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ITINERARI - L'OCCIDENTE - IL VECCHIO E IL NUOVO

IL BISOGNO DI CAMBIARE

Nell'Europa medievale l'idea di riforma era stata costantemente presente alla mente di tutti, specialmente in relazione all'ordinamento della Chiesa, dove, sempre attesa e predicata, sembrava non essersi mai realizzata. Nella stessa epoca non erano mancati, tanto nell'ambito della Chiesa quanto in quello dello Stato, movimenti che puntavano al sovvertimento violento e repentino dello stato di cose esistente. Ma ribelli e riformatori d'ogni tipo non lottavano per innovare: al contrario, il loro intento dichiarato era di ristabilire un ordine preesistente che col tempo si era corrotto o che era stato violato da un potere tirannico. Così, ad esempio, i riformatori religiosi si presentavano di solito come fautori di un «ritorno all'antico», di un ritorno cioè alle credenze o alle usanze della Chiesa primitiva, oppure, negli ordini monastici, alla rigorosa osservanza delle regole originariamente dettate dal fondatore.
Ribelli e riformatori, insomma, guardavano al passato, non al futuro. Naturalmente questo passato a cui ci si richiamava, poteva essere un'illusione, un mito: spesso non era mai esistito. Le antiche consuetudini che si rimpiangevano o le antiche libertà che si tentava di restaurare potevano essere così antiche da affondare nella notte dei tempi o da cadere addirittura fuori del tempo: non tanto qualcosa che c'era stata «una volta» e che non c'era più, ma qualcosa che avrebbe dovuto esserci e per il quale valeva in ogni caso la pena lottare. Resta il fatto che in generale il nuovo si identificava con la corruzione e il male; il bene era il vecchio, l'antico, l'eterno, il senza tempo. Un atteggiamento in parte diverso era emerso nei movimenti millenaristici, in quei movimenti, cioè, che, come il gioachimismo, fondavano il rifiuto dell'ordine esistente sulla profezia dell'imminente avvento del Regno di Dio, a scorno dei malvagi e a sollievo degli oppressi. Anche qui, però, quel futuro atteso e invocato non era propriamente qualcosa di nuovo, perché Dio lo aveva previsto da sempre e predeterminato nei più minuti particolari.
La raccomandazione di guardarsi dalle novità restò a lungo una massima di prudenza condivisa da filosofi e uomini politici. Il francese Michel de Montaigne (1533-1592), per esempio, un grande scrittore imbevuto di scetticismo, nel corso delle guerre civili che avevano devastato il suo Paese nella seconda metà del Cinquecento, aveva visto ogni sorta di novità politiche e religiose e non gli erano piaciute affatto. È comprensibile che fosse contrario allo spirito di rivolta e che considerasse la guerra civile il peggiore dei mali possibili. Andava però molto più in là: condannava in blocco ogni tentativo di riforma. «Negli affari pubblici», scriveva, «non v'è indirizzo tanto cattivo, purché antico e costante, che non sia preferibile alle perturbazioni e ai cambiamenti». Un male antico, ma conosciuto, diceva ancora è sempre preferibile a un male nuovo, di cui non si ha esperienza. Sotto antiche leggi, per quanto cattive siano, la società sopravvive; nuove leggi, invece mettono in gioco la convivenza stessa degli uomini. Per questa sua diffidenza del nuovo, Montaigne finiva per non apprezzare neppure le utopie, sul genere di quella di Tommaso Moro, perché, nonostante il loro dichiarato carattere di gioco, di finzione, di costruzione puramente intellettuale, le considerava possibili fonti di tentazioni innovatrici.
Ci sono però periodi in cui il ritmo della storia sembra accelerare e in cui di fronte a trasformazioni apparentemente incontrollabili della società non è facile applicare la massima del «non innovare». Il secolo di Montaigne era uno di questi periodi. Il Seicento lo fu ancora di più: sia pure a malincuore anche le classi dirigenti dovettero piegarsi alle novità. A metà del secolo Carlo I d'Inghilterra (che era un re legittimo, e perfino, a modo suo, un buon re, non un usurpatore o un tiranno) lasciò la testa sotto la mannaia: era una bella novità, e soprattutto era una bella minaccia per le classi dirigenti di tutta Europa. A un certo punto, per loro, la preoccupazione non fu più tanto quella di «non innovare», quanto quella di conservare il potere, magari a costo di qualche riforma. Luigi XIV, assumendo il governo del suo Paese che Mazzarino gli consegnava finalmente pacificato, non solo non temeva più di introdurre novità, ma se ne faceva un obbligo e un vanto. «Sarebbe stato certamente far cattivo uso di una così perfetta tranquillità», avrebbe scritto poi nelle sue Memorie, «non impiegarla all'unico scopo che poteva farmela apprezzare», ossia la riforma dello Stato, l'eliminazione di usi e abusi inveterati, la costruzione di una macchina amministrativa efficiente.
Il nuovo stava diventando di moda e con esso l'idea di un progresso indefinito dell'umanità. Allontanarsi dalla tradizione aveva significato sino a quel punto corruzione, degenerazione, usurpazione; d'ora in poi avrebbe significato perfezionamento civile e avanzamento verso una maggiore felicità di tutti. Il Settecento fu pieno di progetti di riforma, di innovazioni, di invenzioni.

