diffuse la notizia che la Madonna di Fatima aveva ridonato la vita a Padre Pio; e da quel giorno egli riprese tutte le sue attività nell'apostolato: Messa e confessioni come per il passato. Ci fu qualche voce stonata che voleva negare il miracolo; ma egli diceva:«Lo so io se sono o no guarito, e se è stato un miracolo della Madonna; sono io che devo giudicare».Tutte le volte poi che raccontava questo portento, non poteva arrivare in fondo che cominciava a piangere».
Ripreso il ministero sacerdotale, i fedeli, che durante la malattia di Padre Pio non sono mai mancati sebbene in numero ridotto, aumentano più di prima, sia dall'Italia che dall'estero.E ricominciano le lamentele, le accuse, i ricorsi.
Dando un'occhiata al diario di p.Agostino da S.Marco in Lamis, rileviamo che Padre Pio soffre per la clinica: Pare che le cose non vadano
bene. L'Opera della carità non è servita ed amata come si deve. Speriamo che intervenga la mano di Dio nell'Opera che è sua e sconfiggere al più presto l'organizzazione diabolica (19 genn. 1960). La clinica è sempre la sua sofferenza (26 marzo 1960)».
Il 22 luglio 1960 è nominato visitatore apostolico del convento dei Cappuccini di S. Giovanni Rotondo e della Casa Sollievo della Sofferenza monsignor Carlo Maccari, con l'ordine che gli sia prestato il debito ossequio e la dovuta obbedienza e di cooperare coscienziosamente con lui per il compimento della sua missione.
Arriva a S. Giovanni Rotondo il 30 luglio e il 6 agosto tornava provvisoriamente a Roma, «per non turbare con la sua presenza la celebrazione del cinquantesimo di Messa di Padre Pio», che ricorreva il 10 agosto.
Certamente clima non ideale per ricordare una data sì cara al cuore di Padre Pio ed ai fedeli di tutto il mondo, che manifestarono il loro affetto con esplosioni di gioia, scritta e parlata.
Il visitatore si presentava il 16 agosto per partire definitivamente il 15 settembre 1960.
Per esigenze impreteribili di prudenza, per le particolarissime circostanze create dall'entusiasmo popolare accentratosi su Padre Pio, si deve variare, in quanto è possibile, l'orario della sua Messa; e per il rispetto dovuto al sacramento della penitenza, a fin di osservare una distanza tra il suo confessionale e i fedeli che attendono il loro turno per le confessioni, impedendo l'abuso di persone che durante le confessioni si trovino nella possibilità di udire le accuse sacramentali, si escogita il mezzo di due cancellate negli archi di comunicazione tra la chiesa nuova e l'antica, dov'è il confessionale di Padre Pio.
Cosa c'era oltre «le due cancellate?».
È molto umano, specialmente dal punto di vista della psicologia della folla, pensare che dietro le cancellate vi sia un prigioniero o un delinquente e la stampa degli anni 1960-1963, interprete e informatrice della pubblica opinione, sventolò ai quattro venti che Padre Pio era prigioniero con il suo bravo ed arcigno carceriere, «infliggendo una prigionia che le nostre prigioni umanitarie non consentirebbero nemmeno nei confronti di un irrimediabile malfattore». Altri, invece, la pensano diversamente e, recatisi sul luogo, non vedono né carcerato né carceriere.
Mentre alcuni parlano di «pesanti catene, cancellate di ferro e assurdi divieti», altri spiegano che con le misure adottate si sono volute eliminare «le contaminazioni» che turbavano l'apostolato di Padre Pio: è la pietà «vera e cristallina», che si avvia a rientrare nei suoi alvei naturali, trasformata in «menzogna e sortilegio» dalla gente che si agita «in una commistione pericolosa di sacro e di profano senza poter discernere l'uno dall'altro»; e quindi la «robusta»cancellata di ferro - continuano altri - è soltanto un segno «tangibile» di tale rinnovamento.
La situazione generale divenne ancora più caotica quando un periodico cominciò a parlare di microfoni e registratori, installati in alcuni luoghi di abituale frequenza da parte di Padre Pio, e una nuova ondata di amarezza e di tenebra si addensò ed aggrumò sulla sua persona.
L'amarezza egli la esprime al padre guardiano, che gli rende noti gli estratti della «insana propaganda«, con parole che ci ricordano chi c'è dietro le due cancellate: «Cosa posso fare? Prego che Dio mi chiami presto e mi liberi da questi guai».
Non è una novità: c'è un uomo che prega e che soffre.

NELLE BRACCIA DELL'AMORE

Padre Pio, senza sollevare obbiezione di sorta, riceve gli ordini in spirito di umiltà e ubbidienza; cammina per la via tracciatagli da Dio seminando bene, irrorato dalla propria sofferenza e riscaldato dall'amore della continua preghiera.
Ai molteplici dolori che lo affliggono da lunga data, si aggiunge il peso degli anni, che gli indeboliscono la vista, per cui chiede la commutazione dell'Ufficio divino in altre preghiere (16 gennaio 1962); e pochi anni dopo, sempre per la avanzata età e la cagionevole salute, con le dovute dispense (21 novembre 1966) celebra seduto la santa Messa.
Il comune di S. Giovanni Rotondo in modo particolare, non dimenticando il suo grande benefattore, in seduta straordinaria (24 aprile 1965) plaude e ringrazia «per le provvidenze realizzate da Padre Pio da Pietrelcina in S. Giovanni Rotondo», con l'augurio «per il pronto ristabilimento delle sue condizioni fisiche».
Augurio desideratissimo da parte di tutti, ma purtroppo la realtà è ben diversa.

