INTRODUZIONE
È difficile
rendersi conto di che cosa significhino le enormi distanze spaziali e temporali
che dividono i fenomeni dell'evoluzione dell'Universo. I 17.000.000.000 di anni
che ci separano dall'iniziale big bang, rischiano di restare incomprensibili,
così come parlare di un Universo che dovrebbe essere "vasto"
10.000.000.000.000.000.000.000.000 di chilometri. Cifre che sfuggono al
controllo del senso comune. Per dare un'idea dei tempi e delle distanze degli
eventi cosmici è opportuno usare scale grafiche. Nella spirale dei tempi
ogni millimetro equivale a 2 milioni di anni: tutta l'evoluzione, ammessa
un'età dell'Universo di circa 17 miliardi di anni, sta racchiusa in una
linea lunga 8 metri e mezzo.
L'OSSERVAZIONE DELL'UNIVERSO
La dimensione massima dell'universo visibile
è data dalla distanza percorsa dalla luce delle stelle più lontane
da quando esse cominciarono a brillare. Se l'universo fosse illimitato nel tempo
il suo raggio sarebbe pure illimitato. Se, come si crede attualmente, l'universo
ha un'età di 17 miliardi di anni, per definizione, noi non possiamo
vedere nulla oltre la distanza di 17 miliardi di anni luce.
Il progresso
tecnico degli ultimi decenni ha confermato l'ipotesi di uniformità
dell'universo: se si osserva l'universo in una scala sempre più grande,
con telescopi ottici sempre più potenti, esso continua ad apparire
uniforme, a prescindere dai fenomeni di addensamento locali rappresentati dalle
galassie. Cioè, la distribuzione di materia e la sua struttura sono
ovunque uguali entro limiti di tolleranza molto bassi.
Per cercare di comprendere la natura e la struttura
dell'universo occorre osservare e riconoscere i diversi oggetti che lo
compongono e misurare la distanza a cui si trovano. Avere un'idea della distanza
dei pianeti, delle stelle, delle galassie, di tutti i corpi celesti via via
individuati nello spazio serve a far capire che le dimensioni su cui si svolgono
i fenomeni astronomici hanno scale diverse, avvengono cioè in tempi e in
spazi lontanissimi da quelli a cui si è abituati nell'esperienza
quotidiana.
Essere consapevoli delle enormi distanze che separano i corpi
celesti consente di ricavare una serie di informazioni essenziali (dimensione,
massa, quantità di energia emessa, ecc.) per formulare, su basi
scientifiche, un quadro della loro evoluzione nello spazio e nel
tempo.
IL PARADOSSO DI OLBERS
Il cielo di notte
è scuro. È un'osservazione così abituale, che a prima vista
non sembra che possa rivestire una qualsiasi importanza. Il merito
dell'astronomo tedesco Heinrich Wilhelm Olbers (1758-1840) fu quello di
richiamare l'attenzione sul fatto che l'oscurità del cielo notturno era
invece un difficile problema scientifico: «Se l'universo fosse statico (a
parte naturalmente i movimenti locali come, ad esempio come quelli dei pianeti
intorno al Sole) e costituito da un numero infinito di stelle distribuite
uniformemente nello spazio, il cielo dovrebbe risultare brillante come il Sole
anche in piena notte». Olbers viene particolarmente ricordato per questo
«paradosso», formulato nel 1826. Il paradosso si basava su calcoli
indiscutibili: in un universo statico, la quantità di luce e di calore
irradiata da un infinito numero di stelle, per quanto lontane possano essere,
sarebbe talmente elevata che il cielo dovrebbe allora essere brillante
dappertutto e, in ogni punto, dovrebbe risplendere anche in piena notte. La
Terra si troverebbe all'interno di un'autentica fornace. Non solo la notte non
sarebbe scura, ma non esisterebbe nessun genere di vita e non ne sarebbe mai
esistita la minima traccia.
In realtà l'ipotesi di un universo
infinito non è necessaria all'esistenza del paradosso. Sarebbe
sufficiente che il raggio dell'universo visibile fosse maggiore del raggio del
campo visuale, fosse cioè un raggio tale che, in qualunque direzione
guardassimo, la nostra linea visuale finisse con intercettare sempre la
superficie di una stella.
La luce emessa da stelle situate oltre il limite
della visuale sarebbe inevitabilmente intercettata da qualche stella. Le stelle,
sebbene troppo deboli per essere viste singolarmente, insieme dovrebbero rendere
il cielo di notte chiaro, non scuro. In media, ogni stella emetterebbe la sua
luce verso la Terra con un'intensità simile a quella del Sole, che
è appunto una stella tipica. Il cielo dovrebbe allora essere brillante
dappertutto e, in ogni punto, dovrebbe risplendere come il Sole anche in piena
notte. Anche in questo caso sulla Terra ci sarebbe sempre giorno e non ci
sarebbe alcuna traccia di vita.
Una delle soluzioni proposte per risolvere
il paradosso di Olbers è stata quella di supporre di vivere in un
universo di età finita in cui il raggio dell'universo visibile fosse
minore del limite del campo visuale. Gli sviluppi dell'astronomia moderna hanno
confermato la supposizione e, quindi, il cielo popolato di stelle è
oscuro perché al di là del raggio dell'universo visibile, per
definizione, non possiamo vedere nulla.
Un'altra strada per la soluzione
del paradosso di Olbers è stata quella di considerare in modo più
approfondito e quindi con tecniche e strumentazione inimmaginabili ai tempi di
Olbers, l'ipotesi di staticità dell'universo. Questa ipotesi venne messa
in crisi, a partire degli anni Venti del nostro secolo, quando fu scoperto il
fenomeno dello spostamento verso il rosso della luce (red shift) che arriva
sulla Terra dalle galassie lontane. Il fenomeno, se interpretato come effetto
Doppler, ha un importante significato cosmologico perché indica che le
galassie si allontanano da noi, che l'universo è in espansione. La luce
emessa dalle galassie più lontane, a causa dello spostamento verso il
rosso, ci raggiunge molto debolmente o non ci raggiunge affatto e quindi non si
verificano gli effetti di calore e di luce calcolati da Olbers. Perciò,
di notte, il cielo appare buio.
In qualunque direzione guardiamo, la nostra
linea visuale intercetta sempre una stella. È quello che si chiama raggio
dell'universo visibile.
Questo concetto può essere meglio compreso
se si immagina di essere in un bosco dove gli alberi rappresentano le stelle:
per avere l'idea che il bosco non finisca mai, non è necessario vedere
tutte le piante che lo formano: è sufficiente vederne un numero tale da
intercettare ogni possibile visuale. Che oltre quella linea di alberi ve ne
siano altri, a questo punto, non è più rilevante per avere
l'impressione di essere al centro di un bosco sterminato.
L'EFFETTO DOPPLER
L'effetto Doppler fu così chiamato in
ricordo del fisico e matematico austriaco Christian Doppler (1803-1853) che lo
scoprì nel 1842. È un fenomeno che fa parte dell'esperienza
quotidiana.
Supponiamo di stare fermi mentre una sorgente sonora mobile
qualsiasi (la sirena di un'ambulanza, il fischio di una locomotiva) è in
movimento rispetto a noi. Mentre la sorgente si avvicina il suono sembra
più acuto; quando si allontana, più grave. Ciò accade
perché mentre la sorgente si avvicina il numero di onde che riceviamo
ogni secondo (e quindi la frequenza) è maggiore di quella che riceviamo
quando la sorgente si allontana.
Nel 1848 il fisico francese Armand
Hippolyte Louis Fizeau (1819-1896) fece notare che l'effetto Doppler si doveva
verificare anche in ottica; i colori infatti sono determinati, come i suoni da
una frequenza, da quella delle onde che compongono la luce. La frequenza
più bassa dello spettro luminoso visibile corrisponde al rosso, quella
più alta, al blu. Era lecito allora attendersi che la frequenza della
luce di una qualsiasi sorgente (stella, galassia) in allontanamento dalla Terra
fosse spostata, verso l'estremo dello spettro dove le frequenze sono più
basse (appunto, il risso) rispetto a quello della luce emessa da una sorgente
simile e in quiete relativa. È ciò che si verifica: una stella che
si allontana ci appare più rossa di quanto non sarebbe se fosse ferma
rispetto a noi e, viceversa, una stella che si avvicina, ci appare più
blu. Gli spostamenti per effetto Doppler sono più evidenti (e le misure
di velocità corrispondenti più precise) sulle righe
spettrali.
