PRESENTAZIONE
Sono trascorsi ormai molti
anni dal giorno in cui Padre Pio ha lasciato la vita terrena, ma la sua presenza
continua ad essere sempre viva e operante: ancora oggi sono numerosissimi i
fedeli che in cerca di pace e di conforto continuano a recarsi in pellegrinaggio
a San Giovanni Rotondo per visitare il Santuario di S. Maria delle Grazie e
fermarsi a pregare nella cripta dove si trova il sepolcro che contiene le umili
spoglie mortali di Padre Pio.
Fin da quando ha cominciato a diffondersi la
notizia dell'esistenza, in uno sperduto paesino del meridione
d'Italia, di un frate cappuccino stigmatizzato, la figura di Padre Pio
è stata via via sempre più oggetto di indagine e di studio, sia da
parte degli ecclesiastici, desiderosi di accertare la veridicità dei
fenomeni soprannaturali che gli venivano attribuiti, sia da parte dei laici, tra
cui scienziati, medici, giornalisti, spinti dal bisogno di dare una spiegazione
scientifica e razionale agli eventi miracolosi che si manifestavano in lui. Ma,
nonostante tutto quello che si è detto e scritto intorno alla sua
persona, resta evidente il fatto che la vita di Padre Pio, le sue opere, i segni
delle stigmate presenti sul suo corpo, il dono della bilocazione e gli altri
particolari doni che gli sono stati riconosciuti vanno al di là di ogni
spiegazione scientifica e razionale, sembra che essi debbano essere accettati
con un atto di fede come la manifestazione della sempre viva e costante presenza
del divino tra noi, del supremo amore del Signore verso gli uomini, che si
manifesta attraverso uno dei suoi figli più umili e devoti.
Questi
tre volumi desiderano costituire un piccolo contributo a mantenere sempre vivo e
costante il ricordo di questo umile servo di Dio, e al tempo stesso un modesto
omaggio alla sua grande bontà e carità.
Il primo volume
racconta la vita di Padre Pio, dalla sua nascita nel piccolo paese di
Pietrelcina fino al 23 settembre 1968, giorno della sua morte, utilizzando gran
parte del suo epistolario. Dalla lettura delle sue lettere indirizzate ai
numerosi figli spirituali e confratelli, e in particolare al suo direttore
spirituale Padre Benedetto da S. Marco in Lamis, traspare in modo evidente il
suo amore assoluto e incondizionato per Dio e per gli uomini tutti:
"...sono bruciato dall'amore di Dio e dall'amore del Prossimo.
Dio per me è sempre fisso nella mente e stampato nel cuore, mai lo perdo
di vista; mi tocca ammirarne la sua bellezza, i suoi sorrisi e i suoi
turbamenti, le sue misericordie e le sue vendette o meglio i rigori della sua
giustizia...".
Il secondo volume è incentrato sulla
testimonianza diretta di uno dei suoi più cari figli spirituali, che
è stato anche suo confratello nella vita religiosa e sacerdotale. Si
tratta di Padre Alberto d'Apolito, il quale, portando la sua personale
esperienza, ha voluto così manifestare tutta la sua devozione e
gratitudine nei confronti del suo caro Padre: "I miei frequenti incontri
con Padre Pio erano quelli di figlio col padre: di ascolto di dialogo, di
servizio e di osservazione...".
Il terzo volume prosegue con la
narrazione delle testimonianze e delle esperienze personali di altri figli e
figlie spirituali di Padre Pio, tra cui ricordiamo quella della signora Giovanna
Rizzani, della sua cara amica Margherita Hamilton e del Dottor Festa. Concludono
l'opera un'appendice che contiene i discorsi di Papa Giovanni Paolo
II in occasione della sua visita a San Giovanni Rotondo il 23 maggio 1987, per
il centenario della nascita di Padre Pio, e una relazione sulle stigmate di
Padre Pio, redatta dal sottoscritto.
San Giovanni Rotondo, 23
settembre 1996,
28°; anniversario della morte del Servo di Dio Padre
Pio da Pietrelcina.
Padre Gerardo Di Flumeri
Vice
Postulatore
SCHEDA BIOGRAFICA
Anno
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Evento
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1887
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(25 maggio) Nasce a Pietrelcina (Benevento).
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1903
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(6 gennaio) Si reca a Morcone (Benevento) per iniziare il noviziato
tra Cappuccini.
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(22 gennaio) Veste i «panni di probazione» e diventa Fra
Pio da Pietrelcina.
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1904
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(22 gennaio) Emette la professione dei voti semplici.
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(25 gennaio) Si trasferisce a S. Elia a Pianisi (Campobasso) per
iniziare la «rettorica».
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1907
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(27 gennaio) Emette la professione dei voti solenni.
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(fine ottobre) A Serracapriola (Foggia) per iniziare lo studio della
sacra teologia.
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1908
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(fine novembre) A Montefusco (Avellino) per continuare la
teologia.
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(19 dicembre) Riceve gli ordini Minori a Benevento.
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(21 dicembre) Diventa suddiacono nella stessa
città.
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1909
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Durante i primi mesi dell'anno è a Pietrelcina,
malato.
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(18 luglio) Riceve l'ordine del diaconato nella chiesa del
convento di Morcone.
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1910
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(10 agosto) Ordinazione sacerdotale nel sacello dei canonici del
duomo di Benevento.
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(14 agosto) Prima Messa solenne a Pietrelcina; in quest'anno
si hanno le «prime apparizioni di stimmate» (cf. Epist. 1, lett.
44).
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1911
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(fine ottobre) È mandato a Venafro, ma la malattia lo
costringe quasi continuamente a letto. Succedono fenomeni straordinari.
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(7 dicembre) Torna a Pietrelcina.
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1915
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(25 febbraio) Per motivi di salute, ottiene il permesso di poter
continuare a stare fuori convento, ritenendo l'abito
cappuccino.
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(6 novembre) È chiamato alle armi.
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(6 dicembre) Assegnato alla 10ª Compagnia di Sanità a
Napoli.
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1916
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(17 febbraio) A Foggia nel convento di S. Anna.
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(4 settembre) A S. Giovanni Rotondo.
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(18 dicembre) Rientra al corpo militare di Napoli. Licenze e
richiami sino al 16 marzo 1918, riformato per «broncoalveolite
doppia».
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1918
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(5-7 agosto) Trasverberazione.
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(20 settembre) Stimmatizzazione.
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1919
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(15-16 maggio) Luigi Romanelli, primo medico che visita Padre Pio
dopo la stimmatizzazione.
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(26 luglio) Relazione medica di Amico Bignami.
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(9 ottobre) Visita medica di Giorgio Festa.
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1922
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(2 giugno) Primi provvedimenti del Sant'Uffizio.
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1923
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(31 maggio) Il Sant'Ufficio dopo una inchiesta decreta di non
constare la «soprannaturalità dei fatti attribuiti a Padre
Pio».
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(17 giugno) Altri ordini: Padre Pio deve celebrare nella cappella
interna del convento senza pubblico e non rispondere né per sé
né per altri a lettere a lui indirizzate.
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(26 giugno) A causa di una sommossa popolare, Padre Pio celebra di
nuovo in chiesa.
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(8 agosto) Padre Pio viene a conoscenza dell'ordine (datato al
30 luglio) di trasferirsi ad Ancona, e si mette a disposizione.
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(17 agosto) Causa fermento popolare, si differisce la
rimozione.
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1929
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(3 gennaio) Muore a S. Giovanni Rotondo la mamma di Padre
Pio.
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1931
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(23 maggio) Padre Pio viene privato di ogni esercizio di ministero,
eccetto la santa Messa, che può celebrare soltanto nella cappella interna
del convento, e privatamente.
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1933
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(16 luglio) Padre Pio scende a celebrare la santa Messa in
chiesa.
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1934
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(25 marzo) Padre Pio riprende ad ascoltare le confessioni degli
uomini.
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(12 maggio) E quelle delle donne.
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1946
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(7 ottobre) Muore il padre di Padre Pio a S. Giovanni
Rotondo.
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1947
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(19 maggio) Inizio dei lavori di spiano per la costruzione della
«Casa Sollievo della Sofferenza».
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1955
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(31 gennaio) Rituale colpo di piccone per l'erigenda nuova
chiesa del convento.
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1956
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(5 maggio) Inaugurazione della «Casa Sollievo della
Sofferenza».
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1959
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(1 luglio) Consacrazione della nuova chiesa.
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1965
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(17 febbraio) Padre Pio può continuare a dire la Messa in
latino.
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1966
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(21 novembre) Può continuare a celebrare in pubblico, ma
seduto.
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1968
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(29 marzo) Padre Pio comincia ad usare una sedia a rotelle,
perché le gambe "non se le sente".
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(22 settembre) Alle ore 5, la sua ultima Messa; alle 18, la sua
ultima benedizione alla folla in chiesa.
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(23 settembre) Alle ore 2,30, Padre Pio, ricevuto il sacramento
dell'unzione dei malati, muore serenamente con la corona del santo Rosario
in mano e con «Gesù!... Maria!...» sulle
labbra.
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1969
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(4 novembre) Inizia la trattazione della Causa per la sua
Beatificazione e Canonizzazione.
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1973
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(16 gennaio) Mons. Valentino Vailati, Arcivescovo di Manfredonia,
consegna alla Sacra Congregazione per le Cause dei Santi tutta la documentazione
richiesta, allo scopo di ottenere il «nulla osta»per
l'introduzione della Causa di Beatificazione.
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1980
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(3 marzo) Lo stesso Arcivescovo consegna alla predetta Congregazione
ulteriore documentazione per ottenere il desiderato «nulla
osta».
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1983
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(20 marzo) Apertura ufficiale del Processo cognizionale sulla vita e
le virtù del Servo di Dio, Padre Pio da Pietrelcina.
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1987
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(23 maggio) Visita pastorale a S. Giovanni Rotondo del Santo Padre
Giovanni Paolo II, il quale s'inginocchia e prega sulla tomba di Padre
Pio.
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1990
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(21 gennaio) Conclusione del processo diocesano cognizionale sulla
vita e le virtù del Servo di Dio. Tutta la documentazione, contenuta in
10 volumi, viene consegnata alla Congregazione per le cause dei
santi.
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1991
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(7 dicembre) La predetta Congregazione emette il decreto «de
validitate» sul processo diocesano. Il padre Cristoforo Bove dei frati
minori conventuali è nominato relatore ufficiale per la preparazione
della «positio super virtutibus».
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FRANCESCO
Chi si impegna a scoprire elementi comuni
nelle persone di eccezione, arriva alla consolante conclusione che
«l'eroismo cristiano dimora in cuore di carne»; ma il
più delle volte si fatica molto per scoprire questi «cuori di
carne».
In tale mala sorte incappano anche tanti uomini, che
più si avvicinano a Dio e più son creduti
«legati a
niente», quasi che la grazia trasformi la natura al punto da
«dimenticarla». Invece il Santo è
«l'uomo
reale, quale bisogna ch'egli sia»: un uomo che, attraverso la sua
concreta umanità, conformata e modellata su quella di Dio-Uomo, fa
trasparire nel mondo il
«Viso di Dio».
Le solite incrostazioni
Anche Francesco Forgione prima, e Padre Pio
dopo, non sfugge all'
«indefinibile appannaggio» di quelli
che pur vivendo nel mondo, non hanno decisamente l'aria di essere al
mondo; uomini disincarnati: il loro corpo è ancora in terra, ma la loro
anima è già in cielo.
Quelli che si affannano a presentare il
ragazzo Francesco
«costruito» e non
«reale»,
certo non mancano di fantasia: portato naturalmente alla contemplazione ed ai
sogni, perché
«meridionale», vaga - assorto - per ore
nella campagna assolata del beneventano, in ascolto di voci che gli vengon da
lontano; bimbo fragile, cresciuto malaticcio,
«già tarato e
disposto a tutti i mali», con addosso
«febbri di origine
nervosa»; «ragazzo diverso dagli altri, facile all'esaltazione,
incline al fascino della storia dei santi, ed in particolare a quella di
Francesco delle stigmate»; nato in uno dei luoghi
«più
poveri ed ingrati», conosce per esperienza, a casa e intorno a
sé, la miseria nera: uno stomaco vuoto, su due gambe stecchite,
trascinato da due piedi nudi, attanagliati dal freddo invernale o abbrustoliti
dalla canicola estiva;
«chiuso», «introverso»,
«assorto in sogni», «misogino», solo soletto per intere
giornate in paese, intento soltanto a far croci ed a recitare preghiere
ininterrottamente al pascolo del minuscolo gregge...
Sono alcune delle
inesattezze, esagerazioni correnti, tutte buone per le solite incrostazioni
agiografiche, con le quali si cerca di
costruire il santo anziché
studiarlo nella sua
realtà.
Pietrelcina
L'ambiente, fatto di persone, di
luoghi e di cose, recita una parte insostituibile nella formazione
dell'uomo concreto.
Come tutti gli altri uomini, anche Padre Pio ha
assorbito e personalizzato il paesaggio umano e naturale pur se con
quell'impegno diverso che è la dimensione della
«santità». Una «santità», però,
situata nella vita, che rivive e dà una voce ed un segno ad ogni
cosa.
Nessuno o pochi sanno chi sia Padre Pio Forgione, ma tutti conoscono
ed amano Padre Pio da Pietrelcina.
Ancor oggi non è raro sentire
dalla bocca dei «pucinari», specie degli anziani,
Pretapucina,
come diceva sempre zi' Grazio Maria, genitore di Padre Pio, il quale
preferiva la stessa dizione, avvalorandola con la tradizione orale che sostiene
la esistenza di una pietra con sopra abbozzata dallo scalpello una chioccia con
i pulcini, scoperta durante gli scavi della chiesetta baronale.
Il nome
ufficiale odierno è
Pietrelcina, originata da un castello,
edificato sopra
«duri e grossi macigni», circondato da mura
nella parte superiore, con due porte, l'una a settentrione e l'altra
a mezzogiorno;
«un grosso sasso inaccessibile», ad oriente;
con un
«esteso e magnifico palazzo» ad occidente, di cui
presentemente si scorge soltanto qualche rudere, perché raso al suolo dal
terremoto del 1688, assieme alla chiesetta dentro il castello, dedicata a S.
Angelo, cioè S. Michele.
L'esistenza dell'antica
chiesetta di S. Angelo fa supporre che Pietrelcina risalga al periodo
longobardo-normanno, perché era proprio di questi popoli il costruire nei
loro castelli chiese o cappelle in onore di S. Michele, l'Angelo per
antonomasia da essi venerato come loro Patrono.
È notizia certa che
il paese esisteva già nel 1100 e il
Castrum (fortezza abitata da
militari e civili) dei bassi tempi a mano a mano si allargava, usciva fuori le
mura sino ad arrivare nei dintorni dell'attuale chiesa madre, e poi oltre,
ed al ponticello del torrente Pantaniello.
Come molti castelli del
Meridione, anche quello di Pietrelcina spesso è esposto alla vendita e
passa da un feudatario all'altro. Attraverso i secoli si nota
un'altalena demografica, causata da terremoti, guerre, peste e, negli
ultimi tempi, dall'emigrazione: nel 1795 contava 1938 abitanti, nel 1804
erano circa 1800, nel censimento del 1901 salivano a 4258 e nel 1961 scendevano
a 3870. Gli elettori emigrati, alla revisione effettuata nel 1970, erano
279.
Ridente paese agricolo di belle tradizioni cristiane ed umane, dista
circa 11 chilometri da Benevento e 3 dallo scalo ferroviario, dagli orizzonti
aperti sulle numerose contrade.
Gente laboriosa, cordiale, espansiva,
svolge principalmente la sua vita al ritmo dei lavori agricoli, temprata dal
solleone meridionale e dai venti gelidi d'inverno.
Le sue vicende
storiche ci presentano un insieme che alla selvatica, risentita e contesa genesi
medioevale della topografia urbana congiunge, nella distesa ondulata e fertile
del paesaggio agrario e nell'apertura di orizzonte, qualcosa di
rasserenante e composta in bonaria dolcezza.
E sembra quasi che topografia
urbana e paesaggio agrario si siano storicamente sedimentati nella psicologia
degli abitanti, facili al contrasto ed alla pacificazione, gelosi di sé e
della propria affermazione ma anche generosi come la terra che li circonda.
Connotato e fattore rilevanti della difficile sintesi caratteriale, una trama
storica e di costume fondamentalmente religiosa, iscritta nella
caparbietà di ricostruire i propri
«fuochi» contro la
furia mussulmana e normanna e nel partecipare le sudate agiatezze alle feste
religiose.
Lo stesso puntiglio burbero, la stessa bonarietà
comprensiva, la stessa essenza religiosa assorbe universalmente Francesco
Forgione preparandosi a diventare il luogo di scontri tra le forze antiche e
moderne, come il diavolo e il peccato, Dio e la Grazia ed il luogo
d'incontro di una umanità che cerca pace per le sue tensioni
dolorose.
Francesco venne alla luce il 25 maggio 1887 nella vecchia
Pietrelcina: rione Castello.
Case secolari, costruite con calce magra e pietra dura e greggia,
poggiate sulla viva roccia, dal caratteristico colore oscuro che, dal vecchio
borgo, affiora da ogni dove; addossate le une alle altre e protette da porte
assolate e spesso rose dalla pioggia, come in genere le mani screpolate dei
contadini del rione, con vicoli e vicoletti dai tracciati più impensati,
ripide discese, una minuscola piazzetta - il
«Larghetto del
Principe» - ed un piccolo sagrato davanti alla chiesa di S.
Anna.
La sopravvivenza di un antico arco -
«Porta
Madonnella» - ricorda le origini feudali del paese, con a lato
l'archetto della Madonna: tre maioliche dell'artigiano Giuseppe De
Biase, raffiguranti con artistica ingenuità S. Michele,
l'Incoronata e S. Antonio, davanti alle quali la devozione popolare sosta
in preghiera.
Padre Pio, sin da piccolo, tutte le volte che passava,
indirizzava loro un affettuoso saluto e negli anni di sacerdozio, svolto a
Pietrelcina, a sera con un gruppetto di fedeli recitava il santo Rosario e la
novena in preparazione alla festa dell'Incoronata.
In questo vecchio
rione baronale dimorava la famiglia Forgione e qui nacque e torna a nascere ogni
giorno Padre Pio; qui torna ad essere fanciullo, adolescente, giovane con
l'orma dei suoi passi, perché
«le orme dei santi non si
cancellano mai».
Come non si potrà mai cancellare,
perché diventata dimensione spirituale del piccolo Francesco Forgione, il
trionfo di pietra e di roccia del rione Castello: non ci sembra infatti per
nulla sconveniente, anzi diremmo doveroso, rilevare come tratto caratteriale
permanente dell'uomo Padre Pio e della sua santità vissuta, quella
saldezza interiore irremovibile e quasi caparbia, trascrizione psichica del
«Morgione» (grande roccia, su cui poggia rione Castello) di
fronte ad eventi, prove, contrasti e tempeste -
«foris pugnae, intus
timores» di S. Paolo! - che avrebbe schiantato qualsiasi persona che
non avesse portato dentro, come lui, la solidità della pietra oscura e
dura del «suo» «Rione Castello».
Chi si reca pellegrino
a Pietrelcina, può confessare:
«l'ho conosciuto più
umano di come l'ho visto la prima volta nel convento garganico»;
«sono venuto a Pietrelcina per vederlo e sentire la nostalgia del suo
grande cuore».
È proprio vero che un uomo non abbandona
praticamente intatta la casa dove ha abitato, senza lasciarla impressa di mille
segni del suo temperamento e della sua stessa personalità
morale.
Francesco divenne cristiano in S. Maria degli Angeli, oggi S. Anna,
ricostruita nel 1700, dopo il disastroso terremoto del 5 giugno 1688; ed a
questa chiesa i secoli pesano addosso malamente; perché quasi fatiscente,
ma anche così mal ridotta si sente orgogliosa, perché piena di
Francesco Forgione bambino e adolescente, di Fra Pio studente cappuccino e di
PadrePio sacerdote.
È tanto vicina alla casa Forgione, che forse
sentì i primi vagiti di Francesco quando venne alla luce; in essa divenne
cristiano e soldato di Cristo (fu cresimato il 27 settembre 1899); imparò
i primi elementi della dottrina cristiana e undicenne ricevette la prima
comunione; si estasiava davanti a Gesù sacramentato da adolescente
quando, ascoltata la santa Messa, d'accordo col sagrestano, si faceva
chiudere in chiesa, fissandogli l'orario per andargli ad aprire; in essa
celebrò le sue «lunghe Messe», quando la salute lo infiacchiva
di più e si stemperò in lagrime amorose e dolorose per sé e
i suoi fratelli d'esilio (cf.
Epist I, lett. 44).
Il direttore
spirituale di Padre Pio, Benedetto da S. Marco in Lamis, ci fa sapere che
già a cinque anni gli apparve all'altare maggiore il Sacro Cuore di
Gesù, fece segno di accostarsi all'altare e mise la mano in testa
al piccolo Francesco, manifestando di gradire e confermare l'offerta di se
stesso e la consacrazione al Suo amore.
Davanti alla chiesa vi è il
piccolo sagrato, pochi metri quadrati selciati di pietra, teatro abituale dei
giochi dei ragazzi del rione; protetto da un parapetto, chiuso fra chiesa e
case, è una finestra spalancata su un orizzonte incantevole e sconfinato.
Dalla facciata della chiesa a sinistra di chi entra dalla porta maggiore,
affiora una irregolare curva di roccia: qui Francesco sedeva e guardava i
compagni che giocavano o leggeva, pregava, quando trovava la chiesa chiusa; e da
studente e da sacerdote, quando restava in paese, nelle ore pomeridiane di
calura opprimente, vi si portava a respirare un po' di frescura ed a
pregare.
Sul parapetto del sagrato era solito fermarsi, seduto assieme
all'arciprete don Salvatore Pannullo, circondato dai fedeli che avevano
assistito alle funzioni.
Tutta nel mio cuore
Anche l'attuale chiesa parrocchiale S.
Maria degli Angeli, anticamente SS. Annunziata, a croce greca ed a tre navate,
ampliata nella seconda metà del secolo scorso e completata tra il 1920 e
il 1925, fu testimone muto delle Messe
«lunghe» di Padre Pio e
dei suoi «interminabili» ringraziamenti; delle preghiere ardenti
rivolte con cuore di figlio alla «cara» Madonna della Libera - sempre,
sino all'ultimo giorno di sua vita - ch'egli affettuosamente
chiamava
«la Madonnella nostra».
In questa chiesa Padre
Pio iniziò, da diacono, il suo apostolato, amministrando il primo
battesimo, ma fu così salato che il malcapitato neonato, aprendo la
boccuccia, strabuzzava gli occhi,
«smerzava l'uocchie» -
parole di Padre Pio, che tutto impaurito corse dall'arciprete don
Salvatore Pannullo, dicendo:
«Zi' Tore, ho ucciso il
bambino!...» -.
Oltre alla chiesa di S. Anna e di S. Maria degli
Angeli, oggi a Pietrelcina vi è anche un convento ed una chiesa
cappuccina, dedicata alla Sacra Famiglia per espresso suggerimento di Padre Pio,
il quale, da studente cappuccino, durante una passeggiata serotina verso la via
del cimitero con l'arciprete zi' Tore, che mostrò sempre una
predilezione per Padre Pio sin da quand'era chierichetto della parrocchia,
sentì ove sorgono chiesa e convento
«un coro di angeli che
cantavano e delle campane che suonavano a distesa».
Padre Pio ha
amato sempre moltissimo il suo paese, e sebbene vi mancasse dal 1918, di esso
ricordava luoghi, strade, persone con una lucidità sorprendente:
«Io di Pietrelcina - diceva -
ricordo pietra per
pietra»; portava nel sangue le belle qualità della sua stirpe ed
era un piacere sentirlo parlare nel
«natio vernacolo»,
attraverso il quale - dichiarava - si possono esprimere meglio i propri
pensieri; il ricordo e l'amore per i luoghi nativi e per i suoi abitanti
erano così vivi da incarnarli e riviverli nella sua vita di ogni
giorno.
In piena maturità della natura e della grazia,
manifesterà ancora le belle qualità della sua stirpe, che gli
ispirano pronte risposte e scappate mordaci, con una punta di umorismo
illuminato; ama i detti popolari e il conversare nel dialetto
«pucinaro», specie se paesani, assieme ai quali, quando
può, ripassa a memoria tutta Pietrelcina; ha il buon senso della sua
gente; e quando desidera allontanare la folla, lo fa come se mandasse avanti un
gregge. Nel modo di trattare, cordiale e infastidito, non smentisce
l'educazione familiare.
Come tornando dalla chiesa a casa, lungo la
via si fermava a conversare coi suoi paesani e al coetaneo Luigi ammoniva di
controllare la lingua:
«Uagliò, m'arracuman' a
vocch»; a Vincenzo calzolaio a confezionare scarpe comode per far
camminare
«bene» la gente (
«bene»: comodamente
per la retta via):
«Ué, Cienz', facimm' i
scarp' pe camminà buon'». Così a S. Giovanni
Rotondo lungo il breve tragitto dalla cella alla chiesa, al coro, al
confessionale, al refettorio: a chi gli si butta ai piedi per volerglieli
baciare, confessandosi gran peccatore:
«Uagliò, che stai
facen'; tu si' peccator' e vu' muzzicà i piedi a
me»; a chi gli chiede con insistenza dov'è il congiunto
defunto:
«Eh sì! Io mo' vengo da llà»; ad
una pellegrina che gli domanda che deve dire da parte di lui alla sorella Rosa:
«Dille che diventi garofano!...».
Come Pietrelcina era ed
è piena tutta di lui, così Padre Pio rinserrava tutta Pietrelcina
nel suo cuore:
«Salutatemi tutta Pietrelcina, che tengo tutta nel mio
cuore - scriveva al fratello Michele. -
Le benedizioni del Signore
scendano larghe e copiose su tutti e tutti si rendano degni delle odierne ed
eterne promesse» (22 dicembre 1926).
E l'amore per il
proprio paese Padre Pio lo conserva anche nella vita senza tempo:
«S.
Giovanni l'ho valorizzata in vita; Pietrelcina la valorizzerò in
morte».
Anch'egli s'inserisce nel numero di tanti
emigrati
«pucinari» che vogliono rendere più bello il
proprio paese che non riescono a togliersi dal cuore, ed il suo contributo non
è la solita
«pezza» americana stentata col sudore, ma
una specie di dantesco fulgore d'Oriente...
Zi' Grazio Maria e mamma Peppa
Grazio Maria Forgione e Maria Giuseppa Di
Nunzio erano contadini che con il lavoro dei propri campi tiravano su
onestamente la prole: due figli e tre figlie, oggi tutti morti, e altri due
deceduti piccolini.
Grazio e Giuseppa - nel giudizio di p. Martindale -
richiamano straordinariamente i genitori di Giacinta e Francesco Marto, di
Fatima, anche nei lineamenti, ma soprattutto per la cordiale amabilità,
l'ospitalità, la rettitudine e la dignità vera campagnola.
Essi pure erano chiamati «zi'» (zio, zia), proprio come il
signor Marto è stato e sarà sempre
«zi'
Marto».
Grazio non perse mai l'allegria, che comunicava a
chi l'avvicinava, condita di scherzi innocenti e battute pronte,
conservando - afferma chi ci visse accanto e raccolse il suo ultimo respiro -
quel carattere che Dio gli aveva dato:
«Come Dio l'aveva creato,
così rimase: un uomo forte, uomo giusto, uomo intelligente, di una
intelligenza sveglia ed attiva, che traduceva subito ogni pensiero in
azione».
Dalla parlata dialettale sonora e sveglia; asciutto,
rotto al duro lavoro; statura media, occhi vivi e parlanti; dai modi, a volte,
rudi e sbrigativi; sempre pieno di entusiasmo e di spirito. Le sue mani, dure e
screpolate, non disdegnavano di scansare una formica per non schiacciarla:
«Povero animaluccio - diceva -
perché deve
morire?».
Viveva la sua fede sinceramente, anche se non poteva
accorrere alla chiesa ad ogni suon di campana e se, a volte, gli uscivan di
bocca delle giaculatorie che fanno rabbuiare il volto dei buoni
cristiani.
Quando Francesco (il futuro Padre Pio) espresse il desiderio di
voler continuare gli studi per
«farsi monaco», il padre
affettuoso non tentennò ad allontanarsi da casa, emigrando, pur di
guadagnare il necessario per il figlio studente, perché a Pietrelcina si
lavorava soltanto per vivere. Ed allora il peso della famiglia ricadeva tutto
sulle spalle della moglie.
Grazio Forgione, padre di Padre Pio
Chi conobbe
«zia Peppa» all'età di 65
anni, la ricorda dagli occhi chiari, lineamenti corretti, corpo snello come una
adolescente, piedi piccolissimi, colloquiando nel suo ostico vernacolo con una
grazia ammirevole.
Tutti rammentano a Pietrelcina la sua snella figura, in
bianca camicetta o, a seconda delle stagioni, avvolta nello scialle, con in
testa, sempre fresco di bucato, il bianco fazzoletto, secondo l'usanza
locale.
«Era una popolana - dicono di lei i compaesani -
ma aveva
tratti da gran signora, ed ogni forestiero, di qualunque ceto fosse, andato a
Pietrelcina a visitare la casetta ove nacque Padre Pio, trovava in lei la
più disinvolta e cordiale accoglienza. La sua ospitalità era
sempre larga, signorile, pur nella sua semplicità».
Anche
lei - come il marito - sapeva tenere allegra compagnia,-
«sempre pronta
a raccontare belle cose e con che maestria!...»
Donna seria,
rispettosa, religiosa; oltre al venerdì, non mangiava carne né
sabato né mercoledì, in onore della Madonna del Carmine;
frequentava la chiesa come tutte le altre buone popolane del paese; ed in quella
casa così minuscola, ove sembra che i muri ti accarezzino e ti scaldino
col loro respiro, impastato di sacrificio e di affetto semplice e sincero, mamma
Giuseppa sfaccendava da mane a sera, quando i lavori campestri non la
richiedevano altrove, per tirare avanti dignitosamente la famiglia; e ci
riusciva così bene, da non fare impensierire il marito
lontano.
Francesco
In questo ambiente tranquillo e sereno venne
alla luce Francesco e visse la sua infanzia ed adolescenza. I suoi primi anni di
vita non furono
«duri», «stentati», di
«stomaco vuoto», di
«piedi scalzi», di
«sognatore irriducibile», di
«dure malattie di origine
nervosa», né il suo carattere dava segni incipienti di un
«misogino», di un
«bimbo triste malaticcio»,
già circonfuso sin dai primi anni con aura da
«leggenda
dorata». Più tardi lo stesso Padre Pio dirà:
«A
casa mia era difficile trovarvi dieci lire, ma non ci mancava mai
nulla».
Mamma Peppa ci dice che il piccolo Francesco era un bimbo
«calmo, quieto»; però, ancora in fasce, una notte col
suo pianto insistente ed acuto (periodo, forse, delle
«ore
nere» che ogni bimbo attraversa, in cui strepita, dà sui nervi a
tutta la gente che gli sta attorno e soltanto la mamma, remissiva, lo lascia
fare come se niente fosse) innervosì Grazio tanto da farlo esclamare:
«Ma che mi fosse nato in casa un diavolo, invece di un
cristiano!...» e con ira lo scaraventò sul letto; gesto che
provocò la reazione della moglie:
«M'hai ammazzato il
figlio!...».
«Man mano che cresceva - continua la
madre -
non commetteva nessuna mancanza, non faceva capricci, ubbidiva sempre
a me ed a Grazio». Lo stesso Padre Pio raccontava che i genitori non lo
hanno mai battuto. Qualche volta la mamma gli diceva solo:
«Vieni qua,
svergognatello!...». «Perché?», gli fu domandato.
«Piccole cose con le sorelle», rispose.
Una di queste
«piccole cose» ce la racconta lui stesso. Alla sorella Felicita
(17 settembre 1889 - 25 settembre 1918), che soffrì tanto ed era la
più buona, voleva un bene particolare e con lei scherzava volentieri.
«Io - dice Padre Pio -
quando ero a Pietrelcina, tante volte,
quando lei si lavava (non c'erano allora lavandini a muro, erano lavandini
alla buona) andavo di dietro, le pigliavo la testa e poi gliela tuffavo
nell'acqua. Tanti dispettucci le facevo e lei mai una volta mi rispose
male, inquieta, ma «Eh, Franci', ma tu non la vuoi finire mai con me,
no?», e sorrideva. E anche da giovane, da grande si conservò buona e
semplice».
A volte la mamma esortava Francesco a giocare con i
coetanei, ma il suggerimento non era sempre accettato:
«Non ci voglio
andare - rispondeva -
perché essi
bestemmiano».
Grandicello, sceglieva con sano criterio: evitava i
compagni dall'
«occhio falso», ci fa sapere uno del rione
Castello, la parte vecchia del paese ove nacque Francesco, coetaneo e pastorello
assieme a lui, perché appena i genitori lo reputarono capace, gli
affidarono due pecore.
I due pastorelli si recavano a Piana Romana, a Santa
Barbara ed altre contrade. Le pecore brucavano l'erba ed essi scherzavano;
e qualche volta era ammessa anche la lotta, ma come gioco e non per rissa:
«Francisco mi vinceva quasi sempre - racconta il coetaneo Luigi
Orlando, nato il 20 marzo 1890 -
perché era più grande di me.
Una volta, lottando, cademmo e mi inchiodò con le spalle al suolo. Nel
tentativo di rovesciarlo e capovolgere la situazione, tutti i miei sforzi furono
vani ed allora mi sfuggì una espressione forte. La reazione di Francisco
fu immediata: svincolarsi, alzarsi e fuggire fu tutt'uno, perché
egli mai, mai disse cattive parole e non ne voleva sentire; perciò
evitava i compagni dall'occhio falso, voglio dire gli scostumati dalla
parola facile, gli insinceri, quelli che non erano buoni e bravi
ragazzi».
Tipo asciutto, ma non malato, Francesco era un ragazzo
come gli altri; di
«bocca pulita, questo sì». «Quando
stava con noi non pregava - almeno questo ricordo io Luigi Orlando, e gli altri
-. Non si notava in lui nulla di particolare, con noi era un ragazzo come tutti
gli altri, ma di quelli educati e piuttosto riservato. A tante cose, allora, non
ci pensavamo e quindi ci saranno anche sfuggite. E poi Padre Pio, allora
Francisco, è stato sempre «nu lupo surdo», voglio dire: di
poche parole e non faceva mai appurare i fatti suoi».
Di carattere
remissivo, ma «fino fino», comple-ta il discorso Ubaldo Vecchiarino
(17 luglio 1885 - 21 dicembre 1969), altro compagno pastore:
«Dovete
sapere che noi la sera andava-mo a scuola. Durante la giornata, Francisco
studiava e noi lo cimentavamo, buttando qualche zolletta di terra sul sillabario
o, da dietro, zitti zitti, gli rovesciavamo il cappelluccio sugli occhi. E lui
pazientava, non reagiva né diceva parole scorrette. Però a scuola
soltanto Francisco rispondeva alle interrogazioni del maestro; e perciò
lui ha continuato gli studi ed è diventato Padre Pio e noi abbiamo
continuato a fare i pecorai e siamo restati «bracciali», cioè
zappatori», conclude ridendo Ubaldo Vecchiarino.
Gli anziani del
paese lo ricordano composto e diligente a scuola, assiduo e raccolto in chiesa,
garbato e socievole con tutti, anche se riservato e meditabondo. Il coetaneo
Francesco Orlando (29 maggio 1890 - 23 luglio 1973) lo ricorda «allegro
anche da piccolo», intercala il colloquio con un
«doveva campare un
altro poco, ma lui pregasse per me» e lo presenta
«con la
giacchettella alla cacciatore, di panno di lana, con una mozzetta corta e sempre
pulita» e conclude:
«gli volevamo bene da
bambino».
C'è chi afferma di averlo visto anche
pregare, all'età di nove o dieci anni, quando pascolava le pecore:
«Io passavo e vedevo questo ragazzo che aveva la corona in mano e
recitava il rosario, chiamai il padre e dissi: «Razio,
tieni nu
santariello a pasculare le pecore». Il padre sorrise e non disse
niente».
La casa natale del piccolo Francesco Forgione
Il dito di Dio
Anche se si evita il vedere il dito di Dio
dovunque, in tutti i momenti, quali essi siano, nella vita di un santo uomo, si
è pure obbligati a costatare, specie sulla testimonianza dello stesso
santo, che alcuni di questi momenti sono stati privilegiati.
Assiduo
chierichetto per il servizio liturgico, Francesco
«pregava in ginocchio
e ben composto», ed anche a porte chiuse, in chiesa d'accordo col
sagrestano,
«esortando di non dir niente a nessuno e gli fissava
l'orario per andargli ad aprire».
Non sempre dormiva nel
letto e il sacerdote Giuseppe Orlando (26 ottobre 1877-29 agosto 1958) ricorda
che rimproverava Francesco,
«perché disubbidiente alla madre, che
alla sera gli preparava il lettuccio ed il figlio invece preferiva dormire a
terra, avendo per capezzale una pietra».
Il già nominato
Ubaldo Vecchiarino, uno dei testimoni per nulla influenzato dal
«fenomeno Padre Pio», nelle lunghe serate d'inverno,
assieme alla comitiva degli amici, qualche volta decideva di andare a scoprire
cosa facesse l'amico Francesco.
«Zitti zitti ci avvicinavamo alla
casa Forgione e dopo aver posto pietra su pietra sotto la bassa fenestrella
protetta da una cancellata di ferro, ci salivamo per spiare. La stanza era buia,
ma si sentivano i colpi di uno che con una cordicella di canapa batteva il
proprio corpo».
Il fatto delle battiture è confermato dalla
stessa madre, che un giorno sentiva dietro il letto rumore di catena, si
accostò e vide Francesco che si batteva. La madre lo fece smettere per
non fargli sentir male, ma egli ripeteva spesso tale funzione. La madre un
giorno s'inquietò dicendo:
«Ma perché, figlio mio,
ti batti così? La catena di ferro fa male». Ed allora egli rispose:
«Mi debbo battere come i Giudei hanno battuto Gesù e gli hanno fatto
uscire il sangue sulle spalle». La poverina rimase sbalordita a tale
manifestazione, e quando sentiva che il ragazzo si flagellava, lei si
allontanava con le lagrime agli occhi».
Ma quel che di veramente
eccezionale stava succedendo nell'anima di quell'adolescente, era
nascosto all'occhio di chi lo circondava; e nessuno sapeva che a cinque
anni già veniva disturbato dal diavolo e si beava della visione della
Madonna.
«Le estasi e le apparizioni cominciarono al quinto anno di
età, quando ebbe il pensiero ed il sentimento di consacrarsi per sempre
al Signore, e furono continue. Interrogato come mai le avesse celate per tanto
tempo [sino al 1915], candidamente rispose che non le aveva manifestate,
perché le credeva cose ordinarie che succedessero a tutte le anime;
difatti un giorno disse ingenuamente: «E lei non la vede la Madonna?».
Ad una mia risposta negativa, soggiunse: «Lei lo dice, per santa
umiltà!». A cinque anni cominciarono pure le apparizioni diaboliche
e per quasi venti anni furono sempre in forme oscenissime, umane e soprattutto
bestiali» (1)
Dall'amore alla preghiera ed alla
solitudine, nel cuore del fanciullo si radicava quella fermezza di propositi,
che non scalfiva menomamente la docilità ed il rispetto ai genitori ed al
prossimo; sbocciava la sete di sofferenza e di espiazione, poiché, pur
volendo ammettere che la mortificazione è un impegno dell'uomo
adulto e non un gioco di un malato mentale o di un fanciullo, ciò non
vuol dire che non ci possa essere una propedeutica della mortificazione che
inizi prima dell'età adulta, quello che avvenne appunto in
Francesco: nella forma minima, ma non inferiore, di
«accettazione», sopportando serenamente le sofferenze
causategli dagli altri; e nella forma attiva di
«mortificazione», imponendosi penitenze, che procurano una
relativa sofferenza. E questo con uno stile veramente evangelico: che tutto
avvenga «in abscondito». Così risulta - almeno a noi sembra - e
si delinea la figura di Francesco, dalla sua stessa testimonianza e da coloro
che hanno visto e sentito (2).
(1) AGOSTINO DA S. MARCO IN LAMIS,
Diario, a cura di p. Gerardo Di Flumeri, S. Giovanni Rotondo 2ª ed.
1975, p. 58.
(2) Chi desidera saperne di più, può cf.
ALESSANDRO DA RIPABOTTONI, Padre Pio da Pietrelcina.
Un cireneo per
tutti, Foggia 1974; IDEM,
Pio da Pietrelcina. Infanzia e adolescenza.
S. Giovanni Rotondo 3ªa ed. 1970; LEONE G.,
Padre Pio. Infanzia e prima
giovinezza (1887-1910), S. Giovanni Rotondo 1973; LINO DA PRATA - ALESSANDRO
DA RIPABOTTONI,
Beata te, Pietrelcina, S. Giovanni Rotondo,
1976.
FRA PIO
Nulla di più personale, di più
impegnativo, di più libero -
«libertà liberissima messa
alla prova, forse la più difficile ma certo la più bella»
(Paolo VI) - della vocazione sacerdotale e religiosa. E nello stesso tempo
invito misterioso, se davvero è una chiamata che viene da
Dio.
È una voce che il Signore può far sentire a tutti, ma
sono i giovani che Gesù di preferenza sceglie e chiama ad essere
sacerdoti, ad essere testimoni della sua carità assetata di anime, nei
vari stati della vita religiosa e della spiritualità
consacrata.
Tutti i giovani di cuore generoso devono interrogarsi per
sapere se il Signore Gesù non stia parlando proprio al loro
cuore.
Non tutti, certo, sono chiamati a questa testimonianza, ma è
problema di tutti - oggi
«gravissimo» nella Chiesa - e non
soltanto dei pochissimi eletti ad un genere di vita così singolare e non
certo di moda.
Ti ha chiamato e va'
In particolare Pio XII rivolgeva alle
famiglie ed agli sposi cristiani la commossa esortazione:
«Che farete
voi, qualora il Maestro divino venisse a domandarvi la parte di Dio, cioè
l'uno o l'altro dei figli o delle figlie, che egli si sarà
degnato di accordarvi, per formare il suo sacerdote, il suo religioso o la sua
religiosa? [...].
Ve ne supplichiamo in nome di Dio: no, non chiudete
allora in un'anima, con gesto brutale ed egoistico l'ingresso e
l'ascolto della divina chiamata».
I genitori di Francesco
non ostacolarono nell'animo del figlio l'ingresso all'ascolto
della divina chiamata: diedero a Dio
«la parte di Dio» e dove e
come il chiamato, spinto dalla voce interiore, autentica ed inconfondibile del
Signore, era indirizzato: tra i Cappuccini e
«monaco di
Messa».
Tornato dalla Messa delle sette - era il giorno
dell'Epifania dell'anno 1903 - Francesco trova la casa piena di
gente come per un lutto.
«Mamma - è lo stesso Padre Pio che
racconta -
al momento di salutarmi mi prese le mani e mi disse: «Figlio
mio, tu mi stracci il cuore!... Ma in questo momento non pensare al dolore di
tua madre: san Francesco ti ha chiamato e vai!»».
Ricevuta la
benedizione ed una corona del santo Rosario dalle mani materne (corona che si
conserva tra gli oggetti più cari usati da Padre Pio), perché
«allora si diceva il santo Rosario - interviene, polemico ed
ironico, Luigi Orlando compagno di Francesco -
e guai a chi parlava o rideva;
adesso non si fanno più corone», Francesco parte.
Se il
distacco dei familiari fu doloroso, non lo fu meno il suo. Raccontando la sua
chiamata allo stato religioso, ci fa sapere che nonostante le visioni celesti -
di cui subito diremo - rendessero generosamente forte l'anima nel dare
l'ultimo addio al mondo,«
non è da credersi però
che
quest'anima nulla avesse a soffrire nella parte inferiore
per l'abbandono da dare ai suoi, ai quali si sentiva fortemente
legato».
Più si avvicinava il giorno della partenza e
più lo «strazio» cresceva, ma durante l'ultima notte che
passava coi suoi il Signore venne a confortare l'anima di Francesco:
«
vide Gesù e la Madre sua che in tutta la loro
maestà presero ad incoraggiarla e ad assicurarla della loro predilezione.
Gesù infine le pose una mano sulla testa, e tanto bastò per
renderla forte nella parte superiore dell'anima, da non farle versare
neppure una lacrima nel doloroso distacco, nonostante il doloroso martirio che
la straziava nell'anima e nel corpo».
Il buon seme e il terreno fertile
Egrave; lo squarcio di un manoscritto
biografico, steso da Padre Pio
«in virtù di santa
ubbidienza", dal quale stralciamo altri brani.
Francesco
«aveva sentito, fin dai più teneri anni, forte la vocazione allo
stato religioso» ed il Signore, per non far soffocare
«il buon
seme della divina chiamata», favorì la sua anima di una visione:
mentre meditava sulla vocazione e come poterla realizzare,
«fu
subitamente rapita e portata a mirare coll'occhio dell'intelligenza
oggetti diversi da quelli che si veggono con gli occhi del corpo. Si vede al suo
fianco un uomo maestoso di una rara bellezza, splendente come il sole. Questi il
prese per mano e si sentì da lui dire: «Vieni con me, perché
ti conviene combattere da valoroso guerriero». Il condusse in una
spaziosissima campagna. Quivi erano una gran moltitudine di uomini: questi erano
divisi in due gruppi».
Da una parte uomini di volto bellissimi in
vesti bianche, candide come la neve; dall'altra volti di aspetto orrido,
in abiti neri a guisa di ombre oscure; tra gli uni e gli altri un grande spazio,
e quivi la guida vi colloca l'anima che, mentr'era tutta intenta ad
ammirare i due gruppi, vede un uomo di smisurata altezza, da toccare con la
fronte le nuvole, dal volto spaventoso avvicinarsi avanzando sempre più
verso di essa.
La povera anima, sconcertata dall'invito della guida a
battersi con tale individuo, impallidisce, trema tutta e, per il terrore, sta
per cadere tramortita, ma la guida la sostiene per un braccio, alla preghiera di
volerla dispensare dal combattimento per non esporla al furore di quel sì
strano personaggio tanto forte da non bastare neppure le forze di tutti gli
uomini uniti insieme per atterrarlo, si sente rispondere:
«Vana è
ogni tua resistenza, con questo ti conviene azzuffarti. Fatti animo; entra
fiducioso nella lotta, avanzati coraggiosamente che io ti starò
d'appresso; io ti aiuterò e non permetterò che egli ti
abbatta. In premio della vittoria che ne riporterai ti regalerò una
splendida corona».
L'urto è violento, ma alla fine
l'anima supera quel formidabile e misterioso personaggio, lo abbatte, lo
vince mettendolo in fuga con l'aiuto della guida che mai si stacca dal suo
fianco.
L'uomo maestoso di rara bellezza, fedele alla promessa,
estrae da sotto le vesti una corona di incantevole magnificenza, che vano
sarebbe il poterla descrivere e gliela pone in testa, ma subito la ritira,
dicendo:
«Un'altra più bella ne tengo per te riserbata se
saprai ben lottare con quel personaggio col quale or ora hai combattuto. Egli
ritornerà sempre all'assalto per rifarsi dell'onore perduto;
combatti da valoroso e non dubitare del mio aiuto.
Tieni bene aperti
gli occhi, perché quel personaggio misterioso si sforzerà di agire
contro di te per sorpresa. Non ti spaventi la di lui formidabile presenza, ma
rammentati di quanto ti ho promesso: io ti sarò sempre d'appresso;
io ti aiuterò sempre, affinché tu riesca sempre a
prostrarlo».
Sconfitto l'uomo misterioso, tutta la gran
moltitudine dei suoi satelliti si pose in fuga fra urli, imprecazioni e grida da
stordire; mentre dai petti di quell'altra moltitudine di uomini di
vaghissimo aspetto si sprigionavano voci di applauso e di lodi verso
quell'uomo splendido e luminoso più del sole.
Così
finì la visione e l'anima del fortunato giovinetto, riempita di
coraggio, anelava a
«romperla eternamente col mondo per dedicarsi
intieramente al divino servigio in qualche istituto religioso» (Cf.
Epist. I, ed. 2, 1279-1284).
Il significato della simbolica visione,
non appreso chiaramente, venne manifestato con un'altra, pochi giorni
innanzi alla sua entrata in noviziato,
«puramente
intellettuale».
Cinque giorni prima della partenza dalla casa
paterna - nella Circoncisione di nostro Signore - dopo la comunione, mentre se
ne stava in trat-tenimento col suo Signore, l'anima di Francesco
«fu istantaneamente investita di luce soprannaturale interiore. Per
mezzo di questa luce purissima fulmineamente comprese che la di lei entrata in
religione per dedicarsi al servizio del celeste Monarca altro non era che
esporsi alla lotta con quel misterioso uomo d'inferno con il quale aveva
sostenuto la battaglia nella visione precedentemente avuta. Comprese ancora, e
questo valse a rinfrancarla, che sebbene i demoni sarebbero stati presenti ai di
lei combattimenti per ridersi delle di lei sconfitte, dall'altro lato non
vi era da temere perché ai di lei combattimenti avrebbero assistito gli
angeli suoi per applaudire alle sconfitte di satana. E gli uni e gli altri
simboleggiati nei due gruppi di uomini che aveva visto nell'altra visione.
Comprese, inoltre, che il nemico, col quale doveva lottare, sebbene terribile,
pur non doveva temere, perché lui stesso, Gesù Cristo, figurato in
quell'uomo luminoso che le aveva fatto da guida, l'avrebbe assistita
e sempre le sarebbe stato vicino per aiutarla e premiarla in Paradiso per le
vittorie che ne avrebbe riportato, purché, affidata a Lui solo, avesse
combattuto con generosità» (1)
.
Una rara immagine di Padre Pio (Napoli, novembre 1911)
(1) Cf.
Voce di Padre Pio, 3 (gennaio 1972) 4s.
Franci', bravo, bravo!
Francesco bussò alla porta del
convento cappuccino di Morcone, distante da Pietrelcina 30 chilometri circa, il
6 gennaio 1903 e si trovò di fronte ad una lieta sorpresa: nel frate
portinaio ravvisa colui che lo impressionò tanto da farlo decidere ad
entrare nello stesso Ordine. Era fra Camillo da S. Elia a Pianisi (1871-1933),
il questuante semplice ed esemplare di Morcone che spesso si recava a
Pietrelcina e la sua figura di degno figlio di san Francesco era rimasta
impressa nella mente e nel cuore di Francesco.
Fra Camillo, al vederlo,
esulta di gioia, l'abbraccia, lo bacia e lo colma di carezze. Poi subito
«Eh, Franci', bravo, bravo! Sei stato fedele alla promessa e alla
chiamata di san Francesco», e lo accompagna dal padre guardiano
Francesco Maria da S. Elia a Pianisi e dal padre maestro dei novizi Tommaso da
Monte Sant'Angelo (1872-1932).
Il padre maestro, che in modo
particolare deve aiutare il novizio a muoversi nell'ignoto schema della
nuova vita, lo dispone ad una buona settimana di riflessione per una giusta
visuale delle cose, durante la quale si conversa solo con Dio e con nessun
altro.
La stanzetta assegnata provvisoriamente a Francesco è nel
corridoio che conduce al coro (n. 18), poi abiterà nella celletta n. 28
nel corridoio dei chierici: un pagliericcio poggiato su quattro tavole sostenute
da due cavalletti, un minuscolo tavolino con qualche libro devoto, una sedia,
una croce di legno che di notte gli farà compagnia durante i brevi e
frettolosi sonni.
Sull'architrave di ogni stanzetta una frase
scritturistica ricorda a chi entra ed esce una massima di vita spirituale.
Quelle abitate da Francesco hanno un passo del Vecchio Testamento ed uno del
Nuovo; la n. 18:
«Il molto parlare non sarà senza
peccato» e la n. 28:
«Voi siete morti e la vostra vita è
nascosta con Cristo in Dio».
Uno scritto a pennello sulla volta
bassa del corridoio ammonisce di rispettare il silenzio, perché luogo di
noviziato e perciò di raccoglimento. E Francesco si accorge che quel
silenzio
«perpetuo» non è un silenzio morto ma vivo,
fatto di tante persone; il noviziato è pieno e si lavora tanto e si prega
ancora tanto di più, finanche di notte; la vita non è facile ma
egli spera in Dio e nella Madre sua che gli hanno promesso aiuto e
ricompensa.
Terminati gli esercizi spirituali, il 22 gennaio dello stesso
anno 1903 vestì l'abito del novizio cappuccino e si chiamò
Fra Pio da Pietrelcina. Delicatamente composto nel
«bel saio
cappuccino», Fra Pio - nome oggi famoso in tutto il mondo - ben presto
si accorge che quei frati
«non scherzano».
Un perfetto cappuccino
Con quali propositi entrò in convento
e con quale impegno Fra Pio visse l'anno di noviziato? Ce lo dice lui
stesso in una lettera autobiografica del 1922 e ce lo raccontano i suoi compagni
di noviziato.
Il Signore faceva intendere al quindicenne Francesco che per
lui
«il posto sicuro, l'asilo di pace era la schiera della milizia
ecclesiastica. E dove meglio potrò servirti, o Signore, se non nel
chiostro e sotto la bandiera del poverello di Assisi? [...].
Oh Dio!
fatti sempre più sentire al povero mio cuore e compi in me l'opera
da te incominciata [...].
Che Gesù mi faccia la grazia di essere
un figlio meno indegno di san Francesco; che possa essere di esempio ai miei
confratelli, in modo che il fervore continui sempre più in me, da far di
me un perfetto cappuccino» (Cf.
Epist. III, 1005-1010).
Era
un fratino
«esatto in tutto» - afferma, ammirato, un novizio
coetaneo di Fra Pio -.
«Nei pochi mesi che mi precedeva mi sembrava
già provetto nella vita religiosa. Assai pronta era in lui la
docilità e l'ossequio alla voce dei padri superiori, ai quali
assieme alla solita risposta: «Padre, sì» era già in
movimento per eseguire quanto gli veniva accennato».
Il suo amore
alla preghiera era di una
«prontezza e disinvoltura
ammirevoli»: dopo la lettura in comune della meditazione, che era
sempre sulla Passione di nostro Signore Gesù Cristo, Fra Pio
«si
tratteneva in ginocchio nel tempo stabilito e anche dopo, quando gli era
possibile, versando copiose lacrime nella recita di giaculatorie e che ripeteva
nel recarsi pei corridoi, nei viali del giardino ed altrove. Allo scopo di
prolungare le sue preghiere chiedeva di frequente continui permessi di essere
dispensato dalla ricreazione, dal passeggio e talvolta dalla cena per
trattenersi in coro o in istanza [...].
Era il primo nel compiere
all'occorrenza ogni atto di adorazione e di ossequio col genuflettere
dinanzi a Gesù sacramentato, all'immagine di Maria santissima e dei
Santi e a indurre tutti i confratelli con modi e segni affabili a non venir mai
meno a questi indispensabili doveri».
L'artistica e devota
tela della Madonna Addolorata, ch'era posta in cima alla scala del
convento, con l'invito di non passare davanti a lei senza averla prima
salutata:
Hinc transire cave - nisi prius dixeris Ave - sa degli
affettuosi saluti ricevuti da Fra Pio.
Il novizio, di scarso appetito, a
volte si trovava in imbarazzo a refettorio, perché doveva render conto al
padre maestro ed al padre guardiano se voleva lasciar qualche vivanda,
però i superiori erano comprensivi e lo lasciavano in pace, dispensandolo
dai motivi della richiesta di fronte a tutta la fraternità.