Mi sento tutto sconquassato

Padre Pio si sta avviando all'eterna vita, ogni giorno più carico di malanni ai quali nessun mortale può sfuggire; ma li porta - non li sopporta - con tanta uniformità ai divini voleri, da far venire la santa rassegnazione in Dio, al solo guardarlo, a chi è provato anche lui dal dolore.
Non dice di non soffrire, quando realmente soffre: «Figlio mio, mi sento tutto sconquassato» - rispondeva alla nostra domanda - aggiungendo subito: «Ma sia fatta la volontà di Dio...».
Il suo animo conosce le agonie e i suoi occhi le lacrime, anche se poco avvertite dagli altri, perché si mostra sempre gioviale: «Trovai il Padre molto abbattuto. Appena fummo insieme nella sua cella - apprendiamo dal diario di p. Agostino da S. Marco in Lamis, p. 78 - si mise a piangere. Io mi commossi, ma potei frenare la mia commozione e lo lasciai piangere per alcuni minuti. Dopo parlammo. Il caro Padre mi disse che sentiva profondamente la prova inaspettata».
Ma, pagato il tributo all'umanità, si riprende subito: scherza anche sui suoi guai, e benedice e ringrazia il Signore: «Lo trovai molto sollevato per grazia di Dio: «Adesso come passi i tuoi giorni?», lo interrogai. Mi rispose: «Prego, studio come posso e... do noia ai miei fratelli». «Come sarebbe?». «Scherzo come prima e meglio di prima». Mi disse chiaramente: «I primi giorni della terribile prova mi sentii male, ma poi il Signore mi sostenne e quindi mi adattai al nuovo ambiente. Sia ringraziato Gesù. Ma venite a trovarmi. Ho bisogno d'una parola amica, fraterna, paterna»» (ivi, p. 79).
Quanto è confortante trovare elementi comuni anche in uomini di eccezione! L'eroismo di marmo e di bronzo suscita stupore, ma non riscalda il cuore; quello cristiano invece dimora in cuori di carne: non distruggendo le innocenti debolezze della natura umana, in esse la santità trova forza e bellezza.
Il fatto che i santi soffrono e sono lieti di soffrire, non dice che non sentano il dolore. Possono crocifiggere la loro carne, ma con ciò non la pietrificano né la rendono insensibile. Non sono fatti di pietra e non hanno alcune qualità marmoree degli Stoici, la cui ambizione era di «sentir morire ogni sentimento». Al santo curato d'Ars - per esempio - costò sempre gran fatica levarsi ogni mattina prima dell'alba e moltissime volte entrava nel confessionale con grandissima riluttanza naturale.
Padre Pio soffriva «umanamente» e non «stoicamente»: desiderava soffrire «sempre più e soffrire senza alcun conforto» - e di ciò ne faceva tutta la sua gioia - perché le anime che soffrono senza conforto alleggeriscono di più i dolori del buon Gesù: «Sono egoista - diceva - in fatto di soffrire, voglio soffrir solo [...]; mi rimprovererei se cercassi anche per un'ora sola di essere lasciato senza croce o, peggio ancora, se altri entrassero in mezzo a rapirmela» (Epist. I, 304).
E per alleggerire i dolori del «buon Gesù», sino alla fine tenne fede al suo programma: coro, altare, confessionale, recandovisi - negli ultimi tempi - anche con la sedia a rotelle, convertendo in realtà quella ipotesi detta il 12 novembre 1954 al suo padre spirituale: «Preferisco essere portato al confessionale sopra una sedia, anziché non poter più confessare» (P. Agostino, o.c., p. 222).

Il grande dono della vocazione religiosa

La corrispondenza epistolare aumenta e la gente viene «come in tanti pellegrinaggi», assetata della divina grazia, a chiedere, chiedere, sempre chiedere; e per venire incontro ai numerosi presenti, desiderosi di avvicinare Padre Pio, il superiore del convento chiede al provinciale il permesso di poter togliere la clausura alla vecchia sagrestia ed al corridoio di accesso alla nuova, per poter dare la possibilità alle donne, quando Padre Pio passa di ritorno dalle confessioni e dalle benedizioni eucaristiche, di almeno vederlo più da vicino e ricevere la sua benedizione.
Alla fine di maggio, nei giorni 27 e 28, Padre Pio sta molto male per uno dei soliti attacchi di coliche renali, che lo costringono a letto, senza poter celebrare e ricevendo soltanto la santa comunione. Soffre gli atroci dolori con forza e serenità, come sempre, ripetendo: «Soffro molto, ma ringrazio Dio lo stesso».
Nell'anno del Signore 1964 - come di consueto - le funzioni della Notte Santa sono celebrate da Padre Pio, in una chiesa gremitissima, nonostante la inclemenza del tempo. Visibilmente commosso durante la processione del Bambino dal coro all'altare maggiore, durante il canto della Messa la sua voce «era velata ed impedita dal pianto».
Non è la prima volta che la commozione lo assale: «Durante la funzione serotina - attesta il padre guardiano Carmelo da S. Giovanni in Galdo - mentre leggeva la preghiera alla Madonna, si è commosso fino alle lagrime. In genere la sua voce durante la preghiera è sempre velata di commozione; ma questa sera è avvenuto in modo singolare: la commozione è stata tanto forte e palese che non gli permetteva di proseguire, tra la sorpresa e la commozione di quanti assistevano alla cerimonia», né i suoi procurati e studiati colpetti di tosse riuscivano a coprire la sua sviscerata riconoscenza alla Madonna per averlo tante volte liberato dall'inferno da lui meritato.
Il solerte cronista p. Carmelo, ricordata la data del 22 gennaio (vestizione di Padre Pio), ci fa conoscere un edificante particolare, successo la sera precedente nella stanza n. 1: «Prima di addormentarsi - ore 18,30 - Padre Pio nel ricevere la benedizione del padre guardiano e gli auguri con la buona notte da parte dei confratelli, ha chiesto a tutti una preghiera e l'aiuto nel ringraziare il Signore del grande dono della vocazione religiosa e nel chiedere perdono della sua ingratitudine ed in corrispondenza alle grazie del Signore. E poiché i presenti cercavano di confortarlo, non dando molto peso alle sue parole, egli si è commosso fortemente fino alle lagrime ed ha voluto fare pubblica confessione del suo grande peccato, dicendo: «Fratelli miei, l'ho fatta grossa davvero! Nacqui il 25 maggio 1887, alle ore 18,15 di sera; ebbi la grazia di ricevere il battesimo dopo 14 ore e cioè alle ore 8 del giorno successivo 26 maggio. Fino al giorno della mia vestizione religiosa - 22 maggio 1903 - per 16 anni non ho mai ringraziato il Signore del dono del Battesimo e della Grazia ricevuta così presto, dopo le 14 ore!... L'ho fatta grossa, l'ho fatta grossa!...». E continuò a piangere dirottamente, tra il silenzio, la confusione, l'ammirazione ed edificazione dei presenti, finché calmatosi e rasserenatosi si addormentò placidamente».
È il tempo più bello quella mezz'oretta prima del riposo: Padre Pio e i confratelli, senza nessuno estraneo, non inceppati da controlli prudenziali, si sentono in piena libertà e serenità familiare.
Benedice la folla dalla finestra, saluta col fazzoletto ed augura la buona notte; prende qualche boccone di cibo, si mette a letto, chiede la benedizione al padre guardiano, abbraccia e bacia tutti i presenti, scambiando la «buona notte», il superiore intona l'Ave Maria, un ultimo saluto, gli altri si ritirano nelle proprie stanze e Padre Pio si addormenta.
«È proprio in questi momenti d'intimità - è il guardiano p. Carmelo da S. Giovanni in Galdo - che molte volte sfuggono a Padre Pio delle espressioni molto belle e significative, qualche volta provocate dai presenti. Una sera, per esempio, parlando della dipendenza ed ubbidienza ai nostri Superiori, Padre Pio disse: «Dipendere ed ubbidire per me è una gloria». Dandoci l'abbraccio serotino spesso ripete: «Un pensiero a Gesù sacramentato. Beati voi che potete andare in coro... Voi siete fortunati perché andate per ultimi in coro... Un pensiero a Gesù ed alla Madonna per me...»».
Non sempre riesce a dormire e il «più delle volte ci dice di passare la notte in bianco, senza chiudere occhio. Gli abbiamo chiesto - continua il padre guardiano - a che ora si alzasse la mattina; ha risposto: «Ordinariamente mi alzo alle 2; molte volte anche prima». «Che cosa fa fino alle 4,30, quando scende per la Messa?!». «Mi preparo alla santa Messa». «Padre, non le sembra molto tempo?». »Figli miei, non è mai troppo prepararsi alla santa Comunione!...»».