La variazione di frequenze dovuta all'effetto Doppler è
inversamente proporzionale alla velocità di propagazione delle onde,
cioè è tanto maggiore quanto minore è la velocità.
Poiché le onde sonore si propagano a una velocità di circa 300
metri al secondo, mentre quelle luminose di 300.000 chilometri al secondo con
una velocità quindi di circa un milione di volte maggiore, percepiamo
facilmente la variazione di frequenza del suono del clacson della macchina che
passa accanto a noi, non quella delle sue luci perché essa è,
appunto, circa un milione di volte minore. La variazione di frequenza delle onde
luminose sarebbe percepibile a velocità inconcepibili per un veicolo
terrestre; con strumenti adeguati, è invece possibile rilevarla per le
velocità con cui la maggior parte delle stelle delle galassie si muove
rispetto a noi.
L'effetto Doppler è una delle chiavi dei grandi
progressi dell'astronomia e della cosmologia moderna perché ha permesso
di formulare nuove ipotesi sulla struttura dell'universo.
Schematizzazione dell'effetto Doppler
SPETTROSCOPIO E SPETTROGRAFO
La luce solare, o luce bianca, è
composta da una miscela di radiazioni di diversa frequenza. Quando, per esempio,
la luce attraversa un prisma, le diverse frequenze vengono percepite come colori
differenti. A ogni frequenza corrisponde un colore. Il prisma separa le diverse
componenti della luce solare perché quando la luce passa dall'aria al
vetro e poi dal vetro all'aria, il suo cammino subisce una deviazione
(rifrazione). L'angolo di deviazione dipende dalla frequenza o colore della
luce. Maggiore è la frequenza della radiazione, maggiore è la
deviazione. Il risultato ottenuto, la decomposizione della luce nei suoi diversi
colori, è noto come spettro della luce. La frequenza massima visibile
dello spettro corrisponde al colore violetto, la minima visibile, al rosso. Il
fenomeno della separazione dei componenti della luce solare è noto a
tutti. Infatti, l'arcobaleno non è che lo spettro della luce solare
analizzata da una miriade di minuscoli prismi naturali: le gocce di pioggia
sospese nell'atmosfera.
Lo spettroscopio è uno strumento che
permette di osservare lo spettro della luce proveniente da una sorgente luminosa
come una stella. Sostituendo l'osservazione visuale dello spettro con la sua
registrazione su una lastra fotografica si ottiene lo spettrografo. Gli spettri
vengono classificati in base alla loro origine in spettri di emissione o di
assorbimento e questi, possono a loro volta, essere continui o a righe.
Le
righe scure dello spettro solare furono notate nel 1802 dal fisico e chimico
inglese William H. Wollanston (1766-1828). Il fisico e ottico tedesco Joseph von
Fraunhofer (1787-1826) ne fece uno studio sistematico e da allora esse vengono
chiamate righe di Fraunhofer. A partire del 1862, il fisico svedese Anders Jonas
Ängstrom (1814-1874) identificò nel Sole numerosi elementi terrestri
(idrogeno, manganese, alluminio, titanio), in base alle loro righe spettrali
caratteristiche. L'elio fu scoperto nel Sole, prima ancora che sulla Terra,
dall'astronomo inglese Norman Lockyer (1836-1920), nel 1868. Fu identificato
sulla Terra quasi trent'anni dopo, nel 1895, dal chimico inglese sir William
Ramsay (1852-1916).
L'analisi degli spettri della luce provenienti dalle
stelle e dalle galassie fornisce agli astronomi la maggior parte delle
informazioni di cui disponiamo sulla loro composizione chimica e sulle loro
condizioni fisiche, nonché, attraverso la determinazione dell'eventuale
spostamento delle righe di assorbimento per effetto Doppler, sul loro moto
(rotazione, allontanamento, ecc.). È uno dei metodi fondamentali della
ricerca astronomica.
LA PARALLASSE
Il metodo della parallasse è analogo a
quello usato dai topografi o dagli agrimensori per misurare distanze sulla
Terra. Il metodo non è che lo sviluppo di un'esperienza che facciamo
tutti continuamente: quando spostiamo un po' la testa vediamo gli oggetti
muoversi sullo sfondo. La figura che segue precisa le cose: quando l'osservatore
si trova in posizione A vede l'oggetto più vicino V in direzione
V
1 sullo sfondo e l'oggetto più lontano L in direzione del
punto L
1. Se si sposta e si ferma nella posizione B, vede V in
V² e L in L²; se si sposta ancora fino ad arrivare in C, vede V in
V
3 e L in L
3.
Il metodo della parallasse
Sulla base di queste osservazioni si possono compiere due
importanti deduzioni.
1) Gli spostamenti apparenti degli oggetti sullo
sfondo sono tanto più grandi quanto maggiore è lo spostamento
reale dell'osservatore.
2) Gli spostamenti apparenti sullo sfondo sono
tanto più grandi quanto più vicino all'osservatore è
l'oggetto e possono perciò essere usati per valutare tali
distanze.
Se gli oggetti sono molto lontani (e lo spostamento
dell'osservatore, che chiameremo base, non abbastanza grande) gli spostamenti
sullo sfondo non sono percettibili.
Ora, anche le stelle più vicine
sono così distanti che non si può certo sperare di vederle
spostarsi (sullo sfondo della volta celeste) muovendo pochi passi, e neppure
camminando per chilometri o decine di chilometri, e neppure facendo mezzo giro
del globo terrestre. Il problema può essere risolto se si ricorda che la
Terra gira intorno al Sole e si sposta in mezzo anno 300 milioni di chilometri
(il doppio della distanza Terra-Sole). Le osservazioni fatte a distanza di sei
mesi dallo stesso osservatorio astronomico non sono perciò eseguite dallo
stesso punto dello spazio, ma da due punti che distano tra loro 300 milioni di
chilometri.
Con questa base (si parla allora di parallasse stellare) si
può pensare di osservare qualche spostamento apparente delle stelle sulla
volta celeste; e infatti fotografie scattate a distanza di sei mesi mostrano
spostamenti piccolissimi, ma misurabili, per molte stelle. La geometria e la
trigonometria aiutano poi gli astronomi a ricavare dalla misura di questi
spostamenti apparenti le distanze effettive delle stelle dalla Terra.
Con
le tecniche di osservazione attuali si riesce a misurare parallassi dell'ordine
di 0,01 secondi di arco.
Il Sole e la Luna sono visti dalla Terra con lo
stesso angolo (circa mezzo grado).
Si riescono a calcolare in questo modo,
con ragionevole precisione, le distanze delle stelle lontane da noi fino a circa
100 parsec. Ma molto più in là non si può sperare di
andare, perché per distanze maggiori anche l'immensa «base»
dell'orbita terrestre non si rivela più utile di quella che si ottiene
scuotendo la testa di pochi centimetri.
LE DIMENSIONI DELLA TERRA
Eratostene, nato a Cirene in Libia (284 circa
- 192 circa a.C.), grande astronomo, geografo e matematico greco, direttore
della famosa biblioteca di Alessandria in Egitto, fu il primo a compiere una
vera e propria misurazione di una distanza astronomica: la circonferenza della
Terra. Il metodo da lui utilizzato fu ingegnoso e semplice: richiedeva solo un
bastoncino e la conoscenza della distanza tra Alessandria e Syene (l'attuale
Assuan).