Del
silenzio prescritto ai novizi era così amante che
«non era
possibile sentire una sola parola dalla sua bocca, e se alle volte era
necessario di far comprendere ai confratelli novizi obblighi o di rilevare i
loro difetti e mancanze, faceva comprendere il suo pensiero o dispiacere con
gesti, con l'espressione dello sguardo o dei suoi
atteggiamenti».
Le relazioni epistolari con i suoi furono talmente
rare, da aver
«quasi dimenticato di tenere la penna in mano»,
diceva lo stesso Padre Pio quando riviveva i ricordi di noviziato: la notizia
alla mamma per l'avvenuta vestizione, gli auguri a Pasqua ed a Natale, con
gl'immancabili saluti a «zi' Tore» (l'arciprete di
Pietrelcina don Salvatore Pannullo) ed al maestro Càccavo ed agli altri
familiari. E basta. Tali erano i tempi e non faceva impressione
alcuna.
Libero da ogni legame esterno - ma non dall'amore
riconoscente e dall'affetto sincero verso i suoi - tenace nei propositi,
Fra Pio cerca di capire e vivere la vita del novizio cappuccino per rispondere
generosamente alla chiamata divina; ed egli stesso poteva affermare di non aver
ricevuto durante il noviziato la
«minima riprensione» o
punizione, colpevolmente e
«gli si stringeva il cuore», quando
vedeva puniti gli altri novizi.
Lo stesso padre maestro giudicava fra Pio
«un novizio esemplare, puntuale nell'osservanza ed esatto in
tutto» e lo proponeva
«a tutti come
esemplare».
Era il comportamento
«impeccabile» di
un giovane novizio che s'imponeva a tutti gli altri
«per
l'attrazione che esercitava su quanti ebbero comunanza con
lui».
Al termine dell'anno di noviziato, dopo le tre
votazioni a pieni voti della comunità religiosa, Fra Pio si prepara alla
professione con un corso di esercizi spirituali; ed esplorata dai superiori la
sua volontà, se conosceva sufficientemente lo stato della religione
cappuccina e ciò che stava per promettere con la professione dei voti
temporanei e se ciò faceva spontaneamente, sinceramente, senza minaccia,
sforzo o seduzione di qualsivoglia persona del secolo o della religione e con
vera intenzione di obbligarsi a Dio coi tre voti, osservando la vita e regola
dei Frati Minori Cappuccini in perfetta vita comune, per più facilmente
salvarsi e datane risposta sincera, vera e giurata, si prepara a pronunciare la
sua consacrazione a Dio.
La mattina di buon'ora arrivano da
Pietrelcina la mamma, il fratello Michele e lo zio Angelantonio, ed alle ore 11
e tre quarti del 22 gennaio 1904, attorniato da tutta la religiosa famiglia,
inginocchiato ai piedi dell'altar maggiore, nelle mani del padre
guardiano, promette a Dio di vivere in obbedienza, senza proprio ed in
castità.
A cerimonia avvenuta, i familiari poterono salutare il
neoprofesso e mamma Peppa, al vedere il figlio, tutta commossa e lacrimante,
l'abbraccia, lo bacia e gli dice:
«Figlio mio, ora sì che
sei figlio tutto di san Francesco, e che ti possa
benedire».
Studente malaticcio
Secondo l'uso di quei tempi, in
genere, la direzione disciplinare e l'insegnamento erano svolti da un solo
professore, il quale era insegnante e direttore insieme.
La mattina del 25
gennaio 1904 assieme al compagno di noviziato fra Anastasio da Roio (1886-1947),
con il padre provinciale Pio da Benevento (1842-1908) partono per il
«professorio» di S. Elia a Pianisi (CB) per iniziare la
«rettorica», cioè il ginnasio e poi la «filosofica»
cioè il liceo.
Terminato il corso ginnasiale, promosso in filosofia,
dopo la metà di ottobre del 1905, Fra Pio parte assieme ai compagni
temporaneamente per S. Marco la Catola (FG), perché la volta della chiesa
del convento di S. Elia a Pianisi era fatiscente e doveva essere riparata
assieme al coro ed altri locali adiacenti.
In questa nuova sede trova p.
Benedetto da S. Marco in Lamis, che diventa suo direttore spirituale fino al
1922. Terminato l'anno scolastico, con a lettore (= docente) p. Giustino
da S. Giovanni Rotondo, alla fine di aprile del 1906 lo studio torna a S. Elia a
Pianisi per continuare il corso filosofico.
Il 27 gennaio 1907 Fra Pio
emette la professione dei voti perpetui nelle mani del padre guardiano Raffaello
da S. Giovanni Rotondo.
Ai primi di ottobre dello stesso 1907, per essere
prosciolti dal corso filosofico ed ammessi allo studio di teologia, i chierici
si recano a S. Marco la Catola per sostenere gli esami, eccetto Fra Pio, davanti
al definitorio provinciale. Tutti promossi.
Alla fine di ottobre Fra Pio
viene trasferito a Serracapriola (FG), sotto la guida del p. Agostino da S.
Marco in Lamis ed un'altra porzione di studio va a Vico del Gargano
(FG).
Verso la fine di novembre del 1908, in ossequio alle ingiunzioni
della Santa Sede sul riordinamento degli Studi, si sopprimono i nomi finora
usati di «professorio minore, maggiore... e il professorio si appella
ginnasio; la filosofia: liceo, la teologia: università teologica» e
i due studi di Vico del Gargano e di Serracapriola si riuniscono a Montefusco
(AV), con lettori p. Bernardino da S. Giovanni Rotondo e p. Agostino da S. Marco
in Lamis; e quindi Fra Pio e i compagni si recano alla nuova sede.
Il 19
dicembre dello stesso 1908 Fra Pio riceve gli ordini minori a Benevento da
monsignor arcivescovo Benedetto Bonazzi e il 21 dicembre, nella stessa
città, il suddiaconato da monsignor Paolo Schinosi, arcivescovo di
Marcianopoli.
Nel 1909 viene condotto a Pietrelcina presso la famiglia, da
p. Agostino da S. Marco in Lamis, perché malato ed i medici consigliavano
aria nativa.
Questo non esclude, però, che fra Pio sia andato a casa
- sempre per ragioni di salute - altre volte prima di allora, anche se le
permanenze erano più brevi.
Per testimonianza dei suoi compagni di
studio, dimorò per breve tempo anche nel convento di Gesualdo (AV), luogo
di studio per la facoltà di teologia morale.
Tutto qui il
«curriculum studiorum» di Fra Pio da Pietrelcina, studente
cappuccino.
Nulla ci dicono i documenti ufficiali - per quanto ne sappiamo
- del suo profitto intellettuale, perché mancano registri di classe e tra
le carte di Fra Pio abbiamo trovato soltanto dei lavori scolastici, un programma
settimanale e qualche lettera scritta a casa.
Dal p. Benedetto da S. Marco
in Lamis sappiamo che Fra Pio non ha mai sostenuto gli esami di filosofia,
sebbene l'abbia percorsa; la teologia dommatica la frequentò tutta
nello studio e la teologia morale, invece, privatamente a casa con l'aiuto
di un sacerdote locale.
PADRE PIO
Una misteriosa malattia di Padre Pio, le cui
cause reali nessuno riesce a diagnosticare e le cui interpretazioni
contraddittorie creano uno stato di disagio spirituale, che tocca momenti assai
difficili, quasi drammatici, non ideale per l'apertura dell'anima,
viene sdrammatizzata dalle relazioni leali e sincere fra direttori e discepolo;
la visione soprannaturale degli avvenimenti aiuta a superare le
difficoltà e l'anima segue senza interruzione il suo
itinerario.
È un periodo, questo, nella vita di Padre Pio di intensa
vita interiore e di perseverante ascesa per le vie difficili del cammino
spirituale, ampiamente lumeggiato dalla corrispondenza
epistolare.
Sacerdote santo
La permanenza di Fra Pio a Pietrelcina,
secondo le vedute umane, sarebbe dovuta essere breve con la speranza di un
giovamento alla sua malferma salute; invece nei piani di Dio si protrasse per
quasi sette anni (maggio 1909 - febbraio 1916), e il fine desiderato dagli
uomini non si verificò: Padre Pio si dimena sempre in uno stato abituale
di malattia.
La dimora presso i suoi dai superiori non era ben vista ma
soltanto tollerata e perciò p. Benedetto da S. Marco in Lamis,
provinciale e suo direttore spirituale, lo richiamò più volte in
convento, destinandolo in vari luoghi; e Padre Pio, obbediente, partiva ma dopo
breve tempo era costretto a ritornare a casa.
Dopo tanti vani tentativi, il
provinciale si rassegna temporaneamente a concedergli il permesso di dimorare
nella casa paterna:
«Mi dispiace, ma adoro l'alto decreto di Dio
che, certo per ineffabile pietà, non vi permette di dimorare in quel
chiostro, ove egli stesso con tanta degnazione vi chiamava. Forse vi vuole esule
nell'esiglio del mondo perché possiate riporre in lui solo tutte le
vostre speranze e delizie. Sia benedetto!» (Epist. I,
191).
L'aria nativa porta qualche giovamento, perché in certi
periodi si sente
«benino», specie per lo stomaco, che prima
riteneva soltanto l'acqua; ma non si illude: l'idea della guarigione
gli sembra un
«sogno», una parola
«priva di
senso»; al contrario il pensiero della morte lo attrae e la sente assai
vicina; la febbre persiste e sale, i dolori al torace sono ostinati, tanto da
costringerlo a letto; ma egli gode, per intercessione di Maria, di una grande
rassegnazione ed in silenzio adora e bacia la mano di colui che lo percuote,
sapendo che lui stesso è che da una parte lo affanna e dall'altra
lo consola.
Alle sofferenze fisiche che aumentano di giorno in giorno si
aggiunge il tormento spirituale di non essersi confessato i peccati della vita
secolare e chiede consiglio al padre spirituale di fare una confessione
generale, ed intanto vince la tentazione di tralasciare la comunione quotidiana:
«E come, padre mio, potrei vivere senza accostarmi a ricevere
Gesù anche per una sola mattina?», (
Epist. I,
186).
La grande felicità del suo spirito è una
felicità che quasi solo nelle afflizioni il Signore gli dà a
gustare:
«in questi momenti, più che mai, nel mondo tutto mi
annoia e mi pesa, niente desidero, fuorché amare e soffrire»; ed
anche se le tentazioni sono
«assaissime», confida nella divina
provvidenza di non cadere nei lacci dell'insidiatore, pur desiderando, nel
periodo che attraversa, qualcuno vicino.
Il padre spirituale Benedetto da
S. Marco in Lamis, che non sa cosa farebbe per averlo nel convento al suo
fianco, gli consiglia di abbandonarsi ai trasporti dello Spirito Santo,
«tanto sapiente, soave e discreto da non causare che il bene»;
ed alla domanda:
«mi dica ciò che Dio vuole da questa ingrata
creatura», sollecito risponde:
«Gesù vuole agitarti,
scuoterti, batterti e vagliarti, come il grano affinché il tuo spirito
arrivi a quella mondezza e purità ch'egli desidera»
(
Epist. I, 201).
Per timore di cadere nel peccato Fra Pio prega il
Signore di cambiare l'implacabile assedio del nemico in dolori fisici, ma
«sia come si voglia, a me basta sapere che tutto lo vuole Iddio e son
lieto lo stesso» confida al padre spirituale, a cui chiede il permesso
di offrirsi vittima per i poveri peccatori e le anime purganti, anche se questa
offerta l'ha fatta già più volte, scongiurando il Signore
«a voler versare sopra di me i castighi che sono preparati sopra dei
peccatori e sulle anime purganti, anche centuplicandoli su di me, purché
converta e salvi i peccatori ed ammetta presto in paradiso le anime del
purgatorio» (
Epist. I, 205-207).
Gesù accetta
l'offerta e le sofferenze aumentano, anche se in mezzo a tanto soffrire
non cessa di fargli sentire una gioia
«inesprimibile»: in certi
momenti
«poco manca che non mi vada via la testa per la continua
violenza che debbo farmi» per non cedere al demonio, che
«si
sforza di strapparmi dalle mani di Gesù», ma se egli
«non ha misurato il suo sangue per la salvezza dell'uomo,
vorrà misurare i miei peccati per quindi perdermi?»
(
Epist. I, 209).
Pur costretto a vivere fuori convento, cerca di non
perdere l'anno scolastico, studiando privatamente con l'aiuto di un
sacerdote locale, perché ha
«un vivissimo desiderio» di
essere sacerdote, anzi con
«indiscreta modestia» - dice,
rivolgendosi al padre provinciale - desidera la dispensa dai mesi che mancano
alla richiesta età canonica per l'ordinazione.
Dopo circa sei
mesi di attesa, l'1 luglio 1910 il padre provinciale può comunicare
la dispensa concessa e fissare il giorno dell'ordinazione sacerdotale,
esortandolo a star sereno ed a scacciare le afflizioni e gli scrupoli che tenta
suscitare il nemico:
«Il timore dei peccati è infondato,
perché Dio e la Vergine ti proteggono nei cimenti. Ripeto che la
verità la dico io nella pienezza della mia autorità, e non
già il tuo pensiero che offuscato com'è dalle tenebre non
può conoscere le cose come stanno in realtà davanti a Dio
[...].
Le vostre pene non sono castighi, sebbene mezzi di merito che vi
dà il Signore e le ombre che aggravano l'anima vostra dipendono dal
tentatore che vuole affliggervi. Colpe non ve ne sono, specialmente di quelle
che riguardano la santa purezza e molto si compiace Gesù dell'anima
vostra che vuole con tante prove purificata ed arricchita»
(
Epist. I, 189-192). Ed in cambio del
«grande amore» che
gli porta non deve dimenticare di raccomandarlo al Signore.
Mentre si
prepara al giorno sospirato, il demonio non può darsi requie nel vedere
in Fra Pio quella pronta volontà di andare incontro a qualunque
afflizione
«qualora si tratta di piacere a Gesù», e
cerca di scemargliela intorbidendo la sua immaginazione con petulanti fantasmi,
specie contro la santa purità
«alle volte al semplice sguardo
delle cose non dico sante, ma almeno indifferenti», però lui
preferisce la morte prima di deliberarsi ad offendere il suo
«caro
Gesù con un solo peccato, benché lieve».
Il 30
luglio 1910 assieme al parroco don Salvatore Pannullo si reca a Benevento per
sostenere gli esami e gli esaminatori rimangono contenti; il 10 agosto la sua
grande speranza diventa realtà: è ordinato sacerdote nella
cappella dei canonici nel duomo di Benevento da monsignor Paolo Schinosi con
facoltà di poter confessare; il 14 agosto canta la prima Messa solenne a
Pietrelcina e per la circostanza scrive il suo pensiero ricordo, che è
anche il suo programma di vita:
«Gesù - mio sospiro mia vita -
oggi che trepidante - ti elevo - in un mistero di amore - con te io sia pel
mondo - Via Verità Vita - e per te sacerdote santo - vittima
perfetta».
La gioia della Messa è inesprimibile e continua,
turbata soltanto dalla sua ingratitudine - come lui crede e dice. Ogni anno il
suo pensiero vola al «bel giorno»:
«Domani festa di san
Lorenzo, è pure il giorno della mia festa. Ho già incominciato a
provare di nuovo il gaudio di quel giorno sacro per me. Fin da stamattina ho
incominciato a gustare il paradiso...E che sarà quando lo gusteremo
eternamente? Vado paragonando la pace del cuore, che sentii in quel giorno, con
la pace del cuore che incomincio a provare fin dalla vigilia, e non ci trovo
nulla di diverso. Il giorno di san Lorenzo fu il giorno in cui trovai il mio
cuore più acceso di amore per Gesù. Quanto fui felice, quanto
godetti quel giorno!» (
Epist. I, 297s).
Ogni Messa per
Padre Pio è
«la prima Messa».
A volte sente un
fuoco che brucia, ma è
«un fuoco che fa bene»; la bocca
gusta tutta
«la dolcezza di quelle carni immacolate del Figlio di
Dio» e se potesse seppellire nel suo cuore le tante consolazioni divine
sarebbe certo in un paradiso:
«Quanto mi rende allegro Gesù.
Quanto è soave il suo spirito! Ma io mi confondo e non riesco a fare
altro se non che piangere e ripetere: «Gesù, cibo mio!...».
Ciò che più mi affligge si è che tanto amore di Gesù
viene da me ripagato con tanta ingratitudine... Egli mi vuole sempre bene e mi
stringe sempre più a sé. Ha dimenticato i miei peccati, e si
direbbe che si ricorda solo della sua misericordia... Ogni mattina viene in me e
riversa nel mio povero cuore tutte le effusioni della sua bontà»
(
Epist. I, 265s).
Quando non può celebrare si sente
«estremamente sconfortato» (una vera
«desolazione»)
; «ciò che più mi addolora
si è il non poter celebrare, né satollarmi delle carni del divino
agnello»; e prega il suo Gesù che non voglia privarlo
dell'
«unico conforto», che gli resta sulla terra.
Padre Pio negli anni Venti
Mi scacci dal tuo Ordine?...
Sempre per motivi di salute Padre Pio
continua a restare a casa; malattia
«misteriosa», come
misteriosa era la permanenza a Pietrelcina:
«Un giorno da me
interrogato - scrive p. Agostino nel suo
Diario, pubblicato dal p.
Gerardo Di Flumeri -
rispose: «Padre, non posso dire la ragione, per cui
il Signore mi ha voluto a Pietrelcina; mancherei di carità!...». E
non l'ho più interrogato su tale argomento» (2 ed., p.
255).
E il mistero è rimasto. Noi non azzardiamo ipotesi, proprio
per non mancare di carità e ci limitiamo soltanto ad esporre i
fatti.
Il provinciale p. Benedetto da S. Marco in Lamis tenta a più
riprese di ricondurlo in convento e la permanenza più lunga fu a Venafro,
dalla fine di ottobre al 7 dicembre del 1911.
Dall'ordinazione
sacerdotale alla partenza per Venafro, dando una rapida scorsa alla
corrispondenza epistolare intercorsa tra Padre Pio ed i suoi direttori
spirituali padri Benedetto ed Agostino, possiamo formarci un'idea di quel
che passava nell'anima del giovane sacerdote.
Grandi tormenti
diabolici non lo lasciano un momento libero neppure nelle ore di riposo,
«oltremodo amareggiate. Il demonio mi vuole per sé ad ogni
costo» (
Epist. I, 212s); brevi istanti di requie se pensa e
legge gli ammaestramenti dei padri spirituali e poi il nemico è sempre
lì da capo; ma in tante sofferenze spirituali, molto maggiori di quelle
corporali che non sono lievi,
«si faccia sempre di me ed intorno a me in
tutto e per tutto la santissima e amabilissima volontà di Dio!
Perché è questo quello che mi ha retto! So che lui non opera senza
fini santissimi, utili a noi» (
Epist. I, 213).
Dal padre
spirituale vuol sapere soltanto se nel suo cuore ci sia qualche cosa,
benché piccola, che non piaccia a Dio, perché con il suo aiuto
vuole strapparla ad ogni costo; e chiede preghiere; anche se afflizioni e guerre
spirituali vanno di pari passo con i tormenti corporali, a costo pur di gran
violenza serba sempre un animo allegro, con un nuovo coraggio che gli scende
dolcemente al cuore:
«con fiducia mi gitto nelle braccia di Gesù
ed avvenga poi quello che lui ha decretato ed egli certamente ci deve pensare ad
aiutarmi» (
Epist. I, 214).
«Nel pregare poi ai
piedi di Gesù sembrami di non sentire affatto né il peso della
fatica, che fo nel vincermi allorché sono tentato e né
l'amaro dei dispiaceri» (
ivi, p. 215).
Dolori
fortissimi di testa,
«da non poter quasi vedere dove pongo la
penna», ed accresciuti malori, specie quelli del petto che
«fanno spasimare ed in certi momenti non posso quasi
respirare», le medicine prese sono state gettate come in un pozzo,
«ma si faccia il volere di Dio!». L'unica paura:
l'offesa al Signore, ma il rimedio c'è e lui lo usa con
fiducioso abbandono: la meditazione di Gesù crocifisso, dolore che fa
molto bene e che gli fa godere una pace ed una tranquillità indicibili; e
il pensiero di Gesù sacramentato, verso cui il suo cuore si sente
attratto da una forza irresistibile prima di celebrare e, dopo, la fame di lui
si accresce sempre di più.
Quando si vede sull'orlo della
disperazione, ricorre
«alla comune nostra madre Maria», che non
sa come ringraziare
«per tali grazie singolarissime».
E
chiede lume al direttore p. Benedetto:
«Ma, padre mio, quali sono i fini
di Dio perché permette al demonio tanta libertà? La disperazione
vorrebbe prendermi; eppure mi creda, padre mio, la volontà di dispiacere
a Dio non ce l'ho. Io non so rendermi ragione e molto meno intendere come
mai possa stare insieme volontà sì risoluta e pronta ad operare il
bene, con tutte queste miserie umane [...].
Mi aiuti se non vuole vedermi
ridurre in cenere di peccati, perché l'anima la voglio salvare ad
ogni costo e Dio non voglio proprio più offenderlo»
(
Epist. I, 225s).
P. Benedetto lo assicura che l'essere
bersaglio significa stare nella servitù divina e
«quanto
più diventi amico e familiare di Dio tanto maggiore inveirà contro
di te la tentazione»; lo incoraggia anche se tali verità sono
dure per la nostra povera ed inferma natura la quale fugge la croce e teme ad
ogni ombra di male; e gli spiega la contraddizione tra la ferma volontà
di amare Dio e la debolezza di sentirsi proclive al male (cf.
Epist. I,
227s).
In tanto buio doloroso compare una sfera di sole; il demonio seguita
l'arte sua, ma Padre Pio da vari giorni sente una
«gioia
spirituale da non potersi spiegare», ignorandone la causa: sono
diminuite
«quelle tante difficoltà che sentivo una volta nel
rassegnarmi ai divini voleri. Anzi respingo le calunniose insidie del tentatore
con una facilità tale, da non sentirne né noia né
stanchezza» (
Epist. I, 230).
Alla facilità nel
respingere le tentazioni ed all'aumento della rassegnazione ai divini
voleri, si unisce spontaneo il sentimento di riconoscenza verso Gesù,
bontà e dolcezza per un
«perfido e cattivo» quale egli
si reputa, e il dolore per la ingratitudine degli uomini:
«Quanto poi
soffro, o padre, nel vedere che Gesù non solo non viene curato dagli
uomini, ma quello che è peggio anche insultato e più di tutto con
quelle orrende bestemmie. Vorrei morire o divenir sordo, anziché sentire
tanti insulti che gli uomini fanno a Dio» (
Epist. I,
231s).
Il padre spirituale gli suggerisce di offrire
«con
Gesù Cristo a Dio Padre le tue benedizioni, procurando di riparare
così le ingratitudini degli uomini. Offriti anche vittima per i loro
peccati e prega che la iniquità diminuisca sulla terra»
(
Epist. I, 232s); e cerca di calmargli le ansie per una bugia che crede
di aver detto, esortandolo a confidare al buon Gesù la sua debolezza,
senza meravigliarsi né avvilirsi per la manchevolezza:
«Il
confessore mi assicura che al più ho peccato venialmente, ma che
m'importa - si accora Padre Pio -
se in ogni modo ho fatto piangere
Gesù. E se a Gesù dispiace sommamente l'offesa che gli vien
fatta da ogni fedele, molto più gli dispiace l'offesa fattagli da
un sacerdote. Glielo dico a Gesù che non voglio fare più peccati;
ma se lui non sostiene la mia debolezza, alla prima occasione mi
dimostrerò quale sempre sono stato» (
Epist. I,
236).
E poi il nodo da sciogliere:
«Quanto vorrei vederti in
convento - gli ricorda p. Benedetto -:
mi sarà dunque sempre
negata questa consolazione?» (
Epist. I, 228).
È lo
stesso desiderio di Padre Pio ed il
«maggiore dei sacrifici»
per lui è vivere fuori convento, però a casa
«è
vero che ho sofferto e sto soffrendo, ma non mi sono mai reso impotente in
adempire al mio ufficio, il che non è stato mai possibile in
convento» (
Epist. I, 234).
Il provinciale insiste e non
nasconde il suo disappunto:
«La permanenza in famiglia mi addolora
assai», lo vorrebbe al suo fianco per apportargli personalmente le cure
necessarie,
«perché sai - gli scrive -
che ti voglio bene
qual figlio», convinto che il suo dimorare fuori convento non abbia
scopo, non migliorando neppure a casa:
«Se il tuo male è un
volere espresso di Dio e non un fatto naturale è meglio che ritorni
all'ombra della santa religione. L'aria nativa non può sanare
una creatura visitata dall'Altissimo» (
Epist. I, 237s); e
lo riconduce personalmente in convento, ma dopo aver chiesto il parere del padre
generale dell'Ordine e la visita di uno specialista a Napoli.
Dopo la
metà di ottobre del 1911 lo accompagna a Venafro, dove trova il p.
Agostino da S. Marco in Lamis, «lettore», cioè docente di sacra
eloquenza. La salute di Padre Pio peggiora ed il superiore p. Evangelista da S.
Marco in Lamis (1878-1953) lo accompagna di nuovo a Napoli, ma i medici - in
verità - «
ci capiscono poco».
Durante un
mese e mezzo circa, passato a Venafro, la fraternità si accorge dei primi
fenomeni soprannaturali:
«assistetti - scrive p. Agostino -
a
parecchie estasi e molte vessazioni diaboliche».
Il suo
sostentamento è l'Eucarestia, sia che celebri sia che riceva
soltanto la santa comunione, perché costretto a letto.
In una delle
prime sere si sentì molto male e delirava:
«Nessuno s'era
accorto dei fenomeni preternaturali e soprannaturali, neppur io - è
il p. Agostino da S. Marco in Lamis -;
credevo stesse male davvero, anzi in
pericolo di vita. Corsi nella stanza, dov'erano altri frati e vidi il
Padre [Pio], coricato a letto, con viso agitato che diceva: «Mandate via
quel gatto che mi si vuole avventare...». Io non potei resistere a quella
scena e me n'andai in coro a pregare per il padre e dolendomi per il
timore che morisse. Dopo più di un quarto d'ora ritornai nella
stanza e trovai solo il Padre Pio, rasserenato e giulivo. Mi disse appena mi
vide: «È andato in coro a pregare e ha fatto bene... pensava pure al
mio elogio funebre... c'è tempo, padre lettore, c'è
tempo!...». Fu quella una vera apparizione diabolica»
(
Diario, 2 ed., p. 268s).
Le vessazioni del nemico non erano lunghe,
duravano al massimo un quarto d'ora; le visioni divine duravano anche
un'ora ed erano sempre precedute o seguite dalle apparizioni diaboliche
(cf.
o.c., pp. 56, 269).
Le estasi avvenivano quando Padre Pio era a
letto:
«Ci accorgemmo la prima volta, io [
p. Agostino]
e
p. Evangelista [
superiore del convento],
mentre entravamo nella
stanza per visitarlo. Il Padre [
Pio]
aveva gli occhi aperti, fissi
come in un punto, mi guardava, senza muovere ciglio, senza muovere pupilla.
Pronunziava delle parole di preghiera, di amore, ecc... verso il
Signore» (o.c., p. 270).
Da principio il demonio gli apparì
«sotto forma di un gatto nero e brutto. La seconda volta sotto forma di
giovanette ignude che lascivamente ballavano. La terza volta, senza apparirgli,
lo sputavano in faccia. La quarta volta, anche senza apparirgli, lo straziavano
con rumori assordanti. La quinta volta gli apparì in forma di carnefice
che lo flagellò. La sesta volta in forma di crocifisso. La settima volta
sotto forma di un giovane, amico dei frati, che poco prima era stato a
visitarlo. L'ottava volta sotto forma del padre spirituale
[cioè del p. Agostino].
La nona volta sotto forma di Pio X. Altre
volte sotto forma del suo angelo Custode, di S. Francesco, di Maria SS....
Finalmente nelle sue vere fattezze, orribili, con un esercito di spiriti
infernali» (
o.c., p. 56).
Le apparizioni diaboliche Padre
Pio le riconosceva sempre tali con la sola domanda:
«Di' viva
Gesù! Dopo averle riconosciute, le superava sempre col divino aiuto, anzi
quasi ordinariamente seguiva un'immediata apparizione di Gesù, di
Maria, dell'Angelo Custode» (ivi).
«Quando satana
gli apparve sotto la forma della Madre di Dio dovette - suo malgrado -
confessare che esso aveva sofferto più che quando prese altre forme,
volendo il Signore manifestare l'obbligo speciale che hanno le creature di
onorare la Madre sua» (o.c., p. 57).
Altri testimoni oculari
affermano che la
«singolare» rassegnazione alla volontà
divina di Padre Pio durante l'incrudelire del male gli meritano
«grazie speciali di cui noi tutti di quella comunità fummo
spettatori fortunati».
I giovani sacerdoti, che
frequentavano il corso di sacra eloquenza, volentieri partecipavano alla
processione del Santissimo che il padre lettore portava nella celletta di Padre
Pio per la comunione, e più volentieri restavano inchiodati sul pavimento
non meno di mezz'ora, perché dopo pochi minuti il comunicato
«spalancava gli occhi e li teneva così per oltre mezz'ora,
indicandoci che qualche cosa di eccezionale doveva esservi dinanzi al suo
sguardo... Di questo eravamo convinti - è la testimonianza del p.
Guglielmo da S. Giovanni Rotondo -
quando il Padre Pio a volte sorrideva, a
volte si rattristava, a volte alzava forte la voce, pregando Gesù per la
conversione dei peccatori, raccomandandogli i benefattori, chiedendo pace,
salvezza per tutti... Da Gesù passava lo sguardo alla Vergine Immacolata,
rinnovando le stesse ed altre preghiere; sentivamo anche invocare S. Michele
Arcangelo, il padre S. Francesco col nome di potenti intercessori e infallibili
protettori dell'umanità [...].
Se in tali momenti sentivamo
la voce, le preghiere, i gemiti, le gioie del Padre Pio... non avemmo
però la fortuna di sentire la voce di Gesù, della Vergine
santissima, dei Santi. Anche un dottore di Pozzilli, dotto e bravo, si
trovò presente a tali scene singolari, invitato forse dal molto reverendo
p. Agostino, per sentire la sua parola, il suo giudizio e per assistenze
mediche».
Ma il medico curante restava perplesso dinanzi a tali
insolite manifestazioni. Si trovò presente all'estasi del 29
novembre e a quella del 3 dicembre:
"nella prima per pochi minuti,
nella seconda una mezz'ora. Nella prima, vedendolo con gli occhi aperti,
fissi in alto, senza batter palpebra, accese un cerino e glielo tenne fermo
dinanzi alla pupilla", Padre Pio non avvertiva nulla e il medico si
pronunzia per la catalessi (cf.
Diario, p. 55s).
Lo stesso p.
Agostino nel suo diario commenta che
"non si trattava di catalessi, ma
di vera estasi" e lo stesso dottore che si trovò presente altre
volte
"cambiò parere", lasciando anche
"dichiarazione del fenomeno soprannaturale" (p. 270), da cui
stralciamo quello che interessa a noi:
"Dopo parecchi giorni fui
richiamato per lo stesso Padre Pio e mi fu fatto osservare che il medesimo steso
sul letto con gli occhi aperti, rosso in volto, fissati gli occhi come in
qualche cosa che gli fosse stata davanti: egli rivolgeva la parola a Cristo,
alla Madonna ed all'Angelo Custode. Il dialogo, soliloquio, che faceva non
era sconnesso. Ciò durò circa mezz'ora in mia presenza ed in
quella dei monaci. Durante questo stato, visto il cuore, il polso, tutto era
fisiologico. Finito il dialogo, perché i personaggi coi quali lo faceva
si ritiravano, egli chiudeva gli occhi e cadeva nel sonno. Se il guardiano, in
questo stato di sonno, lo avesse chiamato da fuori la cella non facendogli
sentire la voce, come fece in mia presenza, egli si svegliava, ridendo e
scherzando come mai fosse accaduto niente. Durante il periodo del dialogo egli
mai avvertiva nulla di tutto ciò che lo circondava. Ciò si
ripetette per parecchie volte, come mi fu riferito dai padri. Giudicai quella
forma come estasi da cui Padre Pio era preso. Dottor Nicola Lombardi»
(per il resoconto di p. Agostino cf. o.c. pp. 35-58, 252-256,
268-272).
Per le peggiorate condizioni di salute il 4 dicembre 1911
p. Benedetto concede l'obbedienza a Padre Pio di tornare in famiglia e tre
giorni dopo, accompagnato da p. Agostino arriva a Pietrelcina ed il giorno
seguente, festa dell'Immacolata, come se nulla avesse sofferto, canta la
Messa solenne, assistito dall'arciprete don Salvatore Pannullo e da p.
Agostino.
La cameretta, testimone dei fatti «misteriosi»,
è stata trasformata in luogo di preghiera e benedetta dal vescovo Achille
Palmerini il 7 novembre 1976.
Dopo vani e ripetuti tentativi di ricondurlo
al convento, perché dopo pochi giorni si aggrava ed è costretto ad
uscirne, il provinciale di fronte a tale situazione di fatto, che esorbita dalla
sua competenza, si decide ad esporre il caso al padre generale
dell'Ordine, che gli suggerisce di chiedere l'indulto di
secolarizzazione.
Tale risoluzione a Padre Pio venne prospettata sin dal
1911, tanto che a Venafro in un'estasi, quando
«il reverendissimo
padre generale, padre Pacifico da Seggiano, fece sapere al provinciale padre
Benedetto che avrebbe chiesto per il Padre Pio il breve di secolarizzazione,
questi si spaventò a tale notizia e nella visione che ebbe del serafico
padre san Francesco si lamentò con lui dicendo: «Padre mio, ora mi
discacci dal tuo Ordine; per carità, fammi piuttosto morire...». Il
serafico Padre gli rivelò che sarebbe rimasto a casa con l'abito,
finché fosse piaciuto al Signore [...].
Gesù, debbo essere
esule..., mi vuoi mandar via?... non mi hai chiamato tu?... ho anch'io il
diritto di stare in religione [...].
Dunque mi vuoi cacciare? [...].
Gesù fa' in modo che obbedisca ai miei superiori [...].
O
serafico Padre mio, tu mi scacci dal tuo Ordine?... non sono più figlio
tuo?... la prima volta che mi appari, padre san Francesco, mi dici di andare a
quella terra di esilio?... Ah! Padre mio, è volontà di Dio? Ebbene
fiat!... Ma, Gesù mio, aiutami... E quale sarà il segno che tu mi
vuoi là?... Dirò la Messa... Ebbene, Gesù mio, sii
ringraziato» (
Diario, pp. 255, 50).
Prima di chiedere
l'indulto, che poi si mutò in esclaustrazione e non
secolarizzazione, passarono tre anni (1911-1914) di prova e riprova con
malintesi e risentimenti da parte del provinciale, sofferenze e umiliazioni da
parte di Padre Pio.
Approfittando della venuta del generale in provincia,
p. Benedetto gli espone il caso e
«sia ringraziato il Signore -
esclama p. Agostino -
che anche il provinciale si è persuaso,
perché il generale ha detto: «Giacché è volontà
di Dio, sia fatta; e noi gli otterremo il «breve ad tempus, habitu
retento», ed il buon padre pregherà sempre per l'Ordine, cui
sempre appartiene» (
Epist. I, 510s).
Quale umiliazione per
Padre Pio nel vedersi
«quasi scisso dal serafico Ordine»; le
tante lagrime
«che versai mi cagionarono tanto male anche alla
sanità, che fui costretto a mettermi a letto, dove attualmente mi trovo
ancora. Sia fatta la divina volontà (
Epist. I, 518).
Mi
sarà data ed accordata da Gesù la grazia almeno di morire, dove
egli con tanta paterna bontà mi chiamò? [...].
Giacché Gesù non ha permesso che io consacrassi alla mia
diletta madre provincia tutta la mia persona, mi sono offerto al Signore quale
vittima per i bisogni tutti spirituali di lei, e tale offerta la vado ripetendo
dinanzi al Signore. Sono lieto di poter vedere in parte esaudita una tale mia
offerta. Voglia il buon Gesù esaudirla anche pienamente»
(
Epist. I, 541s).
Tra il suddito e superiore la pace è fatta;
forse è meglio dire armistizio, perché il provinciale aspetta
soltanto l'occasione buona per richiamarlo in convento e, vivo o morto,
farvelo rimanere. Intanto Padre Pio resta a Pietrelcina sino al 17 febbraio
1916, tranne la breve assenza del servizio militare: chiamato alle armi, si
presenta al distretto di Benevento il 6 novembre 1915, e dal 6 dicembre al 18
dello stesso mese ed anno si trova a Napoli, assegnato alla 10ª compagnia
di sanità.
Verso la cima
Mentre è a Pietrelcina, il suo
apostolato sacerdotale si riduce ad aiutare il parroco
nell'amministrazione dei sacramenti, esclusa la confessione che il
provinciale non gli concesse i primi anni di Messa per ragioni di salute e di
non provata scienza morale da parte sua.
Verso la fine di questo periodo
inizia la direzione spirituale per corrispondenza di qualche anima, sempre col
permesso chiesto ed ottenuto dai superiori.
Ma più che con tali
forme visibili, lo zelo per le anime Padre Pio lo attua soprattutto attraverso
lo stato di vittima, vissuto intensamente come irradiazione della virtù
salvifica di Gesù e della sofferenza del corpo e dell'anima,
richiesta ed accettata come partecipazione personale e generosa del riscatto
dell'umanità redenta e peccatrice.
La sete di perfezione ci
scopre l'itinerario di un'anima che sale la vetta senza sosta, in
compagnia dell'amore e del dolore, compagni indivisibili per raggiungere
la sospirata unione con Dio, ali che libreranno sempre più verso nuove
conquiste.
Consolazioni e gioie spirituali
«da non potersi
dire» si alternano con pene laceranti e atroci, paragonabili solo ai
tormenti dell'inferno. La vita soprannaturale si sviluppa armonicamente
tra la munificenza divina e la fedeltà umana.
Le lettere di questo
periodo rivelano una esperienza superlativamente dolorosa e drammaticamente
vissuta, che si prolungherà negli anni. Le più soavi consolazioni
si intrecciano alle più strazianti pene afflittive; la umanità si
dibatte in un mare di angosce; è chiaro che la grazia non distrugge la
natura e la natura reclama i suoi diritti, anche se regolati in perfetta armonia
con il volere divino ed in piena sottomissione ai misteriosi disegni della
provvidenza.
Le lotte ingaggiate con satana durante questi quattro anni
sono assidue ed accanite; tentazioni dello spirito e tormenti del corpo; spesso
la battaglia ha come fondo le supposte infedeltà, le ingratitudini e le
mancanze della vita trascorsa. Nell'epistolario molteplici sono gli
accenni e non poche le descrizioni colorite delle lotte sostenute contro satana
e i suoi satelliti che, contro loro volontà, contribuiscono alla
dolorosissima purificazione dello spirito, rendendo con le loro arti diaboliche
più densa la prolungata notte oscura.
Ma l'aspra e diuturna
lotta col potere delle tenebre non arresta mai l'ascesa di Padre Pio
né lo devia dal retto sentiero né attarda i suoi passi verso la
cima: resiste da prode, impavidamente; sfida le forze nemiche, apertamente; con
la fiducia in Dio, in Maria santissima, nell'Angelo Custode e nella
direzione spirituale. E la vittoria gli arride sempre, anche se conquistata a
caro prezzo.
A mano a mano che l'anima percorre nuove vie e Dio le si
fa incontro con grazie di predilezioni ed il nemico si sforza per intralciare e
ritardare i disegni divini, l'intervento dei direttori diventa più
necessario e decisivo.
Alla direzione iniziale e quasi esclusiva di p.
Benedetto si aggiunge, in seguito, quella di p. Agostino. Per circostanze
più favorevoli di tempo e di luogo è proprio p. Agostino che
occupa il primo posto per un periodo di tempo. Superati poi alcuni equivoci e
chiariti certi malintesi, la direzione diventa, per così dire,
collegiale, ma con un unico indirizzo; però l'intervento di p.
Benedetto rimane sempre più autorevole e de-cisivo; a lui sono
indirizzati personalmente i resoconti di coscienza più importanti e
più minuziosi.
I rapporti di Padre Pio con i direttori sono
improntati ad uno spirito di fede incrollabile. La loro voce per lui è la
voce di Dio. Sostenuto dall'autorità indiscussa di chi gli
rappresenta Dio, percorre le vie non sempre facili dello spirito senza sosta e
senza tentennamenti, anche quando si vede avvolto da dense tenebre e circondato
da oscurità terrificanti.
ALL'OMBRA DI SAN FRANCESCO
La grazia che Padre Pio chiede a
Gesù, di farlo
«almeno» morire dove egli con tanta
bontà lo chiamò, dopo un anno di
«dolce
speranza», attraverso avvenimenti umani preparati con studiato piano di
accerchiamento, è concessa.
Sempre per motivi di salute, tornato
all'ombra di S. Francesco, in cerca di aria di montagna che lo solleva
alquanto, dalla pianura passa alla collina, dove la Provvidenza lo pianta e non
lo fa sradicare da nessuno evento umano.
L'iniziato apostolato della
penna e della direzione si allarga ed egli si trova al centro di un movimento di
intensa spiritualità e diventa un ricercato direttore: una turba di
anime, assetate del divino gli
«piomba addosso», impegnandolo
in una
«voragine di occupazioni».
La cura degli altri,
però, non fa dimenticare se stesso: Dio l'assiste con la sua
grazia, che cade in terreno fertile e fruttifica il cento per cento,
perché l'anima sale e progredisce incessantemente per la via della
perfezione.
Fatelo confessare
Durante il servizio militare, dopo la prima
licenza del dicembre 1915, i padri Agostino e Benedetto partecipano alla gioia
di Padre Pio e ringraziano Iddio per averlo salvato, almeno temporaneamente
«dalla Babilonia», e tornano ad insistere che il suo posto
è il convento. Dopo parecchi tentativi finalmente un giovedì di
febbraio, giorno 17 dell'anno 1916, Padre Pio assieme al p.
Agostino che lo aspetta alla sta-zione di Benevento, perché accostarsi a
Pietrelcina è pericoloso per la reazione dei
«pucinari»
che non vogliono farsi rubare il loro
«santariello», giunge in
mattinata a Foggia e resta, sette mesi circa, nel convento di
Sant'Anna.
Venuto soltanto per pochi giorni per assistere
l'anima della nobil donna Raffaelina Cerase, p. Benedetto, che
l'aspettava, gl'ingiunge di restare
«vivo o morto»
in convento e Padre Pio non si mosse.
Consegnati i pochi soldi del viaggio
di ritorno, scrive alla mamma e comunica la notizia anche all'arciprete
don Salvatore Pannullo.
Padre Pio, che già dirigeva per
corrispondenza epistolare Raffaelina Cerase (cf. tutto l'
Epist.
II), nelle ore pomeridiane dello stesso giorno 17, accompagnato da p. Agostino,
si reca da donna Raffaella, il cui palazzo era vicino al convento di
Sant'Anna; e nei giorni seguenti visitava l'inferma, celebrando
spesso nella cappella gentilizia, dedicata al Cuore sacratissimo di Gesù,
intrattenendosi due o tre ore e poi se ne tornava in convento; e così
sino alla fine, quando il 25 marzo 1916, l'ammalata, assistita fino
all'ultimo momento dal suo
«caro», «buono»,
«santo» Padre Pio, rese la sua bell'anima a
Dio.
È questa santa donna che insisteva presso p. Agostino a far
tornare Padre Pio in convento, perché avrebbe fatto tanto bene alle
anime:
«Fatelo tornare e fatelo confessare, ché farà molto
bene!». E vide giusto: Padre Pio con la confessione avrebbe salvato
tante anime, iniziando una nuova feconda tappa della sua attività
ministeriale, perché egli a Foggia si trova al centro di intensa
spiritualità, anche se non tutti, forse, si rendevano conto della
responsabilità del maestro e dell'ampiezza di quel
movimento.
Pochi giorni prima della partenza per S. Giovanni Rotondo,
confidava al suo direttore:
«Dovete sapere che non mi si lascia un
momento libero: una turba di anime assetate di Gesù mi si piomba addosso
da farmi mettere le mani nei capelli. Di fronte a tanto abbondante raccolto, da
una parte mi sento rallegrato nel Signore, perché vedo che le file delle
anime elette si vanno sempre più ingrossando e Gesù più
amato; da un'altra parte mi sento affranto da tanto peso e quasi come
avvilito» (Epist. I, 805).
Il
«punto tanto
oscuro», travaglio durato oltre sei anni e considerato
«suicidio» da Padre Pio che era assediato dall'interno e
dall'esterno,
«grande illusione» e
«grazia di
Dio» dall'affettuoso p. Agostino,
«grazia da fare a
Gesù» dall'angosciato p. Benedetto, si risolve nel modo
più pacifico, saremmo tentati di dire più banale, nel brevissimo
tempo di due mesi circa.
E di fronte alle grandi alternative poste in
gioco, come necessaria componente dei temperamenti umani in ciò che
accade e si vuole che accada, la elementare soluzione ci sembra la migliore
conferma di una filigrana di saggezza nei fatti strani o, se si vuole,
contraddittori della vita: filigrana che è sempre molto semplice, ma che
è
«misteriosa» per noi che non sappiamo individuarla in
trasparenza giusta.
Il diavolo in convento
Da un manoscritto del superiore del tempo,
p. Nazareno d'Arpaise (1885-1960), stralciamo altre notizie.
Arrivato
a Foggia, Padre Pio
«tutto contento», con i confratelli era
sempre
«giulivo e faceto».
Dopo breve soggiorno fu colpito
da una «febbraccia» e, visitato dal medico del convento Del Prete, gli
furono riscontrati
«focolai di microbi all'apice destro, con lievi
soffi al sinistro». Un consulto col dottor Tarallo conferma la stessa
diagnosi.
«Ogni sera i due medici s'incontravano nella stanza
dell'infermo e con loro somma meraviglia dovettero confessare ch'era
un morbo che appariva e scompariva [...].
La febbre durò parecchio
e poi scomparve completamente con grande confusione dei
medici».
Assieme a Padre Pio arriva anche il diavolo e un diavolo
rumoroso. La comunità di Foggia ne parla apertamente e gli ospiti, per
questo motivo, prendono altre vie, perché i diavoli fracassoni fanno
paura e si sta da loro alla larga; erano diavoli all'antica, buoni per
quei tempi; oggi, invece, anch'essi aggiornati, sono diventati talmente
silenziosi da far credere addirittura che siano spariti e così possono
lavorare indisturbati, senza incutere spavento, in mezzo ad una numerosa
clientela.
Padre Pio non cenava e si ritirava nella stanzetta. Una sera,
mentre la fraternità era riunita a refettorio per la refezione,
«s'intese una forte detonazione nella sua stanza, ch'era
sulla volta del refettorio, mandai fra Francesco da Torremaggiore
(1876-1951)
alla stanza di Padre Pio, immaginando che avesse bisogno di
qualche cosa ed avendo chiamato invano avesse lanciato una sedia in mezzo alla
stanza per essere inteso. Il fratello andò su e domandò di che
cosa avesse bisogno, ma Padre Pio rispose: «Non ho chiamato né ho
bisogno di niente». Assicuratomi che non aveva bisogno di niente, si
continuò a cenare. Nelle sere successive la detonazione avveniva
egualmente. A refettorio i frati incominciarono ad immaginare ed a
fantasticare».
Terminata la cena, i frati si recavano con piacere
a far ricreazione nella stanza di Padre Pio, perché in mezzo a loro ci
stava
«molto bene», «la nota allegra non gli mancava mai e poi
quando raccontava qualche fatterello era tanto felice» ed i frati
«provavano gusto a sentirlo».
Però, dopo la
detonazione, lo si trovava
«in un bagno di sudore e bisognava cambiarlo
da capo a piedi. Ricordo, non esagero, che una volta con le sole mutande riempii
un bacile d'acqua».
Testimoni di tali manifestazioni
rumorose furono anche un Vescovo col suo domestico ed un cappuccino di
un'altra fraternità.
«Si trovò di passaggio una
sera monsignor D'Agostino, vescovo d'Ariano Irpino, al quale
credetti bene d'informarlo di quanto avveniva in convento, e lui:
«Padre guardiano, il medioevo è finito e voi credete ancora a queste
panzane?» Va bene - dissi nell'animo mio - costui è come
l'apostolo Tommaso, che se non vede, non crede... Ci crederà.
Bussò il segnale della cena e si andò a refettorio. Dispensai dal
silenzio regolare per onorare l'ospite e mentre si parlava io intesi un
calpestìo sulla volta del refettorio, calpestìo che avvertivo
sempre prima della detonazione. Imposi silenzio a tutti ed ecco la detonazione.
Il domestico del Vescovo, che mangiava in foresteria scappò a refettorio
con i capelli ritti e pieno di paura. Il Vescovo rimase così impaurito
che quella sera non volle dormire solo ed il giorno seguente lasciò il
convento e più non ritornò».
P. Paolino da
Casacalenda (1886-1964), scendendo a Foggia dal convento di S. Giovanni Rotondo,
dov'era superiore, una sera si presentò nella stanza di Padre Pio
e,
«facendo lo spiritoso - racconta lui stesso -
dissi al padre
che giacché mi trovavo presso di lui, sarei rimasto sino all'ora
della cena nella sua stanza per vedere se lo spirito maligno aveva il coraggio
di venire alla mia presenza. Padre Pio sorridendo mi sconsigliò dicendo
che aveva molta speranza che il fatto non avvenisse quella sera. Io però
tenni duro e rimasi col Padre Pio, conversando con lui, mentre i frati
cenavano. Intanto il tempo passava, e vedendo che niente avveniva, dissi al
Padre Pio: «Vedi? Finora niente è avvenuto, ma non andrò a
cena se prima i confratelli non escono dal refettorio per la
ricreazione»».
Persuaso che il demonio non voleva testimoni e
che ormai l'orario della lotta fosse passato, pregato anche da Padre Pio
che si mortificava col dare
«soverchio fastidio» (parole sue)
ad un confratello, p. Paolino esce dalla stanza e s'avvia a
refettorio.
«Non l'avessi mai fatto!... Appena discesi il
primo scalino immediatamente udii il tonfo formidabile che - essendo la prima
volta - mi scosse da capo a piedi. Come un bolide raggiunsi la stanza del Padre,
pieno di rammarico, perché non mi sarei aspettato un colpo così
improvviso, e rimasi male nel trovarlo pallidissimo come sempre accadeva. Aiutai
anch'io a cambiare il padre e mi accorsi attraverso la propria esperienza,
che il sudore era abbondantissimo e che tutto corrispondeva a quello che mi era
stato detto».
I rumori cessarono quando il padre provinciale
Benedetto da S. Marco in Lamis espresse a Padre Pio il desiderio che non
dovevano più sentirsi.
Padre Pio pregò ed il Signore
esaudì la sua preghiera. Però cessarono i rumori ma non gli
assalti del demonio che
«sceglieva sempre la stessa ora, dopo cena, per
tormentare il povero Padre». I confratelli che lo andavano a salutare
«lo trovavano nelle stesse condizioni delle sere precedenti nelle quali
si sentivano i rumori: pallido, sfinito di forze, bagnato completamente del
solito abbondante sudore».
Il padre superiore del convento di
Sant'Anna parla anche di
«risposte in lontananza», di
«visioni» e di
«Messe lunghe» di Padre
Pio.
La stanzetta ove dimorò è stata restaurata ed il
visitatore può intrattenersi tra quelle pareti, testimoni muti di fatti
straordinari.
La spaventosa tempesta
Il 14 maggio 1914 Padre Pio, rispondendo al
provinciale, esortava alla preghiera, perché
«le cose -
scriveva -
si vanno piuttosto imbrogliando, e se lui, [
il
Signore],
non vi pone rimedio l'affare andrà
malissimo», essendo stato dai cuori
«volontariamente scacciato
l'amabilissimo Gesù» (
Epist. I,
468).
Purtroppo anche l'Italia, sorda alla
«voce di
amore» e nulla imparando dalle
«sventure altrui»
diventa campo bruciato dall'odio ed arrossato di sangue fraterno; e
«la più innocente vittima della guerra fratricida, che assorda
d'armi e d'armati e riempie di terrore l'Europa
tutta», è Pio X,
«anima veramente nobile e
santa», che non regge alla
«spaventosa tempesta ed il suo cuore
che per tutta la vita era stato una fonte di apostolato di pace su tutto il
mondo, si spezzò in uno schianto di dolore» (
Epist. I,
494).
Anche Padre Pio, come ogni anima buona che crede all'amore ed
aborre l'odio, vive in una continua
«mortale agonia». La
strage e la carneficina continua ed assieme alle case si svuotano anche i
conventi:
«Quasi una trentina di religiosi della nostra provincia sono
stati richiamati ed alcuni si trovano al fronte. Gesù l'aiuti e li
salvi!», implora p. Agostino (
Epist. I, 584); ma tutti
«siamo chiamati a compiere il penoso dovere, rappresentato dalla
guerra - esorta Padre Pio - a
seconda delle nostre forze»,
accettando
«con animo sereno e con coraggio l'ordine che ci viene
dall'alto [...].
Solleviamo il cuore in alto, a Dio; da lui ci
verrà la forza. Tutti dobbiamo cooperare al bene comune e renderci
propizia la misericordia del Signore e in quest'ora grave,
coll'umile e fervente preghiera e colla emendazione della vita»
(
Epist. I, 587).
Tutto il nostro dovere e secondo le nostre forze,
ma Padre Pio «insaccato» in una divisa militare è proprio fuori
posto. Il suo «servizio» per cooperare al bene comune è la
preghiera fervente e l'offrirsi vittima per i propri fratelli. Egli la
tragedia della guerra l'ha vissuta dal principio alla fine e non soltanto
quei pochi mesi effettivi in grigioverde.
Sempre disposto alla
volontà divina, è pronto ad affrontare con serenità anche
quest'altra prova, pregando il Signore che il suo spirito
«non
abbia di nulla a lamentarsi ed il nemico nostro di nulla a
gloriarsi».
Nel distretto militare di Benevento trova un capitano
medico
«feroce» ma giusto, il quale dopo una scrupolosa visita
gli riscontra la
«tanto temuta malattia, quale appunto l'è
la tisi». Quale sia la sua sorte, tutto accetta
«con animo
tranquillo», come se gli venisse
«offerta immediatamente dalle
mani benedette del Padre celeste». Anche se Gesù richiede dal
suo povero servo una
«grandissima» prova, sia egli sempre
benedetto.
La sua perfetta uniformità alla volontà divina,
però, non gl'impedisce di pregare e di far pregare il Padre celeste
che gli apra le braccia della
«paterna tenerezza», per porre
fine alla prova che la sente
«terribile» e
«durissima», alleviata in certo modo da persone di
«nobile cuore» che lo circondano di
«straordinario
affetto e di squisita cura», incontrate anche
«in mezzo a gente
di ogni condizione».
E fra le tante pene fisiche e spirituali non
dimentica, con delicata premura, che deve soffrire soltanto lui e non gli
altri.