SAPERE AUDE!

«Il vero filosofo», scriveva Voltaire nel 1765, «dissoda i campi incolti, aumenta il numero degli aratri e quindi degli abitanti, dà lavoro al povero e lo arricchisce, incoraggia i matrimoni, sistema l'orfano, non mormora contro le tasse necessarie...». Strane occupazioni per un filosofo. Ma l'Illuminismo, di cui Voltaire è stato l'esponente più rappresentativo, sta tutto in questo apparente capovolgimento di ruoli: il filosofo si mette a fare l'imprenditore, l'uomo di governo, l'amministratore, il filantropo (dal greco phìlos = «amico» e ànthropos = «uomo»: «amico degli uomini»); al tempo stesso gli imprenditori, gli uomini di governo, gli amministratori sono invitati a farsi guidare dai lumi della ragione (da cui il nome «Illuminismo») e cioè a diffidare dei luoghi comuni e delle idee ricevute (pregiudizi) e a mettersi di buona voglia a studiare, a sperimentare, a cercare in ogni attività le soluzioni più vantaggiose.
Il capovolgimento dei ruoli, s'è detto, era solo apparente. E infatti non si trattava tanto di un capovolgimento, quanto di un'estensione: l'estensione del metodo dell'indagine razionale alle questioni riguardanti la vita sociale, la politica e l'economia. Applicato allo studio della natura questo metodo aveva prodotto nel secolo precedente una rivoluzione intellettuale di incalcolabile portata, la nascita della moderna scienza sperimentale, che aveva travolto in pochi decenni la tradizione aristotelica vecchia di duemila anni. Tutti però si erano trovati d'accordo sull'opportunità di limitarne il campo di applicazione: come aveva scritto Cartesio nel suo Discorso sul metodo, una cosa era rovesciare in nome della ragione l'autorità di Aristotele, una cosa assai diversa era attentare all'autorità della Chiesa e dello Stato invadendo il campo della religione e della politica.
Tutta questa prudenza non era bastata a tranquillizzare il potere e a garantire agli scienziati e ai filosofi razionalisti una piena libertà almeno nelle indagini riguardanti la natura: Galileo era stato processato e condannato dal Sant'Uffizio, e Cartesio, per non esporsi alla stessa sorte, aveva dovuto tenere nel cassetto diversi suoi scritti. In ogni caso l'Illuminismo non era la prudenza, ma il coraggio della ragione. Come scriveva nel 1784 il tedesco Immanuel Kant:

... L'Illuminismo è l'uscita dell'uomo da uno stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sàpere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua intelligenza! Questo è il motto dell'Illuminismo...