La gente vuole vederlo

Le polemiche, che non mancano mai nella vita di Padre Pio, non diminuiscono l'affetto, la stima e la riconoscenza verso di lui. La gente va, va continuamente: specialmente nel ricordo di certe date è numerosa - come il 20 settembre per la ricorrenza delle stimmate. Egli fa quel che può. Mangia pochissimo e solo a mezzogiorno; la mattina, sforzato, prende una tazza di caffè ed un tuorlo d'uovo e la sera, prima di coricarsi, gli si ricorda con insistenza di bere un sorso di vino.
La Messa la celebra prestissimo, alle ore 4, con grande concorso di gente, che aspetta da più d'un'ora davanti alla porta della chiesa e fa a gara per conquistare i posti più vicini all'altare ed ascoltare la sua santa Messa, che non oltrepassa i quaranta minuti, assistito da un padre per aiutarlo a muoversi.
Ogni tanto, per le precarie condizioni di salute, non può celebrare. È un fatto che preoccupa molto. I pellegrini, intanto, continuano a venire ed è veramente straordinario l'afflusso della gente, nonostante egli per la sua avanzata età e la poca salute possa dare pochissima soddisfazione: «La Messa del mattino è sempre affollata - annota nella cronistoria p. Carmelo da S. Giovanni in Galdo, al 14 sett. 1966 - e gremita è la vecchia sacrestia ed anche l'atrio del primo piano sopra la sacrestia per il passaggio del Padre: la gente vuole vederlo e si stringe attorno a lui, nonostante le abituali sgridate che il Padre rivolge ai più indisciplinati. Prega e soffre: è questo lo spettacolo quotidiano a cui noi assistiamo e la sua preghiera e la sua sofferenza salgono al trono di Dio e smuovono le masse che accorrono a S. Giovanni Rotondo da ogni parte d'Italia e dall'estero. Ha perso quasi del tutto il suo brio e la sua vivacità; parla pochissimo; è tutto chiuso in se stesso; rarissimamente ha qualche ritorno del suo fare usuale, con episodi, barzellette, arguzie e detti vivaci, da cui sapeva trarre anche nelle ricreazioni spunti di bene e pensieri spirituali. Pensiamo che la sua sofferenza sia più che altro morale; indubbiamente soffre molto nel fisico, ma deve avere dispiaceri e preoccupazioni che lo prostrano moralmente. Egli però, non li manifesta a nessuno».