Eratostene sapeva che ogni 21 di giugno a mezzogiorno (solstizio
di estate) il sole si trovava sulla perpendicolare di Syene perché in
quel momento i suoi raggi arrivavano ad illuminare anche i pozzi più
profondi e quindi avevano la massima perpendicolarità. Decise allora di
misurare, in quello stesso giorno e ora dell'anno, la lunghezza dell'ombra
proiettata da un bastoncino piantato verticalmente ad Alessandria. In questo
modo, poté calcolare facilmente, l'angolo formato tra i raggi solari e la
verticale del luogo (angolo A). Supponendo la sfericità della Terra e
ricorrendo al teorema per cui due rette parallele tagliate da un'altra retta
formano angoli alterni interni uguali, Eratostene poté affermare che
l'angolo era uguale a quello formato al centro della Terra tra i raggi terrestri
che passano per Syene e per Alessandria (angolo B). In questo modo, Eratostene
trovò che l'angolo al centro della Terra tra Syene e Alessandria era di
7° 12', pari a 1/50 di un angolo giro (360°). Era allora facile
dedurre che la circonferenza terrestre doveva misurare 50 volte il valore di 800
km che veniva attribuito alla distanza tra le due città. Eratostene
ottenne così per la circonferenza terrestre una lunghezza di 40.000 km,
misura assai vicina a quella esatta.
LA DISTANZA TERRA-LUNA
La distanza tra la Terra e la Luna è
stata calcolata dall'astronomo e matematico greco Ipparco di Nicea intorno al
150 a. C. Il metodo era stato proposto circa un secolo prima da Aristarco di
Samo e si basava nell'osservazione della grandezza dell'ombra della Terra sulla
Luna durante un'eclisse. Ipparco misurò il tempo impiegato dalla Luna ad
attraversare l'ombra della Terra ottenendo così un'indicazione delle
dimensioni relative dei diametri della Terra e della Luna. Conoscendo il
diametro della Terra, con semplici relazioni geometriche, egli trovò che
la distanza della Luna doveva essere 30 volte il diametro della Terra.
Utilizzando per quest'ultimo il valore di 13.000 chilometri proposto da
Eratostene, la distanza della Luna risultava di 390.000 chilometri, un valore
abbastanza vicino a quello corretto.
LA MISURAZIONE DEL SISTEMA SOLARE
Aristarco di Samo cercò di determinare
il rapporto tra le distanze della Luna e del Sole, misurando l'angolo che la
Terra forma con il Sole e la Luna quando questa è al primo quarto e,
quindi, quando il triangolo Sole Luna Terra è rettangolo. Il procedimento
era corretto, ma richiedeva misure troppo precise per gli strumenti di
quell'epoca. La valutazione di Aristarco fu che il Sole fosse a una distanza
pari a 20 volte la distanza della Luna (il valore corretto è 20 volte
maggiore). Per ottenere un valore soddisfacente della distanza del Sole si
dovevano ancora attendere quasi 2000 anni.
Tra il XVI e XVII secolo
cominciò il processo di rinnovamento scientifico che gettò le basi
teoriche dell'astronomia moderna con Copernico, Keplero, Galileo, e anche quelle
strumentali grazie soprattutto al telescopio che, successivamente corredato da
viti e scale micrometriche, permise di misurare angoli di parallasse molto
piccoli, dell'ordine di pochi secondi di arco, e quindi distanze di vari ordini
di grandezza superiori a quelle raggiunte nell'antichità.
Il sistema
eliocentrico e le leggi di Keplero, consentivano di calcolare l'orbita dei
pianeti e le loro distanze relative dal Sole. Si poteva cioè tracciare
una mappa in scala del sistema solare. Inoltre, grazie alla terza legge di
Keplero, non era più necessario determinare direttamente la distanza tra
la Terra e il Sole perché questa poteva essere ricavata, insieme a tutte
le altre distanze dei pianeti del sistema solare, conoscendo la distanza di uno
qualunque di essi.
Marte e Venere, i pianeti più vicini alla Terra,
erano i corpi celesti più adatti per l'applicazione del nuovo
procedimento di misurazione delle distanze con la parallasse. Nel 1671, anno
favorevole perché Marte si trovava particolarmente vicino alla Terra,
Jacques Dominique Cassini a Parigi insieme a Jean Richer a Caienna (Guyana
francese) cercarono di misurare, la stessa sera, la parallasse di Marte
prendendo come linea di base la distanza tra Parigi e Caienna. La parallasse, se
pur piccolissima, poté essere rilevata. Risultò che la distanza
Terra-Sole era di 138.000.000 chilometri (la distanza media del Sole è
oggi considerata pari a 149.000.000 chilometri).
Si conobbe così,
per la prima volta, non solo la distanza del Sole, ma la dimensione del sistema
solare, che era quella determinata dall'orbita di Saturno, il pianeta più
esterno allora conosciuto. Risultò per il sistema solare un diametro di
circa 3 miliardi di chilometri. Con la scoperta di Urano (1781), Nettuno (1846)
e Plutone (1930) la dimensione del sistema solare si ingrandì a circa 12
miliardi di chilometri.
Le distanze del sistema solare erano enormi per
l'uomo, ma da tempo si sospettava che, per quanto grandi fossero, esse
rappresentassero una piccola frazione di quelle stellari.
DISTANZE STELLARI
Il metodo della parallasse stellare,
applicato con successo fin dalla fine del secolo XVII alla misurazione delle
distanze del sistema solare, non dava alcun risultato osservabile quando veniva
applicato alla misurazione delle distanze stellari. Le stelle dovevano trovarsi
a distanze troppo grandi per poterle misurare con semplici metodi
geometrici.
Nel 1718, l'astronomo inglese Edmond Halley (1656-1742)
scoprì il primo moto reale delle stelle (moto proprio) fino ad allora
considerate fisse. Negli anni successivi l'elenco delle stelle con moto proprio
osservabili cominciò ad allungarsi. Era evidente che il moto proprio
osservabile era un indicatore di vicinanza relativa e ciò rendeva queste
stelle le migliori candidate per cercare di determinare la loro distanza con il
metodo della parallasse. Tuttavia, i tentativi intrapresi risultarono
infruttuosi: non era possibile osservare alcuna parallasse. Quindi, anche le
stelle più vicine dovevano essere molto lontane.
I progressi
compiuti nella fabbricazione di telescopi e di strumenti di precisione
consentì di scoprire, finalmente, in rapida successione, le prime
parallassi stellari.
Nel 1838, l'astronomo tedesco Friederich W. Bessel, riuscì a misurare la parallasse
della stella 61 Cygni: 0,3136 secondi di arco. Il valore trovato è, in
effetti, molto piccolo. Si può avere un'idea della difficoltà
della misura pensando che 0,3136 secondi di arco è l'angolo con cui si
vedrebbe una moneta di 50 lire posta a 16,5 chilometri di distanza. Con questa
parallasse, 61 Cygni risultava essere a 10,4 anni luce di distanza.
Nel
1839, l'astronomo inglese Thomas Henderson, trovò la distanza della
stella Alpha Centauri (4,3 anni luce). Nel 1840, l'astronomo russo Wilhelm
Struve annunciò di aver trovato la parallasse di Vega, distante 26,5 anni
luce.
Da queste prime misure risultò evidente che le stelle, anche
quelle più vicine, erano lontanissime e che, a loro confronto, le
distanze del sistema solare erano insignificanti. Le distanze delle stelle
più vicine sono migliaia di volte maggiori della dimensione dell'intero
sistema solare. Fino ad oggi, con il metodo della parallasse, sono state
misurate le distanze di alcune migliaia di stelle: non c'è alcuna stella
che si trovi entro 1 parsec.
La determinazione delle distanze delle stelle,
essenziale per studiare le proprietà fisiche delle stelle
(luminosità, massa, ecc.), contribuì allo sviluppo
dell'astrofisica, un nuovo settore dell'astronomia, e consentì di avere
idee più precise sulla struttura della Galassia.
LE DIECI STELLE PIÙ VICINE
|
|
Magnitudine Stella
|
Magnitudine apparente
|
Distanza assoluta (parsec)
|
Proxima Centauri
|
11,05
|
15,45
|
1,31
|
Alpha Centauri
|
-0,01
|
4,35
|
1,34
|
Stella di Bernard
|
9,54
|
13,25
|
1,81
|
Sirio A
|
-1,45
|
1,42
|
2,65
|
Sirio B
|
0,68
|
11,56
|
2,65
|
JUV Ceti A
|
12,45
|
15,27
|
2,72
|
JUV Ceti B
|
12,95
|
15,80
|
2,72
|
Ross 154
|
10,60
|
33,30
|
2,90
|
Ross 248
|
12,29
|
14,80
|
3,15
|
Eta Eridani
|
3,73
|
6,13
|
3,30
|
UNITÀ ASTRONOMICA, ANNO-LUCE, PARSEC
Un'unità come il chilometro è
evidentemente inadeguata per la misurazione delle distanze astronomiche: nel
corso della loro attività, man mano che le distanze osservabili si
dilatavano, gli astronomi sono stati costretti a definire nuove
unità.
