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ITINERARI - LE ORIGINI - ASTRONOMIA - OSSERVAZIONE DELL'UNIVERSO

INTRODUZIONE

È difficile rendersi conto di che cosa significhino le enormi distanze spaziali e temporali che dividono i fenomeni dell'evoluzione dell'Universo. I 17.000.000.000 di anni che ci separano dall'iniziale big bang, rischiano di restare incomprensibili, così come parlare di un Universo che dovrebbe essere "vasto" 10.000.000.000.000.000.000.000.000 di chilometri. Cifre che sfuggono al controllo del senso comune. Per dare un'idea dei tempi e delle distanze degli eventi cosmici è opportuno usare scale grafiche. Nella spirale dei tempi ogni millimetro equivale a 2 milioni di anni: tutta l'evoluzione, ammessa un'età dell'Universo di circa 17 miliardi di anni, sta racchiusa in una linea lunga 8 metri e mezzo.

L'OSSERVAZIONE DELL'UNIVERSO

La dimensione massima dell'universo visibile è data dalla distanza percorsa dalla luce delle stelle più lontane da quando esse cominciarono a brillare. Se l'universo fosse illimitato nel tempo il suo raggio sarebbe pure illimitato. Se, come si crede attualmente, l'universo ha un'età di 17 miliardi di anni, per definizione, noi non possiamo vedere nulla oltre la distanza di 17 miliardi di anni luce.
Il progresso tecnico degli ultimi decenni ha confermato l'ipotesi di uniformità dell'universo: se si osserva l'universo in una scala sempre più grande, con telescopi ottici sempre più potenti, esso continua ad apparire uniforme, a prescindere dai fenomeni di addensamento locali rappresentati dalle galassie. Cioè, la distribuzione di materia e la sua struttura sono ovunque uguali entro limiti di tolleranza molto bassi.

Per cercare di comprendere la natura e la struttura dell'universo occorre osservare e riconoscere i diversi oggetti che lo compongono e misurare la distanza a cui si trovano. Avere un'idea della distanza dei pianeti, delle stelle, delle galassie, di tutti i corpi celesti via via individuati nello spazio serve a far capire che le dimensioni su cui si svolgono i fenomeni astronomici hanno scale diverse, avvengono cioè in tempi e in spazi lontanissimi da quelli a cui si è abituati nell'esperienza quotidiana.
Essere consapevoli delle enormi distanze che separano i corpi celesti consente di ricavare una serie di informazioni essenziali (dimensione, massa, quantità di energia emessa, ecc.) per formulare, su basi scientifiche, un quadro della loro evoluzione nello spazio e nel tempo.

IL PARADOSSO DI OLBERS

Il cielo di notte è scuro. È un'osservazione così abituale, che a prima vista non sembra che possa rivestire una qualsiasi importanza. Il merito dell'astronomo tedesco Heinrich Wilhelm Olbers (1758-1840) fu quello di richiamare l'attenzione sul fatto che l'oscurità del cielo notturno era invece un difficile problema scientifico: «Se l'universo fosse statico (a parte naturalmente i movimenti locali come, ad esempio come quelli dei pianeti intorno al Sole) e costituito da un numero infinito di stelle distribuite uniformemente nello spazio, il cielo dovrebbe risultare brillante come il Sole anche in piena notte». Olbers viene particolarmente ricordato per questo «paradosso», formulato nel 1826. Il paradosso si basava su calcoli indiscutibili: in un universo statico, la quantità di luce e di calore irradiata da un infinito numero di stelle, per quanto lontane possano essere, sarebbe talmente elevata che il cielo dovrebbe allora essere brillante dappertutto e, in ogni punto, dovrebbe risplendere anche in piena notte. La Terra si troverebbe all'interno di un'autentica fornace. Non solo la notte non sarebbe scura, ma non esisterebbe nessun genere di vita e non ne sarebbe mai esistita la minima traccia.
In realtà l'ipotesi di un universo infinito non è necessaria all'esistenza del paradosso. Sarebbe sufficiente che il raggio dell'universo visibile fosse maggiore del raggio del campo visuale, fosse cioè un raggio tale che, in qualunque direzione guardassimo, la nostra linea visuale finisse con intercettare sempre la superficie di una stella.
La luce emessa da stelle situate oltre il limite della visuale sarebbe inevitabilmente intercettata da qualche stella. Le stelle, sebbene troppo deboli per essere viste singolarmente, insieme dovrebbero rendere il cielo di notte chiaro, non scuro. In media, ogni stella emetterebbe la sua luce verso la Terra con un'intensità simile a quella del Sole, che è appunto una stella tipica. Il cielo dovrebbe allora essere brillante dappertutto e, in ogni punto, dovrebbe risplendere come il Sole anche in piena notte. Anche in questo caso sulla Terra ci sarebbe sempre giorno e non ci sarebbe alcuna traccia di vita.
Una delle soluzioni proposte per risolvere il paradosso di Olbers è stata quella di supporre di vivere in un universo di età finita in cui il raggio dell'universo visibile fosse minore del limite del campo visuale. Gli sviluppi dell'astronomia moderna hanno confermato la supposizione e, quindi, il cielo popolato di stelle è oscuro perché al di là del raggio dell'universo visibile, per definizione, non possiamo vedere nulla.
Un'altra strada per la soluzione del paradosso di Olbers è stata quella di considerare in modo più approfondito e quindi con tecniche e strumentazione inimmaginabili ai tempi di Olbers, l'ipotesi di staticità dell'universo. Questa ipotesi venne messa in crisi, a partire degli anni Venti del nostro secolo, quando fu scoperto il fenomeno dello spostamento verso il rosso della luce (red shift) che arriva sulla Terra dalle galassie lontane. Il fenomeno, se interpretato come effetto Doppler, ha un importante significato cosmologico perché indica che le galassie si allontanano da noi, che l'universo è in espansione. La luce emessa dalle galassie più lontane, a causa dello spostamento verso il rosso, ci raggiunge molto debolmente o non ci raggiunge affatto e quindi non si verificano gli effetti di calore e di luce calcolati da Olbers. Perciò, di notte, il cielo appare buio.
In qualunque direzione guardiamo, la nostra linea visuale intercetta sempre una stella. È quello che si chiama raggio dell'universo visibile.
Questo concetto può essere meglio compreso se si immagina di essere in un bosco dove gli alberi rappresentano le stelle: per avere l'idea che il bosco non finisca mai, non è necessario vedere tutte le piante che lo formano: è sufficiente vederne un numero tale da intercettare ogni possibile visuale. Che oltre quella linea di alberi ve ne siano altri, a questo punto, non è più rilevante per avere l'impressione di essere al centro di un bosco sterminato.