Il 24 novembre 1966 per la prima volta celebra la Messa, seduto, all'altare rivolto al popolo.
L'anno 1966 ricorda cinquant'anni di permanenza di Padre Pio a S. Giovanni Rotondo e l'amministrazione comunale, presieduta dal dottor Giuseppe Sala, decide di festeggiare questa ricorrenza con particolare solennità.
Per l'occasione si sceglie la giornata dopo Natale, dichiarata festa cittadina. Una medaglia commemorativa in triplice esemplare (oro, argento e bronzo) sarà offerta a Padre Pio ed una lapide sarà scoperta sulla facciata della vecchia chiesetta; un manifesto del sindaco farà conoscere il programma dei festeggiamenti.
La stampa, o per un motivo o per un altro, s'interessa sempre di lui: il quotidiano «Il Tempo» annunzia una serie di articoli, dal titolo sensazionale, sulle stimmate di un frate sotto le unghia dei diavoli.
Venuto a conoscenza di questa pubblicazione, egli se ne addolorò profondamente e pregò i suoi superiori d'impedirla, con queste laconiche parole scritte di suo pugno il 10 febbraio 1967: «Reverendissimo padre, prego impedire che vengano pubblicati i miei scritti inviati ai miei padri spirituali o padri che mi hanno guidato spiritualmente. Le bacio la mano e chiedo la santa benedizione. Padre Pio».
I superiori fecero immediatamente il loro dovere, ma coloro che si erano impadroniti delle lettere non ebbero la sensibilità di accettare il cortese invito rivolto loro a nome di Padre Pio, autore delle lettere. Solo un'azione legale avrebbe messo a posto le cose, ma era questo un metodo completamente alieno dalla mente di Padre Pio e dei suoi superiori.
Assieme a questi rammarichi morali non mancano mai anche gli acciacchi fisici, che di tanto in tanto si fanno sentire più acuti: la mattina del 25 febbraio 1967, dopo la celebrazione della santa Messa, salendo in camera, ha un forte attacco di asma bronchiale, tanto da impedirgli di respirare. Con l'aiuto del medico e l'assistenza dei confratelli, riesce a riprendersi e può scendere a confessare. In questi giorni sta male anche il fratello Michele (morto il 9 maggio 1967, all'età di 85 anni), la signorina Maria l'americana (morta il 26 aprile 1968) e qualche altra persona a lui cara: «Ieri, sulla veranda - cronistoria, al 25 febbraio 1967 - si scherzava e si diceva a Padre Pio che queste persone stavano un pochino meglio, mentre lui continuava ad essere sofferente... Il padre guardiano scherzando gli ha detto: «Lei, Padre, prende sempre tutto sulle sue spalle!...». E Padre Pio: «Purché gli altri stiano bene; di me non m'importa»».
Deve - e lo fa volentieri - soffrire per tutti, da solo, senza cireneo. A chi sentendo che lui non sta bene e soffre molto e vorrebbe prendersi le sue sofferenze almeno un giorno sì ed uno no risponde: «La ringrazio, ma il Signore non può darmi un cireneo. Devo fare soltanto la volontà di Dio e se piacerò a lui il resto non conta».
A chiusura dell'anno 1967 si è voluto fare la somma delle confessioni da lui amministrate. Il numero delle persone che si sono potute confessare da lui è circa quindicimila donne e diecimila uomini, e nella chiesa del convento sono state distribuite durante l'anno circa 300.000 comunioni e celebrate circa 12.000 sante Messe.
E pensare che ora l'attività di Padre Pio è molto ridotta, mentre negli anni precedenti era inchiodato al confessionale per ore, ore ed ore; invece adesso deve limitarsi, perché «frate asino» non ce la fa proprio più e la volontà non è sufficiente a mantenerlo in piedi; di tanto in tanto è costretto anche a non celebrare, «perché muove con grande difficoltà le gambe. Non gli fanno male, ma dice di non «sentirsele». Abbiamo fatto preparare una sedia a ruote, per risparmiargli la fatica del cammino» (Cronistoria del convento, 29-30 mar. 1968).
Il 7 luglio ha un forte collasso e preferisce rimanere solo in continua preghiera: Padre Pio è diventato quasi muto per gli uomini e tutti si sforzano di rispettare questo sacro silenzio, come meglio possono, mentre uno straordinario numero di pellegrini, particolarmente tedeschi, e moltissimi sacerdoti affluiscono a S. Giovanni <Rotondo.

Al Santo Padre preghiera e sofferenza

Rimessosi alquanto in salute, nelle sue più intime relazioni con Dio non dimentica il bene dell'Ordine, della Chiesa e delle sue Opere: «Santità, approfitto del vostro incontro con i padri capitolari per unirmi spiritualmente ai miei confratelli ed umiliare ai vostri piedi il mio affettuoso ossequio, tutta la mia devozione verso la vostra augusta persona, nell'atto di fede, amore ed obbedienza alla dignità di colui che rappresenta sulla terra. L'Ordine dei Cappuccini è stato sempre in prima linea nell'amore, fedeltà, obbedienza e devozione alla Sede Apostolica: prego il Signore che tale rimanga e continui nella sua tradizione di serietà e austerità religiosa, povertà evangelica, osservanza fedele della Regola e delle Costituzioni, pur rinnovandosi nella vitalità e nello spirito interiore, secondo le direttive del Concilio Vaticano II, per essere più pronto ad accorrere nelle necessità della madre Chiesa, al cenno della Santità vostra.
So che il vostro cuore soffre molto in questi giorni per le sorti della Chiesa, per la pace del mondo, per le tante necessità dei popoli, ma soprattutto per la mancanza di obbedienza di alcuni, perfino cattolici, all'alto insegnamento che voi, assistito dallo Spirito Santo e nel nome di Dio, ci date. Vi offro la mia preghiera e sofferenza quotidiana, quale piccolo mio sincero pensiero dell'ultimo dei vostri figli, affinché il Signore vi conforti con la sua Grazia per continuare il diritto e faticoso cammino, nella difesa dell'eterna verità, che mai si cambia col mutar dei tempi. Anche a nome dei miei figli spirituali e dei «Gruppi di preghiera» vi ringrazio per la parola chiara e decisa che avete detto, specie nell'ultima enciclica «Humanae vitae», e riaffermo la mia fede, la mia incondizionata obbedienza alle vostre illuminate direttive.
Voglia il Signore concedere il trionfo alla verità, la pace alla Chiesa, la tranquillità ai popoli della terra, salute e prosperità alla Santità Vostra, affinché, dissipate queste nubi passeggere, il Regno di Dio trionfi in tutti i cuori, mercé la vostra opera apostolica di supremo Pastore di tutta la cristianità. Prostrato ai vostri piedi vi prego di benedirmi, assieme ai confratelli, ai miei figli spirituali, ai "Gruppi di preghiera" ai miei ammalati, a tutte le iniziative di bene che nel nome di Gesù e con la vostra protezione ci sforziamo di compiere. San Giovanni Rotondo, 12 settembre 1968. Della Santità Vostra umilissimo figlio. F. to Padre Pio, Capp.no».