Unità astronomica (U.A.) è definita la distanza
media tra la Terra e il Sole, calcolata pari a 149,8 milioni di chilometri.
È un'unità comoda per le distanze del sistema solare, mentre
risulta inadeguata per le distanze interstellari e intergalattiche.
L'anno
luce è la distanza percorsa dalla luce in un anno. Poiché la
velocità della luce è di circa 300.000 chilometri al secondo e in
un anno ci sono circa 3 x 10
7 secondi, un anno luce equivale a una
distanza di 9 x 10
12 chilometri.
Il parsec è
un'unità astronomica molto usata. Il termine risulta dall'abbreviazione
di parallasse secondo. Corrisponde alla distanza dalla quale il raggio
dell'orbita della Terra intorno al Sole sarebbe visto con un angolo di un
secondo di arco ed equivale a 3,26 anni luce. Con quest'unità il rapporto
tra la distanza misurata in parsec e la parallasse misurata in secondi di arco
è molto semplice:
LA GRANDEZZA DELLE STELLE
Nel II secolo a.C. Ipparco costruì una
scala qualitativa della luminosità apparente delle stelle classificandole
in sei gruppi in funzione della luminosità con cui esse sono viste, a
prescindere cioè dalla loro distanza. Le stelle più luminose
furono classificate come stelle di prima magnitudine (cioè grandezza dal
latino magnus = «grande»), quelle più deboli (al limite della
visibilità dell'occhio nudo), di sesta magnitudine.
Il progresso
dell'astronomia rese necessaria la costruzione di una scala quantitativa, che
conservasse, per quanto possibile, l'antica classificazione. L'astronomo Norman
Pogson osservò nel 1856 che una stella di prima magnitudine è
circa 100 volte più luminosa di una di sesta magnitudine e quindi
definì la differenza di una magnitudine uguale a un rapporto di
luminosità di 2,512 (infatti 2,512
5 è uguale a
100).
Nel caso di oggetti molto brillanti, la scala di magnitudini
può assumere valori anche negativi. Le stelle più deboli
fotografabili con i telescopi più potenti sono attorno alla magnitudine
25 (pari alla luminosità con cui si vedrebbe un'ipotetica candela posta a
300.000 chilometri dall'osservatore!).
Si dice magnitudine assoluta la
luminosità apparente, misurata in magnitudine, che la stella avrebbe se
si trovasse alla distanza di 10 parsec da noi.
LA VIA LATTEA
Le stelle non sono distribuite uniformemente
nel cielo. Di notte è facile osservare la Via Lattea, una lunga striscia
che solca tutto il cielo costituita da un fortissimo addensamento di stelle.
È la nostra galassia (dal greco galaxias = «via
lattea»).
Fin dal 1755 l'intuizione di Kant circa l'esistenza di altre
galassie (di altri universi-isole, come li chiamò) rimase tale. La
comunità scientifica considerò sempre con sospetto quest'ipotesi.
In ogni modo, il problema era collegato alla misura delle dimensioni della Via
Lattea e a quello della natura e della distanza delle cosiddette nebulose (nubi
di gas interstellare o raggruppamenti di stelle talmente lontani da non esser
distinguibili con i telescopi dell'epoca?). Verso il 1900, le stime fatte erano
molto dubbie perché, per questa scala astronomica di distanze, non
c'erano ancora indicatori attendibili.
Nel 1912 fu scoperto un nuovo metodo
per la determinazione delle distanze che ampliava enormemente la scala delle
misure portandole fino al limite di osservabilità dei più grandi
telescopi: il metodo era basato sulla relazione tra il periodo e la
luminosità di un tipo particolare di stelle variabili (le variabili
cefeide). Usando le cefeide come indicatori di distanza, l'astronomo americano
Harlow Shapley delimitò per primo, anche se in eccesso, le dimensioni
della Via Lattea. Essa ha la forma di un disco con bracci a spirale con un
diametro di 100.000 anni-luce e uno spessore di 5000. Racchiude circa 100
miliardi di stelle. Una di esse, il nostro Sole, occupa una posizione
periferica.
Nel 1926, l'astronomo olandese Jan Oort dimostrò che la
Galassia è in rotazione intorno a un punto situato nella costellazione
del Sagittario. Il Sole partecipa naturalmente di questa rotazione. Muovendosi a
una velocità di 240 chilometri al secondo, fa un giro attorno al centro
della Galassia in 200 milioni di anni (anno cosmico). Risolto il problema delle
dimensioni della Via Lattea restava quello dell'esistenza di altre
galassie.
Nel 1923-1924, l'astronomo americano Edwin P. Hubble, osservando
la nebulosa di Andromeda (una delle più luminose) con il telescopio di
2,5 metri di Mount Wuilson (che era allora il più grande del mondo),
trovò varie cefeide che usò come indicatori di distanza. Hubble
calcolò che la nebulosa di Andromeda doveva trovarsi a una distanza
grandissima, varie volte maggiore del diametro della nostra galassia: 1.000.000
di anni-luce. In seguito a nuove scoperte questa distanza è stata portata
a 2.000.000 di anni-luce.
Con lo stesso metodo osservò altre
nebulose e ne identificò altre cefeide: in tutti i casi le nebulose si
trovavano molto al di fuori dei confini della Via Lattea. Hubble concluse che le
nebulose sono grandi agglomerati di stelle (da dieci a 100 miliardi di stelle)
situati al di fuori della Via Lattea. La Via Lattea diventava una tra le altre
galassie.
CEFEIDI
Nel 1912 fu scoperto un nuovo metodo per la
determinazione delle distanze astronomiche che ampliava enormemente la scala
della misura portandola fino al limite di osservabilità dei più
grandi telescopi ottici.
L'astronoma Henriette Leavitt scoprì la
relazione periodo/luminosità per le variabili cefeidi. Le cefeidi
(indicate così dal nome della prototipo Delta Cephei scoperta nel 1784)
sono una classe particolare di stelle la cui luminosità varia
continuamente e regolarmente. Le cefeidi passano da una fase di minima
luminosità ad una di massima, per poi tornare a quella iniziale. Il lasso
di tempo tra due minimi successivi è il periodo, che varia, da una
cefeide a un'altra, da meno di un giorno a cento giorni.
La variazione
continua di luminosità delle cefeidi è originata da vere e proprie
espansioni e contrazioni meccaniche della stella. Esiste una relazione precisa
tra il periodo e la luminosità assoluta media delle cefeidi: quanto
più lungo è il periodo, tanto maggiore è la
luminosità. L'osservazione del periodo consente di determinare la
luminosità assoluta della stella che, confrontata con la
luminosità apparente, permette di calcolare la sua distanza.
Le
cefeidi sono estremamente luminose e possono perciò essere osservate a
distanze enormi. La possibilità di misurare tali distanze le ha fatte
diventare uno degli strumenti fondamentali della cosmologia.
IL DIAGRAMMA HERTZPRUNG-RUSSELL
Considerato uno degli strumenti principali
dell'astronomia, il diagramma Hertzprung-Russell, così chiamato in onore
dei suoi ideatori che lo elaborarono negli anni 1911-1913, propone una
rappresentazione convincente dell'evoluzione delle stelle.
Il diagramma segna la luminosità
assoluta delle stelle in funzione della loro temperatura superficiale. La
luminosità delle stelle è riportata in ordinate, con una scala che
varia da un valore 100.000 volte minore a un valore 100.000 volte maggiore la
luminosità del sole (nel diagramma la luminosità del Sole è
considerata uguale a 1). La temperatura superficiale delle stelle è
riportata in ascissa con una scala che varia da 2500 a 40.000 gradi (oppure,
essendo il colore della stella un indicatore della sua temperatura superficiale,
con una scala che varia dal rosso a blu). Sono state anche tracciate delle linee
diagonali (in nero, che rappresentano il luogo geometrico delle stelle che hanno
uguali dimensioni (misurate in diametri solari). Si noti che il Sole si trova,
appunto, sulla linea corrispondente a un diametro solare. Quindi, spostandoci
nel grafico su una perpendicolare all linee di uguale dimensione stellare,
queste variano da un cente simo a cento volte il diametro del sole.