L'EFFETTO DOPPLER

L'effetto Doppler fu così chiamato in ricordo del fisico e matematico austriaco Christian Doppler (1803-1853) che lo scoprì nel 1842. È un fenomeno che fa parte dell'esperienza quotidiana.
Supponiamo di stare fermi mentre una sorgente sonora mobile qualsiasi (la sirena di un'ambulanza, il fischio di una locomotiva) è in movimento rispetto a noi. Mentre la sorgente si avvicina il suono sembra più acuto; quando si allontana, più grave. Ciò accade perché mentre la sorgente si avvicina il numero di onde che riceviamo ogni secondo (e quindi la frequenza) è maggiore di quella che riceviamo quando la sorgente si allontana.
Nel 1848 il fisico francese Armand Hippolyte Louis Fizeau (1819-1896) fece notare che l'effetto Doppler si doveva verificare anche in ottica; i colori infatti sono determinati, come i suoni da una frequenza, da quella delle onde che compongono la luce. La frequenza più bassa dello spettro luminoso visibile corrisponde al rosso, quella più alta, al blu. Era lecito allora attendersi che la frequenza della luce di una qualsiasi sorgente (stella, galassia) in allontanamento dalla Terra fosse spostata, verso l'estremo dello spettro dove le frequenze sono più basse (appunto, il risso) rispetto a quello della luce emessa da una sorgente simile e in quiete relativa. È ciò che si verifica: una stella che si allontana ci appare più rossa di quanto non sarebbe se fosse ferma rispetto a noi e, viceversa, una stella che si avvicina, ci appare più blu. Gli spostamenti per effetto Doppler sono più evidenti (e le misure di velocità corrispondenti più precise) sulle righe spettrali.
La variazione di frequenze dovuta all'effetto Doppler è inversamente proporzionale alla velocità di propagazione delle onde, cioè è tanto maggiore quanto minore è la velocità. Poiché le onde sonore si propagano a una velocità di circa 300 metri al secondo, mentre quelle luminose di 300.000 chilometri al secondo con una velocità quindi di circa un milione di volte maggiore, percepiamo facilmente la variazione di frequenza del suono del clacson della macchina che passa accanto a noi, non quella delle sue luci perché essa è, appunto, circa un milione di volte minore. La variazione di frequenza delle onde luminose sarebbe percepibile a velocità inconcepibili per un veicolo terrestre; con strumenti adeguati, è invece possibile rilevarla per le velocità con cui la maggior parte delle stelle delle galassie si muove rispetto a noi.
L'effetto Doppler è una delle chiavi dei grandi progressi dell'astronomia e della cosmologia moderna perché ha permesso di formulare nuove ipotesi sulla struttura dell'universo.
Schematizzazione dell'effetto Doppler


SPETTROSCOPIO E SPETTROGRAFO

La luce solare, o luce bianca, è composta da una miscela di radiazioni di diversa frequenza. Quando, per esempio, la luce attraversa un prisma, le diverse frequenze vengono percepite come colori differenti. A ogni frequenza corrisponde un colore. Il prisma separa le diverse componenti della luce solare perché quando la luce passa dall'aria al vetro e poi dal vetro all'aria, il suo cammino subisce una deviazione (rifrazione). L'angolo di deviazione dipende dalla frequenza o colore della luce. Maggiore è la frequenza della radiazione, maggiore è la deviazione. Il risultato ottenuto, la decomposizione della luce nei suoi diversi colori, è noto come spettro della luce. La frequenza massima visibile dello spettro corrisponde al colore violetto, la minima visibile, al rosso. Il fenomeno della separazione dei componenti della luce solare è noto a tutti. Infatti, l'arcobaleno non è che lo spettro della luce solare analizzata da una miriade di minuscoli prismi naturali: le gocce di pioggia sospese nell'atmosfera.
Lo spettroscopio è uno strumento che permette di osservare lo spettro della luce proveniente da una sorgente luminosa come una stella. Sostituendo l'osservazione visuale dello spettro con la sua registrazione su una lastra fotografica si ottiene lo spettrografo. Gli spettri vengono classificati in base alla loro origine in spettri di emissione o di assorbimento e questi, possono a loro volta, essere continui o a righe.
Le righe scure dello spettro solare furono notate nel 1802 dal fisico e chimico inglese William H. Wollanston (1766-1828). Il fisico e ottico tedesco Joseph von Fraunhofer (1787-1826) ne fece uno studio sistematico e da allora esse vengono chiamate righe di Fraunhofer. A partire del 1862, il fisico svedese Anders Jonas Ängstrom (1814-1874) identificò nel Sole numerosi elementi terrestri (idrogeno, manganese, alluminio, titanio), in base alle loro righe spettrali caratteristiche. L'elio fu scoperto nel Sole, prima ancora che sulla Terra, dall'astronomo inglese Norman Lockyer (1836-1920), nel 1868. Fu identificato sulla Terra quasi trent'anni dopo, nel 1895, dal chimico inglese sir William Ramsay (1852-1916).
L'analisi degli spettri della luce provenienti dalle stelle e dalle galassie fornisce agli astronomi la maggior parte delle informazioni di cui disponiamo sulla loro composizione chimica e sulle loro condizioni fisiche, nonché, attraverso la determinazione dell'eventuale spostamento delle righe di assorbimento per effetto Doppler, sul loro moto (rotazione, allontanamento, ecc.). È uno dei metodi fondamentali della ricerca astronomica.

LA PARALLASSE

Il metodo della parallasse è analogo a quello usato dai topografi o dagli agrimensori per misurare distanze sulla Terra. Il metodo non è che lo sviluppo di un'esperienza che facciamo tutti continuamente: quando spostiamo un po' la testa vediamo gli oggetti muoversi sullo sfondo. La figura che segue precisa le cose: quando l'osservatore si trova in posizione A vede l'oggetto più vicino V in direzione V1 sullo sfondo e l'oggetto più lontano L in direzione del punto L1. Se si sposta e si ferma nella posizione B, vede V in V² e L in L²; se si sposta ancora fino ad arrivare in C, vede V in V3 e L in L3.
Il metodo della parallasse

Sulla base di queste osservazioni si possono compiere due importanti deduzioni.
1) Gli spostamenti apparenti degli oggetti sullo sfondo sono tanto più grandi quanto maggiore è lo spostamento reale dell'osservatore.
2) Gli spostamenti apparenti sullo sfondo sono tanto più grandi quanto più vicino all'osservatore è l'oggetto e possono perciò essere usati per valutare tali distanze.
Se gli oggetti sono molto lontani (e lo spostamento dell'osservatore, che chiameremo base, non abbastanza grande) gli spostamenti sullo sfondo non sono percettibili.
Ora, anche le stelle più vicine sono così distanti che non si può certo sperare di vederle spostarsi (sullo sfondo della volta celeste) muovendo pochi passi, e neppure camminando per chilometri o decine di chilometri, e neppure facendo mezzo giro del globo terrestre. Il problema può essere risolto se si ricorda che la Terra gira intorno al Sole e si sposta in mezzo anno 300 milioni di chilometri (il doppio della distanza Terra-Sole). Le osservazioni fatte a distanza di sei mesi dallo stesso osservatorio astronomico non sono perciò eseguite dallo stesso punto dello spazio, ma da due punti che distano tra loro 300 milioni di chilometri.
Con questa base (si parla allora di parallasse stellare) si può pensare di osservare qualche spostamento apparente delle stelle sulla volta celeste; e infatti fotografie scattate a distanza di sei mesi mostrano spostamenti piccolissimi, ma misurabili, per molte stelle. La geometria e la trigonometria aiutano poi gli astronomi a ricavare dalla misura di questi spostamenti apparenti le distanze effettive delle stelle dalla Terra.
Con le tecniche di osservazione attuali si riesce a misurare parallassi dell'ordine di 0,01 secondi di arco.
Il Sole e la Luna sono visti dalla Terra con lo stesso angolo (circa mezzo grado).
Si riescono a calcolare in questo modo, con ragionevole precisione, le distanze delle stelle lontane da noi fino a circa 100 parsec. Ma molto più in là non si può sperare di andare, perché per distanze maggiori anche l'immensa «base» dell'orbita terrestre non si rivela più utile di quella che si ottiene scuotendo la testa di pochi centimetri.

LE DIMENSIONI DELLA TERRA

Eratostene, nato a Cirene in Libia (284 circa - 192 circa a.C.), grande astronomo, geografo e matematico greco, direttore della famosa biblioteca di Alessandria in Egitto, fu il primo a compiere una vera e propria misurazione di una distanza astronomica: la circonferenza della Terra. Il metodo da lui utilizzato fu ingegnoso e semplice: richiedeva solo un bastoncino e la conoscenza della distanza tra Alessandria e Syene (l'attuale Assuan).
Eratostene sapeva che ogni 21 di giugno a mezzogiorno (solstizio di estate) il sole si trovava sulla perpendicolare di Syene perché in quel momento i suoi raggi arrivavano ad illuminare anche i pozzi più profondi e quindi avevano la massima perpendicolarità. Decise allora di misurare, in quello stesso giorno e ora dell'anno, la lunghezza dell'ombra proiettata da un bastoncino piantato verticalmente ad Alessandria. In questo modo, poté calcolare facilmente, l'angolo formato tra i raggi solari e la verticale del luogo (angolo A). Supponendo la sfericità della Terra e ricorrendo al teorema per cui due rette parallele tagliate da un'altra retta formano angoli alterni interni uguali, Eratostene poté affermare che l'angolo era uguale a quello formato al centro della Terra tra i raggi terrestri che passano per Syene e per Alessandria (angolo B). In questo modo, Eratostene trovò che l'angolo al centro della Terra tra Syene e Alessandria era di 7° 12', pari a 1/50 di un angolo giro (360°). Era allora facile dedurre che la circonferenza terrestre doveva misurare 50 volte il valore di 800 km che veniva attribuito alla distanza tra le due città. Eratostene ottenne così per la circonferenza terrestre una lunghezza di 40.000 km, misura assai vicina a quella esatta.