Estremamente sfinito di forze, solo per miracolo si regge
«in gambe»; il petto duole fortemente; lo stomaco, che
incomincia a fare il
«solito scherzo», si va sempre ostinando a
non ritenere cibo alcuno, eccetto Gesù ostia. Alla visita collegiale
viene riconosciuta la malattia (
«infiltrazione ai polmoni») e
gli accordano un anno di convalescenza. Sia ringraziato il Signore per la sua
bontà, che non ha permesso al nemico che toccasse lo spirito durante
questo
«duro tirocinio»; e, sia detto a gloria di Dio, ha
«ricavato più frutto nello spirito da questa prova [...]
che da un corso di santi esercizi spirituali» (
Epist. I,
700s).
Tra visite e licenza di convalescenza, torna al distretto di Napoli
il 19 agosto 1917 e questa volta è dichiarato idoneo ai servizi interni,
nonostante che il suo corpo risulti un corpo
«patologico: catarro
bronchiale diffuso, aspetto ischeletrito, nutrizione meschina e tutto il resto.
Mio Dio! quante ingiustizie si commettono» (
Epist. I, 937).
Pazienza! - sospira afflitto e rassegnato -:
«Gesù vuole
mortificarmi e sia fatta la sua santissima volontà in ogni cosa. Non ci
perdiamo di coraggio, Gesù è buono. Egli non permetterà che
si estingua il lucignolo fumigante» (
Epist. I, 939).
Il
povero padre provinciale è desolato nel sapere la sua idoneità:
«Farai dunque il soldato a letto?», domanda con ironica
preoccupazione, pensando ai conventi ormai ridotti tutti all'osso; anche
se dal Signore
«meritiamo tutto e peggio», «sarà
impossibile ottenere pietà?» (
Epist. I, 940).
In
mezzo ai tanti mali fisici rispunta
«quella vecchia prova dello spirito,
cioè il dubbio atroce se ciò che fo nel corso della vita sia di
gradimento a Dio: se nelle mie azioni che vado facendo vi sia oppure no
l'offesa di Dio. Questo dubbio è sì fitto nella mente e nel
cuore, che mi trafigge l'animo. Se dovessi offendere Dio anche per una
volta, preferirei di subire infinite volte il martirio il più
straziante [...].
Compiacetevi di delucidarmi di bel nuovo questi punti
oscuri per me. Con me dovete comportarvi come si diporta un padre col suo
figliuoletto, perché nelle vie dello spirito per ciò che mi
riguarda sono più che bambino» (
Epist. I, 945).
P.
Benedetto lo calma, esortandolo a non impensierirsi affatto per le sue pene di
spirito, perché
«è croce voluta dal divino amore e non
altro. Le tenebre non ti spaventino. Sta fermo in ciò che ti dichiarai
più volte a voce ed in iscritto».
Finalmente tra richiami e
licenze, annunzia la tanto desiderata notizia:
«Fra giorni mi si
firmerà il foglio di via, e così potrò lasciare con animo
soddisfattissimo Napoli, facendo voti di non ritornarci mai più. Non vedo
l'ora di partire e di arrivare presto a destinazione, perché mi
trovo ripieno d'insetti fino ai capelli» (
Epist. I, 15
marzo 1918, p. 1005s.).
Così termina
«con fedeltà ed
onore» il servizio militare di Padre Pio, al secolo Francesco Forgione,
rimandato a casa per morire a breve scadenza, secondo il verdetto dei medici,
sconfitti di fronte a questo malato singolare.
Una tonaca di Padre Pio intrisa di sangue
Vieni a S. Giovanni Rotondo
Scendendo da S. Giovanni Rotondo (8 luglio
1916), p. Damaso da S. Elia a Pianisi si ferma a Foggia, prima di proseguire per
Morcone ove conduce i futuri novizi cappuccini. Va a salutare Padre Pio
«e lo trovai - scrive -
seduto sul letto. Mi fece impressione la
sua barba nera e il suo volto molto macilento, con la faccia di vero
malato». Assieme agli altri malanni Padre Pio era tormentato dal grande
caldo che lo soffocava, senza dargli un momento di respiro.
P. Paolino da
Casacalenda, venuto da S. Giovanni Rotondo per predicare il novenario di S.
Anna, nei momenti in cui lo vedeva penare di più, lo invitava a passare
qualche giorno nel convento di sua residenza.
Presa la benedizione del
padre guardiano Nazareno d'Arpaise e salutati gli altri religiosi,
accompagnato da p. Paolino, giunse nel convento di S. Giovanni Rotondo
«accolto con grande affetto dai pochi frati che non ancora erano
chiamati al servizio militare e da tutti gli allievi del seminario serafico. Era
la sera del 28 luglio 1916. I giorni nei quali Padre Pio si trattenne a S.
Giovanni Rotondo - continua p. Paolino -
furono di grande sollievo per il
suo fisico. Egli respirava davvero con piacere quell'aria fresca delle
montagne che circondano il convento e non sentiva più la sonnolenza e la
pesantezza da cui era preso nella calura di Foggia. Cominciò pure a
riposare nelle ore in cui la comunità andava a letto; così tutta
la persona sentì rinascere le forze. Quantunque il diavolo ogni sera lo
tormentava e io me ne accorgevo dal sudore che impregnava la sua camicia quando
lo aiutavo a cambiarsi, io però ero molto soddisfatto e non mi pentivo di
averlo spinto a venire con me».
Nel 1916 attorno al convento non
vi era anima viva e si scendeva al paese per un viottolo campestre; dopo la
soppressione degli Ordini religiosi del 1866, il convento era ridotto in misere
condizioni e la chiesetta spesso era ricovero di capre; i Cappuccini vi
ritornarono nel 1909 e fino alla venuta di Padre Pio fu sempre luogo solitario,
«un convento di desolazione - leggiamo in una lettera del 1915 di p.
Isaia da Sarno -
è lontano dal paese, raramente in chiesa vengono
persone, profondo silenzio mi circonda, solo ascolto di tanto in tanto il suono
del campanaccio, appeso al collo di qualche capra o di qualche pecora, che i
pastori accompagnano a pascolare sulla montagna che sorge dietro al
convento». Però in quel luogo solitario regnava la pace e
l'allegria per la presenza di tanti
«fratini».
Nella
nuova residenza all'inizio le occupazioni di Padre Pio erano
«la
lettura di libri ascetici - ci fa sapere p. Paolino -
in modo principale
la Sacra Scrittura, la direzione di tante anime che per corrispondenza gli
chiedevano consigli ed alle quali egli - avendo ricevuto il permesso dai
superiori - rispondeva; la direzione spirituale dei nostri collegiali, i quali
si confessavano volentieri da lui ed ascoltavano con molta attenzione le sue
conferenze», e, quantunque non perfettamente in salute, spinto da un
vivo desiderio, chiede il permesso di offrirsi
«vittima al Signore per
il perfezionamento del collegio, che amo teneramente e per esso non risparmio
disagi personali. È vero che ho gran motivi per ringraziare il celeste
Padre pel mutamento in meglio avvenuto nella maggior parte di essi
[
collegiali]
, ma non sono ancora pienamente soddisfatto. Quindi ve ne
supplico, a non volermi negare ciò che vi ho chiesto. Gesù mi
darà la forza per sopportare quest'altro sacrificio»
(
Epist. I, 874).
Superati i disagi e le difficoltà
iniziali di questa nuova forma di apostolato e la ritrosia quasi diffidente dei
seminaristi, Padre Pio conquistò il cuore e l'apertura delle anime
adolescenti ed incominciò a provare la gioia di trovarsi in mezzo ai
futuri ministri del Signore, anche se non mancavano delusioni ed
incorrispondenze.
Non abbandonò mai nessuno dei suoi ragazzi, anche
durante e dopo il noviziato; e seguiva i venuti meno come poteva con la parola e
con lo scritto.
S. Giovanni Rotondo
Sulla catena del versante meridionale del
Gargano, a 560 metri di altezza sul livello del mare, a piè del monte
Castellano, su cui, in tempi remotissimi, sorgeva il castello Pirgiano, si
estende la cittadina di San Giovanni Rotondo.
La sua posizione topografica,
simile a un paesaggio svizzero, per l'incanto e la bellezza del panorama,
rapisce lo sguardo dei turisti, dei pellegrini e di quanti vi arrivano la prima
volta dal Tavoliere di Puglia.
A settentrione i monti verdeggianti di
alberi, di cespugli e di erbe aromatiche, formano uno sfondo meraviglioso alla
veduta del paese, adagiato dolcemente in una leggera
conca.
L'orizzonte è limitato dalle vicine montagne di levante
e di ponente; a mezzogiorno dalle prominenze quasi uniformi delle colline
sottostanti.
Dal centro del paese, man mano che si sale verso la zona alta,
alle pendici della montagna, si apre un vasto orizzonte verso il Tavoliere, fino
alle Murge di Bari, ai monti del Vulture, dell'Irpinia e del
Molise.
Dal convento dei Cappuccini si gode una splendida visuale del Golfo
di Manfredonia e della riviera adriatica.
Origine del borgo
Le origini di S. Giovanni Rotondo, come di
tutte le città e dei paesi della Daunia e del Gargano, risalgono a tempi
molto remoti, al 1270 avanti Cristo, quando Diomede, re di Etolia nella Grecia,
sbarcò col suo esercito nella Puglia e l'occupò.
La
Puglia («Apulia» nome orientale, dalla voce ebraica
«Apulah») significa nebbia, foschia, caligine.
Infatti dalle
paludi, dai pantani di acque stagnanti, che prima della bonifica infestavano la
Puglia, e dai pochi fiumiciattoli a lento corso, si sprigiona il vapore acqueo,
che si solleva e si spande sul Tavoliere.
Nell'estate produce un
calore soffocante e un'afa insopportabile, da costringere le folle di
gente ad evadere dalle città e dai paesi per cercare rifugio nelle
campagne ventilate e fresche, sulle colline e in gran parte al mare.
Il
Gargano è un promontorio montuoso, che si prolunga nel mare
adriatico e fa parte della Puglia, come un'oasi nel deserto del
Tavoliere.
Da studi fatti, il nome «Gargano» si fa derivare dalla
parola greca «gargara o gargaros», che ha diversi significati:
rimbombo, risonanza, rumore, gorgoglio, mormorio.
Geofisicamente il Gargano
sovrabbonda di valli profonde, di anfratti, di caverne sotterranee
intercomunicanti per chilometri, di colline e di pareti rocciose, che
riproducono rimbombo, rumore, risonanza di voci di uomini e di animali, mormorio
di venticelli, sibili acuti di venti gagliardi e impetuosi.
Alcuni studiosi
della natura del Gargano hanno voluto aggiungere un significato più
poetico di «allegrezza» per l'incanto della natura ancora
vergine, lussureggiante di vegetazione mediterranea e ricca di meravigliosi
orizzonti.
È logico che Diomede e i suoi soldati, sfibrati dalla
calura e dall'afa del Tavoliere, sentissero la necessità di salire
sul Gargano a respirare aria pura e fresca e a rinvigorire le
forze.
Inoltre, Diomede con la sua gente, avendo gettato le fondamenta di
città e di borghi nella vasta pianura, per assicurarsene il dominio, non
poteva trascurare di costruire opere di fortificazione nei luoghi più
idonei e lontani dai centri abitati per meglio controllare i
nemici.
Castel Pirgiano
A tale scopo scelse i monti del Gargano come
luoghi più adatti per osservare il nemico a grande distanza e prepararsi
accuratamente alla difesa, costruendo castelli, torri, fortezze, fra cui il
Castello Pirgiano, il cui nome deriva dalle voci greche: «Pirgos»
piccolo castello e «Jano», Giano, il Dio adorato in tutto il
Gargano.
Col passare degli anni, attorno al Castel Pirgiano, sorsero
alcuni casali, che, unificatisi nel 280 avanti Cristo, formarono un borgo,
abitato dai discendenti Pirgiani.
La vita del borgo, situato sulle rocce
della montagna, era magra e misera per la mancanza di terra coltivabile e di
acqua. Si viveva di pastorizia.
Gli abitanti, desiderosi di migliorare le
condizioni di vita, erano costretti a scendere nel pianoro sottostante, dove vi
era terra da coltivare, comodità di lavoro e abbondanza di
acqua.
Scendere ogni giorno dal borgo per il lavoro e risalire stanchi la
sera per il riposo era un grave disagio e un grande sacrificio.
Nel decimo
secolo gli abitanti di Pirgiano scesero nella pianura e diedero inizio alla
fondazione di un nuovo borgo a piè del monte Castellano, abbandonando
definitivamente il castello e i vecchi casolari, che attraverso i secoli
andarono del tutto distrutti.
Perché Borgo S. Giovanni Rotondo?
I Pirgiani del nuovo borgo, dipendenti
dall'Abazia di S. Giovanni in Lamis, per ragioni di territorio e di
giurisdizione, a contatto coi monaci Benedettini e coi cristiani, abbandonarono
il culto delle false divinità e si convertirono alla fede di Cristo. A
testimonianza della loro fede, scelsero come protettore del borgo, S. Giovanni
Battista al quale dedicarono il tempio di Giano, costruito dai loro antenati,
tuttora esistente nella zona orientale della città e aperto al
pubblico.
Da questo tempio, che in origine era perfettamente rotondo, il
borgo prese il nome di S. Giovanni Rotondo.
Celebrità del Gargano
Il Gargano divenne celebre nel quinto secolo
dopo Cristo, quando per ben tre volte, nel 490, 492 e 493, l'Arcangelo S.
Michele apparve in una grotta del monte sovrastante alla città di
Siponto, sulla cui sommità si estende la città di
Montesantangelo.
In quel tempo, Pontefice della Chiesa Cattolica era
Gelasio I e Vescovo di Siponto S. Lorenzo Maiorano, i quali riconobbero e
confermarono le apparizioni di S. Michele Arcangelo.
Divulgatasi la notizia
nel mondo cristiano, cominciarono ad affluire i fedeli dei popoli latini,
orientali e nordici. Numerosissimi furono i Longobardi e i Normanni, che
fondarono conventi e ospizi lungo la valle santa, che da S. Maria di Stignano
porta alle pendici di Montesantangelo.
Pellegrini illustri
Pontefici, Vescovi, Imperatori, Re,
Principi, e molti Santi, fra i quali: S. Lorenzo Maiorano, S. Bernardo, S.
Anselmo, S. Brigida, S. Francesco d'Assisi, S. Camillo, S. Alfonso, S.
Gerardo Maiella, Padre Pio da Pietrelcina visitarono e diedero importanza e
splendore al Santuario di S. Michele Arcangelo.
Padre Pio, devotissimo di
S. Michele, ne incrementò e diffuse il culto, indirizzando migliaia e
migliaia di figli spirituali e di fedeli alla grotta santa, per impetrare
dall'Arcangelo protezione e aiuto nelle tentazioni e nella lotta contro
gli spiriti maligni.
La visita di S. Francesco d'Assisi al Santuario
di S. Michele Arcangelo risale intorno al 1216.
La tradizione vuole che,
attraversando la valle santa insieme coi suoi compagni, abbia fatto sosta nel
borgo di S. Giovanni Rotondo, su cui invocò dal Signore grazie e
benedizioni. Volendo lasciare il seme della figliolanza spirituale e monastica,
pensò alla fondazione di un piccolo convento, che fu costruito in breve
tempo e abitato per alcuni secoli dai suoi frati.
Poiché nel decorso
degli anni andò in rovina e divenne quasi cadente,
l'amministrazione comunale, nel 1470, ne edificò un altro, a cui
annesse una chiesetta dedicata a San Francesco. Quest'ultimo fu abitato
dai Frati Minori Conventuali fino al 1700, anno in cui fu demolito e ricostruito
più grande e più comodo dallo zelante Frate concittadino Padre
Giambattista Lisa.
Nel 1810, con la soppressione degli Ordini Religiosi, il
convento fu abbandonato dai Frati e destinato a Palazzo Comunale. La Chiesa di
S. Francesco rimase aperta al culto pubblico fino al 1860, poi fu trasformata da
luogo di preghiera e di santità in carcere per i
delinquenti.
Il convento dei Frati Cappuccini
Il convento dei Cappuccini con la Chiesetta
di S. Maria delle Grazie fu costruito negli anni 1538-1540 su un'amena
collina, nella zona Patariello, a richiesta e a spese del popolo, con il
consenso dell'Arcivescovo di Siponto, Cardinale Giammaria di Monte Sabino,
che fu eletto Papa col nome di Giulio III.
La Chiesa fu consacrata nel 1676
sotto il titolo di S. Maria delle Grazie.
L'immagine della Madonna,
dipinta su tela, risale al secolo XIII ed è molto venerata dai fedeli. Il
2 luglio 1959, per la circostanza dell'inaugurazione della nuova Chiesa,
fu incoronata solennemente dal Cardinale Federico Tedeschini con la
partecipazione di molti Vescovi, Sacerdoti e Frati, e di una folla ingente di
fedeli di ogni parte d'Italia.
Il sito per la costruzione del
convento con l'annessa vigna e casa rurale, che si conserva ancora
nell'orto dei Frati, fu donato da un benefattore del luogo, un certo
Orazio Antonio Landi.
Nel 1540 i Frati Cappuccini ne presero possesso,
testimoniando il Cristo nella preghiera, nella penitenza e nella santità
della vita, ricevendo in compenso la divina assistenza e la carità dei
fedeli.
Il Boverio riferisce nei suoi «Annali» un fatto
sorprendente.
Nel 1548 cadde tanta neve che il fratello cerca-
tore
non poté uscire per la questua. Le riserve di pane e di legumi si
assottigliavano sempre più. I frati fecero ricorso al Signore. Verso
sera, comparvero al convento quattro giovani di nobile aspetto: uno col pane,
l'altro col vino, gli altri due con cibi vari. Il fratello portinaio
chiese loro chi fosse il generoso benefattore che si era preoccupato di inviare
tutto quel ben di Dio, onde poterlo ringraziare; i giovani risposero:
«Benedite e ringraziate il Signore, il Quale, nella necessità,
non abbandona mai coloro che sanno servirLo con completa dedizione»; e
partirono.
Quando nel paese si venne a conoscenza dell'intervento
divino in soccorso dei Frati, il Comune stabilì che, per il futuro, non
appena la neve si fosse alzata più di un palmo da terra, fosse subito
somministrato il necessario vitto ai Cappuccini.
Il convento, distante
circa due chilometri dal paese, sito in un luogo salubre e silenzioso, fu quasi
in permanenza sede del noviziato e abitato da Frati, vissuti in concetto di
santità.
S. Camillo di Lellis fu ospite nel convento di S. Giovanni
Rotondo.
Le cronache narrano che S. Camillo, prima della conversione, fosse
un giovane scapestrato, amante della bella vita e del giuoco.
Un giorno,
mentre egli attraversava la valle dell'inferno ed era giunto a metà
strada tra S. Giovanni Rotondo e Manfredonia, scoppiò un pauroso
temporale con lampi, fulmini e tuoni. Nel bagliore dei lampi Camillo vide il
demonio, che gli fece tanto spavento da farlo decidere fermamente a cambiare
vita ed entrare nell'Ordine dei Cappuccini.
Indossato il saio
francescano nel noviziato del convento di S. Giovanni Rotondo, per ben due volte
dovette uscirsene a causa di una piaga incurabile.
Il Signore lo aveva
scelto per un'altra missione, l'assistenza agli infermi e ai
moribondi.
A Roma fondò la Congregazione dei Chierici Regolari,
ministri degli infermi, detti comunemente «Camilliani».
Il
convento dei Cappuccini subì la sorte di tutti gli altri conventi per
l'iniqua legge della soppressione degli Ordini Religiosi.
Fu chiuso
una prima volta il 1811 e riaperto sette anni dopo; la seconda volta
all'inizio dell'anno 1867 e adibito dal Comune a ricovero di
mendicità fino al 1908.
Sgombrato dai poveri e rimasto libero, per
interessamento del Ministro Provinciale, P. Benedetto Nardella da S. Marco in
Lamis, coadiuvato dal canonico Don Giuseppe Massa, il convento ritornò ai
Frati Cappuccini, accolti festosamente dalle autorità e dalla popolazione
nel settembre 1909.
Nel 1911 il convento divenne sede del seminario
serafico.
Padre Pio vi salì la prima volta da Foggia il 28 luglio
1916 per pochi giorni.
Vi ritornò nel settembre dello stesso anno
con l'incarico di Direttore spirituale del seminario: incarico che svolse
scrupolosamente fino alla chiusura del seminario, avvenuta nel
1932.
Prima dell'arrivo di Padre Pio
San Giovanni Rotondo nel 1916, prima
dell'arrivo di Padre Pio, era un piccolo paese, povero e sconosciuto, nel
centro del promontorio garganico. Vi erano poche famiglie possidenti e
benestanti.
La maggior parte degli abitanti apparteneva alla classe
lavoratrice. Molti andavano a lavorare in campagna: altri risiedevano in
permanenza nel tavoliere di Puglia, in zone paludose, dove con facilità
si ammalavano di malaria, di anemia perniciosa e di tubercolosi. Altri
esercitavano un mestiere qualsiasi per tirare avanti con sacrifici e privazioni
una vita di stenti.
I più fortunati erano quelli che potevano
emigrare nelle Americhe. Imperava l'analfabetismo. I ragazzi, dopo la
terza o la quinta elementare, non potendo proseguire gli studi, per mancanza di
mezzi finanziari, venivano dai genitori avviati al lavoro: come garzoni nelle
campagne; da manovali coi muratori; da apprendisti nelle botteghe degli
artigiani.
Nel paese vi erano pochi e sforniti negozietti di cose di prima
necessità, per cui bisognava recarsi a Foggia o a San Severo per gli
acquisti.
Si cucinava una volta al giorno per il pranzo principale, che
consisteva in un minestrone di legumi, di ortaggi, di patate o nel
caratteristico pancotto paesano. La pasta asciutta era considerata pranzo di
festa. La carne era un alimento di lusso: si mangiava nelle grandi
solennità e nelle domeniche da chi poteva acquistarla.
I vestiti e
le scarpe venivano confezionati dai sarti e dai calzolai locali. Gli abiti e gli
indumenti, disusati dai genitori e dai figli più grandi, venivano
rammendati e adattati ai più piccoli. Nulla si gettava, ma tutto veniva
consumato fino al completo logorio.
Quasi la metà degli abitanti,
specie i contadini, i braccianti, gli operai, i manovali e i ragazzi, non avendo
la possibilità di acquistare un paio di scarpe ogni anno,
dall'inizio della primavera fino all'autunno inoltrato, calzavano i
così detti «scarpuni» consistenti in piantelle di cuoio grezzo,
lavorate a forma di rozzi sandali e applicate ai piedi con cordicelle di cuoio.
Pare che l'origine di tali calzature debba attribuirsi alle colonie slave,
approdate sulle coste del Gargano e stabilitesi nell'interno. Ormai sono
scomparse da un trentennio e, se esistono ancora degli esemplari presso alcune
famiglie, fanno parte del folclore paesano.
Nel 1916 San Giovanni Rotondo
era un agglomerato di vecchie case, addossate l'una all'altra, con
stradine storte e strette nella parte alta; più larghe e comode nella
parte bassa. Il paese aveva la forma rotonda. Entrando da Via Foggia e
dirigendosi verso ponente, le case a piano terra o a un solo piano, terminavano
nel punto d'incontro delle due strade principali, corso Umberto I e corso
Regina Margherita. Nella zona dove sorge la Chiesa Parrocchiale di S. Giuseppe
Artigiano vi erano le piscine, che davano acqua agli abitanti del paese: ora
alcune sono chiuse, altre ripiene di terra. All'inizio della strada per S.
Marco in Lamis, vi era un solo fabbricato, adibito a taverna per alloggiare i
viandanti forestieri e i pellegrini diretti a Montesantangelo. In seguito fu
trasformato in molino.
Il giardino pubblico non esisteva. Il terreno a
sinistra della via per S. Marco, sprofondato di oltre due metri e adibito ad
orti, fu espropriato, riempito e portato a livello della strada,
dall'amministrazione comunale del Podestà Avv. Francesco
Morcaldi.
Sul suolo rialzato ed allargato, fu sistemato un piccolo Parco
della rimembranza e nel centro fu eretto il monumento ai Caduti della guerra
mondiale del 1915-1918. Dopo la seconda guerra mondiale del 1940-1943, fu
distrutto il Parco della rimembranza, venne allargato e prolungato il terrapieno
e sistemata l'attuale Piazza Europa col giardino pubblico e con una nuova
prospettiva, più artistica e più appariscente del monumento ai
Caduti.
Sulla via di S. Marco in Lamis, in contrada «Santa Croce lu
quarto», così detta perché quel punto era ad un quarto di
cammino dal paese al Convento dei Cappuccini, si biforcava la strada per il
Santuario di S. Maria delle Grazie.
Non era certamente l'attuale
viale comodo e spazioso, ma un tratturo impraticabile, stretto, fiancheggiato da
rovi e da sterpi, disseminato di sassi e di fossetti; d'inverno ricoperto
di fango e di pozzanghere, d'estate infestato di serpi e di vipere.
L'accesso al convento era molto disagevole e faticoso, per cui poche
persone frequentavano la mistica chiesetta di S. Maria delle
Grazie.
Così era S. Giovanni Rotondo, quando nel 1916 arrivò
Padre Pio da Pietrelcina.
Dopo l'arrivo di Padre Pio
La venuta e la presenza di Padre Pio nel
1916, nel convento dei Cappuccini di S. Giovanni Rotondo, suscitò un
grande risveglio di spiritualità francescana mai notata negli anni
precedenti e richiamò, presso il Santuario di S. Maria delle Grazie, un
numero sempre crescente di anime generose, anelanti alla perfezione cristiana,
sotto la guida illuminata di un Sacerdote tanto prediletto dal Signore. Man mano
che si divulgava la fama della sua santità, si moltiplicavano anche i
figli spirituali di ambo i sessi, che cominciarono a chiamarlo
«il
Monaco Santo», voce diventata familiare presso i fedeli di S. Giovanni
Rotondo e di S. Marco in Lamis.
La sua crocifissione cruenta, avvenuta
miracolosamente il 20 settembre 1918, se arrecò grande gioia ed emozione
nel popolo, destò intenso livore e sdegno nei suoi nemici, che la
ricoprirono di ignominie e di vergognose calunnie. Le forze di Satana si
scatenarono con violenza contro il mite ed umile figlio di S. Francesco
d'Assisi, per impedire e annientare l'immenso bene che avrebbe fatto
alle anime e alla Chiesa di Cristo.
La venuta di Padre Pio a S. Giovanni
Rotondo non fu occasionale, ma predestinata dal Signore. Dieci anni prima, nel
1906, nostro Signore Gesù Cristo la preannunziò in un colloquio
allegorico alla sua prediletta serva, Lucia Fiorentino, anima semplice e di
santa vita.
Lucia, il 19 agosto 1923 annotava nel suo
diario:
«Gesù mi diceva: «Ti ricordi di quanto ti ho
manifestato nel 1906, mentre eri inferma?». Sì, - mi ricordo -
Gesù mi aveva detto, sempre in locuzione: Verrà da lungi un
sacerdote, simboleggiato in un grande albero, che si doveva piantare in
convento. Albero così grande e ben radicato, doveva coprire con la sua
ombra tutto il mondo. Chi, avendo fede, si sarebbe rifugiato sotto questo
albero, così bello e ricco di foglie, avrebbe avuto la vera salvezza; al
contrario chi avrebbe disprezzato e deriso questo albero, Gesù minacciava
di castighi. E così ora mi spiega che l'albero è Padre Pio,
che, venuto da lontano è radicato al Convento per volontà di Dio,
e a rifugiarsi sotto, sono quelle anime, da Lui guidate, che ubbidiscono con
fede ed andranno avanti: mentre quelle che lo disprezzano, lo deridono e lo
calunniano, saranno da Dio castigate».
La prima visita di
Padre Pio a S. Giovanni Rotondo avvenne il 28 luglio 1916, quando da Foggia,
accompagnato da P. Paolino da Casacalenda, volle portare un messaggio di
conforto e di serenità nella famiglia Fiorentino, provata da croci e
malattie.
Infatti Lucia Fiorentino scrive nel suo diario:
«La
visita di Padre Pio fu la visita di Gesù. Era Gesù che si
aspettava e Gesù venne nella persona del Padre a confortarci. Subito ho
sentito in me una grande gioia».
Quando, qualche mese dopo, Padre
Pio ritornò a S. Giovanni Rotondo, come membro della Famiglia Religiosa
nel convento di S. Maria delle Grazie, prese la direzione spirituale di Lucia,
la plasmò secondo il cuore dello sposo celeste e la portò alla
più alta vetta della perfezione cristiana, tanto da meritarsi i carismi,
le confidenze e le rivelazioni di Gesù, che un giorno le disse:
«... se tu conoscessi chi ti guida... sono io che agisco in
quell'anima, in lui ho trovato tutte le disposizioni e sono sceso... Tutto
ciò che Padre Pio opera è tutto permesso da me... Io farò
grande questo mio figlio, che aderisce ai miei voleri, anche a costo di atroci
dolori e di stentate fatiche. Senti figlia mia, io sono molto dolente per tutto
quello che succede: lui è la mia tromba, dove passa la mia voce, che
annunzia la verità, l'amore e la misericordia... Lo farò
operare con meraviglia di tutti per attirare anime a me. La sua missione si
esprime come la mia e con me condivide le pene...».
Da queste
parole, si può dedurre che Gesù era in Padre Pio, operava ed agiva
in Lui.
Lucia si offrì vittima per la reintegrazione di Padre Pio
nel pieno esercizio del ministero sacerdotale proibitogli nel
1931.
L'offerta venne gradita da Dio. Lucia prima di morire disse
alla cognata Filomena Fini, ministra del Terz'Ordine Francescano per molti
anni
«quando andrai a confessarti, dì al Padre che io mi sono
offerta vittima per la sua liberazione: la mia vita non vale quanto la sua. Lui
può fare alle anime più bene di me».
Lucia moriva
serenamente il 16 febbraio 1934.
La fama della santità di Padre Pio,
divulgatasi in pochi anni nell'Italia e nel mondo, fu l'inizio
dell'evoluzione e della trasformazione del paese di S. Giovanni Rotondo
nella moderna e ridente cittadina.
La cruenta crocifissione, avvenuta il 20
settembre 1918 con l'impressione delle stimmate del Signore nelle sue
membra, fu un potente richiamo delle folle sul monte Gargano.
Dopo la
seconda guerra mondiale, un gran numero di luminari della scienza e
dell'arte, di uomini politici e di statisti, di industriali e di
dignitari, di centinaia di migliaia di fedeli, di turisti e di curiosi, sono
saliti sul Gargano per vedere, conoscere e parlare con Padre Pio, influendo
positivamente nello sviluppo e nel benessere del paese.
In pochi anni S.
Giovanni Rotondo cambiò fisionomia: da paese povero e sconosciuto,
divenne noto e celebre in tutto il mondo.
Il suo nome si identifica col
nome di Padre Pio.
La moderna cittadina non può non riconoscere che
la sua trasformazione, prosperità e celebrità è legata al
nome di Padre Pio.
A sua volta Padre Pio ha teneramente amato e prediletto
la terra e il popolo di S. Giovanni Rotondo, dove ha vissuto il periodo
più lungo della sua vita terrena e ha prodigato generosamente i tesori
della sua carità e santità; dove ha sofferto la tremenda tragedia
del suo doloroso Calvario; dove con le sue ardenti preghiere e con le sue
lacrime, ha fatto scendere dal cielo una pioggia inesauribile di grazie e
miracoli, su quanti, angosciati e fiduciosi, sono accorsi ai suoi piedi per
conforto ed aiuto.
Il popolo di S. Giovanni Rotondo, sensibile a tanta
benevolenza e predilezione, ha corrisposto con un amore filiale, sincero ed
unanime, sempre pronto a sacrificarsi per lui e a difenderlo contro
tutti.
Quando nel 1923 si parlava di un suo trasferimento dal convento di
S. Maria delle Grazie, il popolo insorse unito e compatto, anche a costo di
spargimento di sangue, per impedire la partenza dell'amato
Padre.
Padre Pio era un dono di Dio, di inestimabile valore, per la
cittadinanza di S. Giovanni Rotondo, che non avrebbe mai permesso che fosse
portato via.
Dinanzi a tanto amore e generosità, mentre - in alto
loco - si decideva il suo allontanamento, Padre Pio in segno di affettuoso
legame, scriveva su un foglio di carta il suo ultimo desiderio di essere sepolto
in un cantuccio di questa terra. Le bellissime parole del testamento del caro
Padre sono state incise su una lapide di marmo bianco, attaccata ad una colonna
della Cripta. Così scrisse il padre:
«Ricorderò
sempre questo popolo generoso nelle mie povere preghiere, implorando per esso
pace e prosperità e quale segno della mia predilezione, null'altro,
potendo fare, esprimo il desiderio che ove i miei Superiori non si oppongano, le
mie ossa siano composte in un cantuccio di questa terra. 12.8.1923 - Padre Pio
da Pietrelcina».
Il primo manipolo
A S. Giovanni Rotondo Padre Pio sin dai
primi giorni continuò anche la direzione spirituale di qualche anima,
conosciuta personalmente a Foggia e con la quale aveva avuto corrispondenza
epistolare da Pietrelcina.
A quest'anima si univa qualche altra
«buona devota del paese» e lo sparuto gruppetto delle prime
figlie spirituali ogni tanto si presentava al convento con qualche nuova
unità.
Padre Pio, col beneplacito dei superiori, accoglieva tutte
senza eccezione di persone:
«A me non importa - diceva -
di chi
porta il fazzoletto e chi porta il velo; e difatti io così ammiravo nel
Padre che lui voleva bene in noi l'anima e di perfezionarla, ed
ammiravo ancora quanti sacrifici faceva», testimonia una del primo
manipolo.
Incominciava così, e si sviluppava quel seme che Padre Pio
aveva iniziato a coltivare sin dalla sua permanenza a Pietrelcina ed a Foggia,
ma in una forma più specifica ed organica, anche se forma e metodo nel
corso dei suoi lunghi anni di direzione spirituale per circostanze interne ed
esterne, pubbliche e personali e numeriche, non si son potuti conservare
identici, pur applicando sino all'ultimo le linee fondamentali dei
principi primordiali.
Metodo direzionale non trascendentale ma semplice e
tradizionale, nutrito di praticità e sviluppato con esperienza; principi
elementari ma fondamentali di vita cristiana, suggeriti ed inculcati secondo i
bisogni e le capacità di ciascun'anima; e sempre e dovunque buon
esempio che trascinava alla conquista della virtù, aiutate molto
generosamente dalla preghiera e dal sacrificio personale del direttore
spirituale:
«Tu saresti finita in manicomio. Vedrai nel giorno del
giudizio quello che ho fatto per te». Così Padre Pio ad una
scrupolosa guarita con infinita pazienza.
Iniziò la guida del
manipolo - nel quale possiamo ravvisare il primo
«gruppo di
preghiera» senza, forse, andare errati - con delle conferenze in
comune, tenute generalmente il giovedì e la domenica, spiegando i
principali mezzi di perfezione cristiana ed alla fine sciolse le adunanze
generali e disse:
«Il materiale è pronto, ora incominciate a
costruire».
Insisteva molto sulla meditazione quotidiana e sulla
lettura spirituale, spiegandone l'efficacia, la necessità,
suggerendo i temi preferiti ed insegnandone il metodo.
Le anime sante che
meditano spesso e bene, non fanno che raccomandare l'orazione mentalle; e
per il cristiano
«ogni verità di nostra santa religione -
scrive Padre Pio -
può e deve essere oggetto di meditazione»
(
Epist. II, 250), però l'anima
«abitualmente» si ferma sulla vita, passione, morte e
risurrezione di Gesù Signor nostro, tema più appropriato, soave,
delizioso e proficuo che si possa scegliere:
«il mio unico libro -
diceva il santo laico cappuccino Corrado da Parzham -
è il
Crocifisso», e difatti contemplare spesso Gesù è riempire
l'anima nostra di lui: conoscendo il suo modo di agire, modelleremo le
nostre azioni sulle sue azioni.Egli è la luce del mondo: in lui, da lui e
per lui dobbiamo essere illuminati.
Metodi di
«conversare con Dio
per migliorare l'anima nostra» - questa è l'essenza
del meditare - ve ne sono tanti, forse troppi o troppo complicati... Comunque,
ogni metodo è buono se aiuta, e finché aiuta, a pregare; ed
è necessario, almeno all'inizio della vita di perfezione, per
evitare ai principianti il pericolo di perdersi nel vago.
Premesso che i
due tempi più indicati - ma non esclusivi - per meditare sono l'ora
mattutina, perché lo spirito è meno distratto e più
fresco, e la sera dopo la recita della corona, perché l'animo
è già preparato dai misteri del Rosario, il metodo suggerito da
Padre Pio è contenuto in una lettera del 16 settembre 1916, inviata ad
una figlia spirituale (cf.
Epist. III, 249 ss), di cui riportiamo
soltanto lo squarcio conclusivo:
«Vi esorto a stabilirvi almeno due
tempi al giorno, in cui vi ritirerete nel praticar questo esercizio. Procurerete
di spender possibilmente non meno di una mezza ora per ciascuna volta - sta
scrivendo ad una signorina maestra che vive lontana dalla famiglia -.
Procurerete che detti periodi di tempi, in cui voi possiate meditare, siano
possibilmente il mattino per prepararvi alla pugna ed alla sera per purificare
l'anima vostra da ogni affetto terreno che in giornata si sia potuto
attaccare» (
ivi, p. 251).
Il luogo ideale per la
meditazione è la chiesa, davanti a Gesù nel tabernacolo. La
presenza reale dell'Amico divino favorisce il colloquio. Però,
purché si eviti l'ambiente che disturbi, ogni luogo è buono:
l'aperta campagna, l'alta montagna ed anche la propria stanzetta
possono offrire un ottimo rifugio all'anima che cerca la pace in Dio.
Padre Pio non esclude neppure il letto:
«La meditazione del mattino, a
causa della rigida stagione, potete farla anche stando a letto; il Signore si
contenterà anche di questo» (Consiglio dato ad una malaticcia,
Epist. II, 275).
Tralasciando le altre riflessioni che
l'insegnamento di Padre Pio su tale tema suggerisce, facciamo soltanto
notare che la sua voce ben si inserisce nel coro dell'insegnamento
classico della perfezione cristiana. La meditazione è utilissima per
salvarsi e assolutamente necessaria per iniziare seriamente il cammino della
propria santificazione. È una verità così evidente, questa,
che tutti i libri che trattano di perfezione cristiana ripetono gli stessi
concetti: la nostra anima, fatta per Dio, tende naturalmente a lui; ma
finché viviamo sulla terra, l'influsso dei sensi è
così vivo e deleterio, che ci fa dimenticare il nostro fine. Chi non
medita, o poco o tanto, finisce col perdere l'indirizzo naturale della
vita e perciò esistono molti uomini che vivono abitualmente in peccato,
anche se non hanno un cuore cattivo, semplicemente perché non riflettono.
Difatti basta un corso di esercizi spirituali, una conferenza, una predica,
l'incontro di una persona che li scuota intimamente, per capire il loro
stato e mutar vita.
A ragione quindi S. Alfonso afferma che
l'orazione mentale è incompatibile col peccato:
«con gli
altri esercizi di pietà, come dire il Rosario, l'ufficio della
Beata Vergine, il digiuno, si può purtroppo continuare a vivere in
peccato mortale; ma con la meditazione non si può rimanere a lungo nel
peccato grave: o si lascerà la meditazione o si rinunzierà al
peccato».
Un altro mezzo che può aiutare a vivere in grazia
e raggiungere la perfezione cristiana è la lettura di libri che stimolano
alla virtù. Chi vuole sapere quali scegliere e come leggerli per ricavare
il frutto desiderato, non ha che da consultare i manuali di teologia spirituale
e il proprio direttore.
Leggendo una lettera di Padre Pio ad una figlia
spirituale (cf.
Epist. II, 141-147) vi troviamo tutti i motivi
tradizionali di questo esercizio tanto ordinario e tanto raccomandato.
Lo
scopo di tutta la vita spirituale è la imitazione di Cristo, ma per
seguirlo bisogna conoscerlo e la fonte più sicura è il Vangelo e
le Lettere degli Apostoli (S. Paolo è l'autore
«preferito» da Padre Pio,
«guida e maestro della mia
dottrina»): la lezione della Sacra Scrittura e degli altri libri santi
e devoti ci fa
«cercare» Dio; la lettura dei libri santi
è
«un forte scudo per rigettare tutti i pensieri malvagi da cui
è combattuta l'età giovanile»; «ignorare la
Scrittura è ignorare Cristo»; i libri spirituali sono come uno
specchio che Dio ci pone davanti:
«mirandoci in essi ci correggiamo dei
nostri errori e ci adorniamo di ogni virtù [...].
Il cristiano
deve spesso porsi davanti agli occhi i libri santi per iscorgere in quelli i
difetti di cui si deve correggere e le virtù di cui deve abbellirsi per
piacere agli occhi del suo Dio».
E conclude:
«se la
lettura dei libri santi ha tanta forza per convertire le persone mondane in
spirituali, quanto non deve essere potente tale lettura per le persone
spirituali per indurle a maggior perfezione?».
Per ricavare il
tanto sperato frutto, esorta a spogliarsi dal
«pregiudizio dello stile e
della forma» ed a chiedere
«il divino aiuto», che
sarebbe la
«breve preghiera» prima e dopo la lettura,
consigliata dagli scrittori di ascetica.
Inculcava molto
l'obbedienza, fin dai primi giorni che l'anima si affidava alla sua
direzione; esortava alla frequenza della confessione e comunione:
«Una
sera papà mi domandò: «Ogni quanti giorni ti confessi?»
«Ogni settimana» - è la testimonianza di una figlia
spirituale -. «
Eh!... così spesso? e che cosa dice al
Padre?» «Dico i peccati!...» «Ma che peccati fai tu? Io ti
ho sempre davanti e vedo che peccati non ne fai». Appena vidi il Padre, gli
riferii il colloquio avuto con papà. Il padre mi portò un paragone
così ad hoc che mi servì di esempio per tutti quelli che non
vogliono confessarsi, perché dicono che non hanno peccati. Il Padre,
dunque, mi disse: «Dirai a papà che una stanza ben pulita e anche
non praticata, se ci ritorni dopo otto giorni, vedrai che c'è la
polvere e ha bisogno di essere rispolverata»».
A chi venisse
in mente che oggi tale suggerimento di Padre Pio non è più
attuale, ricordiamo soltanto due documenti ecclesiastici: uno del 1974 (Rito
della Penitenza):
«Come diversa e molteplice è la ferita causata
dal peccato nella vita dei singoli e della comunità, così diverso
è il rimedio che la penitenza arreca [...].
Coloro che commettono
peccati veniali, e fanno così la quotidiana esperienza della loro
debolezza, con la ripetuta celebrazione della penitenza riprendono forza e
vigore per proseguire il cammino verso la piena libertà dei figli di
Dio [...].
Anche per i peccati veniali è molto utile il ricorso
assiduo e frequente a questo sacramento. Non si tratta infatti di una semplice
ripetizione rituale né di una sorta di esercizio psicologico; è
invece un costante e rinnovato impegno di affinare la grazia del Battesimo,
perché, mentre portiamo nel nostro corpo la mortificazione di Cristo
Gesù, sempre più si manifesti in noi la sua vita. In queste
confessioni, l'accusa dei peccati veniali deve essere per i penitenti
occasione e stimolo a conformarsi più intimamente a Cristo, e a rendersi
sempre più docili alla voce dello Spirito» (Premesse, n.
7).
La Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede (16 giugno 1972),
dettando le
Norme pastorali circa l'assoluzione sacramentale
generale, al n. 12 ha:
«Per quanto riguarda la pratica della
confessione frequente o «di devozione», i sacerdoti non si permettano
di dissuaderne i fedeli. Al contrario, facciano rilevare i frutti abbondanti che
essa apporta alla vita cristiana, e si dimostrino sempre pronti ad ascoltarla,
ogni qual volta i fedeli ragionevolmente ne fanno richiesta. Bisogna
assolutamente evitare che la confessione individuale sia riservata ai soli
peccati gravi; ciò, infatti, priverebbe i fedeli dell'ottimo frutto
della confessione e nuocerebbe al buon nome di coloro che si accostano
singolarmente al sacramento».
Padre Pio dosava con discrezione e
discernimento la mortificazione corporale e spirituale:
«Quando il Padre
sciolse le adunanze settimanali [
in comune]
, stabilì i
turni di ascolto. Ogni giorno della settimana due o tre di noi venivano ricevute
dal Padre e ne ricevevano la direzione». «Noi avremmo voluto -
sono testimonianze del primo manipolo -
che per tutte avesse impiegato il
medesimo tempo, e brontolavamo e facevamo risentimento quando tratteneva di
più qualcuna. Essendo ancora principianti non capivamo che non tutte le
anime hanno gli stessi bisogni e quindi come l'agricoltore ha cure diverse
per le piante, così un saggio direttore di anime deve adattarsi alle
varie necessità di ciascuna di esse. Povero Padre!... quanta pazienza ha
avuto per noi!».
Per evitare borbottamenti, invidie e gelosie,
cercava di far capire il suo modo di agire diverso:
«Fra noi sempre
s'investigava perché il Padre a quella la trattava con più
dolcezza, a quell'altra con durezza, ad altre tante preferenze ed altre
niente [...]. «
Vi dovete convincere - disse -
che io non
agisco per caso, ma per volontà di Dio». E così rimanevo
tranquilla, anzi grazie a Dio, ho riconosciuto l'operato del padre
ch'era sempre più giusto e santo».
A chi poteva
sopportare le penitenze corporali gliele suggeriva,
«per riparare i
propri e gli altrui peccati, per aiutare Gesù nella salvezza delle
anime»; a chi, invece, non credeva opportuno gliela sconsigliava:
«Quando era quaresima domandavo per fare il digiuno e lui mi rispondeva:
«Figlia mia, tu non ti reggi in piedi, che digiuno puoi
fare?»».
A mano a mano che le anime progredivano nella
virtù ci pensava lui stesso alla prova purificatrice:
«Era una
mortificazione singolare che lui solo sapeva dare [...]
; per mezzi di
contrasti provocati da lui, sbatteva l'interno dell'anima e ne
faceva venire a galla tutti i moti, tutte le passioni buone per esercitarle
nella pratica della virtù, le cattive per sradicarle».
Nel
seguire Padre Pio - confessa candidamente un'altra figlia spirituale
«si soffriva fortemente: le sue prove, le sue sgridate, il suo
trattamento diverso delle anime, il cuore si spezzava dal dolore e ci voleva
molta fede per dire che il suo operato così era
giusto».
Sacrificio personale, preghiera, cura assidua, consigli,
incoraggiamenti a chi veniva la tentazione di tornare indietro:
«Qualche
volta qualcuna di noi si angustiava per non poter progredire come altre con
facilità, e il Padre diceva: «Alcune vanno in Paradiso in treno,
altri in carrozza ed altri a piedi. Questi ultimi però hanno più
merito degli altri e un posto maggiore di gloria in
Paradiso»».
Suggeriva anche devozioni particolari ed aveva
una predilezione per la virtù della purezza; era d'opinione che il
padre spirituale non dovrebbe essere differente dal confessore,
«altrimenti può capitare che mentre uno costruisce l'altro
demolisce»; «tratteneva di più e parlava più a lungo con
le anime principianti, tenendo più in disparte le proficienti e le
perfette»; usava lo stesso trattamento anche con le suore, ed a qualche
loro lagnanza rispondeva:
«hanno la regola per santificarsi; osservino
quella e diverranno perfette; ma voi principianti avete bisogno di tutto e di
essere guidate passo passo».
La sua direzione non si restringeva
al solo interesse spirituale, ma abbracciava tutta la vita con le sue
attività:
«Entrava in tutte le azioni della nostra giornata, in
tutta la vita della nostra famiglia, per poterla indirizzare secondo le leggi
cristiane morali e civili. Ognuna di noi doveva essere come un faro della
famiglia; in tal modo tutta la famiglia finiva con indirizzarsi verso il Padre e
riceverne le direttive».
Ricordava alle sue figlie
spirituali che il Signore ci ha chiamati non solo per la nostra santificazione,
ma anche per la salvezza del prossimo; il suo intento era di formare
«poche anime e bene, le quali a lor volta saranno semenza per altre
anime. Il venerato padre in questi ultimi tempi parlava poco, pochissimo in
confessione con i suoi figli vissuti accanto a lui per moltissimi anni, io ne
conto esattamente cinquantadue - testimonia una figlia spirituale -.
Ad
un mio doloroso lamento per tale privazione, rispose: «Vi ho parlato per
tanti anni, mettete in pratica quello che vi ho
detto»».
Il gruppetto, che Padre Pio amò sempre
con amore di predilezione, divenne gruppo e poi numero senza numero; se il suo
insegnamento orale a poco a poco diminuiva e spariva quasi del tutto alla fine
dei suoi giorni, parlano ancora e con immenso bene spirituale le lettere inviate
ai suoi figli, lavoro a cui si sobbarcava con vero spirito di apostolato e con
tanto sacrificio, rubando le ore alle notti. Per chi desidera saperne meglio e
di più suggeriamo la lettura e meditazione dei volumi
dell'epistolario.
Noi crediamo di essere nel giusto se
affermiamo che Padre Pio è nella scia dei direttori spirituali
tradizionali di alta levatura, sempre utili a prestare aiuto ad un altro
perché diventi sé stesso nella propria fede.
Alla ricerca dell'Amore
Il bene spirituale del prossimo non fa
trascurare il bene dell'anima propria e l'itinerario di Padre Pio
verso Dio è un continuo crescendo, anche se la sua vita intima è
tale da non comprenderla neppure lui stesso e crede sia
«meglio uno
stretto silenzio che un mal parlare».
Fra tanto «buio
pesto», di tanto in tanto appaiono anche
«brevi sprazzi di
luce» durante i quali riesce a descrivere in maniera realistica ed
assai vivace le dolorosissime manifestazioni attraverso le quali si compie la
totale purificazione, che prepara l'unione trasformante con Dio.
In
mezzo alla furiosa tempesta che lo
«sconvolge e rugge intorno e
dentro», confessa sinceramente che mai gli manca il coraggio e che
è
«rassegnatissimo al divin volere».
La
ricerca dell'Amore è il segreto animatore del suo vivere e del suo
soffrire. Non vi è sofferenza più grande e dolorosa di quella che
proviene dalla paura di offendere Dio con il peccato, ossia di negare
l'amore, di non corrispondere all'amore. L'amore è la
molla della sua attività, della sua fedeltà e corrispondenza,
della perseveranza e della resistenza. Lo ha detto con una frase scultorea:
«o morire o amare Dio».
D'altra parte Padre Pio
è convinto che la sua vita non sarà altro che un continuo
percorrere la via dolorosa. Prega, lavora e soffre all'ombra della croce,
anzi inchiodato alla croce e sa che da essa mai discenderà. Cerca quindi
il dolore e Dio l'ascolta; lo fa partecipare sì vivamente ai dolori
di Gesù
«da non potersi affatto né descrivere né
immaginare» quanto siano acuti, benché, sopportati per amore,
diventino se non dolci almeno tollerabili.
Rinnova spesso l'offerta
di vittima e ne accetta senza mitigazioni di sorta tutte le conseguenze:
«Dio mio, io ti chiedo la forza pel mio patire, nudo di ogni
conforto».
L'unico sostegno valido nelle lotte continue ed
incalzanti dello spirito, nei dubbi e nelle incertezze che attanagliano
l'anima e nelle furiose tempeste che minacciano il naufragio - è la
direzione. Le assicurazioni dei direttori riguardo alle predilezioni divine ed
all'autenticità dei fenomeni che le accompagnano, si ripetono con
la monotonia di un ritornello. Padre Pio le accetta senza discuterle, anche se
si tratta di un'adesione libera della volontà e non di una
persuasione convincente dell'intelligenza; è
«una credenza
secca, senza alcun conforto e sola bastevole a non gittare l'anima nella
disperazione». «In tali rigori dell'Altissimo», egli si
affida al direttore
«qual bambino sulle braccia della
madre».
LA SUA CROCIFISSIONE
Nel crescendo continuo dell'itinerario
di Padre Pio verso Dio, tra i fenomeni più salienti e significativi, ne
segnaliamo alcuni non ordinari: deliquio e letargo delle potenze dei sensi,
ferite d'amore al cuore, tocco sostanziale, trasverberazione.
Sente
così vivamente e in modo così misterioso la presenza di Dio nel
centro dell'anima o
«nella punta dello spirito», da
precipitarlo ad ogni istante, in certi periodi, in un deliquio estremamente
penoso e persino il fisico ne risente fortemente gli effetti.
Il 15 agosto
1918, in seguito ad altre ferite d'amore, riceve lo straordinario favore
della trasverberazione che lo fa
«spasimare
assiduamente».
Mentre l'anima sale incessantemente e senza
soste verso l'unione trasformante, ha presentimenti di qualcosa di
nuovo.
La intimità con Dio si fa sempre più intensa ed
esigente e l'anima vuole corrispondere e moltiplicare le sue affannose
ricerche del sommo bene.
Il 20 settembre 1918 ha mani, piedi e costato
traforati e grondanti sangue.
La
«solitudine» e la
«pace» del convento incominciano ad essere un dolce ricordo,
rotte dal frastuono di folle disordinate giunte per la
«grande
notizia», che si allarga come macchia d'olio.
Una ferita sempre aperta
Gli studiosi di mistica, guidati dagli
stessi mistici, parlano di
«ferite d'amore» che, secondo
S. Giovanni della Croce, sono
«alcuni tocchi di amore i quali, come
saette di fuoco, feriscono e trapassano l'anima, lasciandola cauterizzata
con fuoco amoroso»; e di
«piaghe d'amore»,
anch'esso un fenomeno simile alle ferite, ma più profondo,
più impregnato d'amore e più durevole, che lo stesso S.
Giovanni della Croce così distingue:
«la piaga nell'anima
si imprime maggiormente e quindi dura di più, mediante la quale
l'anima si sente veramente piagata d'amore».
La
«ferita» - spiega ancora il santo dottore - nasce
nell'anima dalle notizie dell'Amato, che riceve dalle creature
«le quali sono l'opera più perfetta di Dio»; la
«piaga» viene prodotta in lei dalle notizie delle opere
dell'Incarnazione del Verbo e dei misteri della fede che sono
«le
maggiori opere di Dio», ed inoltre appare in qualche modo
all'esterno o trapassando fisicamente il cuore (trasverberazione) o
manifestandosi in alcune parti del corpo, come alle mani, ai piedi ed al costato
(stigmatizzazione).
La
«trasverberazione», da alcuni
chiamata
«assalto del Serafino», è una grazia
eminentemente santificatrice e - secondo la classica dottrina di S. Giovanni
della Croce - l'anima,
«infuocata di amore di Dio»,
è
«interiormente assalita da un Serafino», il quale,
bruciandola,
«la trafigge fino in fondo con un dardo di fuoco»,
e l'anima è pervasa da soavità deliziosissime.