La sua ultima Messa

Si avvicina una data che ogni anno è stata celebrata in clima raccolto ed orante, ma il 1968 ricorda cinquant'anni di stimmate visibili, apparse il 20 settembre 1918 sulle carni di Padre Pio.
Nessuna solennità esteriore all'infuori di tante, tante rose rosse che ornavano l'altare maggiore, offerte dai figli spirituali, ed una grande moltitudine di devoti venuti da ogni parte del mondo per ricordare vicino al «Padre» questa data memorabile.
Altra particolarità: per la prima volta, forse, il Crocifisso del coro dell'antica chiesetta, davanti al quale Padre Pio ricevette le stimmate, era adornato anch'esso di tante rose rosse.
Il festeggiato celebra la Messa piana, come tutte le mattine, alle ore 5: «nella chiesa gremita di folla, aleggiava un'aura solenne di mistero, di preghiera, di raccoglimento, di unione mistica - ci fa sapere il guardiano del tempo, p. Carmelo da S. Giovanni in Galdo -. Il resto della giornata, come sempre, per Padre Pio: lavoro, preghiera, confessioni».
La città di S. Giovanni Rotondo, però, ha voluto solennizzare anche esternamente questo cinquantesimo, unico nella storia dei Santi e della Chiesa: una folla immensa con fiaccole accese si è incamminata verso il convento, spettacolo veramente suggestivo - «una marea di fiammelle ondeggianti» - per dimostrare al festeggiato la sua fede, la sua devozione e la sua gratitudine.
Il giorno dopo - 21 settembre - Padre Pio non celebra ma si comunica soltanto, perché debole e stremato di forze, a causa di un fortissimo attacco di asma, che gl'impedisce di respirare e per una mezz'ora circa desta apprensione grande e timore. Assistito dal medico curante dottor Giuseppe Sala, il padre guardiano con gli altri confratelli non si sono mossi dalla sua stanzetta, finché la crisi non si è risolta, fortunatamente in bene.
Molto agitato per la sofferenza, stringeva forte la mano al padre guardiano ed ai confratelli che gli erano accanto, ripetendo: «È finita, è finita!...».
Passata la crisi ed esortato dal superiore a non scendere per le confessioni: «E come voglio scendere - rispose - in queste condizioni!...». Ripresosi alquanto, nel pomeriggio assisté - come al solito - alla funzione vespertina dal matroneo e benedisse la «immensa folla», convenuta da tutto il mondo per il convegno internazionale dei «Gruppi di preghiera» che si sarebbe tenuto il giorno seguente, in occasione del cinquantesimo delle stimmate.
Convegno di una importanza particolare, e per il cinquantesimo delle stimmate e per la recente nomina del direttore generale da parte della S. Congregazione dei Religiosi, per coordinare l'attività dei 740 «Gruppi di preghiera», sparsi in tutto il mondo con più di centomila iscritti e tutti figli spirituali di Padre Pio.
Casa Sollievo è uno splendore di luci e sventolio di bandiere; la chiesa del convento è ornata quale sposa a festa, con sul piazzale un grande palco per i discorsi e la «Via Crucis» meditata; su tutto troneggia un'altissima croce di legno.
Gli alberghi sono strapieni; le prenotazioni esaurite già da tre mesi; moltissima gente cerca alloggio altrove; molti attendono all'aperto o in pullman il sorgere della radiosa e memorabile giornata: «Tutti sono in festa ed aspettano con ansia febbrile - parla la cronaca del convento - di vivere la giornata di domani: solo Padre Pio si sente confuso e smarrito nella sua umiltà, considerando i grandi doni ricevuti da Dio. Oggi, circa all'ora di pranzo, prima che il Padre prendesse sforzatamente quel po' di cibo solito, il padre guardiano nel dare il "buon appetito" al Padre che era ancora debole e stremato di forze per la crisi d'asma di questa mattina, gli ha detto: "Buon appetito, Padre, e si faccia coraggio. Lei deve star bene; è venuta tanta gente per la festa di domani!". "Altro che festa - ha risposto Padre Pio - dovrei fuggire e sparire per la confusione che provo"».
Nella storia del convento di S. Giovanni Rotondo - continua ad annotare il fedele e diligente cronista - poche giornate possono essere paragonate a quella che oggi (22 sett. 1968) è stata vissuta e che rimarrà storica nel ricordo di tutti: «Convegno internazionale dei "Gruppi di preghiera"».
Alle ore 5 Padre Pio desiderava celebrare la Messa letta come tutte le mattine ed il padre guardiano gli ha dovuto fare dolce violenza per fargliela dire solennemente in canto, per i «Gruppi di preghiera».
Aperta la porta della chiesa, una marea di gente invade letteralmente le tre navate ed i matronei; neppure un angolo libero e moltissima gente rimane sul sagrato: «La folla sembrava delirare per la gioia di vederlo e festeggiarlo, e si è dovuto penare non poco per ottenere il silenzio e l'ordine [...]. La Messa si è svolta con la consueta solennità e devozione; alla fine - è la cronaca del convento - scroscianti ed interminabili applausi con grida sincere «viva Padre Pio!» «auguri Padre!» hanno salutato il Padre prima che rientrasse in sacrestia. Però, nell'alzarsi dalla poltrona e prima di scendere i gradini dell'altare rivolto al popolo, Padre Pio ha barcollato e si è ripiegato su se stesso, quasi per cadere».
Soccorso prontamente dai confratelli, sostenendolo di peso ed adagiatolo sulla sedia a rotelle, è stato portato in sacrestia. «Pallido e sbiancato in viso, come assente e smarrito ha benedetto la folla accalcatasi alla balaustra laterale, ripetendo affettuosamente ed affannosamente: «Figli miei, figli miei!»».
Dopo il ringraziamento, avviatosi per le confessioni delle donne, dovette tornare indietro e risalire in camera con l'ascensore: «Padre Pio non sembrava più lui; bianco nel viso, tremante e stremato di forze, con le mani fredde, fissava tutti con lo sguardo, quasi assente e lontano da tutto quello che gli avveniva intorno. E così ha continuato per tutta la giornata».
Verso le 10,30 ai «Gruppi di preghiera», radunati sul sagrato per ascoltare i discorsi ufficiali, Padre Pio affrettando i tempi (la sua benedizione ed il suo saluto paterno alla folla era previsto per mezzogiorno) dalla finestra del coro della vecchia chiesa, affacciatosi quasi all'improvviso, ha benedetto e salutato lungamente la folla: «È difficile descrivere la gioia, il delirio, i battimani, le grida di evviva - attingiamo dalla cronaca del convento - l'agitare di mani e di fazzoletti per rispondere al saluto del Padre e dimostrargli ancora una volta l'affetto e la devozione filiale da tutta quella stragrande moltitudine, qui convenuta anche dall'estero. Padre Pio aveva voluto salutare i suoi figli con anticipo, perché si sentiva stanco e prima di andare a riposarsi un tantino. È apparso alla finestra bianco, diafano in viso, agitando un fazzoletto bianco e benedicente con la mano. È stata un'apparizione, una visione eterea, come di un altro mondo; poi il Padre, aiutato e sorretto, si è ritirato in camera».
Terminata la «Via Crucis» all'aperto verso le ore 18, tutta la folla si riversa in chiesa per la Messa vespertina e per ricevere la benedizione di Padre Pio a conclusione della meravigliosa giornata.
Il Padre assiste alla Messa dal matroneo, a lato sinistro dell'altar maggiore, fissando a lungo la gente ch'era in chiesa e sui matronei.
Al termine della Messa, come sempre, mentre cerca di alzarsi per benedire la folla, rimane curvo su se stesso, senza potersi muovere; a stento riesce a sollevare la mano destra per benedire i suoi figli spirituali: il gesto familiare di ogni sera, il saluto e la conclusione di ogni giornata. Poi, quasi sollevato di peso, è adagiato sulla sedia a rotelle e riaccompagnato in camera.
Passando per la sala S. Francesco benedice e saluta ancora tanti uomini; e così pure dalla finestra della stanza salutando la folla, agitando il fazzoletto bianco: «Sullo spiazzo oltre il muro della clausura un buon numero di iscritti ai Gruppi di preghiera era ad attendere il saluto della sera di Padre Pio, con fiaccole e candeline accese: uno spettacolo simile a quello del giorno 20. Dopo i ripetuti saluti e le grida "evviva! auguri! buona notte, Padre! vi vogliamo tanto bene, Padre!", la finestra della cella di Padre Pio si è chiusa definitivamente per sempre, chiudendo dentro di sé la visione ed il ricordo di un Uomo che tutti, dopo averlo incontrato, avevano imparato a chiamare "Padre!"».