Nel
diagramma si sono riportati i punti rappresentativi di alcune delle stelle
più vicine, compreso il Sole. Si vede che i punti non si distribuiscono
casualmente. Essi si raggruppano prevalentemente in tre regioni denominate:
«sequenza principale», «zona delle giganti rosse» e
«zona delle nane bianche».
CLASSIFICAZIONE DELLE STELLE
Dalla nascita alla morte, le stelle
percorrono le diverse regioni del diagramma lungo traiettorie ben precise, ma
trascorrono la maggior parte della loro vita nella sequenza principale, una
fascia diagonale che attraversa il diagramma dall'alto in basso e da sinistra a
destra. La sequenza principale è quindi la regione in cui la maggioranza
delle stelle si raggruppa. Qui si trovano le stelle che ricavano la loro energia
dalla trasformazione di idrogeno in elio. Tutte queste stelle hanno circa la
stessa dimensione e si distribuiscono lungo la sequenza principale secondo la
loro massa, con le stelle di massa minore (circa 3/10 della massa solare)
all'estremo inferiore e quelle di massa maggiore all'estremo superiore (circa 20
volte la massa solare). In alto, si trovano le stelle molto luminose (10.000
volte più del sole) e azzurre (Spica, Vega, per esempio). In basso a
destra, si trovano le stelle poco luminose (10.000 volte meno del sole) e rosse.
Le stelle di massa maggiore sono più luminose perché per
compensare la maggior forza gravitazionale bruciano più rapidamente il
loro combustibile nucleare di quelle di massa minore. Le prime esauriranno la
loro scorta di idrogeno in qualche milione di anni (come Rigel), mentre le
seconde, meno luminose ma anche più lente nel trasformare l'idrogeno in
elio, impiegheranno decine di miliardi di anni (la stella di Bernard, per
esempio). Il Sole, che si trova su questa sequenza a circa metà strada,
vi rimarrà complessivamente 10 miliardi di anni.
In alto a destra si
trova una regione caratterizzata da alta luminosità e basse temperature.
È la zona delle stelle giganti rosse (Antares, Aldabaran, Betelgeuse).
Sono stelle di dimensioni enormi (più di 100 volte il diametro solare);
per dare un'idea della loro grandezza si immagini che se una di loro fosse al
posto del Sole si estenderebbe oltre l'orbita terrestre. Nella regione di alta
luminosità e basse temperature la produzione di energia deriva dalla
trasformazione di elio in carbonio e ossigeno. Una gigante rossa è una
stella ormai vecchia e prossima alla fine.
In basso a sinistra, sotto la
sequenza principale, c'è la regione delle nane bianche: stelle che,
avendo esaurito ogni combustibile nucleare irradiano solo energia termica. Sono
molto calde ma di bassa luminosità, tanto bassa che, per osservarle,
è necessario un buon telescopio. Le nane bianche sono oggetti di
dimensioni ridotte, con diametri paragonabili a quello della Terra, ma la loro
massa è confrontabile con quella del Sole. Sono quindi oggetti
eccezionalmente densi: un cucchiaio di materia di una nana bianca peserebbe
sulla Terra decine di tonnellate.
VITA E MORTE DEL SOLE
Le stelle irradiano nello spazio una
quantità enorme di energia e la luce che ci raggiunge da così
vaste distanze sta a indicare questo fatto. L'energia irradiata dal Sole, la
nostra stella, è fonte di calore e di vita per la Terra. Per essere
irradiata, l'energia deve essere prima prodotta. Le stelle bruciano e si
consumano. Questo è un processo che, sia pure sulla scala cosmica dei
tempi, ha una durata: le stelle devono avere avuto un'origine e avranno anche
una fine.
I cammini evolutivi delle stelle, dalla nascita fino alla morte,
possono essere seguiti facilmente sul diagramma Hetzprung-Russel. Durante tutta
la vita di una stella l'energia prodotta dalle reazioni nucleari equilibra la
forza di gravitazione che tende a fare precipitare verso il centro della stella
le masse di gas periferiche. I diversi percorsi, che dipendono fortemente dalla
massa, stanno appunto a indicare che, man mano che i distinti combustibili
nucleari si esauriscono, la stella cerca di stabilire un nuovo equilibrio
attraverso un processo di contrazione, aumento di temperatura e innesco di nuove
reazioni nucleari.
Seguiremo l'evoluzione di una stella tipica, di media
grandezza, come il Sole. Sulla traccia sono indicate (lettere maiuscole) le
posizioni con cui si succedono le fasi più importanti della sua
evoluzione.
Il Sole è nato, cinque miliardi di anni fa, da una
nebulosa di gas interstellare piuttosto densa, che ha cominciato a contrarsi per
effetto della gravitazione. In quell'epoca era una protostella, cioè una
sfera instabile di gas che a mano a mano che si contraeva aumentava la sua
temperatura, ma diminuiva la sua luminosità. Questo perché la
luminosità dipende non solo dalla temperatura, ma anche dalla superficie
di irraggiamento e, quindi, in questa fase, l'aumento di temperatura non
riusciva a compensare la rapida riduzione della dimensione della protostella
(A-B). Nella fase successiva (B-C) questa relazione si rovescia, la temperatura
sale rapidamente, la contrazione rallenta e aumenta sensibilmente la
luminosità.
A questo punto (C) la temperatura della protostella
è diventata sufficientemente alta (circa dieci milioni di gradi) per
innescare la reazione nucleare di trasformazione di idrogeno in elio (simile
quindi a quella della bomba H). La contrazione si arresta: è nata la
stella vera e propria. Sulla sequenza principale il punto cessa di muoversi. Per
il Sole questo è avvenuto circa 5 miliardi di anni fa e in questo punto
si trova ancora oggi.
Quando l'idrogeno che, nel nucleo della stella,
alimenta la reazione nucleare si sarà esaurito, il Sole riprenderà
il suo cammino evolutivo (C-D). Ciò avverrà tra 5 miliardi di
anni. Nella struttura della stella si verificheranno notevoli cambiamenti:
l'idrogeno degli strati periferici, che fino a quel momento non partecipava alle
reazioni nucleari, comincerà a bruciare. La temperatura del nucleo della
stella aumenterà fino al punto di innescare un nuovo tipo di reazione
nucleare (la trasformazione dell'elio in carbonio), la stella aumenterà
più di 100 volte la sua dimensione e, di conseguenza, sarà molto
più luminosa. Durante l'espansione gli strati esterni si raffredderanno e
la stella diventerà rossa, una gigante rossa. A questo punto la Terra,
ormai da molto tempo priva di forma di vita, evaporerà e sarà
inghiottita dalla stessa stella che le ha dato la vita per 10 miliardi di anni.
La stella rimarrà nella fase di gigante rossa (D) finché non
avrà esaurito l'elio, il suo nuovo combustibile nucleare, per un periodo
di tempo molto minore di quello della fase precedente.
Esaurito l'elio, la
stella riprenderà il suo cammino percorrendo un ramo orizzontale a
luminosità praticamente costante dove si verifica una serie di fasi
più avanzate della sua evoluzione nucleare caratterizzata da successive
contrazioni, notevole aumento della sua temperatura e reazioni nucleari con
sempre nuovi combustibili, come il carbonio, l'ossigeno, il silicio (D-E).
Queste fasi conducono alla formazione di nuovi elementi (per esempio, neon,
sodio, alluminio, magnesio, ferro).
Consumati tutti i possibili
combustibili nucleari, una stella come il Sole si avvia rapidamente verso
l'ultima fase della sua vita: dopo aver riattraversato, senza fermarsi, la
sequenza principale, compie una brusca svolta a sinistra, verso una zona di
basse luminosità e temperature: è la regione delle stelle nane
bianche. Siccome l'energia irradiata è di origine esclusivamente termica,
le nane bianche si raffreddano lentamente, diminuendo la loro già debole
luminosità e mantenendo le loro ridotte dimensioni finché
semplicemente si spengono: diventano nane nere (E-F).