Padre
Pio ricevette questa grazia la sera del 5 agosto 1918 e la descrive in questi
termini in una lettera del 21 agosto, stesso anno, inviata al p. Benedetto, suo
direttore spirituale:
«In forza di [
obbedienza]
mi induco
a manifestarvi ciò che avvenne in me dal giorno cinque a sera a tutto sei
del corrente mese. Io non valgo a dirvi ciò che avvenne in questo periodo
di superlativo martirio. Me ne stavo confessando i nostri ragazzi la sera del
cinque, quando tutto d'un tratto fui riempito da un estremo terrore alla
vista di un personaggio celeste che mi si presentava dinanzi all'occhio
dell'intelligenza. Teneva in mano una specie di arnese, simile ad una
lunghissima lamina di ferro, con una punta bene affilata e che sembrava da essa
punta che uscisse fuoco. Vedere tutto questo ed osservare detto personaggio
scagliare con tutta violenza il suddetto arnese sull'anima, fu tutto una
cosa sola. A stento emisi un lamento, mi sentivo morire. Dissi al ragazzo che si
fosse ritirato, perché mi sentivo male e non sentivo più la forza
di continuare. Questo martirio durò, senza interruzione, fino al mattino
del giorno sette. Cosa io soffrii in questo periodo sì luttuoso io non so
dirlo. Persino le viscere vedevo che venivano strappate, e stiracchiate dietro
di quell'arnese, ed il tutto era messo a ferro e fuoco. Da quel giorno in
qua io sono stato ferito a morte. Sento nel più intimo dell'anima
una ferita che è sempre aperta, che mi fa spasimare assiduamente»
(Epist. I, 1065). E conclude la relazione con queste parole piene di
angoscia:
«Non l'è questa una nuova punizione inflittami
dalla giustizia divina? Giudicatelo voi quanta verità sia contenuta in
questo e se io non ho tutte le ragioni di temere e di essere in una estrema
angoscia».
La risposta non si fece aspettare e chiara,
illuminante, proprio d'un autentico maestro di spirito. P. Benedetto lo
rassicurava:
«Tutto quello che avviene in voi è affetto di amore,
è prova, è vocazione a corredimere, e quindi fonte di gloria
[...]
. Egli, l'amore paziente, penante, smanioso, accasciato, pesto e
strizzato nel cuore, nelle viscere, tra l'ombre della notte e più
della desolazione nell'orto di Getsemani è con voi associato al
vostro dolore e associandovi al suo [...]
. Il fatto della ferita compie
la passione vostra come compì quella dell'amato sulla croce.
Verrà forse la luce e gioia della risurrezione? Io lo spero, se a lui
così piace. Baciate la mano che vi ha trasverberato e stringetevi
dolcissimamente cotesta piaga che è suggello d'amore»
(
Epist. I, 1069).
Padre Pio ringrazia il direttore per i suoi
orientamenti e le sue assicurazioni e ritorna a parlare degli effetti del
misterioso fenomeno:
«Io mi veggo sommerso in un oceano di fuoco; la
ferita che mi venne riaperta sanguina e sanguina sempre. Dessa sola basterebbe a
darmi mille e più volte la morte». (
Epist. I, 1072s);
«da più giorni avverto in me una cosa simile ad una lamina di
ferro che dalla parte bassa del cuore si estende fino a sotto la spalla in linea
trasversale. Mi causa dolore acerbissimo e non mi lascia prendere un po'
di riposo» (
Epist. I, 1106).
Mani, piedi e costato traforati
La grazia santificatrice della
trasverberazione in Padre Pio è come il preludio della grazia carismatica
della stigmatizzazione, da Dio concessa a vantaggio degli altri. Nel nostro caso
però la si può considerare anche piaga d'amore,
perché è, per così dire, il completamento,
l'estrinsecazione e la proiezione della ferita dell'anima.
I
primi segni del prodigio apparvero nell'autunno del 1910. Rispondendo ad
una lettera del p. Benedetto, l'8 settembre 1911 gli comunica anche un
fenomeno che si va ripetendo da quasi un anno,
«però adesso era
un pezzo che più non si ripeteva», taciuto soltanto
perché vinto
«sempre da quella maledetta vergogna. Anche adesso
se sapesse quanta violenza ho dovuto farmi per
dirglielo!».
«Ieri sera mi è successa una cosa che
io non so né spiegare e né comprendere. In mezzo alla palma delle
mani è apparso un po' di rosso quanto la forma di un centesimo
accompagnato anche da un forte e acuto dolore in mezzo a quel po' di
rosso. Questo dolore era più sensibile in mezzo alla mano sinistra, tanto
che dura ancora. Anche sotto i piedi avverto un po' di dolore»
(
Epist. I, 234).
In seguito scomparvero i segni, ma continuarono i
dolori:
«Dal giovedì sera - scrive il 21 marzo 1912 a p.
Agostino -
fino al sabato, come anche il martedì è una tragedia
dolorosa per me.
Il cuore, le mani ed i piedi sembrami che siano
trapassati da una spada; tanto è il dolore che sento»
(
Epist. I, 266).
Poi il prodigio del 20 settembre 1918 e da allora
rimase perennemente visibile. Padre Pio, umiliato e confuso da tale fenomeno,
cerca di nasconderlo come può; ma se ne accorgono le sue figlie
spirituali, se ne avvede la comunità, il padre guardiano ne dà
notizia al padre provinciale p. Benedetto e lo invita a salire a S. Giovanni,
sebbene non si muova.
Dopo ripetute richieste del direttore spirituale e
superando la enorme ripugnanza che sentiva nel dover parlare di un favore
così straordinario, il 22 ottobre 1918 gli invia un commovente e verace
ragguaglio dell'avvenimento, che segna una tappa decisiva nella esistenza
terrena:
«[...].
Cosa dirvi a riguardo di ciò che mi
dimandate del come sia avvenuta la mia crocifissione? Mio Dio, che confusione e
che umiliazione io provo nel dover manifestare ciò che tu hai operato in
questa tua meschina creatura!
Era la mattina del 20 dello scorso
mese in coro, dopo la celebrazione della santa Messa, allorché venni
sorpreso dal riposo, simile ad un dolce sonno. Tutti i sensi interni ed esterni,
non-ché le stesse facoltà dell'anima si trovarono in una
quiete indescrivibile. In tutto questo vi fu totale silenzio intorno a me e
dentro di me; vi subentrò subito una gran pace ed un abbandono alla
completa privazione del tutto e una posa nella stessa rovina. Tutto questo
avvenne in un baleno. E mentre tutto questo si andava operando, mi vidi dinanzi
un misterioso personaggio, simile a quello visto la sera del 5 agosto, che
differenziava in questo che aveva le mani ed i piedi ed il costato che
grondavano sangue. La sua vista mi atterrisce; ciò che sentivo in
quell'istante in me non saprei dirvelo. Mi sentivo morire e sarei morto se
il Signore non fosse intervenuto a sostenere il cuore, il quale me lo sentivo
sbalzare dal petto.
La vista del personaggio si ritira ed io mi
avvidi che mani, piedi e costato erano traforati e grondavano sangue. Immaginate
lo strazio che esperimentai allora e che vado esperimentando continuamente quasi
tutti i giorni. La ferita del cuore gitta assiduamente del sangue, specie dal
giovedì sino al sabato. Padre mio, io muoio di dolore per lo strazio e la
confusione susseguente che io provo nell'intimo dell'anima. Temo di
morire dissanguato, se il Signore non ascolta i gemiti del mio povero cuore e
col ritirare da me questa operazione. Mi farà questa grazia Gesù
che è tanto buono? Toglierà almeno da me questa confusione che io
esperimento per questi segni esterni? Innalzerò forte la mia voce a lui e
non desisterò di scongiurarlo, affinché per sua misericordia
ritiri da me non lo strazio, non il dolore perché lo veggo impossibile ed
io sento di volermi inebriare di dolore, ma questi segni esterni che mi sono di
una confusione e di una umiliazione indescrivibile ed insostenibile
[...]» (
Epist. I, 1093s).
Un'immagine di Padre Pio risalente al 19 agosto 1919
Il parere della scienza medica
La notizia rapidamente fa il giro del mondo
ed attira folle di curiosi, di fanatici, di fedeli pellegrini desiderosi e
bisognosi di aiuto e per il corpo e per lo spirito. Non mancano visite di
illustri personaggi e, per motivi ben diversi, a S. Giovanni Rotondo arrivano
anche gli specialisti, per ordine dell'autorità ecclesiastiche, per
esaminare le stimmate sotto l'aspetto scientifico.
La prima visita
medica fu fatta nei mesi di maggio e luglio 1919 dal professor Luigi Romanelli,
primario dell'ospedale civile di Barletta; nel mese di luglio dello stesso
anno seguiva quella del professor Amico Bignami, ordinario di patologia medica
nell'università di Roma; nel mese di ottobre arriva il dottor
Giorgio Festa il quale, accompagnato dal dottor Romanelli, ripete la visita nel
luglio dell'anno successivo 1920.
Il dottor Romanelli nella relazione
del 15-16 maggio 1919 sulle
«lesioni» del Padre Pio da
Pietrelcina,
«osservate in giorni ed ore differenti senza riscontrare
alcuna modificazione», tra l'altro, afferma:
«Nelle
regioni palmari di ambo le mani e propriamente al livello del terzo metacarpo
alla semplice ispezione notasi una pigmentazione della cute di color rosso
vinoso per una superficie della grandezza di una moneta di bronzo da cinque
centesimi per la mano destra e di due centesimi per la mano sinistra; a contorni
lievemente franciati; di forma quasi circolare. Osservando bene, si nota che in
quella zona invece della cute vi è un epitelio o meglio membrana lucente
alquanto sollevata al centro, formando un piccolissimo bottoncino, da cui
partono tante sottili strie più oscure e tendenti quasi al nero. Tutta
questa zona è sollevata sui tessuti circostanti, che sono integri e
normali. Alla palpazione, delicatamente fatta, non si percepisce al di sotto
alcuna resistenza ossea, né muscolare, invece si nota che questa membrana
è spiccatamente elastica e non vi è alcun foro o fuoriuscita di
liquido. Nelle regioni dorsali di ambo le mani ed in punto quasi corrispondente
alle prime, la cute presenta identiche note, senza però alcun
sollevamento e senza strie.
Applicando il pollice nella palma della
mano e l'indice nel dorso, coprendo in tal guisa le due zone descritte e
facendo pressione, che riesce oltremodo dolorosa, si ha la percezione esatta del
vuoto esistente fra le due dita, soltanto divisi dalle due membrane e da tessuto
sottile e molle, che alla pressione dà l'idea di sabbia, mentre non
si percepisce alcuna resistenza né da parte delle ossa, né dei
tessuti molli esistenti in dette regioni.
Tutti i movimenti attivi e
passivi delle mani riescono indifferenti e sono perfettamente fisiologici. Da
ciò ne deriva che quelle zone pigmentate non sono altro che membrane, che
ricoprono un foro, che si origina in una parte e termina nell'altra, per
cui vi è discontinuità di tessuti nello spessore della
mano» (n. 2).
Sul dorso d'ambo i piedi inoltre notasi una
zona di forma circolare, della grandezza di una moneta di cinque centesimi,
ricoperta anch'essa da membrana di colore rosso vivo e di aspetto lucente
con contorni ben netti e precisi, circondato da tessuti normali. Alla palpazione
la membrana è anch'essa elastica e lascia ricevere
l'impressione del vuoto sottostante. Nelle regioni plantari notansi
identiche zone con i medesimi caratteri. Comprimendo contemporaneamente sia
nella regione dorsale che plantare appare manifesto che esiste uno spazio vuoto
e che il piede è perforato e ricoperto su fori dalla membrana descritta.
Come nelle mani così ai piedi tutti i movimenti delle articolazioni e
delle dita sono normali e non provocano disturbo alcuno (n.
3).
Nell'emitorace sinistro e propriamente tra la linea mammillare
e l'ascellare anteriore quasi in corrispondenza del 6°; spazio
intercostale sinistro notasi una ferita lacera, lineare, secondo la direzione
delle costole, lunga circa sette centimetri a margini netti e leggermente
accartocciati, interessante i tessuti molli. All'ispezione la ferita pare
diretta dal basso in alto ed alquanto da fuori in dentro con fuoriuscita di
sangue arterioso [...]. I caratteri della ferita sono quelli d'una ferita
da taglio (n. 4).
Non sono, secondo il mio modo di giudicare,
classificabili tra le ferite comuni, siano esse d'origine infettive, siano
traumatiche [...]. (n. 5).
[...].
Le lesioni del Padre Pio dal
settembre fino ad oggi conservano lo stesso aspetto e si mantengono nel medesimo
stato e quello che è più meraviglioso non producono alcun disturbo
ed alcuna difficoltà nella funzione degli arti, come sono le ferite
comuni. È da escludersi che la etiologia delle lesioni di Padre Pio sia
di origine naturale ma l'agente produttore debba ricercarsi senza tema di
errare nel soprannaturale e che il fatto costituisce per se stesso un fenomeno
non spiegabile con la sola scienza umana (n. 6)».
Il professor
Bignami, descritta brevemente la personalità e la configurazione delle
ferite di Padre Pio, annota:
«sulla natura delle lesioni descritte si
può affermare che rappresentano un prodotto patologico, sulla cui genesi
sono possibili le seguenti ipotesi:
a)
che siano state determinate
artificialmente e volontariamente;
b)
che siano la manifestazione di
uno stato morboso;
c) che siano in parte il prodotto di uno stato
morboso e in parte artificiali».
Esclusa a priori la prima ipotesi
-
«non credo di poter ammettere senz'altro, e specialmente in
mancanza di una prova diretta, la prima ipotesi» - il Bignami continua:
«La seconda ipotesi, è almeno in parte, attendibile. È
nota ai patologi la così detta necrosi neurotica multipla della cute
di cui molti si sono occupati, ed è noto anche il fenomeno patologico
della ematoidrosi [...]
.
Ora le alterazioni riscontrate nelle
mani di Padre Pio non sono che il risultato di una necrosi superficiale
dell'epidermide e forse delle parti più esterne del derma, e si
possono ravvicinare alle necrosi neurotiche sopraccitate». Ciò non
può spiegare, però, «la localizzazione perfettamente
simmetrica delle lesioni descritte e la loro persistenza senza modificazioni
notevoli. Ma questi fatti possono, a mio avviso - continua il Bignami -
trovare una interpretazione soddisfacente nella terza ipotesi. Possiamo
infatti pensare che le lesioni descritte siano cominciate come prodotti
patologici (necrosi neurotica e multipla della cute) e siano state forse
inconsciamente e per un fenomeno di suggestione, completate nella loro simmetria
e mantenute artificialmente con un mezzo chimico, per esempio con la tintura di
iodio.
Questa ci sembra l'interpretazione - conclude il
Bignami -
più attendibile dei fatti da me osservati. Ad ogni modo si
può affermare che nulla vi è nelle alterazioni della cute che non
possa essere il prodotto di uno stato morboso e dell'adozione di agenti
chimici noti».
Tale interpretazione positivistica del
fenomeno delle stimmate, avente una sufficiente spiegazione in cause naturali,
fu impugnata energicamente dai dottori Giorgio Festa e Luigi Romanelli.
Il
dottor Festa, in data 15 ottobre 1919 consegnava al padre generale dei
Cappuccini una lunga e dettagliata relazione sulle stimmate. Il 15 luglio del
1920, assieme al dottor Romanelli, sale di nuovo a S. Giovanni Rotondo, per una
seconda visita ed in seguito ne stende una relazione, datata da Bagni di
Chianciano (13 agosto 1920).
Nel 1933 dà alle stampe un libro:
Tra i misteri della scienza e le luci della fede, Roma 1933 (noi citiamo
l'ed. del 1949), dove presenta i risultati delle sue investigazioni
scientifiche su tutti i fenomeni che si riscontrano in Padre Pio ed a quello
della stimmatizzazione dedica due capitoli, descrivendo la forma e indagando la
genesi di queste lesioni tanto singolari.
«Quale la genesi di
siffatte lesioni? - si domanda -
Si tratta di prodotti patologici dei
quali la scienza può con certezza affermare la natura e la origine, o non
ci troviamo piuttosto dinanzi ad uno di quei fenomeni che le cognizioni da noi
possedute non sono in grado di spiegare? (p. 176).
Debbo in primo
luogo affermare che esse [lesioni] non sono il prodotto di un traumatismo di
origine esterna, e che neppure sono dovute all'applicazione di sostanze
chimiche potentemente irritanti... Non sono conseguenti ad un trauma, qualunque
possa esserne la natura e meccanismo di azione, perché non presentano
nessuna delle caratteristiche di queste lesioni; non sono dovute
all'applicazione diretta di sostanze caustiche od irritanti, perché
l'azione di queste non si limita mai strettamente, come nel nostro caso
sarebbe avvenuto, alla zona lesa [...]
. E, in ogni caso, una volta
cessata l'azione della presunta causa vulnerante, sia essa di natura
chimica o traumatica, sarebbe pur naturale che ne dovessero cessare anco gli
effetti: sarebbe pur naturale, in altre parole, che da quel momento la reazione
vitale della natura, se pur non soccorsa dai mezzi che l'arte consiglia,
provvedesse per proprio conto e con le proprie energie, come noi sempre
constatiamo in tutte le specie di lesioni, alla riparazione progressiva del male
avvenuto. Come è dunque che le lesioni osservate nel Padre Pio, dopo
tanti anni, conservano ancora così tenaci i caratteri, la vivacità
e la freschezza del primo momento in cui si manifestarono? (p.
178).
[...].
Possono i segni che si osservano in lui essere considerati
come frutto di autolesioni, sia pure involontarie, o, peggio ancora, come
conseguenza di una volgare simulazione? Il fatto che egli ponga ogni studio
perché questi sfuggano all'attenzione altrui, e che per
l'animo suo costituiscono, non un motivo di compiacenza, ma una sorgente
di vera mortificazione, congiunto al perfetto equilibrio che ad ogni istante si
rivela tra le funzioni del suo sistema nervoso e le facoltà della sua
mente, induce ad escludere in modo assoluto questa ipotesi (p. 179s).
E
se deve ritenersi che, per i caratteri che presentano in se stesse e nei tessuti
circostanti, non possano derivare dall'azione di agenti esterni, non vi
potrebbe essere nel suo organismo uno stato morboso costituzionale, capace di
determinarle spontaneamente?
Il dottor Festa respinge anche il semplice
dubbio di questa ipotesi. Infatti le lesioni di Padre Pio non possono provenire
dalla tubercolosi, prima perché dopo un lungo volger di anni
«questa diagnosi non ha ricevuta conferma da ulteriori manifestazioni, e
che anche oggi l'osservazione obbiettiva più scrupolosa,
benché ripetutamente eseguita, non riesce ad accertare nulla di
patologico nelle sue vie respiratorie»; e poi,
«comunque, le
lesioni che si osservano sulla sua cute non presentano nessuna delle
caratteristiche proprie alle lesioni che talvolta si manifestano in soggetti
tubercolotici, anzi non sono neppure da rassomigliare a semplici piaghe, essendo
assolutamente prive delle secrezioni che a queste sono comuni (p.
182).
Inoltre le piaghe riscontrate su Padre Pio, data la loro perfetta
simmetria, la loro localizzazione, il tempo così lungo trascorso dal
momento della loro apparizione, senza aver mai dato luogo ad alcuna variazione
nei caratteri che le distinguono,
«inducono ad escludere in modo
assoluto» l'ipotesi di «necrosi neurotica multipla della
cute», consistente in
«alterazioni necrobiotiche circoscritte,
aventi sedi qua e là sulla superficie del corpo, ma in modo asimmetrico,
in punti lontani dal centro impulsore della circolazione, facilmente sanabili
col cessar della causa che le aveva prodotte» (p. 183).
Escluse
tali ipotesi, potranno considerarsi come una conseguenza di
«eventuali
condizioni psicopatiche del suo organismo?... Potranno all'occhio
indagatore dello scienziato apparire come il frutto della potenza suggestiva
della sua mente?... » (p. 184).
«Le ricerche compiute
sull'argomento - risponde il Festa -
nella prima parte del nostro
lavoro e le deduzioni che ne sono derivate, rispondono esaurientemente anche a
questo quesito, dimostrano a luce meridiana quanto una tale interpretazione
sarebbe essa pure in contrasto con la verità». Quindi
«nessuna ipotesi - conclude -,
è evidente, sarebbe
possibile per giungere alla interpretazione naturale
dell'avvenimento» (p. 185).
Nel 1968 il dottor Andrea
Cardone di Pietrelcina (23 nov. 1876 - 28 apr. 1969), medico della famiglia
Forgione ed anche di Padre Pio durante le sue permanenze a casa, dichiara di
aver riscontrato
«in ambedue le mani fori del diametro di circa
centimetri uno e mezzo che attraversavano il palmo delle mani da parte a parte
tanto da vedere la luce filtrare ed alla pressione i polpastrelli del mio indice
e pollice si toccavano».
Una immagine delle stimmate di Padre Pio
Le stigmate di Padre Pio
Testimonianze di contemporanei
Alle relazioni scientifiche si affiancano le
constatazioni dei superiori, confratelli e figli spirituali. Ne scegliamo
qualcuna.
P. Damaso da S. Elia a Pianisi, congedato nel 1919 e recatosi a
Foggia, incontra p. Basilio da Mirabello Sannitico, che gli si fa vicino e gli
dice
«con un tono di voce di chi comunica una cosa meravigliosa:
«Damaso, non sai che Padre Pio ha le stimmate?». Ed io alquanto
meravigliato, risposi: «Ma vattene!...», non perché non
credessi alla bontà di Padre Pio, ma perché mi sembrava una cosa
troppo bella. E poi mi resi conto ch'era vero. Vidi il molto reverendo p.
Francesco da Fragneto l'Abate che era pazzo dalla gioia. Dovunque si
andava, era un continuo domandare del fatto».
Il giorno delle
ceneri del 3 marzo 1919, dopo essersi trattenuto alcuni giorni a S. Giovanni
Rotondo, da Foggia il p. Benedetto da S. Marco in Lamis scriveva al p. Agostino
da S. Marco in Lamis e, tra l'altro, gli diceva:
«In lui
[Padre Pio]
non sono macchie o impronte, ma vere piaghe perforanti le mani e
i piedi. Io poi gli osservai quella del costato; un vero squarcio che dà
continuamente o sangue o sanguigno umore. Il venerdì è sangue. Lo
trovai che si reggeva a stento in piedi; ma lo lasciai che poteva celebrare e
quando dice Messa il dono è esposto al pubblico, dovendo tenere le mani
alzate e nude» (
Epist. I, 1129).
Il p. Pietro da
Ischitella, provinciale dal 5 luglio 1919: «[...]
Nella palma delle mani
si osserva una crosta di color rosso cupo rotondeggiante, della larghezza di una
moneta di cinque centesimi a contorni netti, in parte distaccata dalla cute. Una
crosta identica e corrispondente, ma poco più piccola si trova nel dorso
delle mani. Similmente nella pianta e nel dorso dei piedi. Nel torace a
sinistra, si osserva una specie di croce, la cui branca più lunga,
disposta obliquamente va dalla 5ª alla 9ª costola per circa sei
centimetri mentre la branca trasversale è della metà circa
più breve. La pelle di color rosso bruno è quasi sempre
sanguinante da inzupparne parecchi pannolini al giorno
[...]
.
Lasciando all'autorità competente di
giudicare quanto d'insolito avviene in lui, posso riferirle che religiosi
prudenti, che meglio di me conoscono intimamente il Padre Pio, testimoniano con
massima sicurezza il pregio intimo del suo spirito. Sebbene nulla apparisce
all'esterno, salvo una spiccata impronta di serenità ed
ingenuità di angelo, il sovrumano si rivela in lui, specie nella eroica
volontà di subire un continuo martirio. Da anni soffre senza mai
lamentarsi, riuscendo anzi a nascondere le sue sofferenze interne ed esterne. La
sua vita è la preghiera e l'unione intima, diretta, direi quasi
ininterrotta con Dio [...]
».
Il professor Amico Bignami,
dopo la visita fatta a Padre Pio, ordinò di fasciare e suggellare le
ferite alla presenza di due testimoni - leggiamo nelle memorie del p. Paolino da
Casacalenda - e di controllare i suggelli delle stesse alla presenza degli
stessi testimoni per otto giorni affinché si potesse avere la certezza
che le ferite non erano state affatto toccate, molto meno curate; e dopo otto
giorni stendere una coscienziosa relazione per dire se le ferite si erano
rimarginate oppure no.
Il padre provinciale Pietro da Ischitella, con
precetto d'ubbidienza e sotto giuramento, diede l'incarico a tre
padri di eseguire il controllo. Ogni mattina aiutano Padre Pio a togliersi
l'abito, la maglia e le calze, con sua immensa sofferenza nel mostrare
quelle piaghe che cercava sempre di tener nascoste agli occhi di tutti:
«Chi avesse potuto guardare in quei momenti il viso del Padre -
è p. Paolino che parla -
vi avrebbe letto chiaramente la grande
ripugnanza ed insieme la più viva confusione del pallore che lo
contrassegnava, come ho potuto costatare con i miei occhi».
Al
contrario, i padri fiduciari del provinciale erano contenti ed eseguivano il
mandato
«tanto volentieri, che non si può immaginare»,
perché potevano
«vedere bene la ferita del costato e quelle dei
piedi e delle mani stesse, che non è tanto facile vedere, perché
sempre coverte dai guanti».
Per lo spazio di otto giorni ogni
mattino si toglievano le bende del giorno precedente, dopo aver verificato il
sigillo, e si mettevano le nuove. L'ottavo giorno in cui furono
definitivamente tolte
«le fasce al Padre Pio, mentre egli celebrava la
Messa, colava tanto sangue dalle mani, che fummo costretti a mandare -
attingiamo sempre dalle memorie manoscritte di p. Paolino -
dei fazzoletti,
perché il Padre potesse asciugarlo. Nella relazione che mandammo al padre
provinciale, sottoscritta dai testimoni e da me, nel riferire coscienziosamente
che nei controlli giornalieri le fasce e i sigilli furon trovati sempre a posto,
facemmo notare questa circostanza del sangue durante la
Messa».
Ed ecco la relazione, senza data ma è chiaro
che è del luglio 1919:
«Noi qui sottoscritti attestiamo con
giuramento che, avendo ricevuto dal m. r. padre Pietro da Ischitella
l'ordine di fasciare le piaghe al padre Pio da Pietrelcina, sacerdote
cappuccino, abbiamo costatato quanto segue: 1. Lo stato delle piaghe durante gli
otto giorni è rimasto lo stesso, eccetto l'ultimo giorno in cui
queste hanno preso un colore rosso vivo. 2. Ogni giorno, come si può
rilevare dai pannolini che conserviamo, tutte le piaghe hanno dato sangue;
l'ultimo giorno poi fu più abbondante, tanto che fummo costretti a
mandare, mentre egli celebrava, un pannolino per asciugare il sangue che gli
scorreva sul dorso delle mani. Si avverte che nel fare queste fasciature non
abbiamo adoperato nessun medicinale e che pur avendo intera la fiducia nel Padre
Pio, abbiamo tolto, per evitare qualunque sospetto, anche la boccetta di tintura
iodica che egli conservava nella sua camera. In fede etc. Firmati: 1°; P.
Paolino da Casacalenda, Sup. Capp.no; 2°; P. Basilio da Mirabello Sannitico;
3°; P. Ludovico da S. Marco in Lamis».
Gli atteggiamenti ecclesiastici
I superiori, circospetti, non parlavano e
non volevano che si parlasse, ma la fuga di qualche notizia incominciava a farsi
strada.
P. Benedetto in una lettera del 5 giugno 1919, indirizzata al p.
guardiano di S. Giovanni Rotondo Paolino da Casacalenda, richiamava i sudditi
alla prudenza e disapprovava con forti e chiari termini qualunque parola in
più,
«sia pure confidenziale, con secolari, dovendosi temere le
indiscrezioni. Usata da noi la diligenza necessaria a non permettere e volere
che le cose divine siano portate in piazza e più in pascolo a giornali,
specialmente profani, possiamo accettare e adorare la permissione
dell'Alto, come e quando vuole, nella divulgazione di ciò che serve
alla gloria del Creatore e della creatura».
Lo stesso pensiero e
le stesse direttive erano quelle del padre generale, ma leggendo «Il
Mattino» - continua il p. Benedetto -
«noto con afflizione che le
indiscrezioni sono avvenute non senza colpa di cotesta comunità. So che
direttamente non vi sarete prestati alla curiosità del corrispondente, ma
certi particolari non si sarebbero saputi se non fossero stati manifestati dai
religiosi ai secolari. La quasi «letterale riproduzione» della
constatazione del Romanelli è certo un indizio di poca o niuna cautela, e
fa dedurre che se n'è cercata e comunicata a qualcuno la copia
conforme. Su ciò v'è l'offesa di Dio, perché si
contravviene al volere del generale e mio».
«Voi
[cioè p. Paolino da Casacalenda]
che sapete - continuiamo a citare
sempre dalla stessa lettera -
quale confusione e ritrosia mostrò il
Padre Pio nel dover subire la constatazione; sapete quale forza di
autorità mi bisognasse per indurlo a fare l'ubbidienza, quantunque
nel penetrale di una cella e con la protesta di dovermene servire alla pura
gloria di Dio, osate prendere il segreto di un'anima con tutto il
sentimento della sua delicatezza e l'offrite ai giornali quale oggetto di
cronaca? È enorme!!! Proibisco d'ora innanzi «sub gravi»,
di comunicare a chiunque e per qualunque motivo, altre notizie intime di fatti,
o avvenuti o che avverranno, ritenendo per fermo esser nocivo al decoro
dell'abito e alla causa del nostro caro Padre ogni divulgazione originata
da noi o in cui possa scoprire il nostro intervento».
Sulla
stessa linea di riserbo cammina il nuovo provinciale p. Pietro da Ischitella, ma
la notizia straordinaria fa il suo corso, contornata anche da bagliori non
comuni, che suscitano meraviglia, scetticismo, cautela, ironia,
curiosità, bisogno di aiuto spirituale, fede, richiamo a mutar vita,
conversioni, gelosie, ricorsi, accuse, calunnie...
«La stampa
«cattolica italiana» - scrive p. Pietro da Ischitella il 27
novembre 1919 -
ha finora taciuto; ed ho voluto così perché ho
deciso di non favorire alcuna pubblicità, e di permettere che uomini
incompetenti abbiano a giudicare del fatto certamente straordinario. La
diffusione della notizia fu fatta sul principio dai giornali non certamente
clericali [...]
. Forse le relazioni di simili giornali fecero maggiore
impressione sul pubblico; alcune grazie che si riferirono alle preghiere del
buon religioso alimentarono la fiducia dei credenti... ed il resto venne da
sé.
Da ogni parte del mondo giungono domande di preghiere -
spesso ringraziamenti di grazie ottenute; dalle più lontane regioni
giungono visitatori guidati non da malsana curiosità, ma da vero spirito
di devozione. Padre Pio confessa a volte fino a 16 ore al giorno. Vi furono
nella buona stagione migliaia di comunioni al giorno, non mancarono visite di
persone distinte, ritorni alle pratiche religiose, conversioni alla fede. E
tutto ciò costituisce per me il vero prodigio ed attesta che il Signore
ha voluto rivelare questo suo Eletto per il bene delle anime e per la gloria del
suo Nome».
Ecclesiastici insigni vengono o mandano ad osservare e
consultare il fatto, ormai reso di pubblico dominio.
Il segretario di
Stato card. Pietro Gasparri scrive al padre guardiano di S. Giovanni Rotondo (19
novembre 1919), raccomandando la famiglia Rosi che si reca colà,
«attratta dalla fama di santità del Padre Pio» e
desidera
«confessarsi a lui e ricevere la santa comunione dalle sue
mani».
E poi due cose ancora desidera il cardinal di Stato:
«
1. Dica al Padre Pio che ogni giorno nella santa Messa preghi
fervidamente il Signore per il Santo Padre e per me affinché ci illumini
e ci sorregga nei tanti guai in cui ci troviamo; 2. Una mia nipote cugina
è venuta a visitare il padre Pio [Antonia Veda], desidera avere un
oggetto qualsiasi personale del Padre; me lo mandi per mezzo della famiglia
Rosi».
Il provinciale Pietro da Ischitella confessa al padre
generale di non sentirsi in grado di pronunziare un giudizio su Padre Pio:
«La Grazia del Signore opera straordinariamente in un soggetto umano ed
è difficile distinguere gli atti ispirati da Dio da quelli che non
procedono da divina ispirazione». Però piuttosto che esprimere
personali convinzioni, in materia tanto delicata, preferisce presentare
impressioni di altri degni di fede.
Ne scegliamo una: quella del vescovo di
Melfi e Rapolla, monsignor Alberto Costa (14 settembre 1919) che riduce le sue
impressioni ad una sola:
«A quella cioè di aver parlato e
conversato con un Santo. Le stimmate, sulle quali ho potuto imprimere caldi
baci, e che, dopo gli esami di persone competenti, non si possono
ragionevolmente mettere in dubbio, sono bocche troppo eloquenti, come quelle che
rappresentano il suggello dell'amore, che Dio stampa su di coloro che a
Lui sono più cari e più intimamente uniti per la Fede viva e per
la Carità ardente. Ma oltre le stimmate, altre circostanze concorrono a
confermare in me la detta impressione: a) il tenore di vita del Padre Pio; b) la
semplicità e l'umiltà, senza ombra di sforzo e di
affettazione; c) l'unanime consenso dei padri e dei laici ; d) gli effetti
che si ottengono mercé l'esempio e l'opera di Padre
Pio».
Non potendo riportare tutto il testo della lettera, ne
trascriviamo soltanto l'ultimo paragrafo:
«Ex fructibus eorum
- diceva il divin Maestro -
cognoscetis eos. Anime innumerevoli, che tornano
a Dio; risveglio della fede, riforma dei costumi, frequenza ai ss. sacramenti,
da parte specialmente di uomini che da anni ed anni ne erano lontani; persone
che, a centinaia e centinaia, ogni giorno, da ogni provincia d'Italia e
non solo, ma dall'estero scrivono ringraziando Padre Pio dei favori
ottenuti e raccomandandosi alla sua intercessione per nuove grazie, per nuovi
favori.
Di tanto e di altri, che troppo lungo sarebbe ora riferire,
è frutto la mia impressione, che ha acuito il desiderio di far ritorno in
questa casa imbalsamata dal profumo delle eccezionali virtù del giovane
religioso [...]Oh, voglia il Signore conservare a lungo quest'angelo in
carne, a bene delle anime, a confusione degli empi!
Padre Pio che,
per dirla coll'Alighieri «par che sia una cosa venuta - di Cielo in
terra a miracol mostrare», continui a diffondere l'aroma della
santità in mezzo a questo secolo paganeggiante; poiché, come bene
fu detto, solamente un Santo potrà ristorare le rovine morali della
società presente [...]
».
Ma non tutti la pensano e
giudicano allo stesso modo: chi è
«apertamente avverso»
ed è
«malamente commentato» per il suo
«atteggiamento»; altri
«studiosamente» evita
di recarsi a S. Giovanni Rotondo, proferendo frasi
«non certamente
benevole» verso i religiosi; e con p. Paolino incomincia
l'
«initium dolorum» dei guardiani di questo
convento.
Il detto padre, saputo da fonte sicura l'inoltro di ricorsi
formali contro la comunità, si dice pronto a difendere sé e la sua
famiglia religiosa
«con documenti inoppugnabili, officiosi ed
officiali» per dimostrare la loro
«completa prudenza»
e il loro
«supremo disinteresse».
Durante il periodo di
cui ci stiamo occupando (1918-1922) accuse - per usare una voce morbida - anche
le più «banali» contro i frati e Padre Pio se ne sfornano
alacremente, ma un papa - Benedetto XV - che giudica Padre Pio
«un uomo
veramente straordinario, che Dio manda di tanto in tanto sulla terra per
convertire gli uomini», ben informato dai suoi inviati speciali e
fidatissimi, ammonisce che
«è bene andar cauti, ma è male
mostrarsi tanto increduli» ed invita un monsignore, che oltre a
mostrarsi di diverso parere parlava anche male dello stimmatizzato, a portarsi a
S. Giovanni Rotondo per riparare lo strappo alla carità:
«Eccellenza reverendissima, è certamente male informata, per cui
le ordino di recarsi dal Padre Pio per convincersi della sua mancata
carità e del suo errore» (1).
Benedetto XV morì
improvvisamente il 22 gennaio 1922.
(1) Cf.
Casa Sollievo della Sofferenza 27
(1-15 ott. 1976) 18s
Fine di una direzione
Il 2 giugno 1922 il Santo Uffizio (oggi
Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede), presi in esame i fatti avvenuti
in questi ultimi anni nella persona del religioso cappuccino Padre Pio da
Pietrelcina, ritiene necessario che intorno al detto Padre si stia in
osservazione: evitare ogni singolarità e rumore intorno alla sua persona,
non fargli celebrare più la Messa ad ora fissa ma a qualunque ora e di
preferenza «summo mane» ed in privato, non dia benedizione sul popolo,
per nessun motivo mostri le così dette stimmate e ne parli o le faccia
baciare, e tutta la condotta del detto padre sia uniformata a tali direttive
dichiarando apertamente con le parole e i fatti, tanto ai confratelli quanto
agli estranei, il suo fermo volere di essere lasciato tranquillo ad attendere
alla propria santificazione.
Deve avere un altro direttore spirituale
diverso dal p. Benedetto da S. Marco in Lamis, col quale dovrà
interrompere ogni comunicazione anche epistolare.
Per la esatta esecuzione
di tali ordini, inoltre, sarebbe necessario che il Padre Pio fosse allontanato
da S. Giovanni Rotondo e collocato in altro luogo fuori della sua provincia
religiosa, per esempio in un convento dell'alta Italia col desiderio che
un tale trasloco si effettuasse subito; tuttavia, perché qualche
difficoltà di ordine locale potrebbe opporsi a questo immediato
allontanamento, si comanda almeno di preparare la cosa in modo da trovarsi
quanto prima in grado di compierla.
Infine da parte di Padre Pio o di altri
per lui, non si risponda più a quelle lettere che gli verranno
indirizzate da persone devote per consigli, per grazie o per altri
motivi.
Al p. Benedetto si dà ordine di consegnare la cronistoria da
lui scritta intorno al Padre Pio, con l'ingiunzione di astenersi dal
parlare o dallo scrivere intorno al detto padre e dal mantenere con lui
corrispondenza anche semplicemente epistolare.
Padre Pio chinò il
capo ed obbedì e lo stesso fece il p. Benedetto, dichiarando la sua
sottomissione agli ordini emanati, per mezzo del padre provinciale Pietro da
Ischitella:
«Sul riserbo del p. Benedetto da S. Marco in Lamis posso
attestare che, sebbene egli conoscesse lo spirito di Padre Pio fin dal 1909, da
quando cioè era neoprofesso e fosse l'unico ad averne la continua
scienza, nessuno mai, a cominciar da me [...],
seppe fuori e dentro lo
stesso ambiente religioso alcuna cosa dell'anima sua. Eppure era tale
l'aura della pietà e il devoto raccoglimento da causare
l'ammirazione dei religiosi e di quanti l'avessero visto»;
dopo la stimmatizzazione,
«nulla lasciò d'intentato
perché se ne omettesse la pubblicità», ordinando ai
religiosi, se interrogati, di tacere con tutti e
«specialmente coi
giornalisti, ai quali proibiva rigorosamente di concedere qualsiasi
intervista»; «non nega che, diffusa la fama, dové convenire con
chi gli chiedeva informazioni sui fatti storicamente certi, come le piaghe, la
temperatura elevatissima fino a raggiungere i 48°;, due scrutazioni di cuore
con cui salvò due povere anime dallo stato sacrilego, ecc. Ma egli
riferiva tali fatti oggettivamente senza spiegarli e non ricorda mai di aver
confermato le voci di guarigioni miracolose, non essendo da lui personalmente
constatate»; non scriveva nessuna cronistoria o biografia di Padre Pio,
ma aveva soltanto
«raccolto materiale e date storiche riferentisi
all'evoluzione del suo spirito, con l'intento di scriverne in futuro
la vita, se avesse santamente finito il suo corso mortale e Dio si fosse degnato
di dire la sua parola sulla tomba»; aggiunge che
«per quanto ha
potuto e saputo, con l'aiuto divino, ne ha diretto l'anima come si
è presentata, e, in generale, di non essere stato facile a credere allo
straordinario. Protesta però che ciò non toglie di aver potuto
errare e perciò con animo grato accoglie le disposizioni della
Santissima, vi si uniforma con divota ed incondizionata sommissione,
promettendo per la divina grazia di farne tesoro».
Convinto che si
chiudeva definitivamente un capitolo della sua attività spirituale, p.
Benedetto per venti anni (morì nel 1942) non rivide e non parlò
mai più col suo
«dolcissimo» e
«carissimo
Piuccio».
Affogato nel pelago immenso dell'Amore
Padre Pio percorre senza soste il faticoso
cammino della trasformazione in Dio: la trasverberazione del cuore e le stimmate
visibili e sanguinanti del corpo proiettano una luce sulla via dolorosa da
percorrere. Malgrado le difficoltà, anzi la impossibilità di
tradurre esattamente in termini umani le esperienze divine, l'epistolario
di questo periodo è ricco di notizie sulla fenomenologia mistica (cf.
Epist. I, 1081-1085).
L'amore e il dolore continuano ad essere
le «coordinate» della nuova tappa.
L'amore nella duplice
dimensione: verticale verso Dio ed orizzontale verso il prossimo:
«sono
divorato dall'amore di Dio e dall'amore del prossimo»
(
Epist. I, 1247). Ha un valore di sintesi la frase scritta il 29 gennaio
1919:
«mi sento affogato nel pelago immenso dell'amore del
Diletto» (
Epist. I, 1122), e l'altra del 20 novembre 1921:
«Dio per me è sempre fisso nella mente e stampato nel
cuore» (
ivi, 1247).
Non meno incisive sono le espressioni
rivelatrici della dimensione orizzontale dell'amore che
«lo
divorava». Ne citiamo qualcheduna:
«Stanco ed immerso nella
estrema amarezza, nella desolazione la più disperata, nell'angustia
la più angosciosa non già di non poter, no, ritrovare il mio Dio,
ma di non guadagnare tutti i fratelli a Dio» (
ivi, 1152);
«sono vertiginosamente trasportato a vivere per i fratelli»
(
ivi, 1243).
La tappa che sta percorrendo è un continuo
susseguirsi di
«grandi voluttà spirituali e di grandi desolazioni
spirituali», rendendosi appena conto
«chi è
l'autore di tanto godere e di tanto soffrire
contemporaneamente».
L'anima avanza abitualmente nella
caligine dolorosa della notte oscura. Un dubbio atroce di non fare mai cosa
gradita a Dio, anzi la quasi certezza di offenderlo in tutto, la tortura e la fa
agonizzare;
«è un chiodo che mi schianta il cuore e buca il
cervello». I giorni trascorrono
«in una estrema straziante
agonia».
Le frequenti ed accorate richieste di aiuto ai direttori
sono una prova eloquente di questa fase veramente dolorosa. Offre a Gesù,
ed a lui solo,
«l'estremo mio martirio», non cercando
sollievo umano alle sue atrocissime pene interiori, ma rendendo con animo lieto
grazie a Dio che
«di questo mio stato nulla fa trapelare al di
fuori».
In questo periodo è abbondantemente illustrata
anche la direzione spirituale sia passiva che attiva. Il ricorso ai direttori da
parte sua si fa sempre più angoscioso e appassionato; unica tavola di
salvezza nell'imperversare della tempesta è
l'autorità, l'unico faro di luce nella foschia caliginosa
della notte dello spirito è l'autorevole parola di chi lo guida,
anche se le categoriche e ripetute dichiarazioni ed assicurazioni non riescono
ad acquietare in profondità lo spirito sconvolto, aderendovi con
«la sola volontà, nuda e cruda, senza conforto e senza refezione
di spirito», senza mai
«trovare un po' di sostegno e di
riposo».
Il panorama, invece, cambia totalmente quando si
invertono le parti e Padre Pio diventa direttore dei suoi direttori. Quando
dirigeva gli altri, riusciva egregiamente a risolvere quegli stessi problemi che
così atrocemente torturavano il suo spirito, privandolo d'ogni
conforto; ha veramente il dono di sollevare, fortificare, illuminare ed
orientare le anime da lui dirette. Egli sa scoprire le predilezioni divine, i
tranelli satanici, le debolezze umane. Sa trovare in ogni caso la parola adatta,
il consiglio saggio e prudente, il principio e la norma illuminante. Ha il
segreto di tranquillizzare le coscienze, egli che non trova mai serenità
e tranquillità per se stesso.
Senza falsi rispetti umani, senza
tentennamenti e senza eufemismi si esprime con autorità, sicuro di quanto
afferma e certo dell'efficacia delle soluzioni proposte:
«questa
è la verità, e tutta la verità»; «questa è
tutta la verità»; «credete a me che vi ho parlato da parte di
Gesù»; «il mio monito, che alla fin fine non è mio ma di
Gesù».
UN TRASFERIMENTO MAI ESEGUITO
Quello che diremo in questo capitolo a noi
sembra il cozzo di due ragionamenti.
Chi pecora si fa, il lupo se la mangia
- dicono alcuni. L'innocente calunniato e perseguitato deve essere difeso
a tutti i costi; accada quel che accada, se chi amministra la giustizia è
sordo o si muove lentamente.
Nell'elenco delle tante virtù che
Dio richiede ai suoi, c'è anche la santa pazienza - rispondono
altri - ben radicata nella protezione divina. Anche se si perde tutto, rimane la
fede e tutto si salva: finché siamo pecore, vinciamo e, ancorché
circondati da numerose orde di lupi, riusciamo ad avere il sopravvento,
perché il pastore non pasce i lupi ma le pecore.
E, in questi casi,
chi si crede in obbligo di eseguire ordini emanati e ricevuti, si imbatte in una
via sbarrata dai
«decisi a tutto» e si trova, come suol dirsi,
tra l'uscio e il muro; l'uno ti preme e l'altro ti
schiaccia.
La folla cresceva sempre più
Padre Pio
«non parlava mai di se
stesso» - appunta il padre guardiano di S. Giovanni Rotondo, Paolino da
Casacalenda, nelle sue memorie manoscritte - e neppure in «questa
circostanza così solenne della sua vita» credette necessario
accennargli la sua crocifissione,
«anzi faceva tutto il possibile per
occultare il dono di Dio, cercando di coprire le mani con l'abito prima di
aver escogitato il mezzo dei guanti».
Constatato il fatto, padre
Paolino scrive al provinciale, invitandolo a recarsi al più presto a S.
Giovanni Rotondo, ma questi - con meraviglia e disappunto del padre guardiano -
non si muove, ma spedisce soltanto una lettera, in cui
«pareva di non
dare tanta importanza a quello che era avvenuto; solo raccomandava di mantenere
sopra di esso il più grande silenzio».
Il
«grande» silenzio del provinciale nella preoccupazione
prudenziale del guardiano divenne
«massimo», con la calda
preghiera, a chi frequentava il convento e conosceva il prodigio, di non
propagare la notizia; ma nel giro di pochissimi giorni a S. Giovanni Rotondo,
«in segreto», moltissimi già conoscevano il fatto anche
se se ne parlava in famiglia e non in pubblico; e si estese a parecchi della
vicina città di S. Marco in Lamis.
La notizia incominciò a
comparire sui giornali ai primi di maggio 1919 e l'intento
dell'articolista non era quello di far conoscere il fatto straordinario,
ma di richiamare, invece, l'attenzione della Santa Sede, mentre
provocò quel che non desiderava, richiamando l'attenzione di altri
giornali che pubblicarono la
«sensazionale notizia e la diffusero nel
mondo».
Nel mese di giugno arriva per preparare
«un
pezzo» per «Il Mattino» il primo inviato speciale di tanti
che, per mezzo secolo, giungeranno a S. Giovanni Rotondo per scrivere del frate
che tutto il mondo conosce e che perciò
«fa notizia»
sempre.
Da questo articolo molto commosso e molto
erudito, in
cui si parla di Padre Pio,
«figura purissima fatta di fede veramente e
intensamente sentita», stralciamo soltanto due brani che confermano la
riservatezza del padre guardiano e la non disponibilità di Padre Pio a
parlare con i giornalisti e tanto meno a concedere interviste.
Padre
Paolino è un uomo
«dall'aspetto intelligente, dai modi
cortesi, sui 45 anni.Egli mi ha accolto con grande amabilità, ma con
sorriso non meno amabile, mi ha dichiarato di non potermi accordare né
una intervista, né un privato colloquio».
«Potrebbe
almeno dirmi qualche cosa intorno alla vita di Padre Pio; potrebbe dirmi qualche
sua impressione personale...».
«Non posso, ho assoluto
divieto da parte dei miei superiori. Lei comprenderà: non ci troviamo in
una situazione delicatissima: qualsiasi «avance» da parte nostra, una
parola azzardata, un'idea sinceramente manifestata potrebbero dar luogo ad
equivoco che non può né deve esservi.Noi siamo nient'altro
che degli spettatori, così come lo sono tutti i fedeli che qui
convengono, di quanto opera Padre Pio.Noi constatiamo quanto avviene, ma non ci
è dato dire neppure ciò che è nell'animo nostro»
(Il Mattino, 20-21 giugno 1919).
Prima che la
«solita
folla» lo avesse sottratto a qualsiasi altra occupazione, per mezzo di
un amico, il giornalista poté avvicinare Padre Pio e
«la prima
impressione» che ne ricevette fu - passato il primo momento di
curiosità -
«quella di una persona profondamente buona. Buona la
sua figura così come buona è l'intonazione della sua
voce».
Appena l'amico mi ha presentato - continua
l'inviato speciale, Renato Trevisani -
Padre Pio mi si è rivolto
dandomi cordialmente la mano. È bene però premettere che a
PadrePio è stata taciuta la mia qualità di giornalista.In caso
contrario mi sarebbe stato molto difficile il poter essergli vicino. Dai suoi
modi, dallo stile dei suoi discorsi, si rivela che egli ama assai poco la
«réclame»: non ha caro che intorno alla sua persona si addensi
la curiosità del pubblico: è felice soltanto con le anime semplici
che vanno a lui con sincerità di fede, affrante da un dolore,
racchiudenti nella divinità ogni loro voto, ogni loro
speranza.
La sua persona non presenta, ad una prima osservazione,
niente di eccezionalmente particolare: il pallore delle sue guance spicca in
contrasto con i capelli castani e la barba bruna, tagliata a forma quasi
rettangolare. Nel complesso Padre Pio ha l'aspetto di un convalescente;
quando cammina sembra trascini con uno sforzo il suo corpo stanco; gli occhi
neri, grandi, tagliati a mandorla appaiono come lievemente velati; le dita delle
mani, uscenti dai mezzi guanti che ne coprono le palme, bianchissime,
affusolate, rivelano un corpo consunto» (ivi).
Come si allarga la
conoscenza della notizia, così aumenta l'accorrere della gente a
S.GiovanniRotondo, tanto che un corrispondente locale nota che il suo paese
«sta minacciando di diventar famoso in tutta Italia. Sino a ieri
cominciava ad esserlo disgraziatamente pel brigantaggio che infieriva nelle
campagne: oggi lo è per l'esistenza di un umile fraticello in
concetto di santità».
Aveva inizio quel vasto movimento di
folle che avrebbero assediato il convento e gli avrebbero tolta la pace fino
allora goduta. Il 3 giugno 1919 lo stesso Padre Pio - scrivendo a p. Benedetto
da S. Marco in Lamis - conferma la nuova situazione che si stava creando
attorno al convento, fino allora tanto solitario:
«Non ho un minuto
libero: tutto il tempo è speso nel prosciogliere i
fratelli dai lacci di satana. Benedetto ne sia Dio. Quindi vi prego di non
affliggermi più assieme agli altri col fare appello alla carità,
perché la maggior carità è quella di strappare anime
avvinte da satana per guadagnarle a Cristo. E questo appunto io fo assiduamente
e di notte e di giorno [...]
. Qui vengono persone innumerevoli di
qualunque classe e di entrambi i sessi, per solo scopo di confessarsi e da
questo solo scopo vengo richiesto. Vi sono delle splendide conversioni. Quindi
si rassegnino tutti a contentarsi del semplice ricordo che di tutto fo
assiduamente dinanzi a Gesù» (
Epist. I, 1045s).
Per
far fronte alla nuova situazione, si cercò di organizzare un servizio,
perché tutto procedesse con un certo ordine,
«nel senso che -
spiega il padre guardiano -
mentre si cercava di non esporre tanto il Padre
Pio, dall'altro lato la folla non rimanesse
scontenta».
Poiché, grazie a Dio, tutta la gente che voleva
parlare con Padre Pio - continuiamo ad attingere dal manoscritto di p. Paolino -
chiedeva di confessarsi, venivano impegnati tutti i sacerdoti disponibili,
«ma la folla cresceva sempre più»: la chiesetta del
convento
«era zeppa di gente che andava, veniva, entrava, usciva senza
sosta e che guardavano intorno per vedere se loro venisse fatto di incontrarsi
con qualche religioso e rivolgere a lui tutte le domande che credevano
opportuno. Né verso la metà di maggio, specialmente verso la fine,
mancarono le cosiddette compagnie di pellegrini, i quali recandosi nei santuari
vicini dell'Incoronata, San Marco in Lamis e San Michele, sostavano nel
nostro convento ed accrescevano il numero delle persone e insieme la confusione.
Si trattava - e non esagero - di migliaia di persone, che pur di vedere il
Padre, oltre al denaro speso per il viaggio, si assoggettavano ai più
duri sacrifici in un paese dove mancavano alloggi ed altre attrezzature del
genere, e si adattavano a dormire sulla nuda terra oppure sulle rocce della
montagna, quando non avevano la possibilità di andare via il giorno
stesso del loro arrivo».
Uno spettacolo edificante lo dava
in modo particolare il gran numero degli uomini che, pur di confessarsi da Padre
Pio, aspettavano fino a dieci e quindici giorni,
«dormendo sulla nuda
terra nei campi intorno al convento e rimanevano contenti, pur rilasciando i
loro interessi materiali, in quei mesi di giugno, luglio ed agosto, nei quali
come è noto a tutti, i contadini sono obbligati ad attendere alla
mietitura ed alla trebbiatura del grano».
E Padre Pio cosa faceva
in mezzo a questo tumulto di gente? La risposta al più delle volte citato
e qualificato testimone:
«Padre Pio che da diversi mesi aveva ricevuto
la confessione «utriusque» (il permesso cioè di poter
confessare uomini e donne) confessava esclusivamente gli uomini in sagrestia,
mentre tutti gli altri padri della comunità e i forestieri si davano il
turno in chiesa per confessare le donne e con essi anch'io passavo delle
ore nel confessionale per disimpegnare questo dovere».
Solamente
nelle ore pomeridiane, verso l'imbrunire, Padre Pio, assieme agli altri
confratelli, potevano riposare dal lungo e faticoso lavoro delle confessioni.
Così nei mesi di maggio, giugno, luglio e agosto.
Ad Ancona: con prontezza e prudente audacia
Di fronte a tale movimento di massa, il S.
Ufficio vigila e segue con occhio attento il fenomeno e il 31 maggio 1923,
«premessa una inchiesta sui fatti che vengono attribuiti a Padre Pio da
Pietrelcina [...]
, dichiara non constare da tale inchiesta della
soprannaturalità di quei fatti, ed esorta i fedeli a conformarsi nel loro
modo di agire a questa dichiarazione».
Il 24 luglio 1924,
ricordato il precedente monito col quale
«volle ammonire i fedeli che da
un'inchiesta sui fatti [...]
nulla si era potuto provare della
pretesa soprannaturalità, «assunte altre informazioni da molte e
sicure fonti», ammonisce "
di nuovo con più gravi parole
i fedeli ad astenersi dal mantenere qualsiasi relazione, sia pure epistolare a
scopo di devozione con il suddetto Padre»».
Nel 1926 Giuseppe
De Rossi [Emanuele Brunatto] pubblica un opuscolo su Padre Pio (1), senza alcun
permesso dell'autorità ecclesiastica. Il 23 aprile, stesso anno, lo
stesso organo della Santa Sede fa noto e dichiara che la detta pubblicazione
«a termini del can. 1359, 5°; del codice canonico, è
«ipso iure» proibita». Ed in tale occasione
«crede
opportuno di richiamare alla memoria dei fedeli le precedenti sue dichiarazioni
ed istruzioni, relative al sunnominato Padre [...]