Nelle braccia dell'Amore

Chi mai avrebbe pensato che alla grande festa del giorno precedente sarebbe seguito il funerale del giorno dopo?
Tutti vedevano che Padre Pio si consumava lentamente e che lui stesso spesso parlava e desiderava morire: «Come si sente, Padre?». «Male, male, figlio mio, - rispondeva al padre guardiano - solo la tomba mi manca. Sto più di là che di qua. Pregate il Signore che mi faccia morire!...», ma nessuno voleva credere che la fine fosse così vicina, a chiusura di una giornata intensissima per i suoi figli spirituali e di normale attività per lui.
«Ha voluto morire in piedi, al suo posto di lavoro, dopo un giorno passato come gli altri - afferma la cronaca del convento, che è la voce del padre guardiano - nella preghiera e nel ministero per il bene. È apparso sì oltremodo affaticato, smarrito, quasi assente dalla scena del mondo; qualcuno ora dice ch'egli era morto, doveva morire sull'altare, dopo la Messa, quando alla fine ha barcollato, e che il Signore lo ha conservato in vita solo per non rovinare la giornata di festa già programmata ed evitare altri inconvenienti; ma chi mai poteva intuire che era giunta la fine?»

Alle ore 2 circa del 23 settembre un religioso picchiava ripetutamente all'uscio della cella del superiore: «Padre guardiano, si alzi. Padre Pio sta male». Immediatamente precipitatosi nella stanza dell'ammalato, seduto sulla poltrona ed assistito dal dottor Sala e da due confratelli, lo vide «con gli occhi chiusi, la testa leggermente chinata in avanti e respirava molto affannosamente, gonfiando il petto e con un lieve rantolo alla gola. Gli presi la mano destra: era già fredda. Lo chiamai più volte: "Padre! Padre!." Non mi rispose; forse mi sentì, e si accorse della mia presenza. Mi sentii smarrito, come di fronte alla terribile realtà che ad ogni costo non volevo ammettere, ma il medico con lo sguardo non mi dava alcuna speranza e mi aveva fatto chiamare proprio lui, quando aveva avuto la netta sensazione che si era alla fine».
Amministratogli il sacramento degl'infermi, poco dopo, sereno, tranquillo, vola al cielo con la corona del santo Rosario in mano e con «Gesù... Maria!...» sulle labbra.
Non ha voluto morire a letto, ma in piedi sulla sua poltrona, dove aveva passato ore ed ore in preghiera, meditazione e preparazione alla Santa Messa; da dove aveva ascoltato, consigliato, illuminato e confortato tanti confratelli, figli spirituali e personalità che ebbero la fortuna di avvicinarlo nella sua camera.
In piedi, al posto del suo lavoro, con la corona in mano e vestito dell'abito religioso: «Sint lumbi vestri praecincti et lucernae ardentes in manibus vestris; similes hominibus expectantibus dominum suum...» (Lc. 12,35 s: «Siate pronti con la cintura ai fianchi e le lucerne accese; siate simili a coloro che aspettano il padrone»), medita p. Pellegrino da S. Elia a Pianisi, dalla cui testimonianza apprendiamo altri edificanti particolari dell'ultima notte.
Chiamato parecchie volte col citofono da Padre Pio, accorse al suo capezzale e lo vide sempre «con gli occhi rossi di pianto, ma di un pianto dolce, sereno».
A mezzanotte, «come un bambino pauroso», lo supplicò: «Resta con me, figlio mio», guardandolo negli occhi pieni di implorazione e stringendogli fortemente la mano.
Successivamente si volle confessare e dopo la confessione: «Figlio mio - disse - se oggi il Signore mi chiama, chiedi perdono per me ai confratelli di tutti i fastidi che ho dato; e chiedi ai confratelli ed ai figli spirituali una preghiera per l'anima mia», e rinnovò l'atto della professione religiosa.
Quando incominciava ad impallidire e la fronte s'imperlava di un sudore freddo, p. Pellegrino si preoccupò, ma «mi spaventai - confessa - quando vidi che le sue labbra cominciavano a diventare livide. E ripeteva continuamente «Gesù, Maria», con voce sempre debole. Mi mossi per andare a chiamare un confratello, ma egli mi fermò dicendo: «Non svegliare nessuno». Io mi avviai ugualmente e correndo mi ero allontanato di pochi passi dalla sua cella, quando mi richiamò ancora. Ed io pensando che non mi richiamasse per dirmi la stessa cosa tornai indietro. Ma quando mi sentii ripetere: «Non svegliare nessuno», gli risposi con un atto di implorazione: «Padre spirituale, adesso mi lasci fare...»».