LA FINE DELLE STELLE
Durante tutta la vita di una stella l'enorme
quantità di energia prodotta dalle reazioni nucleari equilibra la forza
di gravitazione che tende a fare precipitare verso il centro le masse di gas
periferiche. I possibili combustibili nucleari si esauriscono attraverso un
processo di contrazione, aumento di temperatura e innesco di nuove reazioni
nucleari che stabiliscono, volta per volta, nuovi stati di equilibrio per la
stella e creano elementi chimici di crescente complessità. Le stelle
finiscono la loro evoluzione quando hanno esaurito tutti i combustibili
nucleari. Ma non finiscono necessariamente nello stesso modo. Il modo come
evolvono in questa fase finale dipende dalla loro massa, anche se, essendoci
ancora molte incertezze teoriche e osservative, esso è conosciuto solo
per grandi linee.
NOVA
Le stelle nuove, non sono affatto nuove, ma
stelle di magnitudine inferiori ai limiti di visibilità a occhio nudo
(quindi inferiori alla sesta magnitudine) che diventano improvvisamente
visibili. La stella può diventare da 100.000 a 1.000.000 di volte
più luminosa. In questo processo la stella non si autodistrugge. Quasi
tutte le novae studiate si sono rivelate nane bianche compagne di un'altra
stella molto vicina. Quando, durante le ultime fasi della sua evoluzione, la
stella vicina si espande, parte della sua superficie gassosa può venire
attratta dalla nana bianca provocando un'enorme esplosione. Le novae non sono
infrequenti. Si stima che ci siano tra 20 e 40 novae all'anno per galassia
(compresa ovviamente la nostra), che tuttavia sfuggono all'osservazione
perché troppo deboli o lontane. In media, si riescono a osservare 1 o 2
novae ogni 10 anni.
SUPERNOVA
Se la stella ha una massa molto superiore a
quella solare (10-20 volte), quando abbandona la sequenza principale, diventa
una supergigante molto luminosa che, nel corso della sua evoluzione nucleare,
può diventare talmente instabile che l'intera stella esplode
spettacolarmente. Tale esplosione è chiamata supernova. La sua
luminosità aumenta milioni di volte in pochissimo tempo riuscendo a
uguagliare la luminosità di un'intera galassia. L'esplosione distrugge
quasi totalmente la stella, ma all'interno della supernova, a causa anche
dell'esplosione possono crearsi strani oggetti noti come i pulsar e i buchi
neri.
NEBULOSA PLANETARIA
Lo stadio finale di una gigante rossa di
massa pari all'incirca alla massa del Sole, è quello di nana bianca. Se
la massa della gigante rossa è molto superiore a quella solare
(più di tre volte), può verificarsi una fase di transizione in cui
gli strati superficiali della gigante rossa possono disperdersi nello spazio
formando un anello di gas incandescente. Questo stadio della vita di una stella
è conosciuto come nebulosa planetaria. Il centro della nebulosa
planetaria diventa una nana bianca.
PULSAR
La prima stella di neutroni, denominata
anche pulsar, è stata scoperta nel 1967 associata ai resti
dell'esplosione di una supernova: la nebulosa del Granchio. Nel caso che la
massa del residuo rimasto al centro dell'esplosione della supernova non superi 3
masse solari, la materia si concentra in un corpo grande solo alcune decine di
chilometri. Gli elettroni si combinano con i protoni dei nuclei per formare
neutroni, la sola materia della stella. Le pulsar sono talmente dense che un
cucchiaio riempito con materia tratta da queste stelle peserebbe sulla Terra
milioni (e forse miliardi) di tonnellate. I pulsar ruotano velocemente e, a ogni
rotazione, inviano, come se fossero un faro, un fascio di radiazione che
può essere facilmente rilevato se intercetta la Terra.
BUCHI NERI
Se il residuo della supernova ha una massa
superiore a 3 masse solari, allora nessuna forza può impedire il suo
completo collasso gravitazionale e si forma un buco nero. La forza di
gravità diventa talmente enorme che nulla può sfuggire alla sua
attrazione, nemmeno la luce. Un buco nero è quindi invisibile. I buchi
neri sono stati previsti dalla teoria ma finora non sono stati trovati, anche se
sono state rilevate forti emissioni di raggi X provenienti dallo spazio che
vengono interpretate come indicatori della loro presenza.
L'ESPANSIONE DELL'UNIVERSO
Misurando lo spostamento verso il rosso
della luce proveniente dalla nebulosa di Andromeda (effetto Doppler),
l'astronomo americano Veston M. Slipher trovò, nel 1914, che essa si
muoveva verso la nostra galassia alla velocità di 300 km/sec. Osservando
altre nebulose trovò che, sia pure a diverse velocità, tutte si
muovevano rispetto a noi e che, per la maggior parte, si allontanavano (su 15
nebulose osservate, solo 4 si avvicinavano). Il fenomeno era sorprendente, ma,
mancando uno strumento per la determinazione delle loro distanze, nulla si
riuscì a concludere sulla natura del loro movimento.
Nel periodo
1924-1929, Hubble si dedicò a misurare sia la distanza (mediante il
metodo delle variabili cefeide) sia la velocità di più di una
ventina di nebulose, ormai riconoscibili come esterne alla nostra Via Lattea e
quindi come vere e proprie galassie. Hubble trovò che tra di loro esiste
una relazione semplicissima: la velocità di allontanamento di una
galassia aumenta con l'aumentare della distanza. Se, per esempio, raddoppia la
distanza, raddoppia anche la velocità. Questo risultato causò
allora una grande sensazione: in un'epoca in cui la nozione di universo statico
era generalmente accettata, il risultato fu subito interpretato come prova di un
universo in espansione e come ulteriore conferma della teoria della
relatività generale di Einstein, la quale appunto prevedeva che
l'universo doveva essere o in espansione o in contrazione.
Il fatto che
tutte le galassie, salvo poche eccezioni, si allontanassero dalla nostra, non
significava che ci trovassimo al centro dell'universo. Mentre ogni galassia si
allontana da noi, si allontana anche da tutte le altre. Proprio come,
utilizzando una diffusa analogia, ogni chicco di uva passa di una torta messa in
forno a lievitare, si allontana da tutti gli altri, mentre la torta si
gonfia.
La teoria dell'universo in espansione fu paragonata alla
rivoluzione copernicana. Tramontava la nozione generalmente accettata fino a
quel momento di un universo statico in cui la nostra galassia occupava una
posizione preminente. Allo stesso modo tramontava nel XV secolo l'idea tolemaica
di un universo geocentrico, cioè con la Terra al centro. La Terra
è solo un piccolo pianeta di una stella simile a milioni di altre stelle
della Via Lattea, e questa, la nostra galassia, è simile a milioni di
altre galassie.
L'ORIGINE DELL'UNIVERSO
Come si è visto, il moto di
allontanamento delle galassie scoperto da Hubble, fu utilizzato come prova di un
universo in espansione. L'universo cambiava nel tempo, aveva quindi una storia.
Questa storia aveva un'origine? Per rispondere a questa domanda si formularono
due modelli in antitesi: il modello del big bang (ossia della grande esplosione)
e dello stato stazionario.
Durante gli anni Trenta e Quaranta, il fisico
russo-americano George Gamow sviluppò ipotesi che, sulla base della
teoria generale della relatività di Einstein, erano state elaborate,
prima della scoperta di Hubble, dal matematico russo Alexander Friedmann (1922)
e dall'abate belga Georges Lamâitre (1927). Infine formulò la
teoria del big bang. Il punto di partenza di questa teoria deriva da un semplice
ragionamento. Se l'universo è in espansione, allora, in passato, le
galassie dovevano essere più vicine tra di loro. Risalendo nel passato,
si arriva a un'epoca in cui tutta la materia dell'universo doveva essere
confinata in un volume ridottissimo. Questo stato iniziale dell'universo
(estrema densità e altissima temperatura), che Lamâitre aveva
chiamato «uovo cosmico» o «atomo primordiale», oggi è
denominato «protouniverso» o «singolarità cosmica».