, perché i
fedeli sappiano esser loro dovere di astenersi dall'andare a visitare e
mantenere con lui relazioni anche semplicemente
epistolari».
Lo stesso concetto, le stesse parole, lo stesso
richiamo vengono ripetuti in un altro «comunicato» dell'11
luglio 1926 per l'opuscolo di Giuseppe Cavaciocchi e del 22 maggio 1931
per il libro di Alberto Del Fante (2).
Il «monito» direttamente
non contiene nessuna censura su Padre Pio, ma intende mettere in guardia i
fedeli dall'attribuire carattere di soprannaturalità a fatti che
tale carattere non hanno; e costatato che l'entusiasmo di molti continua
anche dopo le ripetute ammonizioni, lo stesso organo della Santa Sede ritorna
sull'argomento insistendo presso i fedeli che si astengano dal visitare
Padre Pio e dal corrispondere con lui per lettera a scopo di
devozione.
Padre Pio si chiude in un grande riserbo ed in perfetta
obbedienza accoglie la decisione, però non tutti seguono il suo esempio.
La interpretò nel giusto senso la comunità di S. Giovanni Rotondo,
quando il guardiano annotava nel suo diario:
«Dal giornale apprendiamo
un nuovo monito del Santo Ufficio, vietante che i fedeli si rechino a visitare
il Padre Pio, a scopo di devozione. Dalla comunità tutta è stato
appreso senza lamenti e neppure desiderio di dargli interpretazione di sorta,
riguardano più i visitatori che noi. Parecchie persone, scrivono
lamentando il fatto, pur con ogni soggezione
all'autorità».
Altri, invece, vi scorsero gli effetti
di accuse e calunnie di alcuni, che a tutti i costi volevano che Padre Pio
sparisse da S. Giovanni Rotondo e il popolo insorse energicamente, disposto
anche a gesta sanguinarie, perché ciò non avvenisse.
Di
questo tribolato periodo cerchiamo di vedere brevemente il comportamento di
Padre Pio, dei Cappuccini e del popolo.
Nell'agosto del 1922 il padre
generale dei Cappuccini si sente ripetere con viva insistenza la raccomandazione
di cambiar convento a Padre Pio, ma di tale trasferimento si parlava sin dal
1919, come apprendiamo da una lettera del provinciale Pietro da Ischitella (10
ottobre 1919) al generale dei Cappuccini:
«Fui a S. Giovanni Rotondo dal
7 all'11 settembre. A titolo di cronaca riferisco la poco simpatica
accoglienza avuta alla sera del mio arrivo. Il giorno precedente era giunto a S.
Giovanni Rotondo il molto reverendo p. Benedetto da S. Marco in Lamis in
compagnia di monsignor Valbonesi. La presenza del molto reverendo ex provinciale
e di un vescovo sconosciuto fece nascere il sospetto che si volesse portar via
Padre Pio e bastò a qualcuno che venisse il sospetto, perché la
voce si spargesse in tutto il paese in modo allarmante. Le assicurazioni stesse
di Padre Pio non valsero a convincere la folla che, preceduta dal concerto
musicale, si era recata al convento per una protesta quasi minacciosa,
sicché quando arrivai fui circondato da tutta quella gente e ci volle del
bello e del buono per indurla a più miti consigli. Nonostante tutte le
mie e le altrui assicurazioni, il convento fu guardato durante la notte. Non
erami fatto mai illusione sulla possibilità di allontanare il Padre Pio
da S. Giovanni Rotondo, ma l'episodio potrà servire a persuadere
chi non conoscesse bene [questa popolazione]».
Uno degli attori
principali di questo turbolento periodo - Francesco Morcaldi - nel 1922 scrive:
«Nuovi ordini, nuova insurrezione popolare, che ebbe stavolta
manifestazioni di eccezionale violenza. La folla era esasperata. Essa cominciava
ad identificare [...]
i sobillatori [...]
. Chi pagava per tutti
era naturalmente Padre Pio. Una mattina, al termine della Messa, da un gruppo di
giovani che affollavano il presbiterio, uno si mosse armato di rivoltella e la
puntò alle spalle di Padre Pio dicendo che «
voleva farlo
restare morto a S. Giovanni Rotondo, piuttosto che li avesse
abbandonati».
Fra le grida di spavento dei fedeli si riuscì,
a stento, a disarmare lo scalmanato. Eccesso pazzesco, senza dubbio, e brutale
della passione popolare, che ne aveva abbastanza di lottare contro
l'ignoto per difendere il suo Giusto così noto!»
(3).
Dal settembre dello stesso anno 1922 il nuovo padre guardiano di S.
Giovanni Rotondo è il p. Ignazio da Ielsi. Situazione non invidiabile la
sua!
Alle ripetute e vive insistenze che venivano da Roma di
«cambiar convento al Padre Pio», il padre provinciale (28
giugno 1922) si affrettava ad assicurare al padre generale l'impegno suo
di mettere in esecuzione nel miglior modo i comandi ricevuti per
«concretare il tanto desiderato cambiamento».
Nel
frattempo arriva a S. Giovanni Rotondo la notizia che è imminente
l'ordine di trasferire Padre Pio ed il popolo si organizza, si agita e
minaccia e il 16 ottobre - sempre del 1922 - il signor sindaco invia al padre
guardiano una seconda lista di cinquanta fogli pieni di firme, significandogli
che,
«data la grande venerazione che la cittadinanza nutre per Padre
Pio, venerazione ingigantita dalle quotidiane ed infinite opere di bene
spirituali e caritative che il prefato Padre Pio prodiga in paese e fuori, il
suo allontanamento darebbe luogo a seri e gravi inconvenienti, essendo la
popolazione decisa ad impedire con tutti i mezzi il ripetuto trasferimento
[...].
Rassegno fin da ora ogni responsabilità di tutte le incresciose
conseguenze e del perturbamento dell'ordine pubblico che inevitabilmente
apporterebbe il cennato provvedimento, responsabilità che ricadrebbero
intere sull'autorità che mettesse in non cale le giuste e legittime
rimostranze di questa popolazione».
Nel maggio del 1923 il
superiore locale è avvisato officiosamente che a Padre Pio verranno fatte
ancora severe proibizioni e restrizioni; il 31 maggio viene emanato un
comunicato e lo stesso giorno la cronaca del convento annota:
«Il
guardiano attende ordini dal provinciale e questi risponde: «Gli ordini
verranno»».
Gli ordini puntualmente arrivano ed il padre
provinciale cerca di disporre gli animi, scrivendo a Padre Pio:
«Si
prepari a bere l'amaro calice come l'ho dovuto sorbire
io". Padre Pio rimane calmo, come già dinanzi ad altre
comunicazioni del genere; dice soltanto:
«Non ci facciano aspettar
tanto. Ci dicano presto che cosa dobbiamo fare».
Il 17 giugno il
padre guardiano riceve gli ordini,
«brevi» e
«secchi»: che il Padre Pio non celebri più in pubblico e
ad ora fissa, ma dica la santa Messa nella cappella interna del convento, non
permettendo a persona alcuna di assistervi e che lo stesso Padre Pio non
risponda più né per sé né per altri a quelle lettere
che gli vengono indirizzate da persone devote per consigli, per grazie o per
altri motivi.
P. Ignazio da Ielsi, esecutore immediato di tali incresciose
disposizioni, scende a Foggia e manifesta le sue apprensioni, temendo una
sommossa popolare. Il padre provinciale, pur condividendo le stesse
perplessità, mortificatissimo, non può far nulla; il padre
guardiano, in compagnia dei suoi preoccupanti pensieri, ritorna al suo convento
e la mattina del 25 giugno Padre Pio celebra privatamente nella cappella interna
del convento.
Nel pomeriggio una fiumana di gente si riversa in convento e
non certo per congratularsi con la comunità religiosa:
«Il
popolo, - scrive p. Ignazio (25 giugno 1923) al padre provinciale -
notato che Padre Pio non celebrava più in pubblica chiesa, ha ritenuto
questa disposizione come offensiva e quasi una punizione a lui inflitta e,
persuasa che ciò fosse un primo provvedimento, al quale altri più
gravi sarebbero seguiti, si è sollevata in comizio, tenutosi in piazza,
nel quale fu deliberato di nulla lasciare intentato per ottenere la revoca del
detto provvedimento; ed il sindaco a nome della stessa popolazione ha spedito
telegrammi di protesta alle autorità ecclesiastiche.
Una
fiumana di popolo di circa tremila persone, accompagnata da musica e dalle
autorità civili e militari, salì al convento, chiedendo
assicurazioni sia per la non rimozione del Padre Pio, sia per la celebrazione
della Messa in pubblico. Il sindaco ed altre autorità del paese vennero
in convento a persuadermi di sospendere l'esecuzione dell'ordine; ed
io, a fin di evitare altri gravi inconvenienti e per sedare l'eccitazione
del popolo, ho creduto bene accondiscendere alla loro richiesta facendo di nuovo
celebrare Padre Pio in pubblico, sino a quando vostra paternità non mi
comunicherà altre istruzioni in proposito».
Padre Pio il
giorno seguente, 26 giugno, celebra di nuovo in chiesa; il prefetto di Foggia,
informato dal sindaco di S. Giovanni Rotondo, pur riconoscendo
l'incompetenza nel revocare o sospendere gli ordini dei superiori
maggiori, prega il padre provinciale di non insistere a far celebrare Padre Pio
privatamente, per non causare di nuovo perturbazione dell'ordine
pubblico.
L'8 agosto 1923 Padre Pio viene a conoscenza
dell'ordine (datato 30 luglio) di trasferirsi ad Ancona, presso il
provinciale di quella provincia, a disposizione del padre generale.
Il 31
luglio il padre generale comunicava al provinciale delle Marche di aver inviato
l'ubbidienza al Padre Pio da Pietrelcina,
«destinandolo a cotesto
convento di Ancona e sottomettendolo completamente a lei, affinché
disponga di lui come meglio giudicherà nel Signore [...]
Devesi
evitare che si formi attorno a lui quella solita corrente di voci esagerate e
false sul suo conto. Potrà destinarlo - continua la lettera -
in
un convento remoto della provincia, ed è pregato di vigilare
affinché non si accostino a lui persone curiose, o che possano creare un
ambiente nocivo alla quiete di lui e degli altri. Si usi la massima riservatezza
col pubblico, e non si risponda alle lettere indirizzate al Padre Pio. Se su
qualche punto nascesse qualche dubbio mi scriva e mi si chiedano chiarimenti. Mi
tenga anche informato di ciò che può accadere di
straordinario».
Il padre provinciale delle Marche, convinto che la
sua responsabilità non è poca e costatato che Ancona
«non
è luogo adatto per i santi», pensa di destinare il
«prezioso dono» al convento di Cingoli:
«in cotesto
convento remoto - scriveva il 4 agosto 1923 al padre guardiano -
potrebbe
vivere in pace e fare un po' di bene a cotesti collegiali
(confessare)», e concludeva la lettera con un interrogativo:
«il convento di S. Giovanni Rotondo è circondato - giorno e notte
- dai devoti e interessati, i quali non vogliono che Padre Pio si allontani.
Riusciranno quei frati a farlo partire?».
(1) DE ROSSI G.,
Padre Pio da Pietrelcina, Roma 1926.
(2) CAVACIOCCHI G.,
Padre
Pio da Pietrelcina. Il fascino e la fama mondiale di un umile e grande
francescano, Roma 1924; DEL FANTE A.,
A Padre Pio da Pietrelcina,
l'araldo del Signore, Bologna 1931. Cf.
Acta Apostolicae Sedis
15 (1923) 356; 16 (1924) 368; 18 (1926) 186, 308; 23 (1931) 233.
(3)
MORCALDIF.,
Lettera alla Chiesa, Lipsia 1929, p. 6s.
Gli eventi hanno risposto di no.
Intanto i superiori di Foggia danno al padre
generale le
«più ampie assicurazioni» che tutto si
porrà in opera
«con prontezza e prudente audacia, perché
sia effettuato il trasloco del Padre Pio da Pietrelcina, dal convento di San
Giovanni Rotondo a quello di Ancona, secondo
l'obbedienza».
Però..., ricordata la presa di
posizione dei sangiovannesi, si fa noto ai superiori di Roma che il convento
è vigilato di giorno e di notte e che il sindaco
«dichiarò, in presenza del consigliere provinciale e di alcuni
assessori, essere sua precisa intenzione di tenere in permanenza entro il
convento due guardie campestri, con l'incarico di suonare la sirena
d'allarme ogni qualvolta avessero notato qualche movimento insolito o
sospetto, specie all'avvicinarsi di automobili portanti persone non
conosciute ed esercitarne rigoroso controllo; alla cinturia fascista avrebbe
data la consegna di correre armata in convento al primo avviso della sirena,
allo scopo di frustrare ogni tentativo di allontanare il Padre
Pio».
Di fronte a tale situazione, sarà un
«compito «audace» - riflette e fa riflettere il vicario
provinciale Luigi d'Avellino (il provinciale era gravemente malato) - ma
verrà eseguito lo stesso,
«con ogni cautela ed a costo di
qualunque sacrifizio», ponderando circostanze e studiando il piano
più spedito e sicuro, incaricando persone prudenti e serie per la
esecuzione.
Di fronte a tale
«rapporto» circa
«l'affare di Padre Pio» ed un suo trasferimento
immediato, ferme restando le precedenti disposizioni, si prende la saggia
risoluzione di differire l'operazione.
Mentre tanta gente si occupa e
si preoccupa di Padre Pio, egli tutto questo lo sa, ma non si sconcerta di
nulla: segue la sua via tranquillo ed obbediente al minimo cenno - è il
suo padre guardiano che lo dice - non fa osservazione a qualsiasi innovazione al
suo consueto modo di vivere; il solito sorriso sfiora sempre il suo labbro, la
solita cordialità continua ad usare con tutti;
«una cosa sola
sembrami scorgere: la preoccupazione in lui se assolve alla sua missione di bene
nelle anime. Per me sì - risponde affermativamente a se stesso il
padre guardiano -
perché è un esempio di sacrificio della
propria volontà a quella
dell'autorità».
Serenità conquistata e non
calma del macigno, perché anche Padre Pio è un uomo che soffre,
segue con preoccupazione ciò che per lui e attorno a lui succede, e
uniforma la propria volontà, a goccia a goccia, penosamente ma
generosamente a quella di Cristo, crocifisso per obbedienza.
Vengo con lei, quando e dove vuole
Le acque sono torbide ed agitate; voci
insistenti circolano in paese per una imminente rimozione di Padre Pio; la
popolazione potrebbe essere spinta a eccessi deplorevoli; la matassa
s'ingarbuglia ma se la situazione diventa difficile non è
certamente per colpa di Padre Pio o dei suoi confratelli.
Venuto a
conoscenza del trasferimento, egli con la sua calma abituale risponde al padre
vicario provinciale.
«Eccomi qui, pronto a fare la volontà dei
superiori; solo chiederei in grazia, se fosse possibile, di rimanere in qualche
convento della madre provincia».
Comunicati gli ordini al
superiore locale Ignazio da Ielsi,
«religioso esemplare» e di
carattere
«freddo e sistematico», «punto smettendo il suo
carattere refrattario alle emozioni, ha risposto ch'era pronto a tutto,
che anzi, ad evitare conseguenze clamorose e disastrose, preferirebbe si
allontanassero per ora i collegiali, con il pretesto delle vacanze, e poi,
quando si noterà maggiore calma, effettuare il trasloco del Padre Pio e
dei religiosi superstiti, che porterebbero seco quel poco di prezioso che
c'è in suppellettili, arredi sacri, ecc. ed abbandonare
completamente il convento».
Dagli appunti di diario dello stesso
p. Luigi d'Avellino stralciamo una pagina chiarissima, su cui come in uno
specchio rifulge la figura di Padre Pio, senza contorni di ombra, rispondendo
anticipatamente ad affermazioni inesatte di cui diremo appresso.
1°; -
L'obbedienza mandata al Padre Pio porta la data del 30 giugno 1923, con
la clausola «donec aliter»; cioè il Padre Pio doveva mettersi a
disposizione del provinciale di Ancona, fino ad ulteriori disposizioni
[...].
2°; -
Nella prima quindicina di agosto 1923 reduce da Roma,
portai personalmente l'obbedienza al Padre Pio, gliela mostrai e lessi,
ordinandogli di mettersi a mia disposizione per essere consegnato al provinciale
delle Marche. Il Padre Pio chinò il capo e con le braccia conserte mi
rispose: «Eccomi a sua disposizione; partiamo subito; quando sono con il
superiore sono con Dio» Allora soggiunsi: «Ma verresti subito con me?
È notte inoltrata, dove andiamo?».
«Non so. Vengo
con lei, quando e dove vuole vostra paternità».
Era
mezzanotte. Dominando la mia emozione, risposi tranquillo: «Ho ordine
soltanto di comunicarti l'obbedienza, la quale sarà esecutiva solo
quando riceverà da Roma ulteriori disposizioni». Riferii al generale
[dei Cappuccini] il colloquio avuto, e mi fu risposto: «ordo suspendatur
donec aliter».
3°; -
Il Padre con lettera scritta di suo
pugno, a me diretta in data 27 agosto 1923, così si esprimeva:
«Credo non ci sia bisogno di dirle quando io, grazie a Dio, sia disposto a
ubbidire a qualunque ordine mi venga notificato dai miei superiori. La voce loro
è per me quella di Dio, cui voglio serbar fede fino alla morte; e,
coll'aiuto suo, ubbidirò a qualsiasi comando per quanto penoso
possa riuscire alla mia miseria».
Il 12 agosto 1923 Padre
Pio, preoccupato di quanto sarebbe potuto accadere, indirizzava al sindaco
Francesco Morcaldi la seguente lettera:
«I fatti svoltisi in questi
giorni mi hanno profondamente commosso e mi preoccupano immensamente
perché mi fanno temere che io possa essere involontariamente causa di
luttuosi avvenimenti per questa mia cara cittadina. Io prego Iddio che voglia
allontanare tale iattura, riversando su di me una qualunque
mortificazione.
Però se, come ella mi ha comunicato, è
stato deciso il mio trasferimento, io la prego di adoperarsi con ogni mezzo
perché si compia la volontà dei superiori che è
volontà di Dio ed alla quale io obbedirò
ciecamente.
Io ricorderò sempre cotesto popolo generoso nelle
mie povere ed assidue preghiere, implorando per esso pace e prosperità e
quale segno della mia predilezione, null'altro potendo fare, esprimo il
mio desiderio che, ove i miei superiori non si oppongano, le mie ossa siano
composte in un tranquillo cantuccio di questa terra.
Con osservanza
mi dico tutto suo nel dolce Signore, Padre Pio da Pietrelcina».
Il
popolo sta all'erta e minaccia. Il padre guardiano la sera del 15 agosto
1923, Assunzione di Maria Vergine, annota sul diario:
«La serata viene
chiusa con la minaccia di otto fascisti armati di randello, per far conoscere
che il Padre Pio deve rimanere a S. Giovanni Rotondo, altrimenti:
«Crocifiggeremo Padre Pio - dicono -
e padre guardiano!. «Cerco
di calmarli e li rimando tranquilli, ma ostinati e pronti ad agire secondo il
loro modo di vedere. Una tale sorpresa non è piaciuta neppure a Padre
Pio, ma pazienza!».
Ed è proprio la pazienza dei frati che
spinge fino all'audacia i malevoli,
«consci purtroppo della nostra
delicata posizione [...]
; ora si vuol di più, si pretende
l'insostenibile» (p. Luigi Avellino, 15 agosto 1923).
Il
padre generale, a cui si rivolgeva il vicario provinciale, cerca di comprendere
e di farsi comprendere e informa meglio sulla realtà delle cose: rispetta
il dispiacere di tutti i confratelli per l'allontanamento di Padre Pio dai
conventi della provincia, ma non dipende da lui; egli ha proposto la provincia
di Ancona, come quella che meglio, a suo giudizio, può accogliere Padre
Pio, ricevendo, però, l'obiezione che quella provincia è
troppo vicina e quindi non sa se siano per venire altri ordini; cambiare in modo
«estremamente energico» P... Pio
«non sarebbe
pienamente conforme ai consigli venuti dall'alto [...]
non si
assumono responsabilità! [...]
Se mai in seguito al nostro agire,
energico e risoluto, accadesse un qualche doloroso incidente, ne verrebbe
attribuita a noi tutta la responsabilità e noi ne avremmo la generale
disapprovazione. Atteniamoci adunque ad una grande prudenza e non siamo troppo
frettolosi a compiere un dovere, che non esige troppa fretta» (18
agosto 1923).
Venite a portarmi via?
Il malumore ed il fermento arriva ai paesi
vicini, i cui abitanti partono e si recano al convento per salutare dicono
- Padre Pio per l'ultima volta prima che si perda per destinazione
ignota.
Ogni movimento dei frati viene notato e commentato ed è
persuasione comune che essi non ci tengono a stare lassù per forza e che
la loro permanenza in quel convento è quasi assolutamente insostenibile,
perché non intendono rappresentare la parte di vittime incoscienti nelle
mani di una folla armata.
Intervenga pure il direttore generale della
Pubblica Sicurezza, perché prima si risolve tale spinosa situazione tanto
meglio è per tutti: Padre Pio e i religiosi
«sono a disposizione
dell'autorità ecclesiastica e per essa agli ordini della
potestà civile, al minimo cenno [...]
. Disposti a qualunque
sacrificio, a condizione, beninteso, che ci salvino la vita» (p. Luigi
d'Avellino al padre generale, 27 agosto 1923).
Sua Eccellenza Emilio
De Bono, capo della Polizia, invia a S. Giovanni Rotondo un suo funzionario,
Carmelo Camilleri, per gli accertamenti ed i provvedimenti del caso, tra cui, se
lo avesse ritenuto opportuno, quello di coadiuvare alla discreta emigrazione di
Padre Pio; mentre il prefetto di Foggia si crede in dovere di informare il
funzionario della situazione delicatissima, affermando che
l'allontanamento di Padre Pio avrebbe potuto arrecare gravi perturbamenti
all'ordine pubblico e violente reazioni.
«Giunto al
convento - testimonia il funzionario -
Padre Pio, che non mi conosceva e
che non sapeva lo scopo della mia visita, appena al suo cospetto, mi disse:
«Venite a portarmi via? Sono ai vostri ordini, però vi prego di
agire con discernimento, non per me, ma perché non vorrei che si facesse
del male a quei poveretti che cercano di difendere la mia permanenza a S.
Giovanni Rotondo». Rimasi profondamente colpito dalla facoltà di
intuizione del frate e volli rassicurarlo. Egli mi rispose: «Capisco che
siete galantuomo».
Lo scopo della mia missione si
propagò subito per S. Giovanni Rotondo ed immediatamente una turba di
fedeli, con a capo il podestà cavalier Francesco Morcaldi [...]
,
si precipitò al convento tumultuando. Per calmare gli animi eccitati,
assicurai che la mia visita non aveva alcun carattere inquisitorio e che nessun
ordine di trasferimento era stato ancora emanato. In tale opera di persuasione
fui efficacemente coadiuvato dal cavalier Morcaldi.
La folla si
placò, ma nei più scalmanati rimase un acceso senso di diffidenza,
tanto che una scorta vigilante di contadini fu posta permanentemente a guardia
del convento, decisa a tutto per evitare il trasloco del
Padre».
Il signor Camilleri si trattenne diversi giorni a S.
Giovanni Rotondo ed accertatosi dei fatti con prove
«documentali
irrefutabili e testimonianze degne della maggior fede», rientrò
a Roma per riferire l'esito delle sue indagini al generale De Bono,
soggiungendo che
«chiunque avvicina Padre Pio resta privo di qualsiasi
volontà di perseguitarlo», e che per portarlo via dal convento
di S. Maria delle Grazie
«sarebbe stata necessaria una azione di forza
con sicuro spargimento di sangue».
Il generale De Bono rimase
talmente colpito dalla relazione del suo funzionario, assieme alle circostanze
di fatto ed altre prove raccolte, che
«si rese promotore, a mezzo di
autorevoli emissari, della revoca dell'ordine di trasferimento dato dalle
autorità ecclesiastiche», conclude Camilleri (1).
E
così stando le cose,
«per ora - comunica il padre generale al
vicario provinciale Luigi d'Avellino -
non è da pensare al
trasloco di Padre Pio».
Tra accuse e difese, tatticismi, ordini e
contrordini, minacce, sospiri e speranze l'anno sta per spirare; i fedeli
che gremiscono la chiesetta del convento ascoltano la Messa della mezzanotte
santa, celebrata solennemente da Padre Pio, e quasi tutti ricevono la
comunione.
Il nuovo anno non promette calma e serenità ed inizia con
la stampa, che deve appurare - secondo il corrispondente del
«Messaggero» di Roma - il modo di vivere del Padre Pio e difendere
gl'Italiani, accusati dai Francesi di aver creato «il Santo» per
far denaro. Il servizio non è esente dalle solite inesattezze.
Nel
febbraio muore a 44 anni di sincope cardiaca, il p. provinciale Pietro da
Ischitella e la provincia perde in lui un prezioso elemento:
«Buono,
assai buono, tanto da amareggiare il suo cuore per non amareggiare quello degli
altri [...]
. In cinque anni di governo ciò che maggiormente gli
causò dispiacere inaudito fu la questione intorno a Padre Pio da
Pietrelcina».
(p. Ignazio da Ielsi, nel suo diario, 24 febbraio
1924).
Come primo consigliere, succede nel governo della provincia p.
Luigi d'Avellino in qualità di vicario. Pesante
eredità!
Nell'aprile dello stesso anno gli viene ordinato di
«allontanarsi dalla provincia per essere sostituito da un forestiero,
acciò possa con meno preconcetto e più energicamente risolvere la
questione di Padre Pio».
Il giovedì santo, 17 aprile, sale
a S. Giovanni Rotondo lo stesso p. Luigi, rassegnato ma dispiaciuto e
mortificato, per comunicare alla fraternità il nome del nuovo superiore
della provincia: p. Bernardo d'Alpicella.
Dai superiori di Roma
«è stato dichiarato che essi non hanno alcun rilievo da fare al
vicario provinciale ed alla provincia, ma che l'ordine di allontanamento
è venuto dall'alto, per motivi che facilmente si suppongono. Da
circostanze e fatti antecedenti è lecito dedurre che il provvedimento sia
stato preso per risolvere la questione del trasferimento di Padre Pio, quasi che
il p. Luigi opponesse ostacoli per scongiurarlo» (p. Luigi
d'Avellino,
Memoriale, novembre 1924).
(1) Cf.
CAMILLERI C.,
Padre Pio da Pietrelcina, Città di Castello 1952,
pp. 86-88.
TRE VISITATORI APOSTOLICI
A S. Giovanni Rotondo in quattro anni
arrivano tre visitatori apostolici per inquisire e sulla comunità
religiosa e sul comportamento di qualche ecclesiastico del clero
diocesano.
La lotta
«sorda ed aperta dei soliti» continua
e i dicasteri romani interessati mandano i loro fiduciari per capirci
qualcosa.
La luce che sprigiona dalle virtù di Padre Pio non
è offuscata dalle nubi con le quali si tenta vanamente di intralciare il
suo cammino e la sua ascensione.
Chi ha la fortuna di avvicinarlo ne resta
«entusiasta» e parte sollevato dalle miserie e dolori deposti
ai suoi piedi.
Coro, chiesa e cella: questa è la vita di Padre
Pio.
Va in coro per le mattinali preghiere; dopo la celebrazione della
santa Messa, vi ritorna per il ringraziamento che dura circa un'ora: indi
si reca, se vi sono persone che attendono, in confessionale; terminate le
confessioni, si ritira in cella a leggere e studiare.
Nel pomeriggio
ritorna con gli altri confratelli al coro per il vespro e vi si trattiene, per
conto suo, circa un'ora in santa meditazione. Se vi è da
confessare, va in chiesa e poi ritorna alla propria stanza:
«Sempre per
lui la stessa vita - continuano le relazioni bimestrali -
lo stesso
lavoro, la stessa ritiratezza. Si può davvero affermare essere egli morto
al mondo!».
Guardiano poco zelante
Il 20 aprile 1924 il guardiano del convento
di S. Giovanni Rotondo, Ignazio da Ielsi, annota nel suo diario:
«Il
p.
Celestino da Desio riceve il mandato di informarsi intorno ad alcune
cose riguardanti la comunità»; ordina a tutti i suoi sudditi di
mettersi a sua completa disposizione e il giorno dopo (21 aprile) è
chiamato a deporre ed a rispondere personalmente
«sul movimento dei
forestieri, per quelli che rimangono in convento, come si trattengono col Padre
Pio, come è quando il Padre Pio dice la Messa, se egli chiede elemosine,
con chi si consiglia. Chi sono le famiglie che più lo stimano, chi si
fosse avvantaggiato economicamente attorno a lui. Come va
l'amministrazione, quanto se n'è avvantaggiata la provincia.
Come la pensano i frati del Padre Pio, se fanno ostruzionismo per non farlo
partire. Per conto mio ho risposto esaurientemente, esibendo
l'amministrazione completa di ciò che è stato mandato a
Padre Pio. Pronto a tutto, ma senza nascondere la responsabilità morale e
penale, cui si può andare incontro per rimuovere Padre
Pio».
Nel pomeriggio dello stesso giorno il padre guardiano
accompagna il visitatore apostolico dal signor sindaco ed ha la non gradita
notizia che il primo cittadino ha querelato l'arcivescovo di Manfredonia
per diffamazione, specie per l'accusa di aver ricevuto somme di denaro da
Padre Pio per difenderlo e che vive alle spalle di Padre Pio.
«È
certissimo, ed io posso deporre - afferma coscienziosamente il padre
guardiano -
che il sindaco Morcaldi non ha mai ricevuto e mai mandato nulla a
nessuno del convento».
Mentre gli altri inquisiscono, litigano e
si querelano, Padre Pio
«con meravigliosa pazienza contenta
tutti», nonostante stia poco bene, debolissimo e l'assedio dei
forestieri, da qualche giorno, sia continuo.
Il p. Celestino da Desio si
recò a S. Giovanni Rotondo in veste di visitatore apostolico anche nel
1922, per far luce su accuse contro i frati, infamati col
«mezzo vile
della calunnia» ano-nima.
Arrivato in convento il 23 luglio, il 29
dello stesso mese stende la relazione, in cui fra l'altro si dice:
«Dalle indagini da me fatte coscienziosamente è risultato che i
detti Padri sono puramente vittime dell'invidia di alcuni malintenzionati,
i quali vedono di mal occhio il molto bene che compiono quei religiosi, e per
paralizzarlo si divertono ad inventare cose totalmente false [...]
. I
religiosi del convento sono tutti, compresi i fratelli laici, persone scelte, il
fior fiore della provincia monastica di S. Angelo, di una condotta e di una
osservanza così regolare, che edifica il visitatore; tra loro vi è
sempre stata perfetta armonia; armonia che si rivela subito a chi ha la fortuna
di passare, non dico alcuni giorni, ma anche poche ore in loro
compagnia».
Il p. Celestino da Desio non è il primo
visitatore apostolico che sale a S. Giovanni Rotondo e non sarà neppure
l'ultimo.
Nel maggio del 1920 arriva monsignor Bonaventura Cerretti,
primo visitatore apostolico, arcivescovo di Corinto e segretario per gli Affari
Ecclesiastici Straordinari e, lieto della visita, prima di lasciare il convento
ringrazia il padre superiore della
«cordiale e veramente francescana
accoglienza, in modo particolare il reverendo Padre Pio», alle cui
preghiere
«vivamente» si raccomanda.
Due mesi dopo
Benedetto XV mandava p. Besi, postulatore generale dei Passionisti, e il suo
medico personale professor Bastianelli e l'incontro con Padre Pio avvenne
il 12 luglio 1920.
Per p. Besi fu
«una visita
giocondissima» e giudica Padre Pio un
«privilegiato da Dio come
la Gemma [cioè S. Gemma Galgani], anzi
più».
Benedetto XV, in seguito alla relazione dei due
illustri personaggi e suoi cari amici, cambiò in certezza
l'opinione e si schierò dalla parte di Padre Pio.
Un anno dopo
(25 ottobre 1921) andò a visitare Padre Pio per inquisire anche il card.
Augusto Sili, prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura e delegato
apostolico del santuario di Pompei, accompagnato da monsignor De Angelis della
stessa delegazione pontificia.
Nel
Registro dei visitatori illustri
del convento (f. 7) leggiamo:
«Ho con molta soddisfazione spirituale
visitato il reverendo Padre Pio nel convento di S. Giovanni Rotondo. Raccomando
alle sue orazioni tutte le mie intenzioni espostegli a voce, e ringrazio il
molto reverendo padre guardiano della cortese ospitalità accordata a me e
al mio compagno di viaggio monsignor Giuseppe De Angelis. 25 ottobre 1921.
Augusto card. Sili».
A S. Giovanni Rotondo si recarono, e
più di una volta, anche i familiari del cardinale, il quale nella sua
visita si procurò una pezzuola del costato di Padre Pio, che poi
distribuì a pezzetti ai devoti.
Qualcuno avanza l'ipotesi che
sia stato proprio il card. Sili, marchigiano (nato a Visso nel 1846) e membro
della Congregazione dei Religiosi, a scegliere le Marche, quando il Santo
Ufficio decise il trasferimento di Padre Pio.
I mesi passano e la
situazione si aggrava. Il padre guardiano viene considerato un disattento
vigilante e svanito esecutore di ordini precisi e tante volte ripetuti ed egli
si rammarica del rammarico dei superiori, promette da parte sua di usare
«maggiore vigilanza in avvenire», ma soltanto su
«tutto
ciò che cade sotto i miei occhi» - risponde al procuratore
generale dei Cappuccini, 13 maggio 1924 - perché
«da che fu
proibito a noi rispondere, una quantità innumerevole di lettere vengono
scritte a privati amici e nemici, i quali rispondono per conto proprio, e senza
neppure interrogare i religiosi. Da tutto ciò può facilmente
comprendersi a quali inconvenienti si va incontro, ma credo di non dovermi
richiamare su ciò responsabile [...]
.
Per ciò
che riguarda le persone che più facilmente ricevono lettere per sapere
del Padre Pio, avviserò e richiamerò a dovere, ma
quest'opera potrei svolgerla solo se vostra paternità potrà
mandarmi le firme delle persone che presenteranno gli scritti o che hanno
scritto, altrimenti non saprei che cosa fare».
In mezzo a tutte
queste miserie Padre Pio continua ad amar Dio ed il prossimo meglio che
può e come lo permettono tutti quelli che lo comandano: in molte pagine
del diario del padre guardiano è cosa ordinaria leggere:
«La
mattina è stata occupata dal padre nelle confessioni; sino alla sera un
via vai di persone che vengono per confessarsi; si rimase in confessionale sino
alle undici in tre e dalle tre e mezzo alle sei e mezzo pomeridiane sempre a
confessare uomini e donne; giovedì santo sulle 800 persone (in quella
chiesetta!...); uomini 350; comunioni 700, tutti comunicati da Padre Pio
celebrante; Padre Pio è sempre pronto a confessare, anche se debole e
indisposto. In tutto il giorno il Padre è occupato a sentire miserie e
dolori di uno e di un altro, e veramente con pazienza ammirevole e da santo,
perché con la sola forza umana non potrebbesi resistere così a
lungo e quotidianamente» (7 giugno 1924).
La domenica di
Pentecoste celebra la Messa quasi alle dieci, canta il
Veni Creator,
secondo la consuetudine, sparge rose sul popolo. Gente che si trattiene da quasi
quindici giorni; all'ultim'ora persone che si licenziano con Padre
Pio per partire l'indomani:
«È commovente - annota il
padre guardiano -
vedere questa gente non sapersi distaccare; piangono e sono
donne anziane, giovani, uomini che un giorno furono del mondo. Vanno via col
corpo, ma si ha tutta l'impressione che lascino il cuore. Gesù le
benedica e le faccia sante queste anime che bene spesso, ricevuta la luce,
temono di allontanarsi per paura di ripiombare nelle tenebre, tornando alle loro
case».
Mentre fra tensioni, attenzioni, vigilanza e richiami i
frati si consolavano nel Signore, a lui chiedendo aiuto per la retta osservanza
di ciò che gli organi competenti comandavano, altri cercavano di
difendere la propria onorabilità, subodorato il pericolo di perderla.
È certo che non vi è aria di quiete - constata il padre guardiano
-,
«continua la campagna più o meno accentuata e non manca di far
capolino qualche calunnia» (15 settembre 1925),
«ma da parte
nostra, non potendo fare nulla perché i superiori così vogliono,
ci affidiamo nelle mani del dolcissimo Gesù» (25 agosto
1925).
Alcuni frati per ordine superiore sono allontanati da S. Giovanni
Rotondo e partono con l'unico rammarico di lasciare Padre Pio, il quale,
sereno sempre, è oltremodo appenato e versa lagrime nel sapere
così mortificati i confratelli, supponendo che ciò avvenga tutto
per colpa sua.
«Non è per colpa sua - commenta amareggiato p.
Ignazio guardiano -
ma buona parte è perché [...]
senza
una difesa, sacrificano uomini e cose» (10 settembre 1925).
Un
secolare protesta che se non sarà dato corso alla giustizia si
servirà di altri mezzi, perché non vuole apparire assolutamente
come calunniatore, mentre ha in mano prove schiaccianti delle accuse fatte. Il
padre guardiano non riesce a dissuaderlo:
«quanto male si può
prevedere, se sui giornali cominciasse una polemica simile, si vede chiaro; ma
ogni nostra esortazione alla pazienza non serve a calmare l'animo
dell'interessato» (10 settembre 1925).
Caro dottore, nelle tue mani
Nel settembre del 1925, trovandosi a S.
Giovanni Rotondo il dottor Festa, Padre Pio gli esprime il desiderio di una
visita, perché da lungo tempo soffriva.
Sottoposto ad un attento
esame, gli fu osservato nella regione inguinale destra una voluminosa ernia,
resa irriducibile da estese aderenze tra il viscere erniato e la parte del sacco
erniario, e gli fu suggerito un intervento operativo, possibilmente
sollecito.
Dopo un breve colloquio col superiore, si decide che
l'atto operativo si sarebbe eseguito al più presto ed in convento,
dopo i necessari preparativi.
Il mattino del 5 ottobre, dopo numerose
confessioni e la celebrazione della Messa, soltanto verso le ore 12 Padre Pio
poté risalire in convento:
«lo vedemmo avanzare con passo
lento - scrive il dottore -
pallido in volto per la fatica sostenuta e
pel dolore fisico che gli procuravano il male e le sue piaghe. Giunto dinanzi a
me disse: "Caro dottore, eccomi nelle tue mani, però non voglio
essere cloroformizzato!"».
A nulla valse l'energica
opposizione del dottore e le riflessioni di carattere tecnico, ma rimase fermo
nel suo proposito assicurando che non si sarebbe mosso durante
l'operazione dalla posizione nella quale l'avrebbe messo e
soggiungendo:
«Ti sapresti astenere, dopo avermi cloroformizzato, dal
visitare le piaghe che già altra volta hai studiato su di me?».
«No, Padre, risposi con lealtà: sarebbe anzi proprio questo il primo
legittimo desiderio che, dopo tanto tempo, mi parrebbe di dover
soddisfare». «Vedi, dunque, quanto ho ragione di rifiutare la narcosi.
A me personalmente nessun divieto è stato fin ad ora impartito di farmi
rivisitare da te o da altri; so però che quest'ordine fu dato ai
miei superiori, ed è mio dovere fare in modo che venga rispettato. Ecco
perché, anche durante l'operazione, intendo rimanere padrone dei
miei atti e della mia volontà».
Nonostante la non breve
durata di un'ora e tre quarti, non uscì dalle labbra di Padre Pio
un lamento. Solo, mentre il dottore eseguiva la resezione del sacco erniario ed
il distacco dalle aderenze che alcune anse del tenue avevano contratto col
peritoneo parietale, in questo punto fortemente congesto ed inspessito, due
grosse lagrime gli scesero dagli occhi giù per le gote, e poi, in un
singulto supremo:
«Gesù - implorò -
perdonatemi se
non so soffrire quanto dovrei!...».
Come era da prevedere, alla
forza d'animo dimostrata nel corso dell'operazione, subentra uno
stato di intenso collasso, durante il quale più volte rimane privo di
sensi ed il dottore, approfittando di uno di quei momenti, riesamina a sua
insaputa le piaghe studiate cinque anni prima e le rivede con gli
«identici caratteri». Per amore di verità ed esattezza
«debbo solo aggiungere che la sottile escara, da cui nel precedente
esame avevo trovato ricoperta la ferita che ha sull'emitorace sinistro,
è ora caduta; di modo che questa appare fresca e vermiglia, in forma di
croce, e con brevi, ma evidenti "radiazioni luminose",
che si
sprigionano dai suoi contorni».
A giustificazione del suo operato,
apertamente contrario alla volontà di Padre Pio, il dottore accampa la
«coscienza di studioso» che imponeva
«il dovere di
regolarmi in modo che, nella continuità organica delle mie ricerche, non
rimanesse quella lacuna che in avvenire non sarebbe stato più così
facile poter riempire» (1).
Dopo breve convalescenza, Padre Pio
riprende la sua attività con maggior lena e senza affaticarsi come in
passato.
Fu in questa occasione che Padre Pio, interrogato dal dottor
Festa, rispose:
«Se mi comandassero di andar via, partirei anche in
mezzo alle baionette».
Eppure era tacciato di
disubbidienza!
La risposta non meravigliò il dottore; però,
parlando con alcuni padri della provincia religiosa di Foggia, capì che
autorevoli personaggi, interrogati sui fatti di Padre Pio, avevano ripetutamente
esclamato:
«Se Padre Pio fosse un buon religioso obbedirebbe,
abbandonando subito S. Giovanni Rotondo».
La situazione
non era così semplice come si voleva far credere: Padre Pio non
partiva, perché i superiori non volevano che partisse!... Sembra un
controsenso, eppure è così: non sono mai riusciti a trovare - i
superiori - il modo ed il momento buono per il trasferimento e perciò
quegli stessi che desideravano insistentemente l'esecuzione degli ordini
dati, di fronte ad una reazione popolare incontrollata si facevano guidare
sempre dalla realtà dei fatti con prudenza.
(1) Cf. FESTA G.,
Misteri di scienza e luci
di Fede. Le stigmate del Padre Pio da Pietrelcina, 2ª ed. 1949 Roma, p.
222 ss.
Un altro visitatore
Dopo l'inchiesta del p. Celestino da
Desio e prima della visita di un nuovo fiduciario della Santa Sede
«un
ardimentoso e intelligente giovane - così si autodefinisce -
che
da cinque anni [scrive nel 1926]
vive a San Giovanni Rotondo»,
spera di farla finita rivelando al Santo Uffizio
«le sozzure»
dei calunniatori, dopo
«una breve e rigorosa
inchiesta».
Il poliziotto dilettante, con una ricca cartella di
documentazioni e lettere autografe dei colpevoli, si presentò a Roma a
domandare giustizia.
Egli scendeva dalla raccolta chiesa montanina pieno di
fede e di ardore e giungendo a Roma e varcando tremante le anticamere dei
porporati egli immaginava e credeva...
La sua disillusione fu
grave.
È il resoconto, in terza persona, dello stesso protagonista
«ardimentoso e intelligente giovane» che corrisponde al nome di
Emanuele Brunatto (2).
In un diario di un anno imprecisato - ma se non
andiamo errati è del 1925 - del giorno 23 giugno inizia la sua prima
peregrinazione romana e annota i suoi incontri e scontri, colloqui, promesse,
suggerimenti, speranze, delusioni e propositi bellicosi. Nella lista dei tanti
personaggi compare anche il nome di don Orione,
«occhi dei santi che
parlano nella loro calma dolcezza e dicono cose
infinite».
Tornando a S. Giovanni Rotondo, ha la brutta sorpresa
che gl'incriminati già conoscono le accuse contro di loro,
perché in possesso dei dossiers presentati a Roma e quindi agiscono di
conseguenza, difendendosi come possono e con mezzi calunniosi; e si parla di
nuovo di un trasferimento di Padre Pio.
Riparte per Roma per seguire
più da vicino gli avvenimenti e avendo incontrato ancora più
resistenza e difficoltà di prima, decide di compendiare in un libro le
sue inchieste a S. Giovanni Rotondo, pensando che lo choc salutare avrebbe
provocato una decisione.
L'editore romano Berlutti accetta
l'offerta e nel 1926 il libro vien messo in vendita, esaurito in pochi
giorni. Alla proposta dell'editore di una seconda edizione, l'autore
si oppose, perché il Santo Uffizio tre giorni dopo la comparsa del libro
lo aveva condannato.
Così stavano le cose, quando un giorno fu
invitato da monsignor Felice Bevilacqua del vicariato di Roma a fornirgli alcune
spiegazioni sui dossiers presentati al cardinal Pompili, che richiesero
più di un incontro. Alla fine gli rivelò, sotto il sigillo del
segreto, ch'egli era stato nominato visitatore apostolico a S. Giovanni
Rotondo, precisando che il mandato non riguardava Padre Pio.
E propose al
Brunatto di accompagnarlo durante la visita come coadiutore privato, avendo
evidentemente ricevuto ordini di poter derogare alla regola delle inchieste
canoniche.
L'esito della visita fu pesante e i provvedimenti
severi.
Il padre provinciale, sollevato e soddisfatto, informa il padre
generale che il risultato della visita è buono e spera che sia
«l'inizio della fine».
Speranza vana!
Dalle
relazioni bimestrali del 1927 e 1928 che il padre provinciale deve mandare a
Roma, stralciamo qualche brano per far sapere il comportamento di Padre Pio in
un ambiente così saturo di miseria umana.
Mena sempre
«la
stessa vita», svolge sempre
«lo stesso lavoro»,
osserva sempre
«la stessa ritiratezza»; scende soltanto per
celebrare e confessare; nessuna singolarità o speciale riguardo viene
usato dai confratelli:
«in tutto e per tutto come gli altri»,
secondo il tante volte ripetuto comando.
«A volte celebra la
conventuale, ma più spesso questa viene celebrata da altri e allora egli
celebra - durante la stessa - a un altarino. Il preparamento e ringraziamento
alla Messa ha l'ordine - da tempo - di farlo sempre in coro e non in
sacrestia e ciò per evitare che la gente che sta in chiesa si avvicini a
lui. Detto ringraziamento lo fa durare un'ora e più. Così
dopo l'ufficio divino continua a stare in meditazione circa un'ora.
E tutte le sere, dopo l'orazione in comune, egli resta a pregare, meglio a
meditare ancora un'ora incirca.
La Messa ho potuto constatare
che la celebra con vera devozione e grande raccoglimento. Vi impiega,
ordinariamente, da 25 a 35 minuti. Il resto del tempo lo passa parte in
confessionale e parte in cella a leggere libri di morale, di ascetica,
ecc.
Tale - su per giù - è la sua vita
quotidiana».
(2) Cf. DE ROSSI G.,
Padre Pio da Pietrelcina, Roma 1926, p.
117.
E un altro ancora
Intorbidate di nuovo le acque, il Vaticano
nomina un altro visitatore apostolico nella persona di monsignor Bruno, che
verso la fine del mese di maggio 1928 si reca a S. Giovanni Rotondo per un
ennesimo accertamento della veridicità dei fatti.
Lo stuolo degli
amici e dei nemici è sempre attivo. Il cappuccino p. Ilarino Felder
scrive da Friburgo che un giornale socialista ha fatto sapere al pubblico che
«
il ben noto Padre Pio» è stato
«accusato,
incarcerato e condannato per delitti contro la moralità» e per
sfatare tale calunnia vorrebbe notizie esatte.
Il padre provinciale
può affermare che la maggioranza del paese, che è poi
«la
più buona, morigerata e seria», continua ad amare e stimare
grandemente Padre Pio, che prega
«moltissimo» e celebrando
«edifica grandemente per la compostezza, raccoglimento e devozione che
mostra dal tutto l'insieme, specie dal volto e nel compiere le varie
cerimonie».
Non è molto, dicevami un celebre avvocato:
«Solo nel vedere celebrare il Padre Pio, ho compreso come il sacerdote sia
veramente l'intermediario tra Dio e il popolo. Mai lo avevo compreso
prima!».
Il 1928 si chiude con la consolante conversione del
dottor Francesco Ricciardi che, vissuto sempre da ateo, gravemente malato e in
fin di vita, esprimeva il vivo desiderio di voler ricevere i sacramenti soltanto
da Padre Pio, avendo rifiutato ripetute volte qualunque altro
sacerdote.
Conoscete Padre Pio?
Verso l'imbrunire di un giorno di
aprile del 1919, due persone scendevano dal convento dei Cappuccini di S.
Giovanni Rotondo e tre salivano, portando ciascuna un canestro di vimini,
perché avevano saputo che Padre Pio aveva ricevuto
«le
piaghe» - com'esse dicevano - e, impressionate, pensando che
fossero piaghe malefiche, corsero a visitarlo.
All'imbocco della
mulattiera che conduce al convento i tre forestieri domandano alle due paesane
se conoscono Padre Pio:
«Sì - rispondono - proprio ora
l'abbiamo lasciato in corridoio e ci abbiamo parlato».
«Sicché non sta a letto malato? Noi siamo la famiglia di Padre Pio:
padre, madre e io cognata e veniamo per vederlo».
Liete di quel
felice incontro, le due paesane tornarono indietro ed accompagnarono i tre
forestieri al convento.
L'incontro tra genitori e figlio fu cordiale
e rassicurante, perché lo videro in piedi, sano e gioviale.
La madre
venne a trovare il figlio anche qualche altra volta. In una di queste visite si
trattenne quarantaquattro giorni, perché una nipotina che condusse con
sé, la ottenne Giuseppina, aveva bisogno di aria di montagna.
Il 5
dicembre 1928 la signorina Maria Pyle, benefattrice insigne dei Cappuccini, dopo
una breve permanenza a Pietrelcina, torna a S. Giovanni Rotondo, conducendo a
casa sua, vicinissima al convento, mamma Peppa per farle passare il Natale
accanto al figlio. Giunte in tempo per incontrare Padre Pio sul piazzale della
chiesetta: incontri che ripeterono nei giorni seguenti nella
sagrestia.
Malgrado la neve, il freddo rigido e il vento tagliente mamma
Giuseppa saliva sempre la ripida strada per le sue devozioni e per salutare il
figlio.
«L'ultima sera che la vidi in chiesa, mi disse:
"Padre guardiano, vogliate bene a mio figlio Padre
Pio"».
Era una donna tanto buona e semplice, come tutte le
nostre mamme contadine ed amava il figlio di un amore più che materno
«Zia Peppa, state tranquilla - la rassicurò il padre
guardiano, ch'era Raffaele da S. Elia a Pianisi -
non temete di nulla;
intanto fate attenzione che c'è molto freddo».
Si era
presentata a S. Giovanni Rotondo in abito dimesso e leggero per la stagione
invernale e nessuno aveva potuto indurla a presentarsi a suo figlio con un buon
vestito di lana, che alcune amiche le avevano regalato al suo arrivo per
difenderla dai rigori del freddo, perché
«l'umile contadina
temeva di sembrare una signora».
La notte di Natale si recò
in chiesa, piena come un uovo, e seduta tra l'altare dell'Immacolata
ed il confessionale di Padre Pio, assistette alla Messa e baciò il
Bambinello Gesù che le porse il figlio. Scesa a casa, si mise a letto e
dopo tre giorni il medico diagnosticò una polmonite doppia.
Padre
Pio, ch'era tutto per la mamma, più volte andò a trovarla,
accompagnato dal padre guardiano che ogni mattina portava all'inferma la
santa comunione.
Stette al suo capezzale sino all'ultimo; tra la
commozione di tutti, le amministrò gli ultimi sacramenti e quando vide
ch'era per spirare, non ne poté più, la baciò in
fronte, diede un forte singulto e svenne. Mamma Peppa tornò al Creatore
alle 6,15 del 3 gennaio 1929.
Adagiato su un lettuccio di una stanza
attigua Padre Pio sfogava il suo dolore in un mare di lagrime. Una testimone
oculare ci fa sapere che
«era un pianto straordinario e straziante il
suo; inzuppava di lagrime un cumulo di fazzoletti e faceva piangere anche i
presenti col suo lamento doloroso e con la viva espressione di "Mamma mia
bella!... Mammella mia!..."».
Qualcuno per confortarlo gli
disse:
«Ma caro Padre, lei stesso ci ha insegnato che il dolore non deve
essere che una espressione dell'amore, che noi dobbiamo offrirlo a Dio.
Perché dunque lei piange così?». Ed egli - fattosi
improvvisamente grave - rispose:
«Ma questo è appunto: lacrime di
amore e niente altro che di amore».
Vestita da terziaria
francescana, mamma Peppa restò in casa di Maria Pyle sino alle 4,30
pomeridiane, visitata da una folla immensa. Portata nella chiesa del convento,
la mattina del 4 si svolsero i funerali imponentissimi: sebbene conosciuta
appena da qualche persona, tutto il paese vi prese parte ed anche molti
forestieri. L'attestato di sincero rimpianto reso all'estinta -
povera contadina e forestiera - fu oltremodo commovente per la
spontaneità corale.
Dopo la morte, anche i vivi vorrebbero
movimentare la solita vita di ogni giorno, che si mena al convento.
Verso
la metà di aprile l'Ispettore del Ministero degl'Interni sale
a S. Giovanni Rotondo, in compagnia del Questore di Foggia. Si afferma
che
era andato a rendersi conto se era possibile la rimozione di Padre Pio,
interrogando a riguardo il Commissario prefettizio, il Pretore e il
Maresciallo.
Si porta in convento, parlando brevemente con Padre Pio che
già conosceva e questo, naturalmente, provocò allarme in paese e
qualche protesta; e per maggior sicurezza si intensifica la vigilanza notturna
al convento.
Notizia vera, confermata dal padre
guardiano.
L'Ispettore aveva incontrato Padre Pio in giardino e la
prima domanda che gli rivolse fu:
«Padre, mi conoscete? Sono stato qui
cinque anni fa per raccomandare una sorella inferma. Poi ha soggiunto -
è il padre guardiano che racconta -
se a S. Giovanni gli vogliono bene
e se, in caso di una rimozione, si ripetesse la scena di quando lo volevano a
qualunque costo o vivo o morto...».
Padre Pio risponde umilmente
che lo stare o partire da S. Giovanni non dipende dalla sua
volontà.
Prima di salire in convento, l'Ispettore si era
già recato al municipio ed aveva interrogato il Commissario, il Pretore
ed il Maresciallo, per conoscere le intenzioni del popolo e le conseguenze di un
trasferimento.
Il fatto si diffonde rapidamente in paese e tutti domandano
e minacciano; e molti salgono al convento per sapere.
Una cosa poco seria
Il cappuccino monsignor Cornelio Sebastiano
Cuccarollo, vescovo di Bovino, ai primi di maggio del 1925 in fortuiti incontri
udiva cose poco serie sulla persona di Padre Pio e per sfatarle si muniva di
testimonianze giurate.