LA DISTANZA TERRA-LUNA

La distanza tra la Terra e la Luna è stata calcolata dall'astronomo e matematico greco Ipparco di Nicea intorno al 150 a. C. Il metodo era stato proposto circa un secolo prima da Aristarco di Samo e si basava nell'osservazione della grandezza dell'ombra della Terra sulla Luna durante un'eclisse. Ipparco misurò il tempo impiegato dalla Luna ad attraversare l'ombra della Terra ottenendo così un'indicazione delle dimensioni relative dei diametri della Terra e della Luna. Conoscendo il diametro della Terra, con semplici relazioni geometriche, egli trovò che la distanza della Luna doveva essere 30 volte il diametro della Terra. Utilizzando per quest'ultimo il valore di 13.000 chilometri proposto da Eratostene, la distanza della Luna risultava di 390.000 chilometri, un valore abbastanza vicino a quello corretto.

LA MISURAZIONE DEL SISTEMA SOLARE

Aristarco di Samo cercò di determinare il rapporto tra le distanze della Luna e del Sole, misurando l'angolo che la Terra forma con il Sole e la Luna quando questa è al primo quarto e, quindi, quando il triangolo Sole Luna Terra è rettangolo. Il procedimento era corretto, ma richiedeva misure troppo precise per gli strumenti di quell'epoca. La valutazione di Aristarco fu che il Sole fosse a una distanza pari a 20 volte la distanza della Luna (il valore corretto è 20 volte maggiore). Per ottenere un valore soddisfacente della distanza del Sole si dovevano ancora attendere quasi 2000 anni.
Tra il XVI e XVII secolo cominciò il processo di rinnovamento scientifico che gettò le basi teoriche dell'astronomia moderna con Copernico, Keplero, Galileo, e anche quelle strumentali grazie soprattutto al telescopio che, successivamente corredato da viti e scale micrometriche, permise di misurare angoli di parallasse molto piccoli, dell'ordine di pochi secondi di arco, e quindi distanze di vari ordini di grandezza superiori a quelle raggiunte nell'antichità.
Il sistema eliocentrico e le leggi di Keplero, consentivano di calcolare l'orbita dei pianeti e le loro distanze relative dal Sole. Si poteva cioè tracciare una mappa in scala del sistema solare. Inoltre, grazie alla terza legge di Keplero, non era più necessario determinare direttamente la distanza tra la Terra e il Sole perché questa poteva essere ricavata, insieme a tutte le altre distanze dei pianeti del sistema solare, conoscendo la distanza di uno qualunque di essi.
Marte e Venere, i pianeti più vicini alla Terra, erano i corpi celesti più adatti per l'applicazione del nuovo procedimento di misurazione delle distanze con la parallasse. Nel 1671, anno favorevole perché Marte si trovava particolarmente vicino alla Terra, Jacques Dominique Cassini a Parigi insieme a Jean Richer a Caienna (Guyana francese) cercarono di misurare, la stessa sera, la parallasse di Marte prendendo come linea di base la distanza tra Parigi e Caienna. La parallasse, se pur piccolissima, poté essere rilevata. Risultò che la distanza Terra-Sole era di 138.000.000 chilometri (la distanza media del Sole è oggi considerata pari a 149.000.000 chilometri).
Si conobbe così, per la prima volta, non solo la distanza del Sole, ma la dimensione del sistema solare, che era quella determinata dall'orbita di Saturno, il pianeta più esterno allora conosciuto. Risultò per il sistema solare un diametro di circa 3 miliardi di chilometri. Con la scoperta di Urano (1781), Nettuno (1846) e Plutone (1930) la dimensione del sistema solare si ingrandì a circa 12 miliardi di chilometri.
Le distanze del sistema solare erano enormi per l'uomo, ma da tempo si sospettava che, per quanto grandi fossero, esse rappresentassero una piccola frazione di quelle stellari.

DISTANZE STELLARI

Il metodo della parallasse stellare, applicato con successo fin dalla fine del secolo XVII alla misurazione delle distanze del sistema solare, non dava alcun risultato osservabile quando veniva applicato alla misurazione delle distanze stellari. Le stelle dovevano trovarsi a distanze troppo grandi per poterle misurare con semplici metodi geometrici.
Nel 1718, l'astronomo inglese Edmond Halley (1656-1742) scoprì il primo moto reale delle stelle (moto proprio) fino ad allora considerate fisse. Negli anni successivi l'elenco delle stelle con moto proprio osservabili cominciò ad allungarsi. Era evidente che il moto proprio osservabile era un indicatore di vicinanza relativa e ciò rendeva queste stelle le migliori candidate per cercare di determinare la loro distanza con il metodo della parallasse. Tuttavia, i tentativi intrapresi risultarono infruttuosi: non era possibile osservare alcuna parallasse. Quindi, anche le stelle più vicine dovevano essere molto lontane.
I progressi compiuti nella fabbricazione di telescopi e di strumenti di precisione consentì di scoprire, finalmente, in rapida successione, le prime parallassi stellari.

Nel 1838, l'astronomo tedesco Friederich W. Bessel, riuscì a misurare la parallasse della stella 61 Cygni: 0,3136 secondi di arco. Il valore trovato è, in effetti, molto piccolo. Si può avere un'idea della difficoltà della misura pensando che 0,3136 secondi di arco è l'angolo con cui si vedrebbe una moneta di 50 lire posta a 16,5 chilometri di distanza. Con questa parallasse, 61 Cygni risultava essere a 10,4 anni luce di distanza.
Nel 1839, l'astronomo inglese Thomas Henderson, trovò la distanza della stella Alpha Centauri (4,3 anni luce). Nel 1840, l'astronomo russo Wilhelm Struve annunciò di aver trovato la parallasse di Vega, distante 26,5 anni luce.
Da queste prime misure risultò evidente che le stelle, anche quelle più vicine, erano lontanissime e che, a loro confronto, le distanze del sistema solare erano insignificanti. Le distanze delle stelle più vicine sono migliaia di volte maggiori della dimensione dell'intero sistema solare. Fino ad oggi, con il metodo della parallasse, sono state misurate le distanze di alcune migliaia di stelle: non c'è alcuna stella che si trovi entro 1 parsec.
La determinazione delle distanze delle stelle, essenziale per studiare le proprietà fisiche delle stelle (luminosità, massa, ecc.), contribuì allo sviluppo dell'astrofisica, un nuovo settore dell'astronomia, e consentì di avere idee più precise sulla struttura della Galassia.