Nel tranquillo cantuccio

Bello e solenne anche nella morte, Padre Pio, con la stola sacerdotale, stringeva fra le mani il Crocifisso, la corona del Rosario e la Regola francescana.
Stupore, commozione, lacrime provocò la dolorosa notizia, propagatasi in un baleno in tutto il mondo.
Composta la salma nella bara di legno, il mesto corteo dei confratelli, parenti, amici e figli spirituali, candela in mano e recitando il «Miserere», accompagna il venerato Padre, attraverso il corridoio, l'atrio «S. Francesco», la scalinata e la sacrestia, in chiesa.
Disposto il servizio d'ordine, sia dentro che fuori la chiesa, alle ore 8,30 si aprono le porte: «Tutta l'immensa marea di gente - apprendiamo dalla cronaca del convento - che da sei ore e più attendeva impaziente di entrare, si riversò in chiesa gridando, pregando e piangendo, nel desiderio di avvicinarsi il più che fosse possibile alla bara, per vedere, toccare, baciare le venerate spoglie del Padre defunto».
Confuse tra la folla senza numero si scorgono scienziati illustri, personalità civili e religiose, che non tentiamo neppure di nominare, tante sono.
Nella tarda serata del 23 si pensa di chiudere la chiesa per dare un po' di respiro ai Carabinieri ed alla Polizia, «ma è inutile: la gente si accalca sul piazzale, grida, fa pressione e bisogna riaprire le porte. Si riesce soltanto nel frattempo a portare la bara in sacrestia; viene cambiata la bara di legno e le spoglie del Padre vengono religiosamente composte in una bara di acciaio, in previsione della sepoltura nella cripta», e si praticano al cadavere delle iniezioni di formalina per assicurare lo stato di conservazione, durante i giorni dell'esposizione al pubblico.
Apposto sulla cassa d'acciaio un cristallo per l'intera lunghezza, in modo che il corpo restasse completamente visibile e nello stesso tempo protetto dalla devozione indiscreta della folla. Continua l'interminabile processione per rendere l'ultimo omaggio alla salma, tutti aspettando «due, tre ore per poter arrivare vicino la bara. È uno spettacolo commovente e sorprendente vedere tanto entusiasmo, tanta fede suscitata dal venerato Padre Pio».
Il giorno 26, verso mezzogiorno, alla folla che non mai terminava, si disse a malincuore basta. Il mesto corteo si avviò dalla chiesa al paese verso le 15,30: «Una innumerevole massa di popolo, che era la più piccola parte di tutti i partecipanti; la gran parte preferiva far ala al passaggio del corteo lungo tutto il percorso: lungo le strade, davanti alle porte, sui marciapiedi, sui balconi, alle finestre, ovunque c'era gente che piangeva, pregava, invocava il Padre che passava per l'ultima volta fra i suoi figli. Era uno spettacolo meraviglioso, che chi non l'ha vissuto non può crederlo, né immaginarlo. Dall'alto gli elicotteri dell'Aviazione e della Polizia gettavano fiori e volantini sulla folla che seguiva ordinata e devota il mesto corteo. Moltissima gente, poi, preferì rimanere negli spazi vicini al sagrato della chiesa e della clinica, temendo di non trovar posto al rientro del corteo. L'onorevole professor Enrico Medi, dal microfono sul palco intrattenne in preghiera tutta quella gente, recitando il Rosario e commentando i diversi misteri con elevazioni toccanti e devoti riferimenti al Padre scomparso».
Il corteo che si snodava per le vie principali del paese era non il funerale ma il trionfo di Padre Pio.
Tornati al convento, ch'era già buio, si celebrò sul sagrato la solenne ufficiatura liturgica, iniziata alle 19 circa: solenne concelebrazione di ventiquattro sacerdoti, celebrante principale il generale dei Cappuccini p. Clementino da Wlissingen, con elogio funebre del p. Clemente da S. Maria in Punta, definitore generale e amministratore apostolico della provincia di Foggia, con la lettura del telegramma del Santo Padre: «Augusto Pontefice ha appreso con paterno cordoglio notizia pio transito Padre Pio da Pietrelcina et mentre eleva preghiera affinché il Signore conceda suo servitore fedele corona di giustizia conforta rimpianto di codesta comunità religiosa medici personale degenti Casa Sollievo Sofferenza et intera popolazione San Giovanni Rotondo con particolare apostolica benedizione. Cardinale Cicognani».
A cerimonia terminata, alle ore 20,30 le spoglie furono portate in chiesa.
Con il benestare, chiesto ed ottenuto dalle competenti autorità, svolte le cerimonie protocollari del caso, la bara, il cui coperchio di acciaio porta in alto un Crocifisso di acciaio e bronzo con la dicitura: «Francesco Forgione - nato a Pietrelcina 25-5-1887 - morto a San Giovanni Rotondo 23-9-1968» viene portata a braccia nella cripta e calata nel loculo scavato sotto il pavimento nel sito già precedentemente predisposto: erano le ore 22.
«La bara nel loculo fu collocata in modo - guardando l'altarino di fondo - che la testa risulta dalla parte destra ed i piedi a sinistra [...]. Il blocco monolitico, modellato a sarcofago, pesa 30 quintali ed è di granito azzurro del Labrador [...]».