Discutendo sulle recenti disposizioni del Santo
Uffizio circa Padre Pio, un illustre personaggio uscì a dire:
«Immaginatevi che Padre Pio fu sorpreso nella sua cella a darsi
cosmetici e simili unguenti che vi tiene seco; da ciò si può
pensare ad una cosa poco seria. L'anno scorso un commissario di Pubblica
Sicurezza mi dichiarava che negli anni passati fu mandato a S. Giovanni Rotondo
per una inchiesta all'insaputa del paese. Egli si recò anche in
convento, volle entrare nella cella di Padre Pio mentre questi era in chiesa, e
sentendovi la fragranza di cui aveva udito parlare, curiosò negli angoli
e sotto il letto quali aromi e boccette di essenze vi stessero nascoste: con sua
sorpresa trovò una bottiglia che conteneva o aveva contenuto acido
solforico».
Il 10 giugno monsignor Cuccarollo, trattenendosi
alcune ore nel convento dei Cappuccini di Foggia, pregò il p. Agostino da
S. Marco in Lamis, teste auricolare, a voler mettere in iscritto con tutta
oggettività, l'incontro di Padre Pio e di colui che aveva affermato
di averlo sorpreso in quell'operazione poco seria.
E p. Agostino
attesta,
«confermando tutto con la santità del
giuramento», che chi aveva giurato
«di aver visto coi miei
occhi Padre Pio incipriarsi nella sua stanza, quando fui a S. Giovanni
Rotondo [...]
e il Padre rimase male nell'essere colto in
flagrante, tanto che poi si vergognò di presentarsi il dopo pranzo a
ricreazione», era uno spergiuro, perché non era mai entrato
nella stanza di Padre Pio.
A tutto è avvezzo un cappuccino, ci
ricorda il Manzoni.
Una gemma di vescovo scrive al padre superiore di S.
Giovanni Rotondo:
«Il 13 del prossimo mese di ottobre [1929] farà
un anno da che ebbi la consolazione di passare due giorni in cotesta santa casa
ed in compagnia del venerato e carissimo Padre Pio. Perciò ho voluto
scrivere a Vostra paternità per salutar tutti e con affetto e per
pregarla di dire al Padre Pio che la mia coscienza non mi accusa di peccato
grave, che preghi per me e che se egli vede che sono in inganno dinanzi a Dio,
sono reo di colpa grave, me lo faccia sapere per carità per fare i miei
conti. Di più che se vede che per la salvezza della mia anima è
necessario lasciare la diocesi che me lo dica e subito lo
farò».
Un ottimo parroco, per l'antica, santa
amicizia che lo lega al Padre Pio, si raccomanda di pregare per lui e di
accompagnarlo in ispirito:
«Sono molto depresso - gli confida -
fisicamente e moralmente e sogno e sospiro il momento di fare una scappata a
S. Giovanni per rinfrancarmi nell'anima».
Un direttore
spirituale di un seminario si sente ispirato di pregare in modo particolare per
Padre Pio,
«affinché il Dator d'ogni bene le conceda grazia
copiosa e gagliardia robusta a perseverare costante sino alla fine sulla via
regia della santa Croce. E procuro di farlo ogni giorno, soprattutto nella
celebrazione della santa Messa, fermamente risoluto di continuare finché
sia per bastarmi la vita. Oggi poi mi sento ispirato di raccomandare me alle
preghiere di vostra riverenza, e perché mi sia dato di compiere meno male
il mio importantissimo ufficio, e perché giunga a conseguire di
presentarmi al giudizio con benissima lucrata indulgenza del beato Cafasso.
Preghi in tal senso, caro Padre, e non avrà fatto in sua vita atto
più fiorito di carità».
Un allievo ufficiale della
Regia Accademia di Modena, trovandosi in difficoltà spirituali,
anch'egli si rivolge alla
«santa
creatura»:
«Varie volte nella mia giovane vita ho avuto
bisogno di assistenza spirituale, tante volte ho avuto bisogno di chi mi
raccomandasse al Signore nostro misericordioso. Parecchie di queste io mi sono
ricordato che, molto lontano, sopra una collina verdeggiante in purità di
spirito, una santa creatura, sensibile a tutte le miserie umane, prega il Padre,
intercede per i poveri derelitti del mondo. E, ricordando, ho scritto un
biglietto, implorato una preghiera. Eccomi nuovamente assoggettato ad una dura
prova, soggetto ad una disciplina inflessibile, ad una educazione guerriera. Io
sento di non poter impugnare la spada senza portare incisi nell'anima i
segni della Croce. Sento che non potrò vincere senza la forza che
dà il Signore a coloro che l'invocano, che non potrò
perseverare se Dio non mi darà la sua santa
grazia.
M'indirizzo a diventare ufficiale e dovrò a suo
tempo educare, giudicare, dirigere. Prometto a Dio la più completa
dedizione alla bontà e alla giustizia, ma la prego, padre buono, di
rivolgere al Signore una parola, perché scacciasse dall'anima mia
l'angoscia nera presente e mi mettesse nel cuore una santa letizia per ben
operare.
Le serberò un grato ricordo e, come potrà
pregare una povera, giovane creatura piena di mille difetti, così io
pregherò Dio che le concedesse tante nuove grazie, tante benedizioni e
che la conservasse ancora a tutti coloro che cercano la pace per intercessione
delle sue preghiere.
Le bacio la mano con affetto
filiale».
Le anime bisognose di aiuto spirituale si rivolgevano
fiduciose alla
«santa creatura», pur sapendo di non ricevere
neppur un rigo di risposta; ma erano certe, però, che Padre Pio pregava
per esse:
«lui nulla vede ed a nessuno risponde», assicura alle
autorità romane il padre provinciale.
Al termine del 1929 monsignor
Pasquale Gagliardi è sollevato dal peso della diocesi di Manfredonia e
nominato arcivescovo titolare.
Il 2 dicembre dello stesso 1929 sale a S.
Giovanni Rotondo l'amministratore apostolico monsignor Macchi ed il giorno
dopo si reca anche in convento, accompagnato dall'arciprete, afferma il
padre guardiano del tempo.
L'amministratore apostolico si trattenne
quasi un'ora nella stanza del superiore. Il colloquio fu vivace, animato e
risoluto, ma sempre entro i limiti del rispetto all'autorità. Il
padre superiore sottolineò con forza le gravi conseguenze della immediata
esecuzione di un ordine che prevedeva la partenza di Padre Pio nelle ore del
mattino successivo insieme all'amministratore apostolico.
Il padre
guardiano doveva evitare i pericoli a cui il convento, vigilato di giorno e di
notte dai Sangiovannesi, andava incontro e doveva
«a qualunque costo
rispettare la consegna affidatagli dai superiori maggiori», che
suggerivano prudenza massima per il trasferimento di Padre Pio.
Uscito
dalla stanza del padre guardiano, l'amministratore si portò da
Padre Pio, trattenendosi soltanto per pochi minuti. Al superiore disse che
monsignore
«si era confessato e non altro». Parlava pochissimo
Padre Pio, ma soffriva tanto sia
«moralmente che fisicamente -
afferma il padre guardiano -
per cui nel novembre guardò il letto per
alcuni giorni con febbri reumatiche, ed il termometro salì a 44°; ed
anche 46°;. È bene notare che Padre Pio usava sempre il termometro da
bagno e non quello ordinario. In simili attacchi febbrili egli scottava come un
fuoco».
L'anno nuovo non si presenta migliore di
quello passato: soldi e calunnie!...
Persona degna di fede riferiva al
padre provinciale che a Roma fu detto e scritto, che una certa signorina di nome
Maria Pyle, residente a S. Giovanni Rotondo, scriveva lettere,
«spacciando grazie e miracoli del Padre Pio», allo scopo di far
danari per i frati.
«Ero sicuro - scrive il padre provinciale -
che si trattava di una delle solite calunnie, ma trovandomi sul posto, volli
interrogare al riguardo più persone, non esclusa la stessa signorina,
persona molto seria e incapace di scendere così in basso... e potei
constatare che non mi sbagliavo, così pensando. Sì, sono sempre le
solite calunnie che escono dalla bocca o dalla penna dei soliti
calunniatori».
È uno squarcio della relazione
bimestrale del 4 marzo 1930. Sfogliando le altre vi troviamo non soltanto
chiarificazioni, smentite a calunnie, assicurazioni di vigilanza e piena
sottomissione ad ordini emanati, ma anche l'elogio più eloquente
alla vita di Padre Pio: l'albero buono produce frutti buoni.
Si
può dire - apprendiamo dalle su nominate relazioni - che il Padre passi
quasi tutta la giornata in continua orazione, specie mentale; nel pomeriggio,
recitato il vespro assieme agli altri confratelli e fatta un'ora di
meditazione, si reca in chiesa a confessare; la sera permane in coro fino a
tarda ora; sempre è da tutti ammirata la sua attenzione, devozione e
raccoglimento, quando celebra; il preparamento e ringraziamento lo fa sempre in
coro e quest'ultimo dura un'ora e più.
Le vere
conversioni di anime non sono rare e chi ebbe lì la grazia di ritornare
alla fede, scrive:
«È bastato che io mi accostassi a lui,
perché io mi accostassi a Dio. Sono felice, divinamente felice.
Più volte mi chiedo se sono vittima di una allucinazione, se sono sano di
mente, come lo sono di corpo, tanto strano mi sembra ciò che è
avvenuto in me. Io l'ateo, io il massone, io il gaudente impenitente e
insoddisfatto sempre, sono totalmente cambiato». «Io lo penso
sempre - dice un altro convertito di fresco -
e sempre lo considero
presente e questo è per me un gran bene, perché mi tiene sempre -
quanto è più possibile - nella retta via. Persisto nelle pratiche
religiose che mi fanno tanto bene».
Un venerando prelato con
ammirabile semplicità e candidezza gli apre, con parola scritta,
l'interno della propria coscienza e termina con queste parole:
«Mio venerando Padre, voglio fare in tutto la volontà di Dio e
piacere soltanto a Dio».
Un massone, da poco convertito:
«Mio adorato Padre - scrive -
credo che abbia il diritto di
chiamarla così, perché per mezzo suo io rinacqui a nuova vita,
rinacqui alla vera vita e conseguentemente mi devo considerare un suo figlio,
figlio spirituale. Stamane mi sono di nuovo confessato e comunicato. Mi sento
tranquillo».
IL SEGREGATO
La Messa di Padre Pio: meraviglioso
spettacolo di fede e di devozione!
«Nessuno di noi - attesta un
signore salito al convento per mettere in pace la sua coscienza -
nessuno di
noi fiatava; non si udiva il solito stropiccio dei piedi, né il rumore di
sedie mosse. Tutti avevano l'animo sospeso. Chi lo ha visto una volta
celebrare non lo dimentica più - aggiunge il padre provinciale - tale
è l'impressione che se ne riceve» (Relazioni bimestrali,
20 gennaio 1931).
E da questa fonte inesauribile Padre Pio attinge tutta la
forza di amore a Dio ed al prossimo, il coraggio e la rassegnazione per le prove
continue, pesanti, amare.
La sua giornata continua a passarla pregando,
leggendo e confessando, sia al mattino che al pomeriggio, le persone che lo
attendono. Spesso sono forestieri che vengono da lontano e solo
«per
confessarsi. E il Padre con tutta pazienza ascolta le loro confessioni e li
rimanda - ordinariamente - contenti e soddisfatti, perché lì
trovano la pace che da tempo avevano perduto. Anche le comunioni che ivi si
fanno, generalmente sono fatte con sentita devozione. «Affermo- diceva
giorni fa un distinto signore
- che dopo la mia prima comunione, quella di
stamane è stata la comunione più vera che abbia
fatto»» (ivi).
Quando gli fu proibita ogni attività
ministeriale, Padre Pio restò fiducioso e sereno in Dio; ma con
questo parlare non vogliamo ingenerare idee sbagliate: egli non era un
insensibile come una tegola su cui l'acqua piovana scivola e non penetra,
perché vedeva, comprendeva quel che succedeva intorno a lui e per lui -
anche se non per colpa sua - e si mortificava, soffriva moralmente e
fisicamente.
La disavventura di un povero frate
Il 31 marzo 1931 - quel che racconteremo lo
stralciamo da testimonianze scritte del guardiano del tempo e del malcapitato
frate minore - il superiore del convento sa dal provinciale che a S. Giovanni
Rotondo sarà mandato da Roma come guardiano un cappuccino della provincia
di Milano.
Tutto in segreto - commenta p. Raffaele da S. Elia a Pianisi,
guardiano - eppure la notizia già era a conoscenza di alcuni secolari del
paese e qualche giorno dopo era sulla bocca di tutti ed il podestà,
salito in convento per gli auguri pasquali (4 aprile), ne parla apertamente con
il superiore, che smentisce; ma il primo cittadino del paese ribatte chiaro e
tondo:
«Padre guardiano, voi non potete parlare, perché avete il
segreto, ma io non ho segreti: debbo parlare ed è mio dovere difendere il
nostro Padre Pio».
Il creduto dovere fu esercitato immediatamente
a spese di un sacerdote, capitato a S. Giovanni Rotondo in circostanze poco
propizie ed il fatto potrebbe portare per titolo: la disavventura di un povero
frate minore...
«Nella notte 6-7 aprile - racconta il frate
minore malcapitato p. Eugenio M. Tignola -
mentre dormivo nel convento dei
padri cappuccini di S. Giovanni Rotondo, venne una turba di popolo reclamando
che fossi mandato via a quell'ora. Il padre guardiano e Padre Pio fecero
di tutto per calmare quel popolo, per un'ora e mezza, fino a che venne il
podestà con i carabinieri e si calmarono ed andarono
via».
Il popolo era salito armato fino ai denti per sorvegliare il
convento e proteggere Padre Pio, pretendendo a tutti i costi che il guardiano
avesse consegnato loro quel forestiero per ricondurlo a Foggia; ma
l'ospite è sacro e non cedette alle pressioni.
Risultato vano
ogni tentativo, ad ora tarda, verso mezzanotte, trasformando in ariete un palo
di luce ch'era sul piazzale, forzarono il portone del convento ed
irruppero nel chiostro: potevano essere un centinaio di uomini, con altrettanti
ragazzi e le solite
«beate».
Dice il padre guardiano:
«Ero in coro, quando m'accorsi ch'erano penetrati nel
chiostro. Subito scesi giù, risoluto e con voce imperiosa comandai a
tutti di uscire dal convento. Fu un azzardo che feci, perché tutti erano
armati; ma andò bene...».
Usciti dal chiostro, promise loro
che sarebbe andato a chiamare Padre Pio e così si calmarono un poco.
Padre Pio era in cella, con lui andò anche il frate minore più
morto che vivo. Si affacciò alla finestra della prima stanza vicino al
coro per calmare la popolazione, assicurando che il padre venuto era un povero
forestiero e che, di ritorno dalla predicazione quaresimale, era salito a far
visita ai confratelli.
I protestatari diffidavano; le parole erano
suggerite a Padre Pio - dicevano - dal superiore. Intervennero il
podestà, il maresciallo dei carabinieri e qualche maggiorente del paese;
dopo aver parlato con Padre Pio, a poco a poco tornarono alle loro case,
organizzando, però, per tutta la notte un servizio di vigilanza attorno
al convento.
«Non so come si potrà andare avanti di questo
passo - conclude la lettera-rapporto del 7 aprile 1931 del padre guardiano
al provinciale -
e con persone capaci di tutto... Forse l'unica cosa
sarebbe di scappare tutti...».
Meno male che la fuga non è
stata effettuata!
Una pattuglia volontaria
Appena ricevuta la lettera del padre
guardiano, il provinciale scrive lo stesso giorno al generale, raccontando
l'accaduto, suggerendo
«assicurazione - da parte di lui -
che lassù non si recherà nessun religioso forestiero per
restarvi», per tranquillizzare e calmare la popolazione oltremodo
minacciosa ed evitare così fatti di sangue.
Intanto il superiore del
convento, in nome di tutta la religiosa famiglia, il 10 aprile 1931 protestava
altamente e denunziava alle autorità competenti, per via legale,
«l'ostile dimostrazione da parte di malintenzionati»
contro il convento
«con lancio di sassi alle finestre, forzamento di
porta d'ingresso e violazione di domicilio».
Tutto, poi, si
accomodò pacificamente
«per non rovinare tanta gente»,
con la promessa rassicurante che non si sarebbero verificati più simili
inconvenienti, ritirando la protesta e dichiarando al funzionario di pubblica
sicurezza di non intendere
«assolutamente procedere contro coloro che
presero parte alla dimostrazione di affetto verso il Padre Pio, benché vi
sia stato qualche deplorevole eccesso».
Il padre generale da Roma
(11 aprile 1931), venuto a conoscenza dell'increscioso incidente, vuol
sapere con urgenza il parere del prefetto di Foggia e che cosa suggerì
durante il colloquio col provinciale e quale è il di lui atteggiamento
nei riguardi del
«caso Padre Pio».
Il prefetto di Foggia -
risponde il padre provinciale (12 aprile 1931) -
«mi chiese subito se vi
era qualche ordine a riguardo del Padre Pio. Risposi di no, aggiungendo che
trattavasi solo di cambiare l'attuale superiore, essendo ormai al termine
del triennio. E ciò a norma delle nostre regole. Il prefetto
«desidererebbe il detto Padre si lasciasse in pace... e non si turbasse per
nulla l'ordine pubblico». Credo bene avvertirla che a S. Giovanni
Rotondo vi è attualmente una pattuglia volontaria che sorveglia, a turno,
il convento. L'ultima sollevazione superò le precedenti [...].
Dio voglia che non succeda nessun fatto di sangue! Certo che lì adesso
di tutto si teme, di tutto si sospetta. È necessaria, perciò, la
massima prudenza. Stando così le cose, sarà d'uopo - per
evitare gravi incidenti - nominare a superiore del detto convento un religioso
della provincia. Tale è il mio parere».
Dà un
giudizio positivo sulla provincia religiosa, che
«può fare
benissimo da sé» e prega
«in visceribus
Christi» a non voler contare più sulla sua persona. Preghiera
non esaudita.
E per allora non se ne fece nulla neppure per il guardiano
forestiero, dopo informazioni ampie, riservate e sollecite sulla situazione, sui
motivi di tale atteggiamento e sugl'inconvenienti reali che sarebbero
potuti nascere da una tale decisione.
«Gl'inconvenienti che
potrebbero derivare
dalla presenza di un guardiano d'altra
provincia in questo convento potrebbero essere seri e gravi - risponde il
guardiano del convento al generale (18 aprile 1931) -.
Il popolo che
già da tempo non ha nessuna fiducia in noi, tanto meno l'avrebbe
per un guardiano d'altra provincia, cosicché il minimo che potrebbe
accadere, sarebbe che le autorità del luogo, per ragioni di ordine
pubblico, si recassero in convento per invitare il nuovo superiore a salire in
macchina e ad uscire da S. Giovanni Rotondo per non più tornarvi. E
ciò lo desumiamo dalle insistenze continue da parte delle autorità
locali per avere schiarimenti e assicurazioni su qualunque religioso o
ecclesiastico che casualmente arrivi in convento e dagli ultimi fatti avvenuti.
Il convento ora è vigilato continuamente».
Le previsioni
del padre provinciale, documenti alla mano, sono ancora più pesanti e
tinte di rosso, nella risposta al padre generale:
«È bene non
pensare più a sistemare - com'è stato previsto - il convento
di S. Giovanni Rotondo; ché i soliti sobillatori o organizzatori -
sebbene quasi tutti identificati e ammoniti dal funzionario locale di Pubblica
Sicurezza - sono pur sempre lì pronti ad agire - scrive il 10 maggio
1931-.
Un superiore forestiero vi potrebbe solo accedere attualmente se
accompagnato dalla forza [...].
Lassù [cioè a S. Giovanni
Rotondo] vi sono persone disposte a tutto. In data 14 aprile u.s. un
sangiovannese, lamentandosi della protesta e della denunzia dal suddetto
superiore fatta, scrivevami: "La cittadinanza non ha bisogno, per
insorgere di un sol cuore, di sobillatori, per difendere 'anche a mano
armata' il Padre che ci è più caro della nostra medesima
vita". E ancora: 'Il popolo sangiovannese lo difenderà
'a tutto sangue'. E di tanto son davvero
capaci"».
Il grave provvedimento
La sera del 9 giugno 1931 al padre
guardiano di S. Giovanni Rotondo arriva da Roma una lettera in cui si
suggerisce,
«se fa bisogno», di convincere Padre Pio che
«si sottoponga docilmente al grave provvedimento, e faccia opera, per
quanto è da lui, di persuadere anche altri che ne avessero
bisogno».
Padre Pio, grazie a Dio, non ha avuto mai bisogno di
esortazione ad obbedire: ha osservato qualunque ordine sempre prontamente e
docilmente.
Il
«grave provvedimento» (23 maggio 1931)
è del seguente tenore: Padre Pio viene privato di tutte le facoltà
di ministero, eccetto la santa Messa che potrà celebrare non in chiesa ma
privatamente nella cappella interna del convento, senza la partecipazione di
alcuno.
«Letto il decreto - attingiamo dal manoscritto del
padre guardiano -
fui preso da un senso di scoraggiamento e di avvilimento.
Che fare? Non potevo parlarne con nessuno. La mattina del 10 scendo a Foggia dal
provinciale, ma nulla da fare: tutto doveva essere eseguito per non figurare dei
ribelli... e così tornai a S. Giovanni Rotondo.
Dovevo
assolutamente comunicare il decreto a Padre Pio, decreto che feci noto prima ai
padri della comunità religiosa.
Mi feci coraggio e, dopo il
vespro, mentre Padre Pio, come al solito, si tratteneva in coro a pregare, lo
chiamai nel salottino ove subito venne, e gli comunicai il decreto del S.
Uffizio che gli proibiva di celebrare in pubblico e di ascoltare le confessioni
sia dei fedeli che dei religiosi. Egli, alzando gli occhi al cielo, disse:
«Sia fatta la volontà di Dio!». Poi si coprì gli occhi
con le mani, chinò il capo e più non fiatò. Cercai di
confortarlo, ma il conforto egli lo trovò solo in Gesù pendente
dalla croce, perché poco dopo tornò in coro e vi restò fino
alla mezzanotte ed oltre.
In seguito Padre Pio non fece neppure la
minima lagnanza durante i due anni della dura prova; sempre, come a solito,
docile umile e paziente con tutti. Quelli poi che cercavano in qualche modo di
confortarlo, mai sentirono un lamento o un minimo accenno contro
l'autorità; per lui era la volontà di Dio».
La
mattina dell'11 giugno Padre Pio celebra nella cappellina del convento con
il solo inserviente, restando sull'altare per oltre tre ore; e così
quasi tutte le mattine.
La sua più grande mortificazione fu la
proibizione di strappare anime a satana e ricondurle pentite a Dio, di non poter
più guidare quelle che già si erano distaccate dal peccato e che
si erano affidate alle sue cure spirituali.
La notizia del «grave
provvedimento» si sparse in un baleno, non soltanto in chiesa e in paese,
ma anche in regioni lontane; numerosi furono i telegrammi e le lettere di
dispiacere e di conforto di tante anime che a lui si univano nella
preghiera.
In paese le autorità locali si preoccuparono
dell'ordine pubblico, rafforzarono la vigilanza intorno al convento
chiedendo rincalzi anche alle stazioni vicine per fronteggiare possibili
sommosse. Il podestà consigliava calma e fiducia nei buoni uffici delle
autorità responsabili; l'arma dei carabinieri, tempestivamente e
con buone maniere, riuscì a dissuadere la sera del primo giorno (11
giugno) quelli che si erano recati al convento con l'intenzione di
inscenare una dimostrazione di protesta.
Ma non per questo la tempesta era
scongiurata; il malumore del popolo anzi cresce sempre più e, se calma
c'è, è perché si spera in una revoca del
provvedimento con mezzi pacifici, mediante l'interessamento delle
autorità civili,
«ma in progresso di tempo - si domanda il
padre guardiano -
svanita questa speranza, non saprei dire come andranno a
finire le cose». E nella stessa lettera inviata al padre generale il 17
giugno 1931, fra le tante istruzioni chieste di fronte a casi che si potrebbero
presentare, c'è anche questo:
«Inoltre espongo ancora un
dubbio, a cui prego di voler rispondere con paterna sollecitudine. In caso che
il popolo prenda il Padre Pio a viva forza e lo porti in chiesa, pretendendo che
dica la Messa pubblicamente, può il Padre Pio in coscienza celebrare, e
posso permetterlo? In caso negativo, chi ne assumerà le
responsabilità di possibili conseguenze, se la forza pubblica non
riuscirà a contenere il furore del popolo?».
A questo
interrogativo non fu data risposta scritta - per quanto è a nostra
conoscenza - ma vi fu una chiamata a Roma il 22 luglio e
«con massima
segretezza», ed invece
«quando fui là - dice il
padre guardiano -
già vi erano alcuni che sapevano della mia chiamata;
altro che segreto!...».
Si desiderava sapere la reale situazione
di S. Giovanni Rotondo, perché si voleva ancora tentare di mandare il
superiore forestiero, che provvisoriamente si era portato a respirar aria
montanina a Frascati. Il tanto desiderato insediamento non
avvenne.
Via dolorosa e gaudiosa
Pur privato completamente della sua
attività ministeriale, Padre Pio si mostra sempre lo stesso, come al
primo giorno: calmo sereno tranquillo, tutto sopportando per amor di Dio e
facendo sempre la divina volontà.
Celebrata la santa Messa che dura
non più mezz'ora, ma un'ora e mezza ed il giorno del santo
Natale oltre cinque ore, si intrattiene un'ora in ringraziamento e,
passata un'altra ora di orazione mentale in coro, si reca in biblioteca
per la lettura e lo studio. Al pomeriggio, dopo il vespro e l'ora di
orazione, torna alla sua lettura fino a sera, quando si reca di nuovo in coro
per altre due ore di orazione mentale, andando poi a letto ad ora
tardissima.
Si può dire, senza esagerazione, che durante il giorno
prega continuamente, perché le labbra si muovono sempre ed i chicchi di
corona scorrono tra le dita.
Il vitto è scarsissimo: non cena mai,
come pure non prende caffè od altro al mattino; le sue condizioni di
salute sono più giù del solito, per le attuali circostanze morali
e per quelle di un continuo paziente, perché le stimmate permanenti da
quasi tredici anni alle mani, ai piedi ed al costato danno sofferenze per
l'emissione del sangue, come si può osservare dai guanti, calze e
pezzuole di ricambio al costato intrise di sangue, che egli per obbedienza
consegna sempre al superiore (altrimenti le avrebbe distrutte), sia ancora per
il modo di camminare, perché a volte a stento può dare qualche
passo per i dolori ai piedi.
Egli però di tutte queste sofferenze
mai fa cenno alcuno; ed alle volte se qualche imprudente entrasse in discorso,
è sempre pronto a deviarlo ed alludere ad altro. Prende parte a tutti gli
atti della comunità e regolare osservanza, eccetto alle ore del mattino,
perché per obbedienza si leva alquanto più tardi dell'orario
comunitario.
È la testimonianza del superiore locale che credeva
alla santità di Padre Pio, vissuta giorno per giorno lungo la via
dolorosa e gaudiosa del calvario, sotto i suoi occhi.
Mentre i forestieri
si accontentavano di andare, pregare in chiesa la Madonna delle Grazie e
raccomandarsi alle preghiere di Padre Pio, anche se non lo potevano vedere e
parlare con lui, il popolo di S. Giovanni non è calmo e non si rassegna,
perché Padre Pio lo vuol vedere ed avvicinare.
Chi non può
recarsi personalmente al convento, affida allo scritto la sua riconoscenza e la
sua supplica, pur sapendo che non avrà, perché non si può,
risposta alcuna.
Una testimonianza soltanto: un massone convertito un anno
prima e che frequenta tutti i giorni la santa comunione:
«Io
costantemente - scrive al padre superiore del convento
- mi ricordo di
Padre Pio giornalmente e prego per lui, per ogni suo bene spirituale e
temporale, ed il buon Gesù accoglierà ed esaudirà le mie
preghiere e non terrà conto che esse partono da un'anima che tanto
ha peccato. Iddio mi deve fare ancora la grazia di rivedere il mio Padre Pio,
per potere sempre più ricevere da lui maggiore fede e la costanza di
proseguire nella via del bene e della santità. Sono assai contento e
felice della luce che egli mi diede l'anno scorso, di avermi redento e di
avermi messo nella grazia del Signore: ogni avversità della vita ora non
mi pesa più, e mi mantengo calmo e tranquillo e spero migliorare sempre
più. Se non mi trovassi ora in questo stato, quanto infelice
sarei...» (Relazioni bimestrali, 9 novembre
1931).
Il 2 aprile 1932 Padre Pio scrive all'arcivescovo di
Manfredonia monsignor Andrea Cesarano, perché dal profondo silenzio della
sua celletta sente da un pezzo
«l'eco di sinistre voci»
che si fanno intorno alla sua persona:
«tutto è falso» e
si dichiara completamente estraneo a ciò che si è detto e si dice
a suo riguardo,
«disgustato per la condotta indegna che tengono alcuni
falsi profeti, che pur si dicono miei, perché più e più
volte, a mezzo dei miei confratelli e di pie ed anche autorevoli persone, ho
fatto sapere a costoro che tutto quello che essi fanno e dicono è una
ferita che maggiormente lacera il mio cuore [...]
ed intanto hanno sempre
seguitato nel loro morboso fanatismo, non curandosi della suprema
autorità della Chiesa. Sono giunto anche alla diffida [...]
, per
fermare questo loro falso entusiasmo e per richiamarli all'osservanza di
quanto aveva disposto il S. Ufficio» e si è ottenuto
l'effetto contrario, anche se messi alla porta per il loro contegno
ribelle contro le disposizioni ecclesiastiche, ma sempre invano; ed auspica che
si diradino
«queste ombre fosche che avvolgono la mia povera persona e
che gravano sulla mia povera madre provincia che soffre e tace da tanti anni, e
sul divoto popolo di S. Giovanni».
Il Signore sembra di non aver
fretta a mutare una tale situazione e gli uomini perdono la pazienza
nell'attesa, almeno alcuni di loro, e non desistono dal realizzare
ciò che minacciano, non ascoltando neppure la voce di Padre Pio.
I
mesi si susseguono ai mesi e qualcosa di nuovo si notò nel 1933, mese di
marzo, quando il giorno 14 verso le ore 8 si presentarono al convento i
monsignori Pasetto cappuccino e Bevilacqua, quello della visita canonica del
1927.
Il papa Pio XI, chiamato d'urgenza monsignor Pasetto, gli
ordinava di recarsi subito a S. Giovanni Rotondo dal Padre Pio; e la notte
stessa partiva alla volta del convento garganico, accompagnato da monsignor
Bevilacqua, già abbastanza pratico dei fatti e delle
persone.
Giunti, domandano del superiore «ed io - racconta il
guardiano -
li accompagno nel salottino, fo loro i soliti doveri di
convenienza e poi domandano di Padre Pio, con il quale doveva parlare monsignore
Pasetto».
Padre Pio è in cappella per la santa Messa e non
sarà pronto prima delle ore dieci, essendo già dalle sette
all'altare.
Terminata la celebrazione ed avvisato, appena pronto, si
reca da monsignore e si trattiene a lungo con lui; dopo lo saluta anche
monsignor Bevilacqua, ma in modo molto sbrigativo.
A mezzogiorno si va a
pranzo con la comunità, compreso Padre Pio; poi nell'orto per un
po' di ricreazione, mentre Padre Pio si ritira in cella:
«Monsignor Pasetto mi chiama in disparte e per una buona mezz'ora
passeggiamo lungo il viale di mezzo dove sono i cipressi, con in fondo
l'edicola di Gesù [agonizzante] nell'orto. Certamente tutto
il colloquio fu su Padre Pio. Egli restò tanto ammirato per la sua
umiltà, docilità e su tutto il suo comportamento; lo riconobbe
uomo di preghiera e tutto di Dio».
La settimana santa Padre Pio la
passò a letto con temperatura sino a 48°;, rivivendo in quei giorni i
dolori della Passione del Signore, incapace di proferire anche una sola parola:
si vedeva soffrire e lacrimare.
Nel giugno, sempre del 1933, alla vigilia
di S. Giovanni Battista, il nuovo arcivescovo di Manfredonia fa il suo ingresso
a S. Giovanni Rotondo, accolto da una
«fiumana di
gente»perorando la sua intercessione per la liberazione di Padre
Pio.
Il giorno dopo sale in convento per conoscere e salutare Padre Pio,
verso il quale si mostra tanto cordiale ed affabile. In tale occasione
monsignore viene accompagnato dall'arciprete del paese Prencipe.
L'incontro avveniva dopo oltre dieci anni e fu commovente: tutti e due si
abbracciarono fraternamente. Padre Pio era sempre pieno di carità verso
tutti e mai nutriva neppure il minimo rancore.
Finalmente la buona notizia
Giorno 14 luglio 1933, festa di S.
Bonaventura: anno di grazia. Il provinciale p. Bernardo d'Alpicella,
tornato da Roma, il 15 sale a S. Giovanni col cuore leggero e le ali ai piedi ed
appena arrivato informa di tutto il padre guardiano. Resta a cena con la
comunità, poi dice al guardiano di andare a chiamare Padre Pio che
è in coro a pregare e meditare.
«Ch'è
successo?...», domanda Padre Pio.
«Siamo tutti sospesi
"a divinis"», risponde il
guardiano.
«Eh!...», esclama Padre Pio, accorgendosi che
il superiore è allegro.
Arrivati a refettorio, il padre provinciale:
«Deo gratias - dice -
ho da comunicarvi una consolante notizia:
Padre Pio può dire la Messa in chiesa e confessare i religiosi fuori
della chiesa».
Padre Pio si alza, va ad inginocchiarsi davanti al
padre provinciale, gli bacia la mano e ringrazia il Santo Padre per la sua
paterna bontà.
La mattina del 16 del giorno dopo Padre Pio scese in
chiesa a celebrare alle ore nove tra
«la visibile e profonda»
commozione dei presenti ed un silenzio
«veramente edificante».
Diffusasi la notizia, riprende l'afflusso dei fedeli ed aumentano le
confessioni e comunioni.
Ordinariamente celebra verso le 7,30, vi impiega
circa tre quarti d'ora compresa la comunione ai fedeli, nelle domeniche e
feste fa il turno con gli altri padri della comunità dopo la Messa delle
ore 9; il preparamento e ringraziamento lo continua a fare in coro e
quest'ultimo dura un'ora e mezza e a volte anche
più.
Nel pomeriggio, recitato il vespro con la
comunità, resta in coro per un'ora - bisogna tener presente che
ancora non può confessare i fedeli - e lo stesso fa la sera, dopo che i
religiosi si sono recati a far visita a Gesù sacramentato. Qualche volta
lo si è visto fino a mezzanotte. Il resto della giornata la passa
leggendo libri scritturali o ascetici.
La santa Messa, celebrata sempre con
grande devozione e raccoglimento, incatena i fedeli. Un alto personaggio
ecclesiastico arriva in convento proprio nell'ora in cui Padre Pio deve
celebrare; vuole ascoltare anche lui la sua Messa e resta talmente impressionato
ed edificato che:
«Padre - confida al superiore locale -
mentre
Padre Pio celebrava, ho voluto meditare sulla santa Messa e posso dire che, in
ventidue anni di sacerdozio, mai ho meditato con tanto raccoglimento e né
assistito ad una Messa celebrata con tanta devozione come stamane. Dico questo
perché lo sento dal profondo dell'animo e senza simulazione
alcuna». Un sacerdote bavarese scrive:
«Per me S. Giovanni
Rotondo è stata una novella Assisi; ed ascoltando la Messa di Padre Pio,
ho visto Gesù Cristo sulla terra rivivere dopo venti
secoli!...».
Con Dio e tra le anime
All'occhio umano la vita di Padre
Pio, se non intervenissero elementi eterogenei, è talmente
«metodica», «svolta, come sempre, tra la cella e il
coro», che
«nulla vi è di nuovo o
straordinario».
Cerca di prendere parte alla vita comunitaria,
anche se la malferma salute a volte glielo impedisce:
«Soffre, e spesso,
di forti dolori di capo - apprendiamo dalle relazioni bimestrali -
inappetenza quasi continua e, di quando in quando, la febbre lo costringe a
guardare il letto. E mangiando ordinariamente pochissimo a mezzogiorno e niente
al mattino e alla sera, e perdendo quotidianamente sangue dalle ferite, specie
da quella del costato, non può non essere gracile e malfermo di salute.
Soffre anche d'insonnia e la maggior parte della notte la passa in coro
pregando. Infatti è lui che sveglia, uscendo dal coro, i religiosi per la
recita notturna, e solo dopo l'ufficio si porta nella propria stanza per
un po' di riposo. Il Padre Pio può chiamarsi ed è veramente
un uomo di orazione».
I fedeli vanno a S. Giovanni Rotondo
«in discreto numero», e si notano anche sacerdoti,
personalità politiche e civili e militari. Di esteri
«solo
qualcuno dalla Baviera».
Pur sapendo che Padre Pio non legge e non
risponde alle lettere a lui inviate, tuttavia sentono il bisogno di
manifestargli la loro gratitudine:
«Padre - scrive un capitano -
ho ancora l'anima piena di gioia e di pace dal giorno che ho avuto la
grazia di parlare con lei; Padre, per carità, mi ricordi solo un istante
nelle sue preghiere: ho tanto bisogno. Nelle mie, mi rivolgo al Signore pensando
a lei. Non oso sperare una parola di fede scritta da lei. Le bacio come quel
giorno con la stessa anima la croce e la mano. Mi
benedica».
Un'anima traviatissima, che dopo due o tre
abboccamenti con Padre Pio ritrovava la via che porta a Dio, scriveva:
«Alla vigilia del mio matrimonio religioso che avverrà domani, e
dopo che la santa confessione è già avvenuta, sia per me come per
la mia compagna, lasciando in noi quella profonda soddisfazione che solo la
divina misericordia del Signore può provocare, e ciò dopo fasi
alterne in cui il demonio ha messo i tentacoli ch'egli aveva a propria
disposizione, non posso fare a meno di rivolgere il mio pensiero riconoscente
alla maestà del Signore ed a lei Padre, che con tanta misericordia ha
ottenuto dal Signore ch'io fossi ricondotto sulla via della redenzione.
Con animo profondamente e devotamente grato, assieme alla compagna, colgo
l'occasione per augurarle un buon Natale, spiacente di non aver potuto
recarmi da lei, onde poter fare la santa comunione ed avere la sua santa
benedizione. Mi permetta di baciarle devotamente le mani, elevando il pensiero a
Gesù crocifisso immolatosi per noi peccatori, e mi consenta anche di
abbracciarla con affetto e di credermi il suo figlio
spirituale».
In tutti era vivo il desiderio di volersi confessare
da lui, voto che fu appagato la domenica delle Palme, 25 marzo 1934, giorno in
cui ricominciò ad ascoltare le confessioni degli uomini ed il 29, 31
marzo e 1 aprile, insieme agli altri padri, confessò dall'alba fino
a mezzogiorno, perché
«l'affluenza di uomini fu
grandissima».
Non è raro il caso che inveterati peccatori
tornino a Dio e diventino ferventi cristiani. Uno che mai aveva avvicinato
sacerdoti e viveva una vita da vero mondano, tornato a casa:
«Dopo aver
fatto stamane la santa comunione - scrive -
mi appresto a rivolgere a
lei, mio caro Padre, l'espressione della mia fervente gratitudine per
avermi chiamato e posto sulla via tracciata dal Signore per la mia redenzione
morale, ponendomi nella condizione di poter raggiungere, quando il Signore
vorrà, la meta da me sempre sognata, e precisamente quella della mia
dedizione al bene del mio prossimo in Cristo [...]
. Grazie, grazie della
sua grande bontà per la mia meschina persona. Quanto mi è cara la
sua protezione in Cristo!».
Il 12 maggio 1934 riprende ad
ascoltare anche le confessioni sacramentali delle donne:
«Ogni mattina
il numero dei fedeli che ascoltano la di lui Messa, è discreto. Nel
celebrare vi impiega ordinariamente un'ora e un quarto e, a volte,
un'ora e mezza. Da tutti è sempre ammirata la di lui devozione
ch'è davvero straordinaria, edificante [...]
. In media, nei
giorni feriali, confessa da 10 a 15 uomini, e da 30 a 50 donne; nelle feste un
po' di più».
Traboccante è l'affetto e
la riconoscenza espressa per iscritto:
«Vivere nella memoria delle
persone - un dottore in medicina a Padre Pio -
è una delle
felicità più grandi a questo mondo; ed io mi lusingo che voi
serbate per me quel ricordo che io ho per voi. Pregate per me il Signore, caro
Padre; voi già sapete quello che insistentemente chiedo a lui: aiutatemi
ad ottenerlo».
«In casa - è un avvocato di
fresco convertito -
non si fa che pensare continuamente a lei e non si parla
che di lei, con il grande desiderio di ritornare costì per attingere
nuova spinta dalla sua santa e fraterna parola».
«Con
umiltà francescana - gli manifesta un altro convertito -
mi
prostro e mi umilio ai vostri piedi, ringraziandovi dell'infinito bene
spirituale che voi mi avete donato e con cui avete arricchito l'anima mia.
Io nulla sono, io nulla ho fatto di bene che non sia
vostro».
«Cinque anni fa - è un preside di
liceo -
ebbi il gran conforto spirituale di visitarla e di ascoltare la sua
parola. Non ho mai dimenticato quella visita e in modo particolare quei dolci
momenti passati nella sua cella».
«Il 31 luglio -
scrive un padre domenicano al provinciale -
potei assistere alla santa Messa
del Padre Pio e ne restai edificato e commosso. Però dove mi si
rivelò più chiaramente la santità di lui, fu nella
conversazione affabile, piena di spirito sovrannaturale, pur attraverso un
tratto squisito e bonario. Potei anche confessarmi e restai soddisfatto dei suoi
consigli dati senza sforzo e corrispondenti ai miei particolari
bisogni».
«Pensavo poter venire quest'anno -
dice un vescovo al padre guardiano -
ma le conferenze episcopali me lo hanno
impedito. Le accludo l'elemosina per 5 sante Messe che prego far celebrare
a Padre Pio secondo le mie intenzioni. Dica al caro Padre che mi faccia sapere
quando sarà opportuno che io lasci la diocesi per prepararmi meglio alla
morte».
E un altro presule:
«Benedizioni e saluti ex corde
e a lei e al sempre carissimo Padre Pio dal primo vescovo che ebbe la
consolazione di passare alcuni giorni costì, a S. Giovanni, riportandone,
allora, 1919, e nelle visite degli anni seguenti fino al 1922, le più
care, le più sante impressioni, che non si cancelleranno mai
più».
Un lenzuolo bianchissimo
Se la prudenza non è mai troppa,
attorno a Padre Pio non c'è prudenza che basti. Si dubita di lui
sul voto di povertà e lo si accusa di maneggio di denaro senza i dovuti
permessi.
«Mi ha risposto - stralciamo dal diario di p. Agostino da
S. Marco in Lamis -
che avrebbe dato al provinciale spiegazione di tutto.
Intanto a me ha detto che alle volte si è trattato di restituzione
confessionale ed altre volte di passare una somma di denaro da una persona ad
un'altra, perché la persona che dava il denaro non trovava persona
di fiducia. Altre volte ha raccomandato persone bisognose ed in tanti hanno dato
a lui l'elemosina, designando la persona bisognosa che non voleva essere
conosciuta. Insomma dal complesso dei colloqui avuti mi sono convinto - come del
resto lo ero prima - della rettitudine del padre in materia di
povertà» (6 ottobre 1937).
Altra ombra a cui si tenta di
dar corpo è il sospetto
«che di notte si siano accostate donne al
convento e che siano entrate anche in chiesa. «Si tratta però di
lettera anonima al superiore locale, smentita poi da un'altra, anche
anonima. Il Padre Pio interrogato, ha risposto:
«Posso giurare che
né io né i miei confratelli abbiamo aperto di notte la porta della
chiesa o del convento, per intromettere donne; credo che nessuno può
testimoniare con certezza di aver visto ciò con i propri occhi»
(ivi).
Interrogato di nuovo dallo stesso p. Agostino sui sospetti e su
certe dicerie che corrono sul suo conto, Padre Pio risponde che
«a lui
basta la testimonianza della buona coscienza davanti a Dio. Col provinciale
farà tutte le dichiarazioni che si vorranno»; compativa,
perdonava e pregava:
«Mai mi è passato per il pensiero - dice
-
l'idea di qualche vendetta: ho pregato per essi e prego. Se mai
qualche volta ho detto al Signore: Signore, se per convertirli c'è
bisogno di una sferzata, dalla pure, purché si salvino» (p.
127).
Ma poiché in certi periodi, al superiore del convento lettere
anonime arrivavano
«a catena» e toccavano anche Padre Pio,
volle sincerarsi personalmente dei fatti, per sfatare le vili menzogne, pur se
personalmente non sfiorasse nemmeno il dubbio alla sua mente,
«conoscendo la vita di preghiera e di penitenza e la bella
virtù» del suo suddito prediletto da Dio.
«Sia
d'inverno che d'estate - attesta il padre guardiano del tempo,
ch'era p. Raffaele da S. Elia a Pianisi -
mi toglievo i sandali, e
così a piedi nudi andavo ispezionando, tanto da prendermi un buon catarro
bronchiale, di cui purtroppo ancora ne porto le conseguenze. Questo lavoro
durò parecchio, finché non cessarono completamente le anonime.
Posso affermare con sicura coscienza e con giuramento che mai, né io
né il p. Vittore, abbiamo notato il minimo inconveniente: mai ho trovato
le strisce di carta [applicate come spie alle porte] lacerate».
A
volte di notte si notava qualche gruppo di pellegrini che, recitate le loro
preghiere, in genere il santo rosario e le litanie lauretane dietro la porta
chiusa della chiesa, andavano via.
Padre Pio nei venerdì, specie di
quaresima, la sera scendeva in chiesa per il pio esercizio della Via Crucis e
poi risaliva, ritirandosi in cella, non pensando neppure che per lui il padre
guardiano era in vedetta.
Il 24 febbraio 1939 tra la corrispondenza in
arrivo vi è un'anonima ed il superiore, deciso anche questa volta a
rendersi conto personalmente,
«senza sandali, a piedi nudi - faceva
freddo - si reca dietro l'uscio del coro per assicurarsi se Padre Pio
fosse ancora là, e con mia somma sorpresa - esclama -
e grande
umiliazione sento che il povero Padre, tanto calunniato da anime vendute al
diavolo, si disciplinava dicendo il «Miserere» a voce abbastanza
chiara. E fu per me di grande consolazione constatare personalmente come il
Padre macerasse le sue carni innocenti a scorno di quelli che lanciavano contro
di lui le più nere calunnie».
La mattina dopo ancora la
solita anonima:
«Capii tutta la trama diabolica - conclude nelle sue
memorie il padre guardiano -
e d'allora in poi mandai tutto alla malora
e più non diedi importanza alle solite anonime, avendo constatato che
proprio in quelle ore citate dal maligno, o da qualche isterica invidiosa, il
padre stava in coro a disciplinarsi», e poi scendeva in chiesa a
meditare, nei venerdì di quaresima, sulla via dolorosa del suo
Gesù ed a pregare, sostando all'altare di S. Francesco
d'Assisi.
Da testimoni degni di fede sappiamo che in Padre Pio colpe
non ve ne erano
«specialmente di quelle che riguardano la santa
purezza» (
Epist. I, 192), e lo stesso Padre Pio confida al suo
padre spirituale:
«Il demonio non può darsi requie per farmi
perdere la pace dell'anima e scemare in me quella tanta fiducia, che ho
nella divina misericordia. E ciò principalmente si sforza di ottenerla a
mezzo delle continue tentazioni contro la santa purità, che va suscitando
nella mia immaginazione e dalle volte anche al semplice sguardo delle cose non
dico sante, ma almeno indifferenti. Di tutto ciò me ne rido come cose da
non curarsi, seguendo il suo consiglio. Solo però mi addolora, in certi
momenti, di non esser certo se al primo assalto del nemico fui pronto a far
resistenza. Certo che ad esaminarmi presentemente preferirei la morte prima di
deliberarmi ad offendere il mio caro Gesù con un solo peccato,
benché lieve. Mi dica un poco come debbo comportarmi intorno a ciò
e ne sia sicuro, che coll'aiuto di Dio, le prometto di essergliene
grato» (
Epist. I, 196).
P. Agostino da S. Marco in Lamis
ci fa sapere quanto abbia fatto soffrire Padre Pio un brutto sogno:
«Mi
ha confidato un brutto sogno che ha fatto poche notti prima, dicendomi che
l'aveva scombussolato profondamente, tentando di fargli lasciare anche la
celebrazione della santa Messa. "È la prima volta che mi accade
questa cosa - m'ha detto - e mi ha fatto dolorosa impressione che ancora
non mi passa. Sono rimasto male... e prego e spero che non mi accada più,
altrimenti sarei perduto"»; ed è disposto a giurare che
Padre Pio ha conservato la sua verginità e non ha mai peccato neppure
venialmente contro l'angelica virtù e le altre virtù (p.
87).
Padre Pio non è stato il primo e non sarà neppure
l'ultimo uomo di Dio calunniato su tale materia. Lo furono i santi
canonizzati, puniti da altrettanti santi canonizzati, che poi dovettero
ricredersi di fronte alla innocenza dei poveri calunniati.
È proprio
vero che ciascun uomo è per il suo prossimo o una rosa olezzante o una
spina pungente!...
E se è anche vero che colui che mantiene il suo
cuore puro e calmo avvolge Gesù in un lenzuolo bianco e lo seppellisce
nel suo cuore, quello di Padre Pio è bianchissimo e Gesù vi si
riposa con delizia.
SOLLIEVO AI SOFFERENTI
Chi pensa di amare Dio e trascura il
prossimo, non lo ama veramente; e chi crede di ricordarsi di Dio solo quando
«fa qualcosa per gli altri», erra. La strada, l'unica
rivelata da Gesù, così stupendamente semplice, è: amore di
Dio e del prossimo.
Uno fa qualcosa per gli altri nella misura in cui prega
ed ama Dio.
Padre Pio amava gli uomini, e li amava sinceramente come figli
di Dio e fratelli suoi, perché pregava molto. Per il loro bene spirituale
era diventato
«il cireneo di tutti»; per lenire le sofferenze
della carne inventò
«la cattedrale della carità»
e la chiamò
«Casa Sollievo della
Sofferenza».
Fra le
«molte grazie» con cui
il Signore arricchì la sua anima - ce lo fa sapere lui stesso
(
Epist. I, 462s) - vi era una
«grandissima» compassione
verso il prossimo: vedere un povero, era subito sentire un
«veementissimo» desiderio di soccorrerlo, spogliandosi
«perfino dei panni per rivestirlo».
«Se so
poi che una persona è afflitta, sia nell'anima che nel corpo, che
non farei presso il Signore per vederla libera dei suoi mali? Volentieri mi
addosserei, pur di vederla andar salva, tutte le sue afflizioni, cedendo in suo
favore i frutti di tali sofferenze, se il Signore me lo permettesse»
(ivi).
Casa Sollievo della Sofferenza
S. Giovanni Rotondo - per bocca dei suoi
stessi abitanti - lamentava la mancanza d'un ospedale, degno di una
cittadina civile; poté realizzare questo desiderio, che per il paese fu
sempre
«un mito», nel gennaio del 1925, quando si
inaugurò il piccolo
«Ospedale civile San Francesco»,
fondato con l'aiuto di volenterosi collaboratori da Padre Pio, il quale
«volle che in questo Comune - ricordano le parole
dell'epigrafe -
sorgesse un ospedale. Egli raccolse tra i fedeli
ammiratori i fondi necessari all'erezione
dell'opera».
Due corsie, una per gli uomini ed una per le
donne, con sette letti ciascuna e due camere riservate; attrezzatura idonea ai
bisogni; presidente amministrativo dottor Leandro Giuva, direttore
Francescantonio Giuva, e vice il dottor Angelomaria Merla, con la collaborazione
del dottor Bucci che saliva da Foggia due volte la settimana; assistenza
prestata prima dalle Suore Adoratrici del Sacro Cuore e poi dalle Suore del
Preziosissimo Sangue.
Umile opera, ma che soddisfaceva
«in modo
egregio le esigenze più urgenti». Le cure ai poveri erano
gratuite.
Dopo tredici anni di attività assistenziale, il piccolo
ospedale chiudeva i battenti, perché il terremoto del 1938 aveva arrecato
gravi danni ai locali. Restaurato e trasformato, il locale divenne asilo
infantile.
Il terremoto aveva fatto crollare le mura che servivano alla
carità per i fratelli, ma non aveva seppellito sotto le sue macerie la
carità stessa, che nel cuore di Padre Pio cresceva a dismisura e che
più tardi divampò in vasto incendio.
La miseria e il dolore
bussavano alla porta del convento per trovare lenimento e speranza nel cuore,
nella parola, nella preghiera di Padre Pio: quante volte si rattristava per le
tante sofferenze che a lui si presentavano - attestano confratelli lungamente
vissuti accanto a lui - e il più delle volte erano persone che giacevano
nella miseria;
«erano diecine e diecine gl'infermi che
raccomandava a me (p. Raffaele da S. Elia a Pianisi),
perché li
mandassi dal professor Federico D'Alfonso, allora - sebbene residente a
Pescara - direttore e chirurgo dell'ospedale di Atri; e il professor
D'Alfonso, per riguardo a Padre Pio e perché suo figlio spirituale,
li operava gratis senza pretendere nulla; anzi, a volte, rimettendoci anche del
suo».
Finalmente la sera del 9 gennaio 1940 nasceva, nella sua
cella, la
«Casa Sollievo della Sofferenza» e l'idea
divenne immediatamente operante.
I membri del minuscolo comitato,
costituito lo stesso giorno,
«per la fondazione di una clinica secondo
le intenzioni di Padre Pio» - si legge nel verbale - sono: Padre Pio da
Pietrelcina, fondatore dell'opera; dottor Mario Sanvico, segretario;
dottor Carlo Kiswardaj, cassiere contabile; dottor Guglielmo Sanguinetti,
tecnico-medico; signorina Ida Seitz, direttrice organizzazione interna; e
«si conviene che tutto ciò che dovrà essere attuato
dovrà essere sottoposto al consiglio del Padre».
Padre Pio
frugò in una tasca della sua tonaca, estrasse una piccola monetina
d'oro, donatagli per le sue opere di carità e, porgendola, disse:
«Voglio farvi io la prima offerta per la Casa Sollievo della
Sofferenza».
Da quel momento cominciarono ad affluire offerte:
tante offerte, piccole e grandi, ed ebbe inizio
«la mia grande opera
terrena» dell'uomo spinto da un
«veementissimo»
desiderio nel soccorrere i fratelli sofferenti.
Il 25 maggio dello stesso
1940 i suoi amici per la prima volta vengono a conoscenza di un
«sogno» di alcuni figli spirituali, da molto tempo vagheggiato:
la costruzione nella regione del Gargano, a S. Giovanni Rotondo, di «
un
grandioso ospedale»,
«espressione della carità di
Cristo» e che
«potesse accogliere gratuita-mente, come un nuovo
Cottolengo, tutti gli ammalati».
«Più volte -
continuano questi figli spirituali -
abbiamo raccolto dalle labbra e dal
cuore sacerdotale di chi ci è Padre questo ardente desiderio e, fiduciosi
nella divina Provvidenza, abbiamo deciso di attuarlo».
Dal 1940 al
1947 la marcia della carità sembrava soffocata dall'odio fratricida
della guerra e da altre inenarrabili difficoltà.
Il 16 maggio 1947
si svolgeva la cerimonia per la posa della prima pietra e tre giorni dopo la
brulla montagna incominciava ad essere squarciata dagli esplosivi per scavare le
fondamenta del monumento alla carità fraterna.
Iniziata e proseguita
senza un vero e proprio piano finanziario, il denaro affluisce dalle più
varie ed impensate direzioni ma le fonti sono sempre quelle: carità ed
amore.