LE DIECI STELLE PIÙ VICINE

Magnitudine Stella
Magnitudine apparente
Distanza assoluta (parsec)
Proxima Centauri
11,05
15,45
1,31
Alpha Centauri
-0,01
4,35
1,34
Stella di Bernard
9,54
13,25
1,81
Sirio A
-1,45
1,42
2,65
Sirio B
0,68
11,56
2,65
JUV Ceti A
12,45
15,27
2,72
JUV Ceti B
12,95
15,80
2,72
Ross 154
10,60
33,30
2,90
Ross 248
12,29
14,80
3,15
Eta Eridani
3,73
6,13
3,30

UNITÀ ASTRONOMICA, ANNO-LUCE, PARSEC

Un'unità come il chilometro è evidentemente inadeguata per la misurazione delle distanze astronomiche: nel corso della loro attività, man mano che le distanze osservabili si dilatavano, gli astronomi sono stati costretti a definire nuove unità.
Unità astronomica (U.A.) è definita la distanza media tra la Terra e il Sole, calcolata pari a 149,8 milioni di chilometri. È un'unità comoda per le distanze del sistema solare, mentre risulta inadeguata per le distanze interstellari e intergalattiche.
L'anno luce è la distanza percorsa dalla luce in un anno. Poiché la velocità della luce è di circa 300.000 chilometri al secondo e in un anno ci sono circa 3 x 107 secondi, un anno luce equivale a una distanza di 9 x 1012 chilometri.
Il parsec è un'unità astronomica molto usata. Il termine risulta dall'abbreviazione di parallasse secondo. Corrisponde alla distanza dalla quale il raggio dell'orbita della Terra intorno al Sole sarebbe visto con un angolo di un secondo di arco ed equivale a 3,26 anni luce. Con quest'unità il rapporto tra la distanza misurata in parsec e la parallasse misurata in secondi di arco è molto semplice:

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LA GRANDEZZA DELLE STELLE

Nel II secolo a.C. Ipparco costruì una scala qualitativa della luminosità apparente delle stelle classificandole in sei gruppi in funzione della luminosità con cui esse sono viste, a prescindere cioè dalla loro distanza. Le stelle più luminose furono classificate come stelle di prima magnitudine (cioè grandezza dal latino magnus = «grande»), quelle più deboli (al limite della visibilità dell'occhio nudo), di sesta magnitudine.
Il progresso dell'astronomia rese necessaria la costruzione di una scala quantitativa, che conservasse, per quanto possibile, l'antica classificazione. L'astronomo Norman Pogson osservò nel 1856 che una stella di prima magnitudine è circa 100 volte più luminosa di una di sesta magnitudine e quindi definì la differenza di una magnitudine uguale a un rapporto di luminosità di 2,512 (infatti 2,5125 è uguale a 100).
Nel caso di oggetti molto brillanti, la scala di magnitudini può assumere valori anche negativi. Le stelle più deboli fotografabili con i telescopi più potenti sono attorno alla magnitudine 25 (pari alla luminosità con cui si vedrebbe un'ipotetica candela posta a 300.000 chilometri dall'osservatore!).
Si dice magnitudine assoluta la luminosità apparente, misurata in magnitudine, che la stella avrebbe se si trovasse alla distanza di 10 parsec da noi.

LA VIA LATTEA

Le stelle non sono distribuite uniformemente nel cielo. Di notte è facile osservare la Via Lattea, una lunga striscia che solca tutto il cielo costituita da un fortissimo addensamento di stelle. È la nostra galassia (dal greco galaxias = «via lattea»).
Fin dal 1755 l'intuizione di Kant circa l'esistenza di altre galassie (di altri universi-isole, come li chiamò) rimase tale. La comunità scientifica considerò sempre con sospetto quest'ipotesi. In ogni modo, il problema era collegato alla misura delle dimensioni della Via Lattea e a quello della natura e della distanza delle cosiddette nebulose (nubi di gas interstellare o raggruppamenti di stelle talmente lontani da non esser distinguibili con i telescopi dell'epoca?). Verso il 1900, le stime fatte erano molto dubbie perché, per questa scala astronomica di distanze, non c'erano ancora indicatori attendibili.
Nel 1912 fu scoperto un nuovo metodo per la determinazione delle distanze che ampliava enormemente la scala delle misure portandole fino al limite di osservabilità dei più grandi telescopi: il metodo era basato sulla relazione tra il periodo e la luminosità di un tipo particolare di stelle variabili (le variabili cefeide). Usando le cefeide come indicatori di distanza, l'astronomo americano Harlow Shapley delimitò per primo, anche se in eccesso, le dimensioni della Via Lattea. Essa ha la forma di un disco con bracci a spirale con un diametro di 100.000 anni-luce e uno spessore di 5000. Racchiude circa 100 miliardi di stelle. Una di esse, il nostro Sole, occupa una posizione periferica.
Nel 1926, l'astronomo olandese Jan Oort dimostrò che la Galassia è in rotazione intorno a un punto situato nella costellazione del Sagittario. Il Sole partecipa naturalmente di questa rotazione. Muovendosi a una velocità di 240 chilometri al secondo, fa un giro attorno al centro della Galassia in 200 milioni di anni (anno cosmico). Risolto il problema delle dimensioni della Via Lattea restava quello dell'esistenza di altre galassie.
Nel 1923-1924, l'astronomo americano Edwin P. Hubble, osservando la nebulosa di Andromeda (una delle più luminose) con il telescopio di 2,5 metri di Mount Wuilson (che era allora il più grande del mondo), trovò varie cefeide che usò come indicatori di distanza. Hubble calcolò che la nebulosa di Andromeda doveva trovarsi a una distanza grandissima, varie volte maggiore del diametro della nostra galassia: 1.000.000 di anni-luce. In seguito a nuove scoperte questa distanza è stata portata a 2.000.000 di anni-luce.
Con lo stesso metodo osservò altre nebulose e ne identificò altre cefeide: in tutti i casi le nebulose si trovavano molto al di fuori dei confini della Via Lattea. Hubble concluse che le nebulose sono grandi agglomerati di stelle (da dieci a 100 miliardi di stelle) situati al di fuori della Via Lattea. La Via Lattea diventava una tra le altre galassie.

CEFEIDI

Nel 1912 fu scoperto un nuovo metodo per la determinazione delle distanze astronomiche che ampliava enormemente la scala della misura portandola fino al limite di osservabilità dei più grandi telescopi ottici.
L'astronoma Henriette Leavitt scoprì la relazione periodo/luminosità per le variabili cefeidi. Le cefeidi (indicate così dal nome della prototipo Delta Cephei scoperta nel 1784) sono una classe particolare di stelle la cui luminosità varia continuamente e regolarmente. Le cefeidi passano da una fase di minima luminosità ad una di massima, per poi tornare a quella iniziale. Il lasso di tempo tra due minimi successivi è il periodo, che varia, da una cefeide a un'altra, da meno di un giorno a cento giorni.
La variazione continua di luminosità delle cefeidi è originata da vere e proprie espansioni e contrazioni meccaniche della stella. Esiste una relazione precisa tra il periodo e la luminosità assoluta media delle cefeidi: quanto più lungo è il periodo, tanto maggiore è la luminosità. L'osservazione del periodo consente di determinare la luminosità assoluta della stella che, confrontata con la luminosità apparente, permette di calcolare la sua distanza.
Le cefeidi sono estremamente luminose e possono perciò essere osservate a distanze enormi. La possibilità di misurare tali distanze le ha fatte diventare uno degli strumenti fondamentali della cosmologia.

IL DIAGRAMMA HERTZPRUNG-RUSSELL

Considerato uno degli strumenti principali dell'astronomia, il diagramma Hertzprung-Russell, così chiamato in onore dei suoi ideatori che lo elaborarono negli anni 1911-1913, propone una rappresentazione convincente dell'evoluzione delle stelle.

Il diagramma segna la luminosità assoluta delle stelle in funzione della loro temperatura superficiale. La luminosità delle stelle è riportata in ordinate, con una scala che varia da un valore 100.000 volte minore a un valore 100.000 volte maggiore la luminosità del sole (nel diagramma la luminosità del Sole è considerata uguale a 1). La temperatura superficiale delle stelle è riportata in ascissa con una scala che varia da 2500 a 40.000 gradi (oppure, essendo il colore della stella un indicatore della sua temperatura superficiale, con una scala che varia dal rosso a blu). Sono state anche tracciate delle linee diagonali (in nero, che rappresentano il luogo geometrico delle stelle che hanno uguali dimensioni (misurate in diametri solari). Si noti che il Sole si trova, appunto, sulla linea corrispondente a un diametro solare. Quindi, spostandoci nel grafico su una perpendicolare all linee di uguale dimensione stellare, queste variano da un cente simo a cento volte il diametro del sole.
Nel diagramma si sono riportati i punti rappresentativi di alcune delle stelle più vicine, compreso il Sole. Si vede che i punti non si distribuiscono casualmente. Essi si raggruppano prevalentemente in tre regioni denominate: «sequenza principale», «zona delle giganti rosse» e «zona delle nane bianche».