Per qualche ragione, il protouniverso è esploso con una violenza
inconcepibile, disperdendo i frammenti ad altissime velocità e dando
inizio a un'espansione che non si è più fermata. Con il progredire
della esplosione l'universo si estese sempre di più mentre la
densità e la temperatura della materia cominciarono a diminuire. La
teoria del big bang implica non solo un'origine dell'universo, ma anche la sua
inevitabile fine.
In netta contrapposizione è la teoria dello stato
stazionario, formulata, nel 1948, dagli astronomi Hermann Bondi, Thomas Gold e
Fred Hoyle che dà una descrizione diversa dell'espansione dell'universo.
Secondo questa teoria, l'universo, anche se sottoposto a continui mutamenti,
è rimasto sempre uguale a se stesso. Le galassie si allontanano le une
dalle altre, ma la densità dell'universo rimane costante. Per spiegare
questo fatto, Bondi, Gold e Hoyle postularono la «creazione continua e
spontanea della materia» (cosa che violerebbe le leggi fisiche finora
conosciute) nella misura necessaria a mantenere costante la densità
dell'universo. Cioè l'universo si espande, ma nel frattempo,
dall'aggregazione di sempre nuova materia, si formano altre galassie che
occupano lo spazio di quelle che si allontanano. Per far tornare i conti
basterebbe che si formasse, in una stanza di 4 metri di lato, un atomo di
idrogeno ogni due milioni di anni. Si tratta di una quantità
insignificante, ma sufficiente a mantenere costante nel tempo la densità
dell'universo. Sperimentalmente non è tuttavia possibile controllare la
formazione di questa quantità insignificante di materia. La teoria dello
stato stazionario nega la singolarità rappresentata da un inizio
catastrofico dell'universo. Sia verso il passato che verso il futuro, l'universo
sarebbe infinito nel tempo. Negli anni Cinquanta la teoria del big bang e quella
dello stato stazionario si dividevano in uguale misura il consenso della
comunità scientifica. Mancavano osservazioni di carattere cosmologico che
potessero servire a dirimere la questione. A partire dagli anni Sessanta, la
situazione è cambiata radicalmente perché cominciarono a
accumularsi osservazioni e scoperte (come quelle della radiazione cosmica di
fondo e delle quasar) che resero insostenibile la teoria dello stato
stazionario. Oggi, la teoria del big bang gode di un consenso quasi generale tra
gli scienziati. Ma molti ritengono che la teoria del big bang, nonostante i
successi, sia ancora lontana dall'essere definitiva e non mancano scienziati che
lavorano a ipotesi alternative.
LA RELAZIONE DI HUBBLE
Secondo la relazione di Hubble, la velocità
di allontanamento di una galassia aumenta con l'aumentare della sua distanza.
Questa relazione può essere espressa mediante la formula:
v =
H d
dove v è la velocità, d la distanza e H una
costante di proporzionalità, nota come costante di Hubble.
La
semplicissima relazione empirica di Hubble fu rapidamente accettata e
cominciò ad essere utilizzata come una vera e propria legge cosmologica,
anche se questa generalizzazione ha suscitato alcune riserve e
perplessità e oggi viene usata con prudenza. Per stimare la distanza
delle galassie troppo lontane per potervi identificare delle cefeide, si
pensò, ad esempio, di utilizzare la legge di Hubble nella
forma:
d = v / H
In questo modo è sufficiente
determinare la velocità di allontanamento delle galassie (mediante la
misura dell'effetto Doppler) per risalire alla loro distanza. La scala delle
distanze misurabili si ampliava ancora e arrivava a miliardi di anni
luce.
LA RADIAZIONE COSMICA DI FONDO
La verifica forse più convincente
della teoria del big bang consisteva nel trovare i resti dell'esplosione che
diede vita all'universo. Man mano che l'universo si espandeva, la temperatura
della «palla di fuoco» primordiale cominciava a diminuire. È
possibile osservare, ancora oggi, malgrado siano passati miliardi di anni, la
radiazione termica residuale originata dal big bang?
Nel 1949, George
Gamow, Ralph Alpher e Robert Helman, calcolarono che la radiazione avrebbe
dovuto presentare le caratteristiche di quella emessa dai corpi alla temperatura
di circa 5 gradi Kelvin (cioè, -268 gradi centigradi), una temperatura
troppo bassa per essere osservabile con le tecniche della radioastronomia di
allora. Infatti, a questa temperatura la radiazione cosmica di fondo (chiamata
anche radiazione fossile, in quanto residuo dell'esplosione primordiale),
avrebbe dovuto manifestarsi sotto forme di onde radio nella banda delle
microonde. Un'altra conseguenza della teoria del big bang è che, data la
sua origine cosmica, la radiazione dovrebbe raggiungerci da tutte le parti del
cielo con uguale intensità. Nel 1965, grazie anche alla notevole
evoluzione delle tecniche delle comunicazioni, due ingegneri della Bell
Thelephone Laboratories, Arno Penzias e Robert Wilson, del tutto casualmente,
cercando le cause del rumore che provocava disturbi nelle trasmissioni
televisive via satellite (che operano proprio nella banda delle microonde),
scoprirono un rumore, non originato dall'apparecchiatura, di intensità
costante e del tutto indipendente dalla direzione dell'antenna e dall'ora.
Risultò immediatamente evidente che Penzias e Wilson avevano rilevato la
radiazione cosmica di fondo prevista dalla teoria del big bang.
L'intensità della radiazione indicava una temperatura media dell'universo
di 2,7 gradi Kelvin. Le misure successive, fatte con strumentazione più
raffinata, a diverse lunghezze d'onda e esplorando il cielo in tutte le
direzioni, hanno confermato questo valore insieme alla sua notevole isotropia:
la radiazione è ugualmente intensa in qualsiasi
direzione.
QUASAR
L'identificazione ottica, avvenuta nel 1963,
di oggetti denominati radiosorgenti quasi stellari (abbreviati poi quasar)
sembrerebbe un'ulteriore conferma delle teorie evolutive. I quasar sono strani
oggetti. Emettono più energia radiante di un'intera galassia,
benché siano racchiuse in un volume molto più piccolo. Presentano,
inoltre, un fortissimo spostamento verso il rosso, che interpretato come effetto
Doppler, indicherebbe velocità di allontanamento di parecchie decine di
migliaia di chilometri al secondo. Applicando la legge di Hubble, i quasar
sarebbero i più lontani oggetti che siano stati osservati: distanti
miliardi di anni-luce, ai limiti dell'universo osservabile. Proprio per la loro
lontananza, la radiazione che oggi osserviamo dovrebbe essere stata emessa,
appunto, miliardi di anni fa: tale sarebbe infatti il tempo impiegato dalla
radiazione emessa dai quasar per giungere fino a noi.
I quasar sarebbero
quindi una preziosa testimonianza delle epoche primordiali dell'universo.
Tuttavia, la vera natura dei quasar è ancora controversa.
Alcuni
astronomi contestano che lo spostamento delle righe spettrali verso il rosso dei
quasar dipenda dall'enorme velocità di allontanamento e quindi dubitano
che i quasar siano effettivamente così distanti.
I quasar invece
sarebbero vicini (e quindi molto meno luminosi) e lo spostamento verso il rosso
sarebbe prodotto da altre cause come, per esempio, dalla loro espulsione
esplosiva dal nucleo di qualche galassia.
L'ETÀ E IL FUTURO DELL'UNIVERSO
Nella storia dell'astronomia fino alla
scoperta di Hubble, le principali concezioni cosmologiche erano quelle basate su
ipotesi di un universo statico e immutabile o, al contrario, sulla teoria di un
universo in continua evoluzione. La scoperta del moto di allontanamento delle
galassie fu accettata come prova del carattere evolutivo dell'universo e mise
fine a questa controversia. Inoltre, la scoperta di Hubble riaffermò
l'importanza che aveva, anche nella cosmologia, il metodo sperimentale, al punto
che si cominciò a parlare di cosmologia osservativa.
L'età
dell'universo può essere facilmente ricavata dalla teoria del big bang e
dalla legge di Hubble:
v = Hd
dove v è la
velocità, d la distanza e H la costante di Hubble.