Padre Pio pregava - e la Provvidenza apriva il cuore -
«spiava» dalle finestre del convento il cantiere di lavoro, ascoltava
i suoi diretti collaboratori e li consigliava ed incoraggiava, visitava
personalmente la sua creatura, che cresceva a vista d'occhio, e bella, ed
era contento: nel settembre del 1949 il rustico dell'edificio - cinque
piani su un fronte di 110 metri per una profondità di 46 - era quasi
terminato.
L'11 maggio 1951, a sette mesi di distanza dalla prima
visita, Padre Pio va a rivedere il suo ospedale; si porta in cappella e rimane
incantato di fronte alla bella vetrata istoriata, sale sull'ampia terrazza
e s'indugia a guardare l'incantevole panorama, sosta nella camera
operatoria, siede su uno dei seggiolini di metallo che compongono
l'arredamento e conversa pacatamente con il seguito.
Di fronte al
lavoro compiuto si allarga il cuore e si prende coraggio per il molto ancora da
compiere; una rete di amici collabora instancabilmente perché gli aiuti
non manchino e il danaro, che
«affluisce come un fiume
inestinguibile», si converte immediatamente in apparecchi, in cemento,
in lettini.
Mentre la Casa è quasi pronta e si presenta
all'occhio ammirato del visitatore nella sua «armonia e
gaiezza», si comincia a pensare alle qualità tecniche e morali del
personale di assistenza, il cui principio ispiratore - secondo il pensiero e la
parola di Padre Pio - deve essere:
«in ogni bisognoso c'è
Cristo».
Oltre alla preparazione tecnica, le infermiere devono
possedere in alto grado i requisiti morali, atti a renderle buone ed umili
«ministre degl'infermi». È su quest'ultima
caratteristica che poggia la funzionalità ideologica della
«Casa»; ché, se per sfortuna, il personale d'assistenza
(ma anche il personale medico) dovesse esserne sprovvisto
«la nostra
clinica non si distinguerebbe più dalle altre e moralmente sarebbe un
fallimento».
La solida formazione spirituale è necessaria
per poter comprendere e realizzare in ogni momento della giornata
l'esortazione evangelica:
«In verità vi dico: tutte le
volte che avete fatto qualche cosa a uno di questi minimi, l'avete fatto a
me». Questa è
«la chiave di tutto il meccanismo della
Casa, il marchio che la distinguerà dalla maggior parte delle cliniche
consorelle».
Non si rigetta il profilo scientifico, e cioè
la lotta della scienza contro il male; viceversa, lo si valorizza al massimo con
l'apporto di tutti i mezzi moderni. Ma a questo motivo strettamente umano
si sovrappone un motivo soprannaturale, l'attuazione del precetto della
carità:
«Tutte le volte che avete fatto...».
Il
malato, il fratello malato, deve essere l'
«hospes
Christi». La mano del maestro che ha concepito e realizzato, nella
monumentalità delle linee architettoniche, il sollievo della sofferenza
ha inteso dare al complesso simmetrica maestà di un altare:
l'altare di sorella Carità, l'altare dell'Amore
cristiano. Chi ha concepito e chi ha realizzato l'Opera con un tale
carattere, ha voluto anche dare, non solo ai sofferenti assistiti ma anche a
tutti coloro che profonderanno nell'assistenza il loro fraterno amore, la
sensazione precisa che le fatiche dell'assistenza si attenuano se essa
è riscaldata dalla carità.
Il 26 luglio 1954 segna la prima
meta raggiunta: si aprono gli ambulatori ed inizia il sollievo della sofferenza;
il 5 novembre successivo entra in funzione la banca del sangue; il 5 maggio 1956
la notizia che tutti attendono: inaugurazione della «Casa Sollievo della
Sofferenza».
La creatura della Provvidenza
Alla straripante folla presentava la
creatura della Provvidenza lo stesso Padre Pio:
«Signori e fratelli in
Cristo, la Casa Sollievo della Sofferenza è al completo. Ringrazio i
benefattori d'ogni parte del mondo che hanno cooperato. Questa è la
creatura che la Provvidenza, aiutata da voi, ha creato; ve la presento.
Ammiratela e benedite insieme a me il Signore Iddio.
È stato
deposto nella terra un seme che egli riscalderà coi suoi raggi
d'amore. Una nuova milizia fatta di rinunzie e d'amore sta per
sorgere a gloria di Dio, a conforto delle anime e dei corpi infermi. Non ci
private del vostro aiuto, collaborate a questo apostolato di sollievo della
sofferenza umana, e la Carità divina che non conosce limiti e che
è luce stessa di Dio e della vita eterna accumulerà per ciascuno
di voi un tesoro di grazie di cui Gesù ci ha fatto eredi sulla
Croce.
Quest'opera che voi oggi vedete è
all'inizio della sua vita [...].
Una tappa del cammino da compiere
è stata fatta.
Non arrestiamo il passo, rispondiamo solleciti
alla chiamata di Dio per la causa del bene, ciascuno adempiendo il proprio
dovere: io, in inincessante preghiera di servo inutile del Signore nostro
Gesù Cristo, voi col desiderio struggente di stringere al cuore tutta
l'umanità sofferente per presentarla con me alla misericordia del
Padre celeste».
La voce di Pio XII convalida la bontà
dell'Opera e la benedice e la loda:
«L'ospedale di S.
Giovanni Rotondo è il frutto di una delle più alte intuizioni
d'un ideale lungamente maturato e perfezionato a contatto con i più
svariati e più crudeli aspetti della sofferenza morale e fisica
dell'umanità [...].
L'Opera progredita pazientemente
tenace, si presenta come un magnifico successo, uno degli ospedali meglio
attrezzati d'Italia, mercé i perfezionamenti della tecnica moderna,
e uno dei migliori del Mezzogiorno; i servizi di radiologia e cardiologia, in
particolare, sono stati provvisti di installazioni perfettissime» (8
maggio 1956).
Il 10 maggio 1956 entra il primo ammalato e pochi giorni dopo
la clinica già ospitava un nutrito gruppo di degenti ed altri, da molte
parti d'Italia, chiedevano informazioni circa le modalità di
ricovero.
Padre Pio non faceva mancare la sua presenza anche fisica e alla
festa del Corpus Domini si recava alla Casa per la processione di Gesù
sacramentato. In questa occasione scrive anche il suo pensiero sul registro dei
visitatori illustri: «
Veni, vidi et exclamavi: benedictus Deus qui facit
mirabilia magna solus: sono venuto, ho visto ed ho esclamato: benedetto il
Signore il quale solamente fa cose grandi e mirabili ».
Al 31 dicembre
dello stesso anno 1956 nella Casa si erano avvicendati duemila malati e sin
dall'inizio del 1957 i trecento letti erano costantemente occupati ed era
necessario aggiungere letti supplementari e già si chiedeva
l'ampliamento dell'Opera.
Facciamo più grande l'Ospedale
Nel giorno del primo anniversario (5 maggio
1957) Padre Pio, tra l'altro, diceva:
«Dio ha riscaldato con i
suoi raggi d'amore il seme deposto [...].
Da oggi riprendiamo la
seconda tappa del cammino da compiere»: adeguarsi
«tecnicamente
alle più ardite esigenze cliniche», aumentare il numero dei
letti, completare la sistemazione perché l'Opera
«diventi
tempio di preghiera e di scienza, dove il genere umano si ritrovi in Gesù
crocifisso, come un solo ovile sotto un solo pastore»
[...].
«Quest'Opera se fosse solo sollievo dei corpi, sarebbe
solo costituzione di una clinica modello, fatta con mezzi della vostra
carità, straordinariamente generosa. Ma essa è stimolata e
incalzata ad essere richiamo operante all'amore di Dio, mediante il
richiamo della carità.
Il sofferente deve vivere in essa
l'amore di Dio per mezzo della saggia accettazione dei suoi dolori, del
suo destino a Lui.
In essa l'amore a Dio dovrà
corroborarsi nello spirito del malato, mediante l'amore a Gesù
crocifisso, che emanerà da coloro che assistono la infermità del
suo corpo e del suo spirito. Qui, ricoverati, medici, sacerdoti, saranno riserve
di amore, che tanto sarà abbondante in uno, tanto più si
comunicherà agli altri».
Nel frattempo Padre Pio a volte si
mostra
«preoccupato ed anche un poco immalinconito»: si
avvicina il momento in cui bisognava dire di no a chi veniva a picchiare alle
porte della Casa Sollievo della Sofferenza. Già questo momento sarebbe
venuto da tempo se - quando i sanitari sono andati a dirgli:
«Padre, la
clinica è al completo, non possiamo più ricevere nessuno»
- Padre Pio non avesse risposto:
«Mettete altri letti, sacrificate gli
uffici, la biblioteca; ma non dite di no ai malati».
Ma quando non
ci restò un centimetro quadrato di spazio e i malati non potevano essere
sistemati nell'androne e per le scale, si provò di nuovo a dire al
Padre:
«Bisogna rifiutare ospitalità
agl'infermi...», Padre Pio risoluto:
«Ai malati non si
nega mai nulla, non gli si può chiudere la porta in faccia. Che gli
racconterai - parlava con il medico incaricato a riferire sulla situazione
-
a San Pietro? Io ho una bella laurea in medicina, ma ho chiuso la porta
dell'ospedale sulla faccia degli ammalati?». Ed alla domanda:
«Ma allora, Padre?...», la risposta secca e improvvisa:
«Facciamo più grande l'ospedale».
Il 5 maggio
1958 Padre Pio, con accensione a distanza, nello studio del cappellano della
clinica, faceva brillare la mina: segno d'inizio dei nuovi lavori; il 16
luglio benediva la prima pietra della nuova ala, riversava nello scavo una
cucchiaiata di calcestruzzo e firmava la pergamena ricordo che, sigillata in un
tubo di piombo e riempita da tante altre firme, veniva interrata accanto alla
prima pietra.
A lavori ultimati (1966), la capacità recettiva di
Casa Sollievo sale a 600 letti.
In questo primo ampliamento, oltre ai nuovi
reparti, viene data una nuova e dignitosa sede all'alloggio delle Suore ed
alla Scuola Convitto, esistente sin dal 1958: comodo soggiorno, corridoi
spaziosi, stanze, aule, direzione.
Oltre alla Scuola Convitto per
Infermiere professionali, nel 1963 entrava in funzione anche la Scuola per
Infermiere e Infermieri generici e corsi di specializzazione tecnici di
radiologia medica.
Alla nuova ala della clinica è collegata, da
porte che immettono direttamente nei reparti, la nuova cappella di stile
neoclassico, nata dall'assoluta insufficienza della primitiva cappella e
di essa quattro volte più grande: ha l'altare maggiore, consacrato
il 23 dicembre 1968, un altare laterale, una navatella, due matronei ed il
coro.
Per la sua ampiezza si potrebbe chiamare chiesa, affiancata anche da
un campanile, rimasto incompleto.
Nel 1970 fu arricchita di 14 stazioni
della Via Crucis del pittore ceramista marchigiano Bruno Baratti di
Cattolica.
Questa serie di
«cotti» dagl'intenditori
è giudicata opera di
«scultura autentica», «una delle
realizzazioni più importanti e originali della scultura italiana
contemporanea».
Alla parete destra su un altarino vi è un
quadro della
«Natività» di Rutilio Manetti, della scuola
del Caravaggio (?); alla parete sinistra un recente grande
mosaico.
Sempre più grande e più bella
Con la raddoppiata disponibilità di
letti, gl'indici di ricovero salgono rapidamente e già nel 1967
raggiungono i valori limiti. Particolarmente pressante si fa la necessità
di una maggiore disponibilità di letti per il ricovero dei bambini e dei
malati di medicina generale.
Padre Pio dispone tempestivamente per il
secondo ampliamento e tra gli ultimi atti della sua vita terrena vi è
l'approvazione di tale progetto, già pronto.
Il 6 luglio 1969
il card. Sergio Guerri pone la prima pietra del modernissimo padiglione e la
costruzione, progettata dall'ingegner Poma Murialdo e tecnicamente diretta
dal geometra Franco Gandolfi, viene inaugurata il 1 giugno 1973 dal card. Mario
Nasalli Rocca di Corneliano.
La costruzione si articola in tre piani: il
pianterreno è destinato ai servizi generali; il primo per
l'ostetricia, con sala medici, sala ostetriche e ginecologia, direzione
del primario, sale operatorie parto-travaglio, sala nido, psico-profilassi
ostetrica, colposcopia, colpocitologia, con una capacità recettiva di 98
letti.
Il secondo piano è occupato dalla pediatria: direzione del
primario, sezione neo-natali, sezione seconda infanzia, sezione prematuri,
sezione malattie infettive; con una capacità recettiva di 150
letti.
L'impostazione funzionale della pediatria risponde a concetti
modernissimi: si articola in un asse generale di disimpegno, su cui si innestano
i servizi generali e si accede ai settori di degenza, che posseggono anche
servizi propri con autonomia completa.
Ampie e magnifiche vetrate
consentono ottima visibilità e accoglienza di soggiorno; i nuovi
padiglioni sono collegati al corpo centrale da una luminosa
galleria.
Una nave che tiene bene il mare
Ad ogni ampliamento della Casa corrisponde
l'aggiunta di un cappellano cappuccino che, oltre all'assistenza
dei degenti e del personale, insegnano cultura religiosa e morale professionale
nelle scuole interne.
Il personale consta di 35 Suore dell'Istituto
Apostole del Sacro Cuore di Gesù, di 75 medici e 600 impiegati. Anche se
classificata casa di cura privata, la clinica ha sempre svolto funzione di
pubblico ospedale, di cui ha tutti i requisiti organizzativi e funzionali, e
perciò - seguendo il pensiero e il desiderio di Padre Pio -
ricoverò indistintamente, a proprio rischio, qualsiasi malato, anche se
privo di assistenza.
I criteri e le modalità proprie del pubblico
ospedale, funzionanti nella Casa per la ospedalizzazione degl'infermi,
hanno ricevuto il giusto e necessario riconoscimento giuridico il 4 agosto 1971
con la nuova legge ospedaliera, classificando la Clinica, con decreto del medico
provinciale
«Ospedale generale Provinciale», salva sempre la
sua autonomia giuridico-amministrativa e il suo carattere privatistico.
I
due aspetti, classificazione come ospedale e carattere privatistico, sono
fondamentali per l'Opera perché possa perseguire liberamente i suoi
fini istituzionali.
I servizi ed i titoli acquisiti dal personale della
Casa sono stati equiparati ai servizi ed ai titoli acquisiti dal personale in
servizio presso ospedali generali dipendenti da enti ospedalieri.
Prima di
arrivare a tale riconoscimento si sono dovute creare le condizioni legislative
richieste dall'art. 1, comma 5°; e 6°; della legge ospedaliera:
costituzione di un Ente ecclesiastico di assistenza ospedaliera e suo
riconoscimento dall'autorità civile. E di questo se ne
interessò la Segreteria di Stato di Sua Santità, perché
Padre Pio con testamento dell'11 maggio 1964 nominava il Sommo Pontefice
pro-tempore erede universale di tutti i suoi beni.
Il Cardinale Segretario
di Stato costituiva
«Casa Sollievo della Sofferenza - Opera di Padre Pio
da Pietrelcina» in
«Istituto di religione e di culto»,
in
«ente ecclesiastico non collegiale ai sensi dei canoni 1489 e
seguenti del C.J.C. canonicamente eretto in persona morale di diritto
pontificio» (6 aprile 1970).
Con decreto del Presidente della
Repubblica (14 gennaio 1971, n. 14) veniva riconosciuta la personalità
giuridica dell'Ente ecclesiastico, con lo statuto della fondazione stessa,
che tra l'altro stabilisce:
«L'Istituto dipende unicamente
dalla Santa Sede, e per essa dalla Segreteria di Stato» (art. 4):
«L'Istituto è presieduto e rappresentato da un Presidente
nominato dal cardinale Segretario di Stato» (art. 6).
I membri del
minuscolo comitato, costituito il 9 gennaio 1940,
«per la fondazione di
una clinica secondo le intenzioni di Padre Pio», non ci sono
più: il
«tecnico-medico» Guglielmo Sanguinetti di Parma,
già medico condotto a Borgo S. Lorenzo, morì il 6 settembre 1954,
all'età di 60 anni; il
«segretario» dottor Mario
Sanvico, agronomo, di Perugia, morì l'anno dopo, 1955; il
«cassiere contabile» dottor Carlo Kiswarday, già
farmacista a Zara, morì nell'agosto del 1960; e la
«direttrice organizzazione interna» signorina Ida Seitz
morì nel 1976.
Angelo Lupi, a cui è toccato in sorte di
costruire l'edificio monumentale, ritornato a S. Giovanni Rotondo dalla
sua Pescara, decedette nella «Casa» che egli aveva costruito, a 65
anni, il 1°; settembre 1969.
«Con la sua morte si è chiuso il
ciclo degli artefici della grande impresa, compiuta in mezzo a difficoltà
che non sono state ancora fissate in un resoconto storico. La scomparsa di
quelli che possiamo chiamare i pionieri non ha arrestato però il
progressivo sviluppo della Casa, la quale, come una nave che tiene bene il mare,
continua la navigazione con nuovi equipaggi e con la protezione del
Signore».
Padre Pio è sempre vivo,
«e per questo
è viva la «Casa» che, con la carità dispensata a larghe
mani, ne celebra ogni giorno la bontà e ne canta le lodi in cospetto del
Signore. Esse salgono in Cielo, in ringraziamento delle grazie ottenute dal
Signore tramite la sua intercessione» (1).
L'Opera è
in continua espansione. Nel mese di maggio 1991 compiva 35 anni. Per
l'occasione andava a San Giovanni Rotondo il cardinale Agostino Casaroli,
già segretario di Stato di Sua Santità. Il giorno 24
l'eminentissimo porporato benediceva ed inaugurava nuovi reparti: sale
operatorie, neurochirurgia, neurologia, urologia, endocrinologia, ampliamento di
pediatria, ostetricia e ginecologia. E il giorno seguente (25 maggio 1991) lo
stesso cardinale benediceva ed inaugurava la casa di riposo per persone anziane:
palazzine, servizi generali e centrali tecnologiche.
(1) Cf. TRABUCCO
C.,
Padre Pio e la sua Opera, S. Giovanni Rotondo 1974, pp. [54],
[80].
TENEBRA E LUCE
Un tema suggestivo e importantissimo nella
vita di Padre Pio - che merita di essere studiato ampiamente - non è
tanto il «mare magnum»delle vicende a cui è andato incontro,
per buona e mala fede da parte di una porzione del gregge, anch'essa del
buon Pastore - e che indubbiamente non poteva non tormentarlo - ma il dramma che
si svolge nell'intimo del suo essere, con le sconcertanti peripezie di uno
spettacolo svelatoci, in parte, da lui stesso e dai suoi direttori
spirituali.
I mistici e gli studiosi di mistica ci dicono che non si sale e
non si tocca la cima dell'alta contemplazione, se non attraverso la morte
delle purificazioni passive.
La vita di Padre Pio - da giovane
(staremmo per dire da adolescente), da maturo, da vecchio - è
caratterizzata da uno stato interiore perpetuamente contrastato, dove la pace
mantenuta sulla
«punta dell'anima» regna su una coscienza
bruciata dall'angoscia, anche se non sempre della stessa
intensità.
Noi qui lo segnaliamo e ne diciamo soltanto
qualcosa per rapidi accenni, facendo notare che, anche se questo doloroso
interno tormento non ha avuto sempre la tortura della fase acuta della vera
«notte oscura», tuttavia non ha mai abbandonato Padre Pio (cf.
Epist., I, 117 ss).
Mi preparai alla pugna
La dolorosa prova della notte oscura si
protrae per lungo tempo nel suo itinerario spirituale; e presenta tutta la gamma
delle purificazioni e dei tratti più significativi che contraddistinguono
questa dolorosa tappa che prepara l'unione trasformante dell'anima
con Dio.
Il fattore
«divino», «diabolico»,
«morale», e
«psicologico» sono gli elementi
prevalenti di questo fenomeno mistico.
Dio con desolazioni sconvolgenti,
abbandoni apparenti e con ogni sorta di dolori e sofferenze purifica
l'anima chiamata alla divina unione e la spoglia da ogni impedimento che
potrebbe ostacolare, ritardare o rendere impossibile quella meta irraggiungibile
umanamente:
«Mio Dio, e perché scuoti e rimordi, riscuoti ancora
e sconvolgi con sì fatta violenza quest'annuvolata anima,
quest'anima di già annientata, ed il suo annientamento dicesi
mosso, causato e voluto di tuo stesso comando e permissione?»
(
Epist. I, 1037).
«Con ripetuti colpi di salutare scalpello e con
diligente ripulitura soglio preparare le pietre che dovranno entrare nella
composizione dell'"eterno edificio". Queste parole mi va
ripetendo Gesù ogni qualvolta mi regala nuove croci» (ivi, p.
329; cf. anche p. 339).
Con il solito zelo maligno, satana sfrutta questo
stato doloroso dell'anima, abitualmente avvolta in dense tenebre, impedita
a concretamente distinguere il bene dal male, la verità
dall'errore, aumentando - la maledetta bestia - la confusione dello
spirito e spingendo, non di rado, l'anima verso il precipizio della
disperazione, mediante una lotta continua e spietata.
È un duello a
morte, combattuto senza tregua e risparmio di colpi, tra l'anima e il suo
accanito nemico. Assalti diabolici, camuffati sotto mentite spoglie, prima:
forme spaventose, incrudelimento sui sensi, agendo, per così dire, sul
mondo esterno; attacchi prevalenti alla parte superiore dell'anima, poi:
assalti all'intelletto e alla volontà, con lo scopo preciso di
impedire l'esercizio delle virtù teologali ed il progresso
nell'amore divino.
Il
«cosaccio» suscita
nell'anima uno stato di sfiducia e di diffidenza nella divina
misericordia, ma la reazione è immediata e vigorosa, con qualche
strascico d'incertezza - a volte - causata più che altro dalla
sincera disponibilità in cui si trova l'anima di non voler
dispiacere minimamente al Signore: Padre Pio soffre non tanto per
«la
continua violenza» che deve fare a sé stesso, quanto per
«la bruttezza e continuata ostilità» delle
tentazioni.
Attacchi continui, e di giorno in giorno sempre più
virulenti:
«L'altra notte la passai malissimo. Quel
"cosaccio" da verso le dieci, che mi misi a letto, fino alle cinque
della mattina non fece altro che picchiarmi continuamente. Molte furono le
diaboliche suggestioni che mi poneva davanti alla mente: pensieri di
disperazione, di sfiducia verso Dio. Ma viva Gesù, poiché io mi
schermii col ripetere a Gesù "vulnera tua, merita mea".
Credevo proprio che fosse propriamente l'ultima notte di mia esistenza; o
anche, non morendo, perdere la ragione. Ma sia benedetto Gesù che niente
di ciò s'avverò. Alle cinque del mattino, allorché
quel "cosaccio" andò via, un freddo s'impossessò
di tutta la mia persona da farmi tremare da capo e piedi, come una canna esposta
ad un impetuosissimo vento. Durò un paio d'ore. Andai del sangue
per la bocca» (
Epist. I, 292).
«E tutt'altro
che spaventarmi, mi preparai alla pugna con un beffardo sorriso sulle labbra
verso costoro. Allora sì che mi si presentarono sotto le più
abominevoli forme e, per farmi prevaricare, incominciarono a trattarmi con
guanti gialli; ma grazie al cielo, li strigliai per bene, trattandoli per quelli
che valgono. Ed allorché videro andare in fumo i loro sforzi, mi si
avventarono addosso, mi gittarono a terra, e mi bussarono forte forte, buttando
per aria guanciali, libri, sedie, emettendo in pari tempo gridi disperati e
pronunziando parole estremamente sporche» (ivi, p.
330).
«Quei "cosacci" ultimamente, nel ricevere la
vostra lettera, prima di aprirla mi dissero di strapparla ovvero l'avessi
buttata nel fuoco [...].
Risposi che nulla sarebbe valso a smuovermi dal
mio proposito. Mi si scagliarono addosso come tante tigri affamate maledicendo e
minacciandomi che me lo avrebbero fatto pagare. Padre mio, hanno mantenuto la
promessa! Da quel giorno mi hanno quotidianamente percosso. Ma non mi
atterrisco» (ivi, p. 334).
«Ormai sono sonati ventidue
giorni continui che Gesù permette a costoro [brutti ceffoni] di sfogare
la loro ira su di me.
Il mio corpo, padre mio, è tutto ammaccato
per le tante percosse che ha contato fino al presente per mano dei nostri
nemici» (ivi, p. 338).
«Ed ora, babbo mio, [p. Agostino]
chi potrebbe narrarvi tutto quello che ho dovuto sostenere? Sono stato solo di
notte, solo di giorno. Una guerra asprissima s'impegnò da quel
giorno con quei brutti "cosacci". Volevano darmi ad intendere di
essere stato rigettato da Dio» (ivi, p. 361).
La morte, prima che un solo peccato
Alla diabolica perseveranza, una tenace
resistenza: Padre Pio è risoluto a tutti i costi a non venir meno
all'amor di Dio, disposto a sopportare ogni sorta di tormenti e
tribolazioni.
La incertezza di non corrispondere alle esigenze
dell'amore e la paura di dispiacere a Gesù è la sofferenza
più atroce per lui:
«Di tutto ciò [le tentazioni impure]
me ne rido come cose da non curarsi, seguendo il suo consiglio. Solo però
mi addolora, in certi momenti, di non esser certo se al primo assalto del nemico
fui pronto a far resistenza» (ivi, p. 196);
«queste tentazioni
mi fanno tremare da capo a piedi di offendere Dio» (ivi, 200);
«ma di niente ho paura, se non della offesa di Dio» (ivi, p.
216).
La paura provocata dalla tentazione è grande, ma è pur
certa la coscienza di non aver deliberatamente accolta la suggestione diabolica:
«Certo che ad esaminarmi presentemente, preferirei la morte prima di
deliberarmi ad offendere il mio caro Gesù con un solo peccato,
benché lieve» (ivi, p. 196).
Coscienza tranquilla, ma
vittoria conquistata a caro prezzo:
«Mi trovo nelle mani del demonio,
che si sforza di strapparmi dalle braccia di Gesù. Quanta guerra, mio
Dio, mi muove costui! In certi momenti poco manca che non mi vada via la testa
per la continua violenza che debbo farmi. Quante lacrime, quanti sospiri, padre
mio, indirizzo al cielo per esserne liberato. Ma non m'importa. Io non mi
stancherò di pregare Gesù» (ivi, p. 200).
Di tutte
queste diavolerie successe in vita sua Padre Pio ne ha un così vivido e
orrido ricordo, che il
«cosaccio» non lo vuol vedere neppure in
maschera:
«25 gennaio 1923. A ricreazione un collegiale mette un
berretto cornuto e la maschera da diavolo - stralciamo dal diario del
guardiano p. Ignazio da Ielsi -
preparata con cartone per rappresentazioni
nelle ultime sere di carnevale. Vi è presente Padre Pio e gli dice:
«Togli quella roba! Neppur per ischerzo», e fa atto di ribrezzo verso
quella figura».
Eppure c'è chi al diavolo non crede;
chi lo commisera ed alla fine dei tempi gli fa trovare misericordia presso Dio;
e chi fa la storia della sua nascita, del suo declino e della sua
morte.
Padre Pio ci crede - e come!... - trema per la sua debolezza di
fronte alla potente astuzia di lui e ricorre a chi lo può aiutare:
«Io non mi stancherò di pregare Gesù». Questo lo
scriveva nel 1910 e Padre Pio veramente non si è mai stancato di pregare.
Quell'abbozzo di propositi - senza data ma certamente stesi dopo il 1910 -
trovati nella sua stanzetta n. 5:
«In nomine Domini Nostri Jesu Christi.
Amen. Devozioni particolari giornaliere. Non meno di quattro ore di meditazione,
e questa d'ordinario su la vita di nostro Signore - nascita, passione e
morte. Novene: alla Madonna di Pompei - a S. Giuseppe - a S. Michele Arcangelo -
a S. Antonio - al p. S. Francesco - al SS. Cuore di Gesù - a S. Rita - a
S. Teresa di Gesù. Giornalmente non meno di cinque rosari per
intiero», sono stati abbondantemente superati: tutti sanno, per
esempio, che Padre Pio era diventato un Rosario vivente.
Signore, salva la mia fede
Nella nuova strategia escogitata dal
«cosaccio» - non spettacolare ed esterna, ma fatta di lancinanti
torture interiori - che è quella di ostacolare gl'intimi rapporti
tra l'anima e Dio, che si nasconde o manifesta attraverso una misteriosa
caligine purificatrice sempre più densa e dolorosa; di tentare di
scardinare il fondamento su cui poggia tutto l'edificio spirituale - la
fede - proprio nel periodo in cui l'anima teme d'inciampare ad ogni
piè sospinto; di giocare col dubbio quasi permanente sulla realtà
delle relazioni dell'anima con Dio, mediante il rimorso di
infedeltà apparenti o reali commesse e non riparate, la paura di
offendere Dio, la incertezza di piacere o di dispiacere a Lui con la sua
condotta...; di intensificare la lotta tra luce e tenebre, verità ed
errore, sanità e peccato - Padre Pio sa dove attinger forza e coraggio:
prega e fa pregare, con ripetute insistenti esortazioni ai suoi figli spirituali
e devoti e, d'altra parte, non disdegna d'invocare con animo pieno
di angoscia l'aiuto morale dei suoi padri spirituali, dalla cui
intelligente ed oculata direzione ricava incalcolabili vantaggi.
Era un
docile ed umile discepolo Padre Pio:
«Mi sforzo di stare alle
assicurazioni di chi tiene le veci di Dio» (
Epist. I, 751),
«mi sforzo a tutto studio di stare fermo a quanto mi è stato da
voi detto da parte di Gesù» (ivi, p. 127).
L'anima,
assetata di verità, inorridiva dinanzi alla possibilità di essere
vittima delle insidie di satana o delle proprie illusioni. Consapevole che nulla
vi è di più efficace nella presente economia della salvezza per
vivere nella realtà, se non ascoltare la voce di Dio che parla attraverso
i suoi legittimi rappresentanti, vi si dirige con assoluta sincerità per
conoscere il loro parere e i loro orientamenti.
D'altra parte,
poiché il solo pensiero della possibilità di non piacere a Dio gli
causava indicibili sofferenze morali, che spesso si ripercuotevano dolorosamente
anche nel fisico, l'autorevole assicurazione dei ministri di Dio si
rendeva necessaria per conservare o riacquistare la pace e la
tranquillità dello spirito:
«Esaminate, ve ne prego, il presente
scritto, e trovandovi in ciò inganno del demonio, non mi risparmiate di
disingannarmi. Questo pensiero mi fa tremare; io non vorrei essere vittima del
demonio» (Epist. I, 385);
«vi scongiuro, per amore di
Gesù, di esaminare attentamente la cosa e di non essere facile e tenero a
voler giudicare bene di me; ma conoscendo di essere nell'inganno,
aiutarmi, colla grazia del celeste Padre, ad uscirne il più
presto» (ivi, p. 420).
I consigli, le norme, i suggerimenti del
direttore producevano l'effetto desiderato:
«Solo un po' di
calma la trovo nel pensare e nel leggere i suoi ammaestramenti» (ivi,
p. 214),
solo questa [la voce che lo dirige] io seguo e da questa solo provo
in qualche istante un po' di calma in mezzo a tante tempeste»
(ivi, p. 850),
«il solo sostegno che mi rimane in mezzo a tanto ruggire
di tempesta è la sola autorità, cruda e nuda, senza refezione di
spirito» (ivi, p. 1210), anche se non sempre riuscivano a portar luce
allo spirito - specialmente in determinate circostanze dello stato di
purificazione - e l'assoluta, incondizionata adesione alla volontà
di Dio, manifestata per mezzo dei direttori, si risolveva in una
«credenza secca», priva di
«ogni affetto
dolce»: accettazione dolorosa per la natura, sostenuta da fede pura,
senza nessun conforto sensibile:
«Mi sforzo di stare alle assicurazioni
di chi tiene le veci di Dio, ma nell'anima non può mai scendere un
raggio di luce. Una credenza secca, senza alcun conforto e solo bastevole a non
gittare l'anima nella disperazione» (ivi, p. 751 s),
«a
questa autorità mi affido qual bambino sulle braccia della madre e spero
e confido in Dio di non andare errato, sebbene il mio sentimento mi vuol far
credere tutto il possibile» (ivi, p. 800).
Dov'è andato il mio Gesù?
Accettazione penosa che il tentatore
aggravava, ingenerando nel suo animo il timore che fosse adesione apparente,
puramente esterna e non obbedienza sincera e profonda: dubbio che diventava
«posizione quasi disperata» quando, scomparso il ricordo delle
assicurazioni ricevute, l'anima si abbatteva contro l'altro scoglio,
se cioè quell'atto di obbedienza al direttore fosse veramente
uniformità o no al volere di Dio:
«Vorrei, e mi sforzo sempre a
volerlo, anche per rendere meno malagevole la posizione mia, quasi disperata,
acquietarmi alle dichiarazioni fattemi dalla guida. Ma che! Il solo dire
«credo», costituisce per me un atroce martirio; e quando si è
giunti a proferire questo «credo», che amarezza rimane in fondo
all'anima che si va spegnendo alla luce creata senza vedere altra luce! E
il più delle volte, e questo è ordinario ed il peggio si è
che sparisce dalla mente ogni assicurazione, ogni dichiarazione, ogni
esortazione, ogni consiglio che le è venuto dalla guida» (ivi,
p. 1097).
La totale sottomissione del suo spirito al giudizio ed al
controllo del direttore l'accompagnò sino alla tomba; quel che
scrisse nel 1916 si può applicare a tutti gli anni di sua vita:
«Non mi sono affidato mai a me stesso e posso dire davanti alla mia
coscienza di non aver mai dato un passo senza l'altrui consiglio. E su
certi passi specialmente già dati, ci sono sempre ritornato sopra,
chiedendo sempre nuovi lumi a quante persone mi sono capitate» (ivi,
725).
Da questa norma e necessità nacque il dispiacere
(
«rimase amareggiato») quando fu privato della direzione di p.
Benedetto da S. Marco in Lamis, anche se
«si sottomise con santa
rassegnazione alla disposizione», annota nel suo diario p. Agostino (p.
61):
«Non vedo che tenebre nell'anima mia - diceva al p.
Agostino -.
Sarà contento di me il Signore?» Si acquietava poi a
qualunque assicurazione del padre spirituale. Alle volte io gli dicevo: «Ma
rispondi a te stesso in codeste prove ciò che dici a tante
anime!...». Egli aggiungeva: «Nelle altrui anime io vedo chiaro per
grazia di Dio, ma nella mia non vedo che buio». La risposta della direzione
spirituale lo calmava sempre [...].
Da due anni il Signore gli ha mandato
una prova terribilissima, quasi continua. In qualunque sua azione il povero
padre non può avere, non dico la certezza morale, ma neppure il
ragionevole sospetto che l'azione sia accetta a Dio. Senza dubbio non
è uno scrupolo (perché questa prova degli scrupoli la
soffrì da studente forse nel 1905 o 1906) ma è un timore che non
sparisce neppure ricorrendo ai principi generali e riflessi della morale. La
voce dell'obbedienza lo sostiene e lo fa andare avanti. Alle volte gli
succede di dire con la bocca ciò che non sente né vorrebbe dire.
È una prova terribile: ma il Signore non ha mai permesso di recare
nocumento alle anime che egli dirige e consiglia (ivi, p. 65).
Di
questa prova spirituale sempre tormentosa, con i suoi alti e bassi, se ne
accorsero anche le anime dirette, a lui più vicine; difatti una di esse
attesta:
«Vi fu un tempo in cui Padre Pio doveva trovarsi in grande
aridità di spirito, perché lo si sentiva sospirare e mormorare
sotto voce: «Dov'è andato il mio
Gesù?...».
Vi fu un tempo in cui fu assalito dal dubbio
che non guidava bene le anime, ed allora se ne andò a S. Marco la Catola.
Ivi si trattenne per qualche tempo; noi ne bramavamo il ritorno. E tornò
fra noi che fu una gioia per tutti. Molte volte lo sentivamo biascicare fra i
denti: «Nel dubbio libertà... E queste parole le ripeteva
spesso».
Questa tortura
«è un chiodo sempre
conficcato nell'anima» e p. Agostino nel suo diario ne parla
spesso (cf. per es. pp. 76, 78, 80, 86, 100, 102, 114,127, 236...).
A
questa spina conficcata nell'anima; a questo chiodo duro, fisso,
straziante che gli trapana il cervello; a questo
«sempre buio»,
in cui vagola il suo agire morale, che qualche giorno
«comincia con la
Messa e finisce col confessionale», non mancano altre sofferenze:
estrema stanchezza fisica, nutrimento scarsissimo, lavoro esuberante, accuse
calunniose, visite frequenti di febbri con temperatura altissima (oltre i
42°;), coliche renali, foruncoli al naso...
Eppure per nascondere le
sue sofferenze Padre Pio si mostra ilare e gioviale, mentre Dio solo sa che
soffre nell'anima. Oh veramente servo buono e fedele! Sotto il peso della
sua
«cara croce», che - pensa - durerà sino alla morte,
«non si persuade» delle assicurazioni del direttore spirituale
«ma crede», prega e si raccomanda alle altrui preghiere con la
condizione, però, che sia fatta sempre la volontà
divina.
Buio per sé, luce per gli altri
Buio per sé, anche se saputo
abilmente celare; luce per gli altri: Padre Pio ha veramente il dono di
comunicare la pace e la tranquillità alle anime che a lui ricorrono,
anche perché il suo magistero, scaturito dal suo tratto intimo con Dio,
è condito e rivestito da una sensibilità squisita e profondamente
umana: si rallegra vivissimamente del bene che fanno le anime a lui affidate,
delle mete da esse raggiunte, della pace riconquistata; si rattrista, invece,
davanti alle loro pene e vorrebbe che il Signore le riversasse su di sé,
lasciandone tutto il merito a chi soffre; fa suoi i problemi degli altri, i
dolori degli altri, le gioie degli altri. Egli è come
l'incarnazione dell'ideale paolino:
«Mi sono fatto debole
con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare
ad ogni costo qualcuno» (
1 Cor. 9,22).
«Interrogato
sul conto spirituale di alcune anime, a lui note dinanzi a Dio, m'ha
risposto meravigliosamente, con giudizio ponderato e retto e secondo coscienza.
Il Signore tiene il padre nell'oscurità per sé, nella luce
per gli altri» (p. Agostino,
o. c., p. 88).
Consapevole di
trasmettere norme e dottrina attinte non da esperienza umana o da dialettica
fredda e astratta, ma da mozioni divine:
«Dio sa quanto ho poi pregato
Gesù ché mi manifestasse la sua volontà in proposito di
quell'angelica creatura! Il pietoso Gesù mi assista e la sua
santissima Genitrice diriga la mia mano, perché possa ritrarne in
iscritto fedelmente, almeno in parte, ciò che essi mi vanno
suggerendo» (
Epist. I, 379), dirige con mano ferma e decisioni
asciutte e categoriche, con indovinata applicazione dei principi ai singoli casi
personali, con chiarezza, sincerità e franchezza, sia nel riprendere che
nel consigliare ed incoraggiare.
Il risultato della sua direzione felice ed
efficace è aiutato anche dal dono particolare di scoprire le insidie con
cui satana impedisce l'ascesa delle anime, di mettere in evidenza
l'azione della grazia e la realtà delle divine predilezioni e di
tranquillizzare quelle turbate e sconvolte da dubbi, incertezze e tentazioni,
con parola sobria, schiva di disquisizioni dottrinali, con diagnosi sempre
accurata e precisa, seguita da una terapia appropriata e positivamente
risolutiva.
Scomparendo dietro l'autorità di Dio, sapendo di
trasmettere un messaggio non suo ma di Gesù, compie la sua missione con
una certa audacia e linguaggio franco e schietto - anche se addolcito da amabili
trovate - esigendo che quel messaggio sia accettato senza discuterlo e seguito
con prontezza e fedeltà:
«Non vi spaventate per cotesta novella
croce, a cui il Signore vuole assoggettarvi. Il tutto riuscirà a gloria
di Dio ed a maggior vostra santificazione. Statene sicuro di questo. Ed intanto
preparatevi, padre mio, ad altre maggiori prove, alle quali il buon Gesù
vi assoggetterà. Sono crudele, purtroppo, nel manifestare a voi tutto
ciò: ma mi si perdoni; la corona che il Signore mi fa vedere, e che per
voi si va lassù intrecciando, mi fanno uscire dal mio riserbo»
(Epist., I, 543);
«ed al riguardo Gesù è disgustato
alquanto di voi; ed egli mi ha fatto sentire che dovete saldare il conto con lui
di tutto ciò che è avvenuto ed avverrà a quell'anima
in seguito. Perdonatemi, padre mio, se ho avuto tanta sfacciataggine di
trascrivervi queste ultime parole. Voi intanto sapete il tutto e ben
comprenderete se mi è potuto o no riuscire possibile il non
farlo» (ivi, p. 550).
L'efficacia e i buoni frutti di una
tale direzione li possiamo conoscere da coloro ai quali Padre Pio dirigeva i
suoi insegnamenti:
«dilucida egregiamente la mia condizione
interiore», dice p. Benedetto da S. Marco in Lamis e parlando della
forza persuasiva dei suoi argomenti:
«La sua assicurazione mi ha calmato
e procuro tenermi stretto ad essa».
Fatto veramente paradossale:
avvolto nelle più dense tenebre, Padre Pio che non vede il cammino da
seguire nell'ascesa verso il Signore, incapace di risolvere i propri dubbi
ed incertezze, impotente a discernere da solo l'influsso di satana
dall'azione di Dio e di calmare lo spirito sempre in tempesta, quando
prende in mano la direzione degli altri sembra un'altra persona:
«dilucida egregiamente» i problemi più complessi della
vita interiore, detta norme e consigli che irradiano nelle anime luce
vivificante, pace rasserenante ed incrollabile sicurezza; le sue parole, dette o
scritte, hanno un calore ed una unzione che conquidono, una forza irresistibile
che trascina; tutti aderiscono fiduciosi alle sue direttive e tutti ne traggono
copiosi e benefici risultati.
E le anime in cerca di pace e
tranquillità sono una turba che aumenta di giorno in giorno, colorata
anche di grigioverde negli anni quaranta e seguenti, cataclisma mondiale
irrorato di sangue e carne umana sbrindellata dalla brama di dominio e
dall'odio di razza, che rode l'animo e lacera il simile ed a cui
Padre Pio pone una diga come può, pagando sempre di persona:
«In
questo periodo così burrascoso, Padre Pio non si risparmiò.
Difatti un giorno mi chiese - è il guardiano p. Damaso da S. Elia a
Pianisi che racconta -
con mia grande meraviglia, di voler dormire nella
scoletta (quando c'era il collegio, ivi si tenevano le lezioni) tutta
disordinata, ripostiglio di arredi, buoni e fuori uso. Insistette che gli avessi
fatto preparare il letto in tale locale. Il giorno dopo, accontentato il suo
desiderio, abbiamo dovuto chiamare il medico. E per non far vedere quello
spettacolo al dottore, spettacolo di disordine, cercai di coprire alla meglio
tutto con le lenzuola. E Padre Pio, dimentico dei suoi mali, celiando elogiava
quello spettacolo di bianco. Il medico venne - Merla - lo visitò e gli
ordinò una buona tazza di caffè (oh Padre Pio in Paradiso pensasse
a noi!...). Dietro la mia premurosa insistenza oppose una calda preghiera di
offrire la tazza di caffè a fra Crispino da Deliceto (povero fra Crispino
era così bravo; che stiano tutti in Paradiso!...) che era ammalato nella
stanza dirimpetto. Io gli feci capire che c'era anche per fra Crispino, ma
Padre Pio mi pregò con tanta garbata insistenza, che mi convinse e non
insistetti e gli feci il piacere tanto bramato. Padre Pio non mi disse niente,
ma capii che egli soffriva molto e si manteneva solo con la comunione (oltre
venti giorni senza mangiare e senza bere); e pregava il Signore di risparmiare
il Gargano dal disastro della guerra. Io son convinto che San Michele e Padre
Pio ci hanno salvato il Gargano».
Le relazioni bimestrali di
quegli anni (1944, 1945 e seguenti) parlano di «
sfollati e soldati in
buon numero», «di molti soldati di varie regioni d'Italia»,
«di parecchi ufficiali del nostro esercito», «di soldati ed
ufficiali alleati che avvicinano il Padre Pio», «di domenica la sua
Messa è affollatissima di soldati ed ufficiali alleati, che vi assistono
con grande raccoglimento. Molti di essi si accostano alla santa comunione. Anche
i protestanti vi assistono con edificazione di altri fedeli: spesso si vedono
commossi».
Padre Pio è sempre assiduo nell'ascoltare
le sacramentali confessioni ed
«il suo confessionale è sempre
affollatissimo»; da quando il continuo aumento dei visitatori fa
«scoppiare» la povera chiesetta, si cerca di risolvere il
problema dello spazio con la celebrazione all'aperto, almeno per la
stagione estiva.
La sua agonia è tanta grazia
Dove Padre Pio prende tanta energia fisica,
pur essendo il suo corpo spesso visitato da malattie brevi ma sfibranti,
accompagnate da febbri altissime; e come alimenta vigorosamente il suo zelo per
la salute - e corporale e spirituale - del prossimo, è facile rispondere:
«
Quando gli si parla ed egli parla - diario di p. Agostino da S.
Marco in Lamis -
ci si accorge che il suo cuore e la sua mente non si
distraggono dal pensiero e sentimento di Dio (15-19 dic. 1942);
dopo
l'ufficio, resta quasi due ore solo in coro in raccoglimento e preghiera
ed unione intima con Dio (2-6 genn. 1943);
l'unione spirituale con
Dio è abituale. Difficilmente si distrae dal pensiero incessante di Dio.
Circa il fenomeno di molta gente che va o a confessarsi con lui o a consultarlo
egli serba la massima indifferenza, quale strumento docile ed umile nelle mani
della Provvidenza (6-12 febbr. 1943);
la vita del padre si sviluppa
sempre col solito ritmo, sull'altare del Sacrificio, nel tribunale di
Penitenza, nel coro per l'Ufficio e le preghiere in comune ed in
particolare. Dopo vespro si trattiene sempre in coro nel suo raccoglimento con
Dio. È il suo vero riposo dopo le fatiche del ministero (21 genn.
1945)».
Mentre sente la nostalgia del cielo, la divina volontà
lo tiene sulla terra per la salvezza di tante anime ed egli compie a puntino
questa volontà, senza mai lamentarsi della condotta di Dio nei suoi
riguardi. Non nasconde ai confidenti le sue pene, fa capire anche che il dolore
lo sente, ma la conclusione è sempre la stessa, e manifestata con tanta e
tale convinzione e sottomissione al volere di Dio, da infondere nell'anima
una dolce rassegnazione:
«Ma sia fatta sempre la volontà di
Dio».
È la lucerna che il Signore ha posto sul moggio: non
può occultarsi e attira tante anime con il suo chiarore e
calore.
Tra i visitatori che si recano a S. Giovanni Rotondo, vi è
anche il generale dell'Ordine dei Cappuccini, il cui viaggio ha uno scopo
ben preciso. Eletto nel giugno 1938, il reverendissimo p. Donato da Welle ebbe
in consegna tutta la documentazione sul
«caso Padre Pio da
Pietrelcina».
Informatosi, come meglio poté e sulle carte e
degli uomini, invocato lo Spirito Santo - è lui che lo dice nella sua
relazione - partiva alla volta di S. Giovanni Rotondo per incontrarsi (era la
prima volta) con lui, trattenendosi alcuni giorni per rendersi
«esattamente conto» di tutto ciò che riguardava lo
«stimmatizzato» e l'
«ambiente» in cui
viveva.
"Ho esaminato le stimmate ed ho parlato spesso con Padre Pio
d'ogni genere di questioni: volevo in questo primo incontro indagare circa
- se posso esprimermi così - l'uomo naturale del Padre. Era forse
neuropatico? isterico? molle? violento? immaginario? poco intelligente? triste?
esaltato?... Dopo ripetute prove, in tutti i sensi, ho potuto concludere che
Padre Pio era assolutamente sano di spirito e mi rimase la certezza d'una
semplicità e sincerità ch'era incapace d'ingannare o
di dire un «sì» per un
«no»».
Partì confortato e sollevato, con grande
speranza di buon esito anche per le future visite, tenendosi sempre informato
per mezzo dell'
«ottimo» p. Agostino da S. Marco in Lamis,
«uomo di Dio pio e sapiente», da molti anni direttore e
confessore di Padre Pio.
Da parte sua il padre generale, approfittava di
ogni occasione per recarsi a S. Giovanni Rotondo personalmente: visita canonica
alla provincia religiosa (7 agosto 1941), presidenza al capitolo provinciale,
convegno dei direttori del Terzordine francescano ed altri viaggi (anche durante
la guerra, grazie al passaporto vaticano come direttore del collegio
etiopico).
Ogni nuovo incontro era un aumento di stima
«per la
pratica eroica della virtù» di Padre Pio:
«Non parlavo
mai né col Padre né con l'ambiente delle cose straordinarie
che vedevo e sentivo attorno a me: miracoli, guarigioni, estasi, conversioni.
Forse faccio bene a riferire qui un fatto vissuto personalmente. Un mattino alle
cinque stavo per recarmi in chiesa. Un religioso mi disse: «Padre Pio
è tanto sofferente». Difatti lo trovai in gravissimi dolori, che il
medico accanto a lui tentò vanamente di calmare. Dopo qualche parola di
conforto, mi recai in sagrestia e celebrai la santa Messa, che Padre Pio soleva
celebrare in quell'ora. Alla fine della santa Messa fui seguito da un
gruppo di uomini in sagrestia. Volevano confessarsi. Io mostrai le mani aperte
per mostrare che non ero io il Padre Pio. Dissi loro che il Padre si trovava
nell'impossibilità di venire e chiedevo se non potevano aspettare
l'indomani. Mi risposero che questo era impossibile. Avevano viaggiato
tutta la notte; disponevano di quella giornata e dovevano lavorare in una
fabbrica la mattina seguente. Io dissi loro: «Voi sapete che ogni sacerdote
autorizzato può absolvere tutti i penitenti ben disposti e
domanderò un altro padre per ascoltare la vostra confessione». Mi
chiesero se non potevo ascoltarli io. Lo feci volentieri. Esperimentai
così che quasi tutti questi operai ed impiegati non avevano più
frequentato i sacramenti da molti anni. Non ho potuto impedirmi di vedere un
rapporto tra l'agonia di Padre Pio e la presenza simultanea di tanta
grazia».
La breve relazione del padre generale termina con
testimonianze vissute «in loco e personalmente»
: «Posso e devo
affermare che in tutti i contatti che ho avuto col Padre Pio sono stato
profondamente impressionato della pratica delle virtù:
1) -
la sua serenità ovunque e sempre;
2) - l'umiltà:
non parlando mai di se stesso;
3) - il parlare: mai una parola dura
riguardo a chi tanto lo offese;
4) - raccoglimento abituale - ma in
ricreazione allegria e spontaneità, però senza mai una parola
triviale o meno conveniente;
5) - un tenero affetto verso i
superiori ed una perfetta obbedienza a tutte le autorità ecclesiastiche o
religiose;
6) - pietà sana, modestia, senza
enfasi.
Quanto ho riferito qui sopra riposa su l'esperienza
mia personale durante le mie funzioni - prolungate di due anni (causa della
guerra). Dopo il mio ritorno nella mia provincia del Belgio, il p. Agostino da
S. Marco in Lamis mi tenne al corrente di quanto accadeva a S. Giovanni Rotondo
fino alla sua morte.
Nel Belgio il Padre Pio era già molto
conosciuto. Gruppi di preghiera si sono formati. Ho ricevuto e trasmesso
centinaia di lettere con offerte per raccomandarsi alle preghiere del Padre Pio.
Personalmente devo aggiungere che considero il Padre come un gran santo. Lo
tengo presente in tutta la mia vita d'apostolato nel confessionale e
celebro ogni mattina la santa Messa in unione con lui. So che molti pii
sacerdoti fanno altrettanto e che numerosissimi sacerdoti, religiosi e laici
pregano nel Belgio per la pronta beatificazione di Padre Pio. Devo chiudere
questa breve relazione e scusarmi, come feci già in principio, della
povera scrittura e degli sbagli di lingua e di grammatica. Ma ho scritto in
coscienza dinanzi a Dio in tutta verità».
Ai principi di
ottobre 1946 Padre Pio ebbe un'acuta sofferenza per la perdita del
genitore: «Zi' Grazio» volò al cielo il 7 del detto mese.
Degente nella casa della signorina Maria Pyle, poco distante dal convento,
aggravatosi la notte del 4 ottobre, Padre Pio scese a visitarlo e stette al suo
capezzale, sino al mattino. Vi ritornò i giorni seguenti e
«Zi' Grazio» morì alla sua presenza. Il giorno 8 si
svolsero i funerali nella chiesetta del convento e nelle ore pomeridiane il
mesto corteo s'avviò al cimitero del paese.
Padre Pio rimase a
letto, a soffrire e a pregare; sino al giorno 14 poté soltanto celebrare
la santa Messa, portandosi poi a letto, perché si sentiva accasciato: il
suo spirito era sollevato, perché rassegnato e unito a Dio, ma la carne
era depressa. Il 15 cominciò di nuovo la sua vita ordinaria, confessando
e ricevendo quelli che a lui ricorrevano.
Andate, ne avrete del bene
Il fuoco divoratore che da
cinquant'anni arde nel cuore di Padre Pio per il Signore e i suoi redenti,
continua a consumare la vittima: è il prezzo dei doni
«belli e
tremendi».
La guerra esterna di persone,
«collegate con
satana, continua; ma il Padre va avanti nel nome di Dio - annota nel suo
diario p. Agostino da S. Marco in Lamis il 3 sett. 1952 -
come se nulla lo
riguardasse, mentre il suo animo è amareggiato».
Quale
«provvidenziale strumento del Signore», richiama anime a Dio,
che gli esprimono la loro riconoscenza a voce e per iscritto con molte lettere
«davvero commoventi», per grazie temporali e spirituali
ricevute, od esprimendo «
sentimenti di anime che soffrono, che domandano
un consiglio, una parola di salvezza».
Il 22 gennaio 1953,
cinquantesimo di vestizione religiosa di Padre Pio, è giorno solenne: la
chiesina non può contenere
«la folla di
popolo».
«Gli attestati di grazie crescono. Si notano
conversioni di comunisti e di increduli - diario di p. Agostino, giorno 8
febb. 1953 -
La corrispondenza epistolare cresce. In mezzo a tante
dimostrazioni di ammirazione, di amore Padre Pio rimane nella sua
semplicità ed umiltà, attribuendo il tutto alla gloria di Dio,
autore di ogni bene. L'immagine ricordo è stata dettata dal padre
stesso».
Verso la fine del 1954 circola la voce di voler portare
via Padre Pio: un trasferimento, questo, riproposto da un monsignore curiale
romano. Pio XII, invece, riafferma benevolenza e stima al venerato Padre, il
quale, commosso e grato per la benedizione che il Santo Padre si è
benignato inviargli, ricambia il gesto del Papa con la preghiera per la sua
«preziosa salute».