«Sono le ore 22,30 - annota sulla cronaca del convento il padre guardiano Carmelo da S. Giovanni in Galdo -. Compiuta la mesta cerimonia, vengono invitati tutti ad uscire e tornare alle loro case. Anche noi confratelli, dopo l'ultima preghiera, ci allontaniamo; vengono chiusi i cancelli della cripta; restano accese le lampade in segno di fede, affetto e devozione al Padre, immerso nel sonno dei Giusti».
Il suo desiderio, espresso nel lontano 1923, si è realizzato: «Ricorderò sempre questo popolo generoso nelle mie preghiere, implorando per esso pace e prosperità. E quale segno della mia predilezione, null'altro potendo fare, esprimo il desiderio che, ove i miei superiori non si oppongano, le mie ossa siano composte in un tranquillo cantuccio di questa terra».
A chiusura di questo doloroso e glorioso capitolo, ci poniamo due domande: Padre Pio aveva previsto la sua morte? Sembra di sì, come possiamo ricavare da una testimonianza autografa della nipote Pia Forgione, depositata in busta chiusa, presso il notar Domenico Giuliani in S. Giovanni Rotondo, il 13 dicembre 1967, con preghiera di custodire il plico e «consegnarlo al superiore del convento dei cappuccini di S. Giovanni Rotondo, dopo la morte di Padre Pio, salvo altra mia volontà contraria».
Il 14 ottobre 1967 in un colloquio privato con la nipote che gli esponeva alcuni problemi familiari, Padre Pio rispondeva testualmente: «Fra due anni che io non ci sarò più, perché sono morto, tante cose cambieranno«.
A Padre Pio sono scomparse le stimmate, dopo la sua santa morte?
Anche a questa domanda, stando alle testimonianze oculari, dobbiamo rispondere di sì.
Stralciamo dalla testimonianza del medico curante di Padre Pio dottor Giuseppe Sala: «Dieci minuti dopo la morte, le mani, il torace ed i piedi di Padre Pio, sostenuto da me, come risulta dalla presenza delle mie mani nelle fotografie eseguite, vennero fotografati da un frate in presenza di altri quattro confratelli. Le mani, i piedi, il torace e ogni altra parte del corpo non mostravano rilievi di ferite, né cicatrici erano presenti alle mani, e ai piedi, né al dorso, né alle palme od in sede plantare, né al costato là dove in vita aveva avuto piaghe ben delimitate e visibili. La cute, in quei punti riferiti, era uguale a quella di ogni altra parte del corpo, morbida, elastica, mobile, e la pressione digitale non evidenziava sprofondamenti del derma o del sottocutaneo o spostamenti di ossa o cedimenti delle stesse. L'aspetto, il colore, la consistenza non rivelavano alcunché di particolare, né la presenza di segni di pregressa incisione, lacerazioni, ferite, piaghe o reazioni infiammatorie.
In conclusione, le palme e il dorso delle mani, il dorso e le piante dei piedi e l'emitorace sinistro avevano cute normale, integra, di colorito uniformemente uguale al resto del corpo, fermo restando i rilievi di pallore e di modica stasi dovuti alla morte sopravvenuta da poco. Tali rilievi delle piaghe che Padre Pio aveva in vita e che alla morte sono scomparse si devono considerare come un fatto fuori da ogni tipologia di comportamento clinico e di carattere extra naturale».
La notte del 23 settembre - scrive nella cronaca del convento il padre guardiano - «appena morto Padre Pio, consapevole di dover lasciare una testimonianza ufficiale ed autorevole, volli di proposito, insieme con altri testimoni, osservare da vicino le stimmate, e dovetti costatare che le mani non si presentavano più come altre volte le avevo viste; ma le ferite sia delle mani, che dei piedi e del costato erano completamente rimarginate senza lasciare alcun segno o traccia di cicatrice. Si osservino le foto, che quella stessa notte vennero scattate».
E precisa che non è esatto dire o pensare che Padre Pio non avesse più le stimmate da due o tre mesi prima della morte; ma invece le piaghe, due o tre mesi prima di morire, «sono cominciate piano piano a chiudersi ed a ridurre la fuoriuscita del sangue, fino a presentarsi, alla morte completamente rimarginate e senza alcuna cicatrice. Prova ne è che proprio all'ultimo momento si è staccata l'ultima crosticina o pellicola dalla mano sinistra [...]. Quindi Padre Pio ha continuato a portare i guanti fino all'istante della morte, non per ingannare, ma per coprire - come sempre - le ferite».
E se Padre Pio, morto, non aveva più le piaghe, perché le sue mani portavano ancora i mezzi guanti e i suoi piedi le calze?
Il fatto della scomparsa delle stimmate - risponde il guardiano - era noto solo a quei pochi che avevano pietosamente composto il cadavere e perciò «stimai opportuno di lasciare il corpo coperto ai piedi con le calze ed alle mani con i mezzi guanti, così come Padre Pio usava andare da vivo. Questo non per occultare la verità, ma perché in quel momento non era opportuno rendere pubblico il fatto, che poteva prestarsi a false ed affrettate interpretazioni ed a motivo di scandalo per i deboli».
Settembre 1968, l'ultima Messa e la morte di Padre Pio