CLASSIFICAZIONE DELLE STELLE

Dalla nascita alla morte, le stelle percorrono le diverse regioni del diagramma lungo traiettorie ben precise, ma trascorrono la maggior parte della loro vita nella sequenza principale, una fascia diagonale che attraversa il diagramma dall'alto in basso e da sinistra a destra. La sequenza principale è quindi la regione in cui la maggioranza delle stelle si raggruppa. Qui si trovano le stelle che ricavano la loro energia dalla trasformazione di idrogeno in elio. Tutte queste stelle hanno circa la stessa dimensione e si distribuiscono lungo la sequenza principale secondo la loro massa, con le stelle di massa minore (circa 3/10 della massa solare) all'estremo inferiore e quelle di massa maggiore all'estremo superiore (circa 20 volte la massa solare). In alto, si trovano le stelle molto luminose (10.000 volte più del sole) e azzurre (Spica, Vega, per esempio). In basso a destra, si trovano le stelle poco luminose (10.000 volte meno del sole) e rosse. Le stelle di massa maggiore sono più luminose perché per compensare la maggior forza gravitazionale bruciano più rapidamente il loro combustibile nucleare di quelle di massa minore. Le prime esauriranno la loro scorta di idrogeno in qualche milione di anni (come Rigel), mentre le seconde, meno luminose ma anche più lente nel trasformare l'idrogeno in elio, impiegheranno decine di miliardi di anni (la stella di Bernard, per esempio). Il Sole, che si trova su questa sequenza a circa metà strada, vi rimarrà complessivamente 10 miliardi di anni.
In alto a destra si trova una regione caratterizzata da alta luminosità e basse temperature. È la zona delle stelle giganti rosse (Antares, Aldabaran, Betelgeuse). Sono stelle di dimensioni enormi (più di 100 volte il diametro solare); per dare un'idea della loro grandezza si immagini che se una di loro fosse al posto del Sole si estenderebbe oltre l'orbita terrestre. Nella regione di alta luminosità e basse temperature la produzione di energia deriva dalla trasformazione di elio in carbonio e ossigeno. Una gigante rossa è una stella ormai vecchia e prossima alla fine.
In basso a sinistra, sotto la sequenza principale, c'è la regione delle nane bianche: stelle che, avendo esaurito ogni combustibile nucleare irradiano solo energia termica. Sono molto calde ma di bassa luminosità, tanto bassa che, per osservarle, è necessario un buon telescopio. Le nane bianche sono oggetti di dimensioni ridotte, con diametri paragonabili a quello della Terra, ma la loro massa è confrontabile con quella del Sole. Sono quindi oggetti eccezionalmente densi: un cucchiaio di materia di una nana bianca peserebbe sulla Terra decine di tonnellate.

VITA E MORTE DEL SOLE

Le stelle irradiano nello spazio una quantità enorme di energia e la luce che ci raggiunge da così vaste distanze sta a indicare questo fatto. L'energia irradiata dal Sole, la nostra stella, è fonte di calore e di vita per la Terra. Per essere irradiata, l'energia deve essere prima prodotta. Le stelle bruciano e si consumano. Questo è un processo che, sia pure sulla scala cosmica dei tempi, ha una durata: le stelle devono avere avuto un'origine e avranno anche una fine.
I cammini evolutivi delle stelle, dalla nascita fino alla morte, possono essere seguiti facilmente sul diagramma Hetzprung-Russel. Durante tutta la vita di una stella l'energia prodotta dalle reazioni nucleari equilibra la forza di gravitazione che tende a fare precipitare verso il centro della stella le masse di gas periferiche. I diversi percorsi, che dipendono fortemente dalla massa, stanno appunto a indicare che, man mano che i distinti combustibili nucleari si esauriscono, la stella cerca di stabilire un nuovo equilibrio attraverso un processo di contrazione, aumento di temperatura e innesco di nuove reazioni nucleari.
Seguiremo l'evoluzione di una stella tipica, di media grandezza, come il Sole. Sulla traccia sono indicate (lettere maiuscole) le posizioni con cui si succedono le fasi più importanti della sua evoluzione.
Il Sole è nato, cinque miliardi di anni fa, da una nebulosa di gas interstellare piuttosto densa, che ha cominciato a contrarsi per effetto della gravitazione. In quell'epoca era una protostella, cioè una sfera instabile di gas che a mano a mano che si contraeva aumentava la sua temperatura, ma diminuiva la sua luminosità. Questo perché la luminosità dipende non solo dalla temperatura, ma anche dalla superficie di irraggiamento e, quindi, in questa fase, l'aumento di temperatura non riusciva a compensare la rapida riduzione della dimensione della protostella (A-B). Nella fase successiva (B-C) questa relazione si rovescia, la temperatura sale rapidamente, la contrazione rallenta e aumenta sensibilmente la luminosità.
A questo punto (C) la temperatura della protostella è diventata sufficientemente alta (circa dieci milioni di gradi) per innescare la reazione nucleare di trasformazione di idrogeno in elio (simile quindi a quella della bomba H). La contrazione si arresta: è nata la stella vera e propria. Sulla sequenza principale il punto cessa di muoversi. Per il Sole questo è avvenuto circa 5 miliardi di anni fa e in questo punto si trova ancora oggi.
Quando l'idrogeno che, nel nucleo della stella, alimenta la reazione nucleare si sarà esaurito, il Sole riprenderà il suo cammino evolutivo (C-D). Ciò avverrà tra 5 miliardi di anni. Nella struttura della stella si verificheranno notevoli cambiamenti: l'idrogeno degli strati periferici, che fino a quel momento non partecipava alle reazioni nucleari, comincerà a bruciare. La temperatura del nucleo della stella aumenterà fino al punto di innescare un nuovo tipo di reazione nucleare (la trasformazione dell'elio in carbonio), la stella aumenterà più di 100 volte la sua dimensione e, di conseguenza, sarà molto più luminosa. Durante l'espansione gli strati esterni si raffredderanno e la stella diventerà rossa, una gigante rossa. A questo punto la Terra, ormai da molto tempo priva di forma di vita, evaporerà e sarà inghiottita dalla stessa stella che le ha dato la vita per 10 miliardi di anni. La stella rimarrà nella fase di gigante rossa (D) finché non avrà esaurito l'elio, il suo nuovo combustibile nucleare, per un periodo di tempo molto minore di quello della fase precedente.
Esaurito l'elio, la stella riprenderà il suo cammino percorrendo un ramo orizzontale a luminosità praticamente costante dove si verifica una serie di fasi più avanzate della sua evoluzione nucleare caratterizzata da successive contrazioni, notevole aumento della sua temperatura e reazioni nucleari con sempre nuovi combustibili, come il carbonio, l'ossigeno, il silicio (D-E). Queste fasi conducono alla formazione di nuovi elementi (per esempio, neon, sodio, alluminio, magnesio, ferro).
Consumati tutti i possibili combustibili nucleari, una stella come il Sole si avvia rapidamente verso l'ultima fase della sua vita: dopo aver riattraversato, senza fermarsi, la sequenza principale, compie una brusca svolta a sinistra, verso una zona di basse luminosità e temperature: è la regione delle stelle nane bianche. Siccome l'energia irradiata è di origine esclusivamente termica, le nane bianche si raffreddano lentamente, diminuendo la loro già debole luminosità e mantenendo le loro ridotte dimensioni finché semplicemente si spengono: diventano nane nere (E-F).