Ad un gruppo di pellegrini francesi,
che chiedevano a Pio XII se potevano recarsi a S. Giovanni Rotondo, rispondeva:
«Sì, sì andate, ne avrete del bene». E nel 1949
si tratteneva brevemente in udienza privata con alcuni missionari della
provincia cappuccina di Foggia:
«Il Papa: "Missionari
in Eritrea? Di quale provincia siete?".
Padre Ferdinando:
"Di Foggia, Santità".
Padre Francesco:
"Della provincia di Padre Pio".
Il Papa: "Lo so! E
come sta Padre Pio?".
Padre Ferdinando: "Sta bene,
Santità".
Il Papa: "Ci va molta gente? È
vero?".
Padre Ferdinando: "Sì, Padre Santo, e fa
tanto bene".
Il Papa: "È un
sant'uomo!".
Padre Francesco: "Padre Santo, gli
mandi una benedizione speciale".
Il Papa: "Sì, di
gran cuore".
Poi il Papa, muovendo il capo prosegue:
"Tanto buono... tanto buono... beato
lui!..."».
Padre Pio sentì
«tutto il
dolore per la morte del Papa Pio XII. Ma poi il Signore glielo ha fatto vedere
nella gloria del Paradiso», afferma p. Agostino da San Marco in Lamis
nel suo diario (giorno 18 nov. 1958).
In quegli anni l'afflusso della
«tanta gente» affrettò la soluzione del problema dello spazio e
il 31 gennaio 1955 si iniziarono i lavori di sterro per l'erezione della
nuova chiesa e il 2 luglio del 1956 vi fu la cerimonia per la posa della prima
pietra.
Mentre le opere si moltiplicano, di pari passo aumentano le
sofferenze di Padre Pio: sembra che il bene a S. Giovanni Rotondo non nasca e
non cresca se non ci sia una buona porzione di sue pene:
«Egli soffre e
molto per l'opera provvidenziale della clinica che, dicono, sarà
inaugurata il 5 maggio. Soffre anche per la nuova chiesa, i cui lavori sono
cominciati da quasi un anno. È la lotta di satana che ora combatte le
opere di Dio che vuole la gloria del nostro amato Padre» (p. Agostino,
o.c., 23 marzo 1956).
Voglio morire in convento
Padre Pio continuava a camminare per la sua
via, consumando la vita per i due grandi amori: Dio e anime; e assieme al
quotidiano, sfibrante ministero prende parte, come può, alla vita comune.
Lo sforzo di ogni giorno, imposto al suo fisico, bisognoso invece di riposo (i
santi si riposano in Paradiso), fece sì che
«quel malessere che
avvertiva già dalla seconda metà di aprile - stralciamo dalla
relazione bimestrale 10 luglio 1959 -
si aggravò ai primi di maggio,
tanto da non poter dire la santa Messa neppure il giorno del suo onomastico.
Trattavasi di pleurite essudativa per cui dovette mettersi nelle mani dei medici
per le cure del caso, che non finiscono ancora. Si celebra la Messa nella sua
stanza e fa la santa comunione».
Il 4 giugno i professori
Gasbarrini e Pontoni, venuti a S. Giovanni Rotondo, non consigliarono più
l'estrazione del siero, praticato già tre volte, ma suggerirono
l'assorbimento con le medicine. Padre Pio soffre, perché
«non può continuare la vita quotidiana col suo ministero
spirituale per il bene delle anime. Nella sua camera per mezzo del microfono
ascolta le funzioni che si svolgono in chiesa e dopo la funzione rivolge al
popolo sante parole e dà a tutti la sua benedizione. Le lettere
dall'Italia e dalle altre nazioni si sono moltiplicate, dalle quali si
vede che milioni di anime pregano per la salute del Padre» (ivi, 8
giugno 1959).
Il 30 giugno, dopo un consulto medico tra i professori
Gasbarrini, Pontoni, Valdoni e Toniolo, a Padre Pio viene consentita una ripresa
parziale dell'attività.
Il 1°; luglio celebra nella
cappella di Casa Sollievo della Sofferenza; per mancanza di forze rimane in
clinica ed il giorno seguente non celebra: gli si era formato di nuovo
abbondante liquido pleurico, che gli venne in gran parte estratto, e fu
obbligato dai medici curanti a lunga cura ed a riposo assoluto. Il liquido non
gli si formò più; quello rimasto dopo l'ultima estrazione
veniva lentamente assorbito, ma le forze non ritornavano, Padre Pio si sentiva
estremamente debole.
L'1 e il 2 luglio si svolgevano con grande
fervore e con eccezionale partecipazione di fedeli, le annunciate celebrazioni
per la consacrazione della nuova chiesa, dedicata alla Madonna delle Grazie, la
cui immagine veniva solennemente incoronata dal cardinale Federico
Tedeschini.
La mattina del 3, stesso mese, con un perentorio intervento del
padre provinciale Agostino da S. Marco in Lamis, Padre Pio fu riportato in
convento:
«Qualcuno brigò presso Roma - appunta nel suo
diario al giorno 13 agosto 1959 -
che il Padre [Pio] fosse ricoverato in
clinica. Egli mi disse: «Se viene qualche ordine da Roma, obbedirò,
ma poi se peggioro, voglio tornare in convento, dove voglio morire».
L'ordine venne dalla Segreteria di Stato. Mandai subito a Roma il primo
definitore molto reverendo padre Amedeo [da S. Giovanni Rotondo] con la
relazione del dottor Sala e con la lettera del molto reverendo padre Raffaele
[da S. Elia a Pianisi], il quale ripeteva quanto il Padre Pio aveva detto a me,
anzi preferendo di essere curato in convento dove voleva morire. Alla Segreteria
di Stato si capì la cosa e così il Padre è rimasto con
noi».
Mamma mia, mi lasci ancora malato?
Il 5 agosto 1959 la statua della Madonna di
Fatima pellegrina per i capoluoghi di provincia, eccezionalmente viene portata a
S. Giovanni Rotondo, per riguardo a Padre Pio, e viene solennemente accompagnata
nella chiesa del convento.
Padre Pio è a letto e prega; ma il giorno
dopo, 6 agosto, verso le tredici, poco prima che la Madonna andasse via,
è portato giù su una sedia, facendo sosta ogni tanto per non
stancarlo; seduto nella vecchia sagrestia attende che termini la Messa
d'addio.
Ai piedi della Madonna, abbassata sino al suo viso, commosso
e con le lagrime agli occhi, la bacia affettuosamente e mette un rosario da lui
benedetto nelle sue mani; poi si riporta su, perché stanco e per timore
di qual che collasso.
La Madonna è portata nella Casa Sollievo della
Sofferenza, fa il giro di tutti i reparti e poi sale in terrazza,
dov'è l'elicottero per la partenza:
«Padre Pio
espresse il desiderio - apprendiamo dagli appunti di p. Raffaele da S. Elia
a Pianisi, testimone oculare:
di volerla salutare ancora una volta prima che
partisse, e così, sempre sopra una sedia, lo si porta nel coro della
nuova chiesa, e si affaccia all'ultima finestra a destra di chi guarda la
chiesa dal piazzale. Ecco che tra gli evviva di una massa di popolo
l'elicottero si solleva; prima però di prendere la rotta designata,
fa tre giri su convento e chiesa per salutare Padre Pio.Egli al vedere
l'elicottero che si muove con su la Madonna, tutto commosso, con fede e
lacrimante, dice:«Madonna, mamma mia, sei entrata in Italia e mi sono
ammalato; ora te ne vai e mi lasci ancora malato». Detto questo, abbassa
il capo, mentre un brivido lo scuote e pervade tutto.Padre Pio ha ricevuto la
grazia, e si sente bene.Il giorno dopo vuol celebrare in chiesa, ma quasi tutti
lo sconsigliano. Intanto la sera, provvidenzialmente arriva il professor
Gasbarrini, che lo visita minuziosamente, lo trova guarito clinicamente e dice
ai padri presenti, tra i quali ero anch'io: «Padre Pio sta bene e
domani può celebrare liberamente in chiesa».Quale giubileo fu per
noi e per tutto il popolo. In breve si diffuse la notizia che la Madonna di
Fatima aveva ridonato la vita a Padre Pio; e da quel giorno egli riprese tutte
le sue attività nell'apostolato: Messa e confessioni come per il
passato. Ci fu qualche voce stonata che voleva negare il miracolo; ma egli
diceva:«Lo so io se sono o no guarito, e se è stato un miracolo
della Madonna; sono io che devo giudicare».Tutte le volte poi che
raccontava questo portento, non poteva arrivare in fondo che cominciava a
piangere».
Ripreso il ministero sacerdotale, i fedeli, che durante
la malattia di Padre Pio non sono mai mancati sebbene in numero ridotto,
aumentano più di prima, sia dall'Italia che dall'estero.E
ricominciano le lamentele, le accuse, i ricorsi.
Dando un'occhiata al
diario di p.Agostino da S.Marco in Lamis, rileviamo che Padre Pio soffre per la
clinica:
Pare che le cose non vadano
bene. L'Opera della
carità non è servita ed amata come si deve. Speriamo che
intervenga la mano di Dio nell'Opera che è sua e sconfiggere al
più presto l'organizzazione diabolica (19 genn. 1960).
La
clinica è sempre la sua sofferenza (26 marzo 1960)».
Il 22
luglio 1960 è nominato visitatore apostolico del convento dei Cappuccini
di S. Giovanni Rotondo e della Casa Sollievo della Sofferenza monsignor Carlo
Maccari, con l'ordine che gli sia prestato il debito ossequio e la dovuta
obbedienza e di cooperare coscienziosamente con lui per il compimento della sua
missione.
Arriva a S. Giovanni Rotondo il 30 luglio e il 6 agosto tornava
provvisoriamente a Roma,
«per non turbare con la sua presenza la
celebrazione del cinquantesimo di Messa di Padre Pio», che ricorreva il
10 agosto.
Certamente clima non ideale per ricordare una data sì
cara al cuore di Padre Pio ed ai fedeli di tutto il mondo, che manifestarono il
loro affetto con esplosioni di gioia, scritta e parlata.
Il visitatore si
presentava il 16 agosto per partire definitivamente il 15 settembre
1960.
Per esigenze impreteribili di prudenza, per le particolarissime
circostanze create dall'entusiasmo popolare accentratosi su Padre Pio, si
deve variare, in quanto è possibile, l'orario della sua Messa; e
per il rispetto dovuto al sacramento della penitenza, a fin di osservare una
distanza tra il suo confessionale e i fedeli che attendono il loro turno per le
confessioni, impedendo l'abuso di persone che durante le confessioni si
trovino nella possibilità di udire le accuse sacramentali, si escogita il
mezzo di due cancellate negli archi di comunicazione tra la chiesa nuova e
l'antica, dov'è il confessionale di Padre Pio.
Cosa
c'era oltre «
le due cancellate?».
È molto
umano, specialmente dal punto di vista della psicologia della folla, pensare che
dietro le cancellate vi sia un prigioniero o un delinquente e la stampa degli
anni 1960-1963, interprete e informatrice della pubblica opinione,
sventolò ai quattro venti che Padre Pio era prigioniero con il suo bravo
ed arcigno carceriere,
«infliggendo una prigionia che le nostre prigioni
umanitarie non consentirebbero nemmeno nei confronti di un irrimediabile
malfattore». Altri, invece, la pensano diversamente e, recatisi sul
luogo, non vedono né carcerato né carceriere.
Mentre alcuni
parlano di
«pesanti catene, cancellate di ferro e assurdi
divieti», altri spiegano che con le misure adottate si sono volute
eliminare
«le contaminazioni» che turbavano l'apostolato
di Padre Pio: è la pietà «
vera e cristallina»,
che si avvia a rientrare nei suoi alvei naturali, trasformata in
«menzogna e sortilegio» dalla gente che si agita
«in
una commistione pericolosa di sacro e di profano senza poter discernere
l'uno dall'altro»; e quindi la
«robusta»cancellata di ferro - continuano altri - è
soltanto un segno
«tangibile» di tale rinnovamento.
La
situazione generale divenne ancora più caotica quando un periodico
cominciò a parlare di microfoni e registratori, installati in alcuni
luoghi di abituale frequenza da parte di Padre Pio, e una nuova ondata di
amarezza e di tenebra si addensò ed aggrumò sulla sua
persona.
L'amarezza egli la esprime al padre guardiano, che gli rende
noti gli estratti della
«insana propaganda«, con parole che ci
ricordano chi c'è dietro le due cancellate:
«Cosa posso
fare? Prego che Dio mi chiami presto e mi liberi da questi
guai».
Non è una novità: c'è un uomo
che prega e che soffre.
NELLE BRACCIA DELL'AMORE
Padre Pio, senza sollevare obbiezione di
sorta, riceve gli ordini in spirito di umiltà e ubbidienza; cammina per
la via tracciatagli da Dio seminando bene, irrorato dalla propria sofferenza e
riscaldato dall'amore della continua preghiera.
Ai molteplici dolori
che lo affliggono da lunga data, si aggiunge il peso degli anni, che gli
indeboliscono la vista, per cui chiede la commutazione dell'Ufficio divino
in altre preghiere (16 gennaio 1962); e pochi anni dopo, sempre per la avanzata
età e la cagionevole salute, con le dovute dispense (21 novembre 1966)
celebra seduto la santa Messa.
Il comune di S. Giovanni Rotondo in modo
particolare, non dimenticando il suo grande benefattore, in seduta straordinaria
(24 aprile 1965) plaude e ringrazia
«per le provvidenze realizzate da
Padre Pio da Pietrelcina in S. Giovanni Rotondo», con l'augurio
«per il pronto ristabilimento delle sue condizioni
fisiche».
Augurio desideratissimo da parte di tutti, ma purtroppo
la realtà è ben diversa.
Mi sento tutto sconquassato
Padre Pio si sta avviando all'eterna
vita, ogni giorno più carico di malanni ai quali nessun mortale
può sfuggire; ma li porta - non li sopporta - con tanta uniformità
ai divini voleri, da far venire la santa rassegnazione in Dio, al solo
guardarlo, a chi è provato anche lui dal dolore.
Non dice di non
soffrire, quando realmente soffre:
«Figlio mio, mi sento tutto
sconquassato» - rispondeva alla nostra domanda - aggiungendo subito:
«Ma sia fatta la volontà di Dio...».
Il suo animo
conosce le agonie e i suoi occhi le lacrime, anche se poco avvertite dagli
altri, perché si mostra sempre gioviale:
«Trovai il Padre molto
abbattuto. Appena fummo insieme nella sua cella - apprendiamo dal diario di
p. Agostino da S. Marco in Lamis, p. 78 -
si mise a piangere. Io mi commossi,
ma potei frenare la mia commozione e lo lasciai piangere per alcuni minuti. Dopo
parlammo. Il caro Padre mi disse che sentiva profondamente la prova
inaspettata».
Ma, pagato il tributo all'umanità, si
riprende subito: scherza anche sui suoi guai, e benedice e ringrazia il Signore:
«Lo trovai molto sollevato per grazia di Dio: «Adesso come passi i
tuoi giorni?», lo interrogai. Mi rispose: «Prego, studio come posso
e... do noia ai miei fratelli». «Come sarebbe?». «Scherzo
come prima e meglio di prima». Mi disse chiaramente: «I primi giorni
della terribile prova mi sentii male, ma poi il Signore mi sostenne e quindi mi
adattai al nuovo ambiente. Sia ringraziato Gesù. Ma venite a trovarmi. Ho
bisogno d'una parola amica, fraterna, paterna»» (ivi, p.
79).
Quanto è confortante trovare elementi comuni anche in uomini di
eccezione! L'eroismo di marmo e di bronzo suscita stupore, ma non riscalda
il cuore; quello cristiano invece dimora in cuori di carne: non distruggendo le
innocenti debolezze della natura umana, in esse la santità trova forza e
bellezza.
Il fatto che i santi soffrono e sono lieti di soffrire, non dice
che non sentano il dolore. Possono crocifiggere la loro carne, ma con ciò
non la pietrificano né la rendono insensibile. Non sono fatti di pietra e
non hanno alcune qualità marmoree degli Stoici, la cui ambizione era di
«sentir morire ogni sentimento». Al santo curato d'Ars -
per esempio - costò sempre gran fatica levarsi ogni mattina prima
dell'alba e moltissime volte entrava nel confessionale con grandissima
riluttanza naturale.
Padre Pio soffriva
«umanamente» e non
«stoicamente»: desiderava soffrire
«sempre più e
soffrire senza alcun conforto» - e di ciò ne faceva tutta la
sua gioia - perché le anime che soffrono senza conforto alleggeriscono di
più i dolori del buon Gesù:
«Sono egoista - diceva -
in fatto di soffrire, voglio soffrir solo [...];
mi rimprovererei se
cercassi anche per un'ora sola di essere lasciato senza croce o, peggio
ancora, se altri entrassero in mezzo a rapirmela» (
Epist. I,
304).
E per alleggerire i dolori del
«buon Gesù»,
sino alla fine tenne fede al suo programma: coro, altare, confessionale,
recandovisi - negli ultimi tempi - anche con la sedia a rotelle, convertendo in
realtà quella ipotesi detta il 12 novembre 1954 al suo padre spirituale:
«Preferisco essere portato al confessionale sopra una sedia,
anziché non poter più confessare» (P. Agostino,
o.c., p. 222).
Il grande dono della vocazione religiosa
La corrispondenza epistolare aumenta e la
gente viene
«come in tanti pellegrinaggi», assetata della
divina grazia, a chiedere, chiedere, sempre chiedere; e per venire incontro ai
numerosi presenti, desiderosi di avvicinare Padre Pio, il superiore del convento
chiede al provinciale il permesso di poter togliere la clausura alla vecchia
sagrestia ed al corridoio di accesso alla nuova, per poter dare la
possibilità alle donne, quando Padre Pio passa di ritorno dalle
confessioni e dalle benedizioni eucaristiche, di almeno vederlo più da
vicino e ricevere la sua benedizione.
Alla fine di maggio, nei giorni 27 e
28, Padre Pio sta molto male per uno dei soliti attacchi di coliche renali, che
lo costringono a letto, senza poter celebrare e ricevendo soltanto la santa
comunione. Soffre gli atroci dolori con forza e serenità, come sempre,
ripetendo:
«Soffro molto, ma ringrazio Dio lo
stesso».
Nell'anno del Signore 1964 - come di consueto - le
funzioni della Notte Santa sono celebrate da Padre Pio, in una chiesa
gremitissima, nonostante la inclemenza del tempo. Visibilmente commosso durante
la processione del Bambino dal coro all'altare maggiore, durante il canto
della Messa la sua voce
«era velata ed impedita dal
pianto».
Non è la prima volta che la commozione lo assale:
«Durante la funzione serotina - attesta il padre guardiano Carmelo
da S. Giovanni in Galdo -
mentre leggeva la preghiera alla Madonna, si
è commosso fino alle lagrime. In genere la sua voce durante la preghiera
è sempre velata di commozione; ma questa sera è avvenuto in modo
singolare: la commozione è stata tanto forte e palese che non gli
permetteva di proseguire, tra la sorpresa e la commozione di quanti assistevano
alla cerimonia», né i suoi procurati e studiati colpetti di
tosse riuscivano a coprire la sua sviscerata riconoscenza alla Madonna per
averlo tante volte liberato dall'inferno da lui meritato.
Il solerte
cronista p. Carmelo, ricordata la data del 22 gennaio (vestizione di Padre Pio),
ci fa conoscere un edificante particolare, successo la sera precedente nella
stanza n. 1:
«Prima di addormentarsi - ore 18,30 - Padre Pio nel
ricevere la benedizione del padre guardiano e gli auguri con la buona notte da
parte dei confratelli, ha chiesto a tutti una preghiera e l'aiuto nel
ringraziare il Signore del grande dono della vocazione religiosa e nel chiedere
perdono della sua ingratitudine ed in corrispondenza alle grazie del Signore. E
poiché i presenti cercavano di confortarlo, non dando molto peso alle sue
parole, egli si è commosso fortemente fino alle lagrime ed ha voluto fare
pubblica confessione del suo grande peccato, dicendo: «Fratelli miei,
l'ho fatta grossa davvero! Nacqui il 25 maggio 1887, alle ore 18,15 di
sera; ebbi la grazia di ricevere il battesimo dopo 14 ore e cioè alle ore
8 del giorno successivo 26 maggio. Fino al giorno della mia vestizione religiosa
- 22 maggio 1903 - per 16 anni non ho mai ringraziato il Signore del dono del
Battesimo e della Grazia ricevuta così presto, dopo le 14 ore!...
L'ho fatta grossa, l'ho fatta grossa!...». E continuò a
piangere dirottamente, tra il silenzio, la confusione, l'ammirazione ed
edificazione dei presenti, finché calmatosi e rasserenatosi si
addormentò placidamente».
È il tempo più
bello quella mezz'oretta prima del riposo: Padre Pio e i confratelli,
senza nessuno estraneo, non inceppati da controlli prudenziali, si sentono in
piena libertà e serenità familiare.
Benedice la folla dalla
finestra, saluta col fazzoletto ed augura la buona notte; prende qualche boccone
di cibo, si mette a letto, chiede la benedizione al padre guardiano, abbraccia e
bacia tutti i presenti, scambiando la
«buona notte», il
superiore intona l'Ave Maria, un ultimo saluto, gli altri si ritirano
nelle proprie stanze e Padre Pio si addormenta.
«È proprio
in questi momenti d'intimità - è il guardiano p. Carmelo
da S. Giovanni in Galdo -
che molte volte sfuggono a Padre Pio delle
espressioni molto belle e significative, qualche volta provocate dai presenti.
Una sera, per esempio, parlando della dipendenza ed ubbidienza ai nostri
Superiori, Padre Pio disse: «Dipendere ed ubbidire per me è una
gloria». Dandoci l'abbraccio serotino spesso ripete: «Un
pensiero a Gesù sacramentato. Beati voi che potete andare in coro... Voi
siete fortunati perché andate per ultimi in coro... Un pensiero a
Gesù ed alla Madonna per me...»».
Non sempre riesce a
dormire e il
«più delle volte ci dice di passare la notte in
bianco, senza chiudere occhio. Gli abbiamo chiesto - continua il padre
guardiano -
a che ora si alzasse la mattina; ha risposto:
«Ordinariamente mi alzo alle 2; molte volte anche prima». «Che
cosa fa fino alle 4,30, quando scende per la Messa?!». «Mi preparo
alla santa Messa». «Padre, non le sembra molto tempo?».
»Figli miei, non è mai troppo prepararsi alla santa
Comunione!...»».
La gente vuole vederlo
Le polemiche, che non mancano mai nella
vita di Padre Pio, non diminuiscono l'affetto, la stima e la riconoscenza
verso di lui. La gente va, va continuamente: specialmente nel ricordo di certe
date è numerosa - come il 20 settembre per la ricorrenza delle stimmate.
Egli fa quel che può. Mangia pochissimo e solo a mezzogiorno; la mattina,
sforzato, prende una tazza di caffè ed un tuorlo d'uovo e la sera,
prima di coricarsi, gli si ricorda con insistenza di bere un sorso di
vino.
La Messa la celebra prestissimo, alle ore 4, con grande concorso di
gente, che aspetta da più d'un'ora davanti alla porta della
chiesa e fa a gara per conquistare i posti più vicini all'altare ed
ascoltare la sua santa Messa, che non oltrepassa i quaranta minuti, assistito da
un padre per aiutarlo a muoversi.
Ogni tanto, per le precarie condizioni di
salute, non può celebrare. È un fatto che preoccupa molto. I
pellegrini, intanto, continuano a venire ed è veramente straordinario
l'afflusso della gente, nonostante egli per la sua avanzata età e
la poca salute possa dare pochissima soddisfazione:
«La Messa del
mattino è sempre affollata - annota nella cronistoria p. Carmelo da
S. Giovanni in Galdo, al 14 sett. 1966 -
e gremita è la vecchia
sacrestia ed anche l'atrio del primo piano sopra la sacrestia per il
passaggio del Padre: la gente vuole vederlo e si stringe attorno a lui,
nonostante le abituali sgridate che il Padre rivolge ai più
indisciplinati. Prega e soffre: è questo lo spettacolo quotidiano a cui
noi assistiamo e la sua preghiera e la sua sofferenza salgono al trono di Dio e
smuovono le masse che accorrono a S. Giovanni Rotondo da ogni parte
d'Italia e dall'estero. Ha perso quasi del tutto il suo brio e la
sua vivacità; parla pochissimo; è tutto chiuso in se stesso;
rarissimamente ha qualche ritorno del suo fare usuale, con episodi, barzellette,
arguzie e detti vivaci, da cui sapeva trarre anche nelle ricreazioni spunti di
bene e pensieri spirituali. Pensiamo che la sua sofferenza sia più che
altro morale; indubbiamente soffre molto nel fisico, ma deve avere dispiaceri e
preoccupazioni che lo prostrano moralmente. Egli però, non li manifesta a
nessuno».
Il 24 novembre 1966 per la prima volta celebra la
Messa, seduto, all'altare rivolto al popolo.
L'anno 1966
ricorda cinquant'anni di permanenza di Padre Pio a S. Giovanni Rotondo e
l'amministrazione comunale, presieduta dal dottor Giuseppe Sala, decide di
festeggiare questa ricorrenza con particolare solennità.
Per
l'occasione si sceglie la giornata dopo Natale, dichiarata festa
cittadina. Una medaglia commemorativa in triplice esemplare (oro, argento e
bronzo) sarà offerta a Padre Pio ed una lapide sarà scoperta sulla
facciata della vecchia chiesetta; un manifesto del sindaco farà conoscere
il programma dei festeggiamenti.
La stampa, o per un motivo o per un altro,
s'interessa sempre di lui: il quotidiano «Il Tempo» annunzia una
serie di articoli, dal titolo sensazionale, sulle stimmate di un frate sotto le
unghia dei diavoli.
Venuto a conoscenza di questa pubblicazione, egli se ne
addolorò profondamente e pregò i suoi superiori d'impedirla,
con queste laconiche parole scritte di suo pugno il 10 febbraio 1967:
«Reverendissimo padre, prego impedire che vengano pubblicati i miei
scritti inviati ai miei padri spirituali o padri che mi hanno guidato
spiritualmente. Le bacio la mano e chiedo la santa benedizione. Padre
Pio».
I superiori fecero immediatamente il loro dovere, ma coloro
che si erano impadroniti delle lettere non ebbero la sensibilità di
accettare il cortese invito rivolto loro a nome di Padre Pio, autore delle
lettere. Solo un'azione legale avrebbe messo a posto le cose, ma era
questo un metodo completamente alieno dalla mente di Padre Pio e dei suoi
superiori.
Assieme a questi rammarichi morali non mancano mai anche gli
acciacchi fisici, che di tanto in tanto si fanno sentire più acuti: la
mattina del 25 febbraio 1967, dopo la celebrazione della santa Messa, salendo in
camera, ha un forte attacco di asma bronchiale, tanto da impedirgli di
respirare. Con l'aiuto del medico e l'assistenza dei confratelli,
riesce a riprendersi e può scendere a confessare. In questi giorni sta
male anche il fratello Michele (morto il 9 maggio 1967, all'età di
85 anni), la signorina Maria l'americana (morta il 26 aprile 1968) e
qualche altra persona a lui cara:
«Ieri, sulla veranda -
cronistoria, al 25 febbraio 1967 -
si scherzava e si diceva a Padre Pio che
queste persone stavano un pochino meglio, mentre lui continuava ad essere
sofferente... Il padre guardiano scherzando gli ha detto: «Lei, Padre,
prende sempre tutto sulle sue spalle!...». E Padre Pio: «Purché
gli altri stiano bene; di me non m'importa»».
Deve - e
lo fa volentieri - soffrire per tutti, da solo, senza cireneo. A chi sentendo
che lui non sta bene e soffre molto e vorrebbe prendersi le sue sofferenze
almeno un giorno sì ed uno no risponde:
«La ringrazio, ma il
Signore non può darmi un cireneo. Devo fare soltanto la volontà di
Dio e se piacerò a lui il resto non conta».
A chiusura
dell'anno 1967 si è voluto fare la somma delle confessioni da lui
amministrate. Il numero delle persone che si sono potute confessare da lui
è circa quindicimila donne e diecimila uomini, e nella chiesa del
convento sono state distribuite durante l'anno circa 300.000 comunioni e
celebrate circa 12.000 sante Messe.
E pensare che ora
l'attività di Padre Pio è molto ridotta, mentre negli anni
precedenti era inchiodato al confessionale per ore, ore ed ore; invece adesso
deve limitarsi, perché «frate asino» non ce la fa proprio
più e la volontà non è sufficiente a mantenerlo in piedi;
di tanto in tanto è costretto anche a non celebrare,
«perché muove con grande difficoltà le gambe. Non gli
fanno male, ma dice di non «sentirsele». Abbiamo fatto preparare una
sedia a ruote, per risparmiargli la fatica del cammino» (
Cronistoria
del convento, 29-30 mar. 1968).
Il 7 luglio ha un forte collasso e
preferisce rimanere solo in continua preghiera: Padre Pio è diventato
quasi muto per gli uomini e tutti si sforzano di rispettare questo sacro
silenzio, come meglio possono, mentre uno straordinario numero di pellegrini,
particolarmente tedeschi, e moltissimi sacerdoti affluiscono a S. Giovanni
<Rotondo.
Al Santo Padre preghiera e sofferenza
Rimessosi alquanto in salute, nelle sue
più intime relazioni con Dio non dimentica il bene dell'Ordine,
della Chiesa e delle sue Opere:
«Santità, approfitto del vostro
incontro con i padri capitolari per unirmi spiritualmente ai miei confratelli ed
umiliare ai vostri piedi il mio affettuoso ossequio, tutta la mia devozione
verso la vostra augusta persona, nell'atto di fede, amore ed obbedienza
alla dignità di colui che rappresenta sulla terra. L'Ordine dei
Cappuccini è stato sempre in prima linea nell'amore,
fedeltà, obbedienza e devozione alla Sede Apostolica: prego il Signore
che tale rimanga e continui nella sua tradizione di serietà e
austerità religiosa, povertà evangelica, osservanza fedele della
Regola e delle Costituzioni, pur rinnovandosi nella vitalità e nello
spirito interiore, secondo le direttive del Concilio Vaticano II, per essere
più pronto ad accorrere nelle necessità della madre Chiesa, al
cenno della Santità vostra.
So che il vostro cuore soffre
molto in questi giorni per le sorti della Chiesa, per la pace del mondo, per le
tante necessità dei popoli, ma soprattutto per la mancanza di obbedienza
di alcuni, perfino cattolici, all'alto insegnamento che voi, assistito
dallo Spirito Santo e nel nome di Dio, ci date. Vi offro la mia preghiera e
sofferenza quotidiana, quale piccolo mio sincero pensiero dell'ultimo dei
vostri figli, affinché il Signore vi conforti con la sua Grazia per
continuare il diritto e faticoso cammino, nella difesa dell'eterna
verità, che mai si cambia col mutar dei tempi. Anche a nome dei miei
figli spirituali e dei «Gruppi di preghiera» vi ringrazio per la
parola chiara e decisa che avete detto, specie nell'ultima enciclica
«Humanae vitae», e riaffermo la mia fede, la mia incondizionata
obbedienza alle vostre illuminate direttive.
Voglia il Signore
concedere il trionfo alla verità, la pace alla Chiesa, la
tranquillità ai popoli della terra, salute e prosperità alla
Santità Vostra, affinché, dissipate queste nubi passeggere, il
Regno di Dio trionfi in tutti i cuori, mercé la vostra opera apostolica
di supremo Pastore di tutta la cristianità. Prostrato ai vostri piedi vi
prego di benedirmi, assieme ai confratelli, ai miei figli spirituali, ai
"Gruppi di preghiera" ai miei ammalati, a tutte le iniziative di
bene che nel nome di Gesù e con la vostra protezione ci sforziamo di
compiere. San Giovanni Rotondo, 12 settembre 1968. Della Santità Vostra
umilissimo figlio. F. to Padre Pio, Capp.no».
La sua ultima Messa
Si avvicina una data che ogni anno è
stata celebrata in clima raccolto ed orante, ma il 1968 ricorda
cinquant'anni di stimmate visibili, apparse il 20 settembre 1918 sulle
carni di Padre Pio.
Nessuna solennità esteriore all'infuori di
tante, tante rose rosse che ornavano l'altare maggiore, offerte dai figli
spirituali, ed una grande moltitudine di devoti venuti da ogni parte del mondo
per ricordare vicino al «Padre» questa data memorabile.
Altra
particolarità: per la prima volta, forse, il Crocifisso del coro
dell'antica chiesetta, davanti al quale Padre Pio ricevette le stimmate,
era adornato anch'esso di tante rose rosse.
Il festeggiato celebra la
Messa piana, come tutte le mattine, alle ore 5:
«nella chiesa gremita di
folla, aleggiava un'aura solenne di mistero, di preghiera, di
raccoglimento, di unione mistica - ci fa sapere il guardiano del tempo, p.
Carmelo da S. Giovanni in Galdo -.
Il resto della giornata, come sempre, per
Padre Pio: lavoro, preghiera, confessioni».
La città di S.
Giovanni Rotondo, però, ha voluto solennizzare anche esternamente questo
cinquantesimo, unico nella storia dei Santi e della Chiesa: una folla immensa
con fiaccole accese si è incamminata verso il convento, spettacolo
veramente suggestivo -
«una marea di fiammelle ondeggianti» -
per dimostrare al festeggiato la sua fede, la sua devozione e la sua
gratitudine.
Il giorno dopo - 21 settembre - Padre Pio non celebra ma si
comunica soltanto, perché debole e stremato di forze, a causa di un
fortissimo attacco di asma, che gl'impedisce di respirare e per una
mezz'ora circa desta apprensione grande e timore. Assistito dal medico
curante dottor Giuseppe Sala, il padre guardiano con gli altri confratelli non
si sono mossi dalla sua stanzetta, finché la crisi non si è
risolta, fortunatamente in bene.
Molto agitato per la sofferenza, stringeva
forte la mano al padre guardiano ed ai confratelli che gli erano accanto,
ripetendo:
«È finita, è finita!...».
Passata
la crisi ed esortato dal superiore a non scendere per le confessioni:
«E
come voglio scendere - rispose -
in queste condizioni!...».
Ripresosi alquanto, nel pomeriggio assisté - come al solito - alla
funzione vespertina dal matroneo e benedisse la
«immensa
folla», convenuta da tutto il mondo per il convegno internazionale dei
«Gruppi di preghiera» che si sarebbe tenuto il giorno seguente, in
occasione del cinquantesimo delle stimmate.
Convegno di una importanza
particolare, e per il cinquantesimo delle stimmate e per la recente nomina del
direttore generale da parte della S. Congregazione dei Religiosi, per coordinare
l'attività dei 740 «Gruppi di preghiera», sparsi in tutto
il mondo con più di centomila iscritti e tutti figli spirituali di Padre
Pio.
Casa Sollievo è uno splendore di luci e sventolio di bandiere;
la chiesa del convento è ornata quale sposa a festa, con sul piazzale un
grande palco per i discorsi e la «Via Crucis» meditata; su tutto
troneggia un'altissima croce di legno.
Gli alberghi sono strapieni;
le prenotazioni esaurite già da tre mesi; moltissima gente cerca alloggio
altrove; molti attendono all'aperto o in pullman il sorgere della radiosa
e memorabile giornata:
«Tutti sono in festa ed aspettano con ansia
febbrile - parla la cronaca del convento -
di vivere la giornata di
domani: solo Padre Pio si sente confuso e smarrito nella sua umiltà,
considerando i grandi doni ricevuti da Dio. Oggi, circa all'ora di pranzo,
prima che il Padre prendesse sforzatamente quel po' di cibo solito, il
padre guardiano nel dare il "buon appetito" al Padre che era ancora
debole e stremato di forze per la crisi d'asma di questa mattina, gli ha
detto: "Buon appetito, Padre, e si faccia coraggio. Lei deve star bene;
è venuta tanta gente per la festa di domani!". "Altro che
festa - ha risposto Padre Pio -
dovrei fuggire e sparire per la
confusione che provo"».
Nella storia del convento di S.
Giovanni Rotondo - continua ad annotare il fedele e diligente cronista - poche
giornate possono essere paragonate a quella che oggi (22 sett. 1968) è
stata vissuta e che rimarrà storica nel ricordo di tutti:
«Convegno internazionale dei "Gruppi di
preghiera"».
Alle ore 5 Padre Pio desiderava celebrare la
Messa letta come tutte le mattine ed il padre guardiano gli ha dovuto fare dolce
violenza per fargliela dire solennemente in canto, per i «Gruppi di
preghiera».
Aperta la porta della chiesa, una marea di gente invade
letteralmente le tre navate ed i matronei; neppure un angolo libero e moltissima
gente rimane sul sagrato:
«La folla sembrava delirare per la gioia di
vederlo e festeggiarlo, e si è dovuto penare non poco per ottenere il
silenzio e l'ordine [...].
La Messa si è svolta con la
consueta solennità e devozione; alla fine - è la cronaca del
convento -
scroscianti ed interminabili applausi con grida sincere «viva
Padre Pio!» «auguri Padre!» hanno salutato il Padre prima che
rientrasse in sacrestia. Però, nell'alzarsi dalla poltrona e prima
di scendere i gradini dell'altare rivolto al popolo, Padre Pio ha
barcollato e si è ripiegato su se stesso, quasi per
cadere».
Soccorso prontamente dai confratelli, sostenendolo di
peso ed adagiatolo sulla sedia a rotelle, è stato portato in sacrestia.
«Pallido e sbiancato in viso, come assente e smarrito ha benedetto la
folla accalcatasi alla balaustra laterale, ripetendo affettuosamente ed
affannosamente: «Figli miei, figli miei!»».
Dopo il
ringraziamento, avviatosi per le confessioni delle donne, dovette tornare
indietro e risalire in camera con l'ascensore:
«Padre Pio non
sembrava più lui; bianco nel viso, tremante e stremato di forze, con le
mani fredde, fissava tutti con lo sguardo, quasi assente e lontano da tutto
quello che gli avveniva intorno. E così ha continuato per tutta la
giornata».
Verso le 10,30 ai «Gruppi di preghiera»,
radunati sul sagrato per ascoltare i discorsi ufficiali, Padre Pio affrettando i
tempi (la sua benedizione ed il suo saluto paterno alla folla era previsto per
mezzogiorno) dalla finestra del coro della vecchia chiesa, affacciatosi quasi
all'improvviso, ha benedetto e salutato lungamente la folla:
«È difficile descrivere la gioia, il delirio, i battimani, le
grida di evviva - attingiamo dalla cronaca del convento -
l'agitare
di mani e di fazzoletti per rispondere al saluto del Padre e dimostrargli ancora
una volta l'affetto e la devozione filiale da tutta quella stragrande
moltitudine, qui convenuta anche dall'estero. Padre Pio aveva voluto
salutare i suoi figli con anticipo, perché si sentiva stanco e prima di
andare a riposarsi un tantino. È apparso alla finestra bianco, diafano in
viso, agitando un fazzoletto bianco e benedicente con la mano. È stata
un'apparizione, una visione eterea, come di un altro mondo; poi il Padre,
aiutato e sorretto, si è ritirato in camera».
Terminata la
«Via Crucis» all'aperto verso le ore 18, tutta la folla si
riversa in chiesa per la Messa vespertina e per ricevere la benedizione di Padre
Pio a conclusione della meravigliosa giornata.
Il Padre assiste alla Messa
dal matroneo, a lato sinistro dell'altar maggiore, fissando a lungo la
gente ch'era in chiesa e sui matronei.
Al termine della Messa, come
sempre, mentre cerca di alzarsi per benedire la folla, rimane curvo su se
stesso, senza potersi muovere; a stento riesce a sollevare la mano destra per
benedire i suoi figli spirituali: il gesto familiare di ogni sera, il saluto e
la conclusione di ogni giornata. Poi, quasi sollevato di peso, è adagiato
sulla sedia a rotelle e riaccompagnato in camera.
Passando per la sala S.
Francesco benedice e saluta ancora tanti uomini; e così pure dalla
finestra della stanza salutando la folla, agitando il fazzoletto bianco:
«Sullo spiazzo oltre il muro della clausura un buon numero di iscritti
ai Gruppi di preghiera era ad attendere il saluto della sera di Padre Pio, con
fiaccole e candeline accese: uno spettacolo simile a quello del giorno 20. Dopo
i ripetuti saluti e le grida "evviva! auguri! buona notte, Padre! vi
vogliamo tanto bene, Padre!", la finestra della cella di Padre Pio si
è chiusa definitivamente per sempre, chiudendo dentro di sé la
visione ed il ricordo di un Uomo che tutti, dopo averlo incontrato, avevano
imparato a chiamare "Padre!"».
Nelle braccia dell'Amore
Chi mai avrebbe pensato che alla grande
festa del giorno precedente sarebbe seguito il funerale del giorno
dopo?
Tutti vedevano che Padre Pio si consumava lentamente e che lui stesso
spesso parlava e desiderava morire:
«Come si sente, Padre?».
«Male, male, figlio mio, - rispondeva al padre guardiano -
solo la
tomba mi manca. Sto più di là che di qua. Pregate il Signore che
mi faccia morire!...», ma nessuno voleva credere che la fine fosse
così vicina, a chiusura di una giornata intensissima per i suoi figli
spirituali e di normale attività per lui.
«Ha voluto morire
in piedi, al suo posto di lavoro, dopo un giorno passato come gli altri -
afferma la cronaca del convento, che è la voce del padre guardiano -
nella preghiera e nel ministero per il bene. È apparso sì
oltremodo affaticato, smarrito, quasi assente dalla scena del mondo; qualcuno
ora dice ch'egli era morto, doveva morire sull'altare, dopo la
Messa, quando alla fine ha barcollato, e che il Signore lo ha conservato in vita
solo per non rovinare la giornata di festa già programmata ed evitare
altri inconvenienti; ma chi mai poteva intuire che era giunta la
fine?»
Alle ore 2 circa del 23 settembre un religioso
picchiava ripetutamente all'uscio della cella del superiore:
«Padre guardiano, si alzi. Padre Pio sta male». Immediatamente
precipitatosi nella stanza dell'ammalato, seduto sulla poltrona ed
assistito dal dottor Sala e da due confratelli, lo vide
«con gli occhi
chiusi, la testa leggermente chinata in avanti e respirava molto affannosamente,
gonfiando il petto e con un lieve rantolo alla gola. Gli presi la mano destra:
era già fredda. Lo chiamai più volte: "Padre! Padre!."
Non mi rispose; forse mi sentì, e si accorse della mia presenza. Mi
sentii smarrito, come di fronte alla terribile realtà che ad ogni costo
non volevo ammettere, ma il medico con lo sguardo non mi dava alcuna speranza e
mi aveva fatto chiamare proprio lui, quando aveva avuto la netta sensazione che
si era alla fine».
Amministratogli il sacramento
degl'infermi, poco dopo, sereno, tranquillo, vola al cielo con la corona
del santo Rosario in mano e con
«Gesù... Maria!...»
sulle labbra.
Non ha voluto morire a letto, ma in piedi sulla sua poltrona,
dove aveva passato ore ed ore in preghiera, meditazione e preparazione alla
Santa Messa; da dove aveva ascoltato, consigliato, illuminato e confortato tanti
confratelli, figli spirituali e personalità che ebbero la fortuna di
avvicinarlo nella sua camera.
In piedi, al posto del suo lavoro, con la
corona in mano e vestito dell'abito religioso:
«Sint lumbi vestri
praecincti et lucernae ardentes in manibus vestris; similes hominibus
expectantibus dominum suum...» (Lc. 12,35 s: «Siate pronti con la
cintura ai fianchi e le lucerne accese; siate simili a coloro che aspettano il
padrone»), medita p. Pellegrino da S. Elia a Pianisi, dalla cui
testimonianza apprendiamo altri edificanti particolari dell'ultima
notte.
Chiamato parecchie volte col citofono da Padre Pio, accorse al suo
capezzale e lo vide sempre
«con gli occhi rossi di pianto, ma di un
pianto dolce, sereno».
A mezzanotte,
«come un bambino
pauroso», lo supplicò:
«Resta con me, figlio
mio», guardandolo negli occhi pieni di implorazione e stringendogli
fortemente la mano.
Successivamente si volle confessare e dopo la
confessione:
«Figlio mio - disse -
se oggi il Signore mi chiama,
chiedi perdono per me ai confratelli di tutti i fastidi che ho dato; e chiedi ai
confratelli ed ai figli spirituali una preghiera per l'anima
mia», e rinnovò l'atto della professione
religiosa.
Quando incominciava ad impallidire e la fronte s'imperlava
di un sudore freddo, p. Pellegrino si preoccupò, ma
«mi
spaventai - confessa -
quando vidi che le sue labbra cominciavano a
diventare livide. E ripeteva continuamente «Gesù, Maria», con
voce sempre debole. Mi mossi per andare a chiamare un confratello, ma egli mi
fermò dicendo: «Non svegliare nessuno». Io mi avviai ugualmente
e correndo mi ero allontanato di pochi passi dalla sua cella, quando mi
richiamò ancora. Ed io pensando che non mi richiamasse per dirmi la
stessa cosa tornai indietro. Ma quando mi sentii ripetere: «Non svegliare
nessuno», gli risposi con un atto di implorazione: «Padre spirituale,
adesso mi lasci fare...»».
Nel tranquillo cantuccio
Bello e solenne anche nella morte, Padre
Pio, con la stola sacerdotale, stringeva fra le mani il Crocifisso, la corona
del Rosario e la Regola francescana.
Stupore, commozione, lacrime
provocò la dolorosa notizia, propagatasi in un baleno in tutto il
mondo.
Composta la salma nella bara di legno, il mesto corteo dei
confratelli, parenti, amici e figli spirituali, candela in mano e recitando il
«Miserere», accompagna il venerato Padre, attraverso il corridoio,
l'atrio «S. Francesco», la scalinata e la sacrestia, in
chiesa.
Disposto il servizio d'ordine, sia dentro che fuori la
chiesa, alle ore 8,30 si aprono le porte:
«Tutta l'immensa marea
di gente - apprendiamo dalla cronaca del convento -
che da sei ore e
più attendeva impaziente di entrare, si riversò in chiesa
gridando, pregando e piangendo, nel desiderio di avvicinarsi il più che
fosse possibile alla bara, per vedere, toccare, baciare le venerate spoglie del
Padre defunto».
Confuse tra la folla senza numero si scorgono
scienziati illustri, personalità civili e religiose, che non tentiamo
neppure di nominare, tante sono.
Nella tarda serata del 23 si pensa di
chiudere la chiesa per dare un po' di respiro ai Carabinieri ed alla
Polizia,
«ma è inutile: la gente si accalca sul piazzale, grida,
fa pressione e bisogna riaprire le porte. Si riesce soltanto nel frattempo a
portare la bara in sacrestia; viene cambiata la bara di legno e le spoglie del
Padre vengono religiosamente composte in una bara di acciaio, in previsione
della sepoltura nella cripta», e si praticano al cadavere delle
iniezioni di formalina per assicurare lo stato di conservazione, durante i
giorni dell'esposizione al pubblico.
Apposto sulla cassa
d'acciaio un cristallo per l'intera lunghezza, in modo che il corpo
restasse completamente visibile e nello stesso tempo protetto dalla devozione
indiscreta della folla. Continua l'interminabile processione per rendere
l'ultimo omaggio alla salma, tutti aspettando
«due, tre ore per
poter arrivare vicino la bara. È uno spettacolo commovente e sorprendente
vedere tanto entusiasmo, tanta fede suscitata dal venerato Padre
Pio».
Il giorno 26, verso mezzogiorno, alla folla che non mai
terminava, si disse a malincuore basta. Il mesto corteo si avviò dalla
chiesa al paese verso le 15,30:
«Una innumerevole massa di popolo, che
era la più piccola parte di tutti i partecipanti; la gran parte preferiva
far ala al passaggio del corteo lungo tutto il percorso: lungo le strade,
davanti alle porte, sui marciapiedi, sui balconi, alle finestre, ovunque
c'era gente che piangeva, pregava, invocava il Padre che passava per
l'ultima volta fra i suoi figli. Era uno spettacolo meraviglioso, che chi
non l'ha vissuto non può crederlo, né immaginarlo.
Dall'alto gli elicotteri dell'Aviazione e della Polizia gettavano
fiori e volantini sulla folla che seguiva ordinata e devota il mesto corteo.
Moltissima gente, poi, preferì rimanere negli spazi vicini al sagrato
della chiesa e della clinica, temendo di non trovar posto al rientro del corteo.
L'onorevole professor Enrico Medi, dal microfono sul palco intrattenne in
preghiera tutta quella gente, recitando il Rosario e commentando i diversi
misteri con elevazioni toccanti e devoti riferimenti al Padre
scomparso».
Il corteo che si snodava per le vie principali del
paese era non il funerale ma il trionfo di Padre Pio.
Tornati al convento,
ch'era già buio, si celebrò sul sagrato la solenne
ufficiatura liturgica, iniziata alle 19 circa: solenne concelebrazione di
ventiquattro sacerdoti, celebrante principale il generale dei Cappuccini p.
Clementino da Wlissingen, con elogio funebre del p. Clemente da S. Maria in
Punta, definitore generale e amministratore apostolico della provincia di
Foggia, con la lettura del telegramma del Santo Padre:
«Augusto
Pontefice ha appreso con paterno cordoglio notizia pio transito Padre Pio da
Pietrelcina et mentre eleva preghiera affinché il Signore conceda suo
servitore fedele corona di giustizia conforta rimpianto di codesta
comunità religiosa medici personale degenti Casa Sollievo Sofferenza et
intera popolazione San Giovanni Rotondo con particolare apostolica benedizione.
Cardinale Cicognani».
A cerimonia terminata, alle ore 20,30 le
spoglie furono portate in chiesa.
Con il benestare, chiesto ed ottenuto
dalle competenti autorità, svolte le cerimonie protocollari del caso, la
bara, il cui coperchio di acciaio porta in alto un Crocifisso di acciaio e
bronzo con la dicitura:
«Francesco Forgione - nato a Pietrelcina
25-5-1887 - morto a San Giovanni Rotondo 23-9-1968» viene portata a
braccia nella cripta e calata nel loculo scavato sotto il pavimento nel sito
già precedentemente predisposto: erano le ore 22.
«La bara
nel loculo fu collocata in modo - guardando l'altarino di fondo - che la
testa risulta dalla parte destra ed i piedi a sinistra [...].
Il blocco
monolitico, modellato a sarcofago, pesa 30 quintali ed è di granito
azzurro del Labrador [...]».
«Sono le ore 22,30 -
annota sulla cronaca del convento il padre guardiano Carmelo da S. Giovanni in
Galdo -.
Compiuta la mesta cerimonia, vengono invitati tutti ad uscire e
tornare alle loro case. Anche noi confratelli, dopo l'ultima preghiera, ci
allontaniamo; vengono chiusi i cancelli della cripta; restano accese le lampade
in segno di fede, affetto e devozione al Padre, immerso nel sonno dei
Giusti».
Il suo desiderio, espresso nel lontano 1923, si è
realizzato:
«Ricorderò sempre questo popolo generoso nelle mie
preghiere, implorando per esso pace e prosperità. E quale segno della mia
predilezione, null'altro potendo fare, esprimo il desiderio che, ove i
miei superiori non si oppongano, le mie ossa siano composte in un tranquillo
cantuccio di questa terra».
A chiusura di questo doloroso e
glorioso capitolo, ci poniamo due domande: Padre Pio aveva previsto la sua
morte? Sembra di sì, come possiamo ricavare da una testimonianza
autografa della nipote Pia Forgione, depositata in busta chiusa, presso il notar
Domenico Giuliani in S. Giovanni Rotondo, il 13 dicembre 1967, con preghiera di
custodire il plico e
«consegnarlo al superiore del convento dei
cappuccini di S. Giovanni Rotondo, dopo la morte di Padre Pio, salvo altra mia
volontà contraria».
Il 14 ottobre 1967 in un colloquio
privato con la nipote che gli esponeva alcuni problemi familiari, Padre Pio
rispondeva testualmente: «
Fra due anni che io non ci sarò
più, perché sono morto, tante cose cambieranno«.
A
Padre Pio sono scomparse le stimmate, dopo la sua santa morte?
Anche a
questa domanda, stando alle testimonianze oculari, dobbiamo rispondere di
sì.
Stralciamo dalla testimonianza del medico curante di Padre Pio
dottor Giuseppe Sala:
«Dieci minuti dopo la morte, le mani, il torace ed
i piedi di Padre Pio, sostenuto da me, come risulta dalla presenza delle mie
mani nelle fotografie eseguite, vennero fotografati da un frate in presenza di
altri quattro confratelli. Le mani, i piedi, il torace e ogni altra parte del
corpo non mostravano rilievi di ferite, né cicatrici erano presenti alle
mani, e ai piedi, né al dorso, né alle palme od in sede plantare,
né al costato là dove in vita aveva avuto piaghe ben delimitate e
visibili. La cute, in quei punti riferiti, era uguale a quella di ogni altra
parte del corpo, morbida, elastica, mobile, e la pressione digitale non
evidenziava sprofondamenti del derma o del sottocutaneo o spostamenti di ossa o
cedimenti delle stesse. L'aspetto, il colore, la consistenza non
rivelavano alcunché di particolare, né la presenza di segni di
pregressa incisione, lacerazioni, ferite, piaghe o reazioni
infiammatorie.
In conclusione, le palme e il dorso delle mani, il
dorso e le piante dei piedi e l'emitorace sinistro avevano cute normale,
integra, di colorito uniformemente uguale al resto del corpo, fermo restando i
rilievi di pallore e di modica stasi dovuti alla morte sopravvenuta da poco.
Tali rilievi delle piaghe che Padre Pio aveva in vita e che alla morte sono
scomparse si devono considerare come un fatto fuori da ogni tipologia di
comportamento clinico e di carattere extra naturale».
La notte del
23 settembre - scrive nella cronaca del convento il padre guardiano -
«appena morto Padre Pio, consapevole di dover lasciare una testimonianza
ufficiale ed autorevole, volli di proposito, insieme con altri testimoni,
osservare da vicino le stimmate, e dovetti costatare che le mani non si
presentavano più come altre volte le avevo viste; ma le ferite sia delle
mani, che dei piedi e del costato erano completamente rimarginate senza lasciare
alcun segno o traccia di cicatrice. Si osservino le foto, che quella stessa
notte vennero scattate».
E precisa che non è esatto dire o
pensare che Padre Pio non avesse più le stimmate da due o tre mesi prima
della morte; ma invece le piaghe, due o tre mesi prima di morire,
«sono
cominciate piano piano a chiudersi ed a ridurre la fuoriuscita del sangue, fino
a presentarsi, alla morte completamente rimarginate e senza alcuna cicatrice.
Prova ne è che proprio all'ultimo momento si è staccata
l'ultima crosticina o pellicola dalla mano sinistra [...].
Quindi
Padre Pio ha continuato a portare i guanti fino all'istante della morte,
non per ingannare, ma per coprire - come sempre - le ferite».
E se
Padre Pio, morto, non aveva più le piaghe, perché le sue mani
portavano ancora i mezzi guanti e i suoi piedi le calze?
Il fatto della
scomparsa delle stimmate - risponde il guardiano - era noto solo a quei pochi
che avevano pietosamente composto il cadavere e perciò
«stimai
opportuno di lasciare il corpo coperto ai piedi con le calze ed alle mani con i
mezzi guanti, così come Padre Pio usava andare da vivo. Questo non per
occultare la verità, ma perché in quel momento non era opportuno
rendere pubblico il fatto, che poteva prestarsi a false ed affrettate
interpretazioni ed a motivo di scandalo per i deboli».
Settembre 1968, l'ultima Messa e la morte di Padre Pio