(dal latino
optimus: ottimo). Disposizione psicologica in forza della
quale un individuo tende a valutare e considerare gli eventi e le persone,
principalmente per i loro aspetti positivi. • Filos. - Termine di
applicazione moderna per quanto riguarda l'ambito filosofico, utilizzato per la
prima volta in un articolo dei "Memoires di Trevoux" (1737) in riferimento alla
dottrina di Leibniz. Secondo l'accezione così introdotta, si intende per
o. il carattere proprio di dottrine filosofiche che, ponendo quale
fondamento della realtà un principio razionale o provvidenziale,
affermano che tutto l'esistente, in quanto esistente, è in sé
bene. Nel pensiero antico, oltre ad alcuni aspetti del Platonismo e del
Neoplatonismo, l'esempio più significativo di
o. filosofico
è offerto dallo Stoicismo; di natura schiettamente ottimista è
anche la concezione filosofica, antropologica e teologica cristiana, espressa
compiutamente nel dogma della Redenzione che afferma la perfetta bontà di
Dio e la perfettibilità e possibilità di salvezza dell'uomo.
O. assoluto, tuttavia, è quello elaborato da Leibniz, secondo cui
Dio scelse, all'atto della creazione, il migliore (
optimum) fra tutti i
mondi possibili. Tale
o. fu criticato e ridicolizzato da Voltaire nel
celebre racconto
Candide, ou de l'optimisme (1759), in cui l'innocente
giovane Candide verifica quanto sia erronea l'educazione ottimistica e
leibniziana da lui ricevuta. Carattere ottimista ebbe in pratica tutto il
razionalismo moderno, da Cartesio a Spinoza, fino alla concezione illuministica,
solo in parte confutata dall'affermazione kantiana dell'irrimediabile
corruttibilità della natura umana. Nettamente improntato a una visione
ottimistica è stato il pensiero del XIX sec., per eredità
hegeliana e marxista e per suggestione delle conquiste tecnico-scientifiche, e
in particolare il Positivismo, che postulava il progresso umano come lineare e
costante (V. anche
PESSIMISMO).