LA FINE DELLE STELLE

Durante tutta la vita di una stella l'enorme quantità di energia prodotta dalle reazioni nucleari equilibra la forza di gravitazione che tende a fare precipitare verso il centro le masse di gas periferiche. I possibili combustibili nucleari si esauriscono attraverso un processo di contrazione, aumento di temperatura e innesco di nuove reazioni nucleari che stabiliscono, volta per volta, nuovi stati di equilibrio per la stella e creano elementi chimici di crescente complessità. Le stelle finiscono la loro evoluzione quando hanno esaurito tutti i combustibili nucleari. Ma non finiscono necessariamente nello stesso modo. Il modo come evolvono in questa fase finale dipende dalla loro massa, anche se, essendoci ancora molte incertezze teoriche e osservative, esso è conosciuto solo per grandi linee.

NOVA

Le stelle nuove, non sono affatto nuove, ma stelle di magnitudine inferiori ai limiti di visibilità a occhio nudo (quindi inferiori alla sesta magnitudine) che diventano improvvisamente visibili. La stella può diventare da 100.000 a 1.000.000 di volte più luminosa. In questo processo la stella non si autodistrugge. Quasi tutte le novae studiate si sono rivelate nane bianche compagne di un'altra stella molto vicina. Quando, durante le ultime fasi della sua evoluzione, la stella vicina si espande, parte della sua superficie gassosa può venire attratta dalla nana bianca provocando un'enorme esplosione. Le novae non sono infrequenti. Si stima che ci siano tra 20 e 40 novae all'anno per galassia (compresa ovviamente la nostra), che tuttavia sfuggono all'osservazione perché troppo deboli o lontane. In media, si riescono a osservare 1 o 2 novae ogni 10 anni.

SUPERNOVA

Se la stella ha una massa molto superiore a quella solare (10-20 volte), quando abbandona la sequenza principale, diventa una supergigante molto luminosa che, nel corso della sua evoluzione nucleare, può diventare talmente instabile che l'intera stella esplode spettacolarmente. Tale esplosione è chiamata supernova. La sua luminosità aumenta milioni di volte in pochissimo tempo riuscendo a uguagliare la luminosità di un'intera galassia. L'esplosione distrugge quasi totalmente la stella, ma all'interno della supernova, a causa anche dell'esplosione possono crearsi strani oggetti noti come i pulsar e i buchi neri.

NEBULOSA PLANETARIA

Lo stadio finale di una gigante rossa di massa pari all'incirca alla massa del Sole, è quello di nana bianca. Se la massa della gigante rossa è molto superiore a quella solare (più di tre volte), può verificarsi una fase di transizione in cui gli strati superficiali della gigante rossa possono disperdersi nello spazio formando un anello di gas incandescente. Questo stadio della vita di una stella è conosciuto come nebulosa planetaria. Il centro della nebulosa planetaria diventa una nana bianca.

PULSAR

La prima stella di neutroni, denominata anche pulsar, è stata scoperta nel 1967 associata ai resti dell'esplosione di una supernova: la nebulosa del Granchio. Nel caso che la massa del residuo rimasto al centro dell'esplosione della supernova non superi 3 masse solari, la materia si concentra in un corpo grande solo alcune decine di chilometri. Gli elettroni si combinano con i protoni dei nuclei per formare neutroni, la sola materia della stella. Le pulsar sono talmente dense che un cucchiaio riempito con materia tratta da queste stelle peserebbe sulla Terra milioni (e forse miliardi) di tonnellate. I pulsar ruotano velocemente e, a ogni rotazione, inviano, come se fossero un faro, un fascio di radiazione che può essere facilmente rilevato se intercetta la Terra.

BUCHI NERI

Se il residuo della supernova ha una massa superiore a 3 masse solari, allora nessuna forza può impedire il suo completo collasso gravitazionale e si forma un buco nero. La forza di gravità diventa talmente enorme che nulla può sfuggire alla sua attrazione, nemmeno la luce. Un buco nero è quindi invisibile. I buchi neri sono stati previsti dalla teoria ma finora non sono stati trovati, anche se sono state rilevate forti emissioni di raggi X provenienti dallo spazio che vengono interpretate come indicatori della loro presenza.

L'ESPANSIONE DELL'UNIVERSO

Misurando lo spostamento verso il rosso della luce proveniente dalla nebulosa di Andromeda (effetto Doppler), l'astronomo americano Veston M. Slipher trovò, nel 1914, che essa si muoveva verso la nostra galassia alla velocità di 300 km/sec. Osservando altre nebulose trovò che, sia pure a diverse velocità, tutte si muovevano rispetto a noi e che, per la maggior parte, si allontanavano (su 15 nebulose osservate, solo 4 si avvicinavano). Il fenomeno era sorprendente, ma, mancando uno strumento per la determinazione delle loro distanze, nulla si riuscì a concludere sulla natura del loro movimento.
Nel periodo 1924-1929, Hubble si dedicò a misurare sia la distanza (mediante il metodo delle variabili cefeide) sia la velocità di più di una ventina di nebulose, ormai riconoscibili come esterne alla nostra Via Lattea e quindi come vere e proprie galassie. Hubble trovò che tra di loro esiste una relazione semplicissima: la velocità di allontanamento di una galassia aumenta con l'aumentare della distanza. Se, per esempio, raddoppia la distanza, raddoppia anche la velocità. Questo risultato causò allora una grande sensazione: in un'epoca in cui la nozione di universo statico era generalmente accettata, il risultato fu subito interpretato come prova di un universo in espansione e come ulteriore conferma della teoria della relatività generale di Einstein, la quale appunto prevedeva che l'universo doveva essere o in espansione o in contrazione.
Il fatto che tutte le galassie, salvo poche eccezioni, si allontanassero dalla nostra, non significava che ci trovassimo al centro dell'universo. Mentre ogni galassia si allontana da noi, si allontana anche da tutte le altre. Proprio come, utilizzando una diffusa analogia, ogni chicco di uva passa di una torta messa in forno a lievitare, si allontana da tutti gli altri, mentre la torta si gonfia.
La teoria dell'universo in espansione fu paragonata alla rivoluzione copernicana. Tramontava la nozione generalmente accettata fino a quel momento di un universo statico in cui la nostra galassia occupava una posizione preminente. Allo stesso modo tramontava nel XV secolo l'idea tolemaica di un universo geocentrico, cioè con la Terra al centro. La Terra è solo un piccolo pianeta di una stella simile a milioni di altre stelle della Via Lattea, e questa, la nostra galassia, è simile a milioni di altre galassie.