Se si suppone che
la velocità di espansione sia rimasta costante, allora, poiché
all'origine del big bang tutte le galassie occupavano lo stesso punto nello
spazio, l'età dell'universo T coincide con il tempo impiegato da una
qualsiasi galassia per allontanarsi da noi di una distanza
d:
In genere, si usa esprimere
la velocità di allontanamento delle galassie in chilometri al secondo
(Km/s), la loro distanza in megaparsec e quindi la costante di Hubble in km/s
per megaparsec. Con queste unità, T sarebbe misurata in migliaia di
miliardi di anni. È più comodo, moltiplicare la formula per un
fattore 1000 e avere T misurata in un'unità 1000 volte più
piccola, cioè, miliardi di anni:
Data la difficoltà e l'imprecisione con cui si
stimano le distanze intergalattiche, il valore della costante di Hubble dipende
dai metodi utilizzati per determinarla ed è tuttora soggetto a continue
revisioni. La prima stima, fatta dallo stesso Hubble nel 1929, fu di 500 km al
secondo per megaparsec. Applicando questo valore alla formula precedente,
l'età dell'universo risultava di 2 miliardi di anni. Un risultato assurdo
perché già a quell'epoca si stimava che l'età della Terra
fosse superiore ai 4 miliardi di anni. Le stime attuali di H sono comprese tra
un minimo di 50 e un massimo di 100 km al secondo per megaparsec, che
corrispondono, rispettivamente, a un'età dell'universo compresa tra 20 e
10 miliardi di anni. Oggi, il valore correntemente accettato è di 17
miliardi di anni.
Secondo la teoria del big bang, il futuro dell'universo
dipende dall'entità dell'esplosione iniziale. Se essa è stata
sufficientemente violenta, ha fornito alla materia in espansione una energia
tale da vincere non solo allora, ma per sempre, la forza gravitazionale che
tenderebbe a riaggregarla. Un tale universo viene definito «aperto».
Da calcoli effettuati sull'attuale densità dell'universo pare che questa
sia l'ipotesi più probabile: l'espansione dell'universo è
inarrestabile e durerà per sempre.
Se invece la densità
dell'universo fosse maggiore di quella calcolata (ma dovrebbe esserlo di almeno
10 volte), l'espansione dell'universo in futuro dovrebbe arrestarsi a causa
della gravità. Si parla allora di universo «chiuso».
In
quest'ultimo caso, tutta la materia dovrebbe contrarsi e fondersi in una nuova
sfera primordiale che, a sua volta, potrebbe subire una nuova esplosione e dare
inizio a una nuova fase di espansione. Si calcola che i cicli di condensazione
ed espansione si succederebbero con periodi compresi tra i 25 e i 60 miliardi di
anni. È questa l'ipotesi dell'universo
«oscillante».
LA VITA INTELLIGENTE NELL'UNIVERSO
Siamo soli nell'universo? È una
domanda che l'uomo si è posto ripetutamente nel corso dei secoli e che,
oggi, forse con più insistenza, continua a porsi. Naturalmente, la
questione non ha senso per chi rifiuta, per convinzioni religiose o filosofiche,
la possibilità di vita extraterrestre. Ma se invece si accetta questa
possibilità, un buon modo per fare qualche progresso verso una risposta
è quello di stimare la probabilità che, altrove, si siano potute
riprodurre condizioni simili a quelle che hanno consentito lo sviluppo della
vita sul nostro pianeta (cioè dell'unica forma di vita che
conosciamo).
Il vantaggio di questa impostazione è quello di poter
scomporre un problema tanto complesso come quello dell'esistenza di
civiltà extraterrestri, in una serie di problemi, se non più
semplici, almeno meglio delimitati. Così, la stima del numero N di
pianeti nell'universo dove può essersi verificata la lunga catena di
circostanze favorevoli che hanno consentito lo sviluppo della vita e, in
particolare, di vita intelligente in grado, ad esempio, di comunicare con noi
attraverso lo spazio interstellare, può essere scomposta nella stima di
una serie di fattori:
g: numero di galassie osservabili
n:
numero di stelle della Via Lattea;
fp: frazione di stelle che hanno
sistemi planetari;
fg: frazione di sistemi planetari che hanno almeno
un pianeta abitabile. (Perché un pianeta sia abitabile devono essere
soddisfatte una serie di condizioni. Pianeti troppo grossi o troppo piccoli
limiterebbero decisamente lo sviluppo della vita che richiede temperatura media
e atmosfera adeguata, acqua abbondante, ecc.);
fi: frazione di
pianeti abitabili, su cui possono essersi sviluppate forme di vita
intelligente;
ft: frazione di pianeti abitati da forme di vita
intelligente su cui possono essersi sviluppate civiltà tecnologiche e
mezzi di comunicazione interstellari;
fo: frazione di pianeti abitati
da forme di vita intelligente sui quali esiste oggi una civiltà
tecnologica (questo fattore tiene conto del fatto che la durata di una
civiltà tecnologica è solo una frazione del tempo impiegato per lo
sviluppo di una forma di vita intelligente. Sulla Terra, su una storia
complessiva dell'ordine di un miliardo di anni, solo da alcuni decenni esiste
una civiltà tecnologica).
Con questi fattori, il numero delle
civiltà tecnologicamente avanzate nell'universo può essere
espresso dalla formula
N = g.n.fp.fg.fi.ft.fo
e
dipenderà, ovviamente, dalla valutazione dei singoli fattori. I primi tre
non offrono molte difficoltà: tra scienziati delle più diverse
discipline c'è accordo sulla cifra di 10#10 da attribuire al numero di
galassie osservabili, mentre per la stima del numero di stelle della Via Lattea,
ci sono ipotesi ottimistiche e pessimistiche che oscillano, rispettivamente, tra
300 miliardi e 100 miliardi e per la frazione di stelle con sistemi planetari,
da 0,2 a 0,1. Per gli altri fattori, invece, si conosce così poco che la
stima assomiglia più che altro a un gioco. Le stime, rispettivamente
pessimistiche e ottimistiche, del numero complessivo dei pianeti che
nell'universo ospitano oggi una civiltà tecnologica oscillano tra 1000 e
6 milioni di miliardi di pianeti. Il ventaglio è tanto grosso che toglie
credibilità al gioco. Un compromesso tra queste due tendenze estreme
arriva alla cifra di 500 miliardi di pianeti. Comunque sia, qualunque sia
l'ipotesi a cui uno voglia aderire, sono cifre che stimolano la fantasia e che
hanno indotto alcuni scienziati alla realizzazione di programmi sistematici di
contatti con eventuali intelligenze extraterrestri.
A raffreddare un poco
l'entusiasmo contribuisce la consapevolezza che, entro un raggio di pochi anni
luce, le stelle che potrebbero avere pianeti abitabili sono molto poche.
Ampliare la ricerca a stelle più lontane significa che la conferma del
contatto radio, che si potrebbe eventualmente stabilire, sarà destinato
solo alle future generazioni tenendo conto del tempo che occorre al viaggio di
andata e ritorno delle onde elettromagnetiche.
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¦ LE VENTI STELLE PIU' VICINE ¦
¦ CHE POTREBBERO AVERE PIANETI ABITABILI ¦
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¦ Stella Distanza in anni luce ¦
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¦ Alpha Centauri A 4,3 ¦
¦ Alpha Centauri B 4,3 ¦
¦ Epsilon Eridani 10,8 ¦
¦ 61 Cygni A 11,1 ¦
¦ Epsilon Indi 11,3 ¦
¦ Tau Ceti 12,2 ¦
¦ 70 Ophiuchi A 17,3 ¦
¦ 70 Ophiuchi B 17,3 ¦
¦ Eta Cassiopeiae A 18,0 ¦
¦ Sigma Draconis 18,2 ¦
¦ 36 Ophiuchi A 18,2 ¦
¦ 36 Ophiuchi B 18,2 ¦
¦ HR 7703 A 18,6 ¦
¦ HR 5568 A 18,8 ¦
¦ Delta Pavonis 19,2 ¦
¦ 82 Eridani 20,9 ¦
¦ Beta Hydri 21,3 ¦
¦ HR 8832 21,4 ¦
¦ p Eridani A 22,0 ¦
¦ p Eridani B 22,0 ¦
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