L'ORIGINE DELL'UNIVERSO

Come si è visto, il moto di allontanamento delle galassie scoperto da Hubble, fu utilizzato come prova di un universo in espansione. L'universo cambiava nel tempo, aveva quindi una storia. Questa storia aveva un'origine? Per rispondere a questa domanda si formularono due modelli in antitesi: il modello del big bang (ossia della grande esplosione) e dello stato stazionario.
Durante gli anni Trenta e Quaranta, il fisico russo-americano George Gamow sviluppò ipotesi che, sulla base della teoria generale della relatività di Einstein, erano state elaborate, prima della scoperta di Hubble, dal matematico russo Alexander Friedmann (1922) e dall'abate belga Georges Lamâitre (1927). Infine formulò la teoria del big bang. Il punto di partenza di questa teoria deriva da un semplice ragionamento. Se l'universo è in espansione, allora, in passato, le galassie dovevano essere più vicine tra di loro. Risalendo nel passato, si arriva a un'epoca in cui tutta la materia dell'universo doveva essere confinata in un volume ridottissimo. Questo stato iniziale dell'universo (estrema densità e altissima temperatura), che Lamâitre aveva chiamato «uovo cosmico» o «atomo primordiale», oggi è denominato «protouniverso» o «singolarità cosmica». Per qualche ragione, il protouniverso è esploso con una violenza inconcepibile, disperdendo i frammenti ad altissime velocità e dando inizio a un'espansione che non si è più fermata. Con il progredire della esplosione l'universo si estese sempre di più mentre la densità e la temperatura della materia cominciarono a diminuire. La teoria del big bang implica non solo un'origine dell'universo, ma anche la sua inevitabile fine.
In netta contrapposizione è la teoria dello stato stazionario, formulata, nel 1948, dagli astronomi Hermann Bondi, Thomas Gold e Fred Hoyle che dà una descrizione diversa dell'espansione dell'universo. Secondo questa teoria, l'universo, anche se sottoposto a continui mutamenti, è rimasto sempre uguale a se stesso. Le galassie si allontanano le une dalle altre, ma la densità dell'universo rimane costante. Per spiegare questo fatto, Bondi, Gold e Hoyle postularono la «creazione continua e spontanea della materia» (cosa che violerebbe le leggi fisiche finora conosciute) nella misura necessaria a mantenere costante la densità dell'universo. Cioè l'universo si espande, ma nel frattempo, dall'aggregazione di sempre nuova materia, si formano altre galassie che occupano lo spazio di quelle che si allontanano. Per far tornare i conti basterebbe che si formasse, in una stanza di 4 metri di lato, un atomo di idrogeno ogni due milioni di anni. Si tratta di una quantità insignificante, ma sufficiente a mantenere costante nel tempo la densità dell'universo. Sperimentalmente non è tuttavia possibile controllare la formazione di questa quantità insignificante di materia. La teoria dello stato stazionario nega la singolarità rappresentata da un inizio catastrofico dell'universo. Sia verso il passato che verso il futuro, l'universo sarebbe infinito nel tempo. Negli anni Cinquanta la teoria del big bang e quella dello stato stazionario si dividevano in uguale misura il consenso della comunità scientifica. Mancavano osservazioni di carattere cosmologico che potessero servire a dirimere la questione. A partire dagli anni Sessanta, la situazione è cambiata radicalmente perché cominciarono a accumularsi osservazioni e scoperte (come quelle della radiazione cosmica di fondo e delle quasar) che resero insostenibile la teoria dello stato stazionario. Oggi, la teoria del big bang gode di un consenso quasi generale tra gli scienziati. Ma molti ritengono che la teoria del big bang, nonostante i successi, sia ancora lontana dall'essere definitiva e non mancano scienziati che lavorano a ipotesi alternative.

LA RELAZIONE DI HUBBLE

Secondo la relazione di Hubble, la velocità di allontanamento di una galassia aumenta con l'aumentare della sua distanza. Questa relazione può essere espressa mediante la formula:

v = H d

dove v è la velocità, d la distanza e H una costante di proporzionalità, nota come costante di Hubble.
La semplicissima relazione empirica di Hubble fu rapidamente accettata e cominciò ad essere utilizzata come una vera e propria legge cosmologica, anche se questa generalizzazione ha suscitato alcune riserve e perplessità e oggi viene usata con prudenza. Per stimare la distanza delle galassie troppo lontane per potervi identificare delle cefeide, si pensò, ad esempio, di utilizzare la legge di Hubble nella forma:

d = v / H

In questo modo è sufficiente determinare la velocità di allontanamento delle galassie (mediante la misura dell'effetto Doppler) per risalire alla loro distanza. La scala delle distanze misurabili si ampliava ancora e arrivava a miliardi di anni luce.

LA RADIAZIONE COSMICA DI FONDO

La verifica forse più convincente della teoria del big bang consisteva nel trovare i resti dell'esplosione che diede vita all'universo. Man mano che l'universo si espandeva, la temperatura della «palla di fuoco» primordiale cominciava a diminuire. È possibile osservare, ancora oggi, malgrado siano passati miliardi di anni, la radiazione termica residuale originata dal big bang?
Nel 1949, George Gamow, Ralph Alpher e Robert Helman, calcolarono che la radiazione avrebbe dovuto presentare le caratteristiche di quella emessa dai corpi alla temperatura di circa 5 gradi Kelvin (cioè, -268 gradi centigradi), una temperatura troppo bassa per essere osservabile con le tecniche della radioastronomia di allora. Infatti, a questa temperatura la radiazione cosmica di fondo (chiamata anche radiazione fossile, in quanto residuo dell'esplosione primordiale), avrebbe dovuto manifestarsi sotto forme di onde radio nella banda delle microonde. Un'altra conseguenza della teoria del big bang è che, data la sua origine cosmica, la radiazione dovrebbe raggiungerci da tutte le parti del cielo con uguale intensità. Nel 1965, grazie anche alla notevole evoluzione delle tecniche delle comunicazioni, due ingegneri della Bell Thelephone Laboratories, Arno Penzias e Robert Wilson, del tutto casualmente, cercando le cause del rumore che provocava disturbi nelle trasmissioni televisive via satellite (che operano proprio nella banda delle microonde), scoprirono un rumore, non originato dall'apparecchiatura, di intensità costante e del tutto indipendente dalla direzione dell'antenna e dall'ora. Risultò immediatamente evidente che Penzias e Wilson avevano rilevato la radiazione cosmica di fondo prevista dalla teoria del big bang. L'intensità della radiazione indicava una temperatura media dell'universo di 2,7 gradi Kelvin. Le misure successive, fatte con strumentazione più raffinata, a diverse lunghezze d'onda e esplorando il cielo in tutte le direzioni, hanno confermato questo valore insieme alla sua notevole isotropia: la radiazione è ugualmente intensa in qualsiasi direzione.

QUASAR

L'identificazione ottica, avvenuta nel 1963, di oggetti denominati radiosorgenti quasi stellari (abbreviati poi quasar) sembrerebbe un'ulteriore conferma delle teorie evolutive. I quasar sono strani oggetti. Emettono più energia radiante di un'intera galassia, benché siano racchiuse in un volume molto più piccolo. Presentano, inoltre, un fortissimo spostamento verso il rosso, che interpretato come effetto Doppler, indicherebbe velocità di allontanamento di parecchie decine di migliaia di chilometri al secondo. Applicando la legge di Hubble, i quasar sarebbero i più lontani oggetti che siano stati osservati: distanti miliardi di anni-luce, ai limiti dell'universo osservabile. Proprio per la loro lontananza, la radiazione che oggi osserviamo dovrebbe essere stata emessa, appunto, miliardi di anni fa: tale sarebbe infatti il tempo impiegato dalla radiazione emessa dai quasar per giungere fino a noi.
I quasar sarebbero quindi una preziosa testimonianza delle epoche primordiali dell'universo. Tuttavia, la vera natura dei quasar è ancora controversa.
Alcuni astronomi contestano che lo spostamento delle righe spettrali verso il rosso dei quasar dipenda dall'enorme velocità di allontanamento e quindi dubitano che i quasar siano effettivamente così distanti.
I quasar invece sarebbero vicini (e quindi molto meno luminosi) e lo spostamento verso il rosso sarebbe prodotto da altre cause come, per esempio, dalla loro espulsione esplosiva dal nucleo di qualche galassia.

L'ETÀ E IL FUTURO DELL'UNIVERSO

Nella storia dell'astronomia fino alla scoperta di Hubble, le principali concezioni cosmologiche erano quelle basate su ipotesi di un universo statico e immutabile o, al contrario, sulla teoria di un universo in continua evoluzione. La scoperta del moto di allontanamento delle galassie fu accettata come prova del carattere evolutivo dell'universo e mise fine a questa controversia. Inoltre, la scoperta di Hubble riaffermò l'importanza che aveva, anche nella cosmologia, il metodo sperimentale, al punto che si cominciò a parlare di cosmologia osservativa.
L'età dell'universo può essere facilmente ricavata dalla teoria del big bang e dalla legge di Hubble:

v = Hd

dove v è la velocità, d la distanza e H la costante di Hubble.
Se si suppone che la velocità di espansione sia rimasta costante, allora, poiché all'origine del big bang tutte le galassie occupavano lo stesso punto nello spazio, l'età dell'universo T coincide con il tempo impiegato da una qualsiasi galassia per allontanarsi da noi di una distanza d:

13A00001.jpg

In genere, si usa esprimere la velocità di allontanamento delle galassie in chilometri al secondo (Km/s), la loro distanza in megaparsec e quindi la costante di Hubble in km/s per megaparsec. Con queste unità, T sarebbe misurata in migliaia di miliardi di anni. È più comodo, moltiplicare la formula per un fattore 1000 e avere T misurata in un'unità 1000 volte più piccola, cioè, miliardi di anni:

13A00002.jpg

Data la difficoltà e l'imprecisione con cui si stimano le distanze intergalattiche, il valore della costante di Hubble dipende dai metodi utilizzati per determinarla ed è tuttora soggetto a continue revisioni. La prima stima, fatta dallo stesso Hubble nel 1929, fu di 500 km al secondo per megaparsec. Applicando questo valore alla formula precedente, l'età dell'universo risultava di 2 miliardi di anni. Un risultato assurdo perché già a quell'epoca si stimava che l'età della Terra fosse superiore ai 4 miliardi di anni. Le stime attuali di H sono comprese tra un minimo di 50 e un massimo di 100 km al secondo per megaparsec, che corrispondono, rispettivamente, a un'età dell'universo compresa tra 20 e 10 miliardi di anni. Oggi, il valore correntemente accettato è di 17 miliardi di anni.
Secondo la teoria del big bang, il futuro dell'universo dipende dall'entità dell'esplosione iniziale. Se essa è stata sufficientemente violenta, ha fornito alla materia in espansione una energia tale da vincere non solo allora, ma per sempre, la forza gravitazionale che tenderebbe a riaggregarla. Un tale universo viene definito «aperto». Da calcoli effettuati sull'attuale densità dell'universo pare che questa sia l'ipotesi più probabile: l'espansione dell'universo è inarrestabile e durerà per sempre.
Se invece la densità dell'universo fosse maggiore di quella calcolata (ma dovrebbe esserlo di almeno 10 volte), l'espansione dell'universo in futuro dovrebbe arrestarsi a causa della gravità. Si parla allora di universo «chiuso».
In quest'ultimo caso, tutta la materia dovrebbe contrarsi e fondersi in una nuova sfera primordiale che, a sua volta, potrebbe subire una nuova esplosione e dare inizio a una nuova fase di espansione. Si calcola che i cicli di condensazione ed espansione si succederebbero con periodi compresi tra i 25 e i 60 miliardi di anni. È questa l'ipotesi dell'universo «oscillante».

LA VITA INTELLIGENTE NELL'UNIVERSO

Siamo soli nell'universo? È una domanda che l'uomo si è posto ripetutamente nel corso dei secoli e che, oggi, forse con più insistenza, continua a porsi. Naturalmente, la questione non ha senso per chi rifiuta, per convinzioni religiose o filosofiche, la possibilità di vita extraterrestre. Ma se invece si accetta questa possibilità, un buon modo per fare qualche progresso verso una risposta è quello di stimare la probabilità che, altrove, si siano potute riprodurre condizioni simili a quelle che hanno consentito lo sviluppo della vita sul nostro pianeta (cioè dell'unica forma di vita che conosciamo).
Il vantaggio di questa impostazione è quello di poter scomporre un problema tanto complesso come quello dell'esistenza di civiltà extraterrestri, in una serie di problemi, se non più semplici, almeno meglio delimitati. Così, la stima del numero N di pianeti nell'universo dove può essersi verificata la lunga catena di circostanze favorevoli che hanno consentito lo sviluppo della vita e, in particolare, di vita intelligente in grado, ad esempio, di comunicare con noi attraverso lo spazio interstellare, può essere scomposta nella stima di una serie di fattori:

g: numero di galassie osservabili

n: numero di stelle della Via Lattea;

fp: frazione di stelle che hanno sistemi planetari;

fg: frazione di sistemi planetari che hanno almeno un pianeta abitabile. (Perché un pianeta sia abitabile devono essere soddisfatte una serie di condizioni. Pianeti troppo grossi o troppo piccoli limiterebbero decisamente lo sviluppo della vita che richiede temperatura media e atmosfera adeguata, acqua abbondante, ecc.);

fi: frazione di pianeti abitabili, su cui possono essersi sviluppate forme di vita intelligente;

ft: frazione di pianeti abitati da forme di vita intelligente su cui possono essersi sviluppate civiltà tecnologiche e mezzi di comunicazione interstellari;

fo: frazione di pianeti abitati da forme di vita intelligente sui quali esiste oggi una civiltà tecnologica (questo fattore tiene conto del fatto che la durata di una civiltà tecnologica è solo una frazione del tempo impiegato per lo sviluppo di una forma di vita intelligente. Sulla Terra, su una storia complessiva dell'ordine di un miliardo di anni, solo da alcuni decenni esiste una civiltà tecnologica).

Con questi fattori, il numero delle civiltà tecnologicamente avanzate nell'universo può essere espresso dalla formula

N = g.n.fp.fg.fi.ft.fo

e dipenderà, ovviamente, dalla valutazione dei singoli fattori. I primi tre non offrono molte difficoltà: tra scienziati delle più diverse discipline c'è accordo sulla cifra di 10#10 da attribuire al numero di galassie osservabili, mentre per la stima del numero di stelle della Via Lattea, ci sono ipotesi ottimistiche e pessimistiche che oscillano, rispettivamente, tra 300 miliardi e 100 miliardi e per la frazione di stelle con sistemi planetari, da 0,2 a 0,1. Per gli altri fattori, invece, si conosce così poco che la stima assomiglia più che altro a un gioco. Le stime, rispettivamente pessimistiche e ottimistiche, del numero complessivo dei pianeti che nell'universo ospitano oggi una civiltà tecnologica oscillano tra 1000 e 6 milioni di miliardi di pianeti. Il ventaglio è tanto grosso che toglie credibilità al gioco. Un compromesso tra queste due tendenze estreme arriva alla cifra di 500 miliardi di pianeti. Comunque sia, qualunque sia l'ipotesi a cui uno voglia aderire, sono cifre che stimolano la fantasia e che hanno indotto alcuni scienziati alla realizzazione di programmi sistematici di contatti con eventuali intelligenze extraterrestri.
A raffreddare un poco l'entusiasmo contribuisce la consapevolezza che, entro un raggio di pochi anni luce, le stelle che potrebbero avere pianeti abitabili sono molto poche. Ampliare la ricerca a stelle più lontane significa che la conferma del contatto radio, che si potrebbe eventualmente stabilire, sarà destinato solo alle future generazioni tenendo conto del tempo che occorre al viaggio di andata e ritorno delle onde elettromagnetiche.

   +----------------------------------------------------+
   ¦            LE VENTI STELLE PIU' VICINE             ¦
   ¦       CHE POTREBBERO AVERE PIANETI ABITABILI       ¦
   +----------------------------------------------------¦
   ¦  Stella                     Distanza in anni luce  ¦
   +----------------------------------------------------¦
   ¦  Alpha Centauri A                     4,3          ¦
   ¦  Alpha Centauri B                     4,3          ¦
   ¦  Epsilon Eridani                     10,8          ¦
   ¦  61 Cygni A                          11,1          ¦
   ¦  Epsilon Indi                        11,3          ¦
   ¦  Tau Ceti                            12,2          ¦
   ¦  70 Ophiuchi A                       17,3          ¦
   ¦  70 Ophiuchi B                       17,3          ¦
   ¦  Eta Cassiopeiae A                   18,0          ¦
   ¦  Sigma Draconis                      18,2          ¦
   ¦  36 Ophiuchi A                       18,2          ¦
   ¦  36 Ophiuchi B                       18,2          ¦
   ¦  HR 7703 A                           18,6          ¦
   ¦  HR 5568 A                           18,8          ¦
   ¦  Delta Pavonis                       19,2          ¦
   ¦  82 Eridani                          20,9          ¦
   ¦  Beta Hydri                          21,3          ¦
   ¦  HR 8832                             21,4          ¦
   ¦  p Eridani A                         22,0          ¦
   ¦  p Eridani B                         22,0          ¦
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