A parte il coraggio dell'intelligenza, e il disprezzo per la stupidità, l'intolleranza e la superstizione, gli illuministi non avevano molto in comune. Erano tutti convinti che la ragione dovesse servire non solo a capire il mondo, ma anche a cambiarlo in meglio, a renderlo, per così dire, più abitabile. Ma poi ciascuno pensava a modo suo e tutti erano disposti a polemizzare pubblicamente con tutti gli altri: solo i fanatici e gli imbecilli, pensavano, marciano compatti stringendosi intorno ai propri dogmi. Gli illuministi avevano assunto il nome di philosophes, filosofi, proprio perché il termine «filosofia» (che significa l'amore e la ricerca della sapienza, non la presunzione di possederla) era venuto a significare soprattutto il contrario di «fanatismo».
Gli illuministi non costituivano dunque né una corrente di pensiero, né un partito politico. Sul piano strettamente filosofico, a parte il comune riferimento alla scienza sperimentale, di tipo galileiano-newtoniano, e una generica simpatia per l'empirismo di Locke, erano degli eclettici. Sul terreno della religione si dividevano tra deisti come Voltaire e atei come il barone d'Holbach (1723-1789). I deisti erano seguaci di una religione «naturale», fondata su pochi princìpi dedotti secondo buon senso dalla generica credenza in un Essere supremo autore del mondo (da non confondere quindi con i teisti, che sono i fedeli delle religioni storiche, fondate su una presunta rivelazione divina e assimilate dagli illuministi a forme più o meno gravi di superstizione). Gli atei riprendevano tutti i classici argomenti contro la religione (la religione nasce dalla paura irrazionale della morte, le Chiese sono strumenti di dominio, frutto della collusione tra sacerdoti e tiranni, la morale ascetica è una turlupinatura che ha il solo obiettivo di produrre inquietudine nell'animo dei fedeli, che è la condizione che permette di mantenerli nelle nebbie della superstizione e del fanatismo, ecc.), con appena un pizzico di malignità in più, giustificato dall'opprimente presenza delle Chiese cristiane nella società europea: «quando l'uomo osa pensare», scriveva d'Holbach nel 1768, annunciando il Sàpere aude! di Kant, «il dominio del prete è finito».
In politica i philosophes si dividevano tra sostenitori di un regime costituzionale sul modello inglese, che possiamo considerare come iniziatori o precursori delle correnti liberali, e sostenitori di quella particolare forma di assolutismo che è detta comunemente «dispotismo illuminato»; Montesquieu apparteneva ai primi, Voltaire ai secondi. Piuttosto isolate erano le tesi democratiche di Rousseau, che dovevano esercitare invece una notevole influenza sulle correnti più radicali della Rivoluzione francese e ispirare gran parte delle teorizzazioni ottocentesche della democrazia e del socialismo. Il fenomeno del dispotismo illuminato e soprattutto la propensione di molti philosophes (oltre a Voltaire, d'Holbach, Diderot, d'Alembert, ecc.) per questo tipo di governo meritano qualche parola di spiegazione. Si tratta infatti di un caso molto istruttivo di ambiguità, dove la mancanza di pregiudizi finiva per confondersi con la mancanza di scrupoli, l'efficienza con la brutalità, la libertà con la sudditanza a un potere che si autodefiniva «illuminato».
Alla vigilia della Rivoluzione francese un po' tutti i governi d'Europa hanno civettato con «i lumi». Ma i sovrani che si possono associare all'esperienza dell'assolutismo illuminato non sono moltissimi: Federico II, re di Prussia, detto «il Grande» (1712-1786), Caterina II imperatrice di Russia (1729-1796), anche lei detta «la Grande», Giuseppe II imperatore d'Austria (1741-1790), suo fratello Pietro Leopoldo prima granduca di Toscana e poi imperatore d'Austria col nome di Leopoldo II (1747-1792). Si potrebbe aggiungere qualche altro nome, ma i personaggi che contano sono questi. Rispetto all'assolutismo classico quello illuminato presentava alcune importanti differenze. Era nel complesso meno duro. Nel campo del diritto penale, ad esempio, puntava ad una attenuazione delle pene, che l'assolutismo tradizionale aveva invece voluto crudeli, spettacolari, terrificanti (Pietro Leopoldo, decisamente il migliore tra i sovrani del suo tempo, abolì la pena di morte in Toscana seguendo le indicazioni del milanese Cesare Beccaria). Assumendo poi il principio della libertà di coscienza, che ancora a Luigi XIV sembrava inconcepibile, combatteva con vario successo preti e frati. Era insomma un tentativo di rendere ragionevole il potere assoluto.
Ma le riforme amministrative di cui andava orgoglioso erano dirette a rafforzare il potere del sovrano, non a modificare i rapporti tra sovrano e sudditi (ad eccezione, forse, di Pietro Leopoldo). Federico II è stato il vero creatore dello Stato burocratico-militare prussiano, una delle varianti più oppressive dello Stato moderno e, fino al nostro secolo, una delle principali cause delle sciagure d'Europa. Caterina II ha scaricato il costo delle sue riforme amministrative sulle spalle dei contadini russi riuscendo ad aggravarne la condizione di servitù, e allontanando con ciò ancora di più la Russia dall'Europa. Giuseppe II, oltre a concedere la libertà di culto alle minoranze religiose, ha voluto impicciarsi nelle cose della Chiesa cattolica e decidere di testa sua persino in materia di liturgia dando con ciò un'ennesima prova di autoritarismo e dimostrando di aver capito ben poco delle esigenze di laicità avanzate dai philosophes.
Nei rapporti internazionali, poi, i sovrani illuminati continuarono nella tradizionale politica di potenza con una mancanza di scrupoli ancora maggiore, se possibile, di quella dei vecchi sovrani assoluti: è solo con l'assolutismo illuminato che trattati e accordi internazionali hanno cominciato ad essere apertamente considerati, se così faceva comodo, «pezzi di carta» da stracciare. Federico II riuscì a scandalizzare tutte le corti d'Europa attaccando proditoriamente l'Impero austriaco e riuscendo a sottrargli un'intera provincia, la Slesia. L'età dell'assolutismo illuminato si è emblematicamente conclusa con la spartizione dei territori polacchi tra Austria, Russia e Prussia: era un'idea di Federico II, realizzata una prima volta nel 1772, estesa nel 1793 e conclusa nel 1795 (dopo la repressione dell'insurrezione nazionale di Taddeo Kosciuzsko) con la totale cancellazione della Polonia dalla carta d'Europa.
Quale fascino un sistema del genere poteva esercitare su uomini come Voltaire, Diderot o d'Alembert che erano interamente votati ai valori dell'umanità e della filantropia e che avevano scritto (soprattutto il primo) delle pagine straordinarie sulle sanguinose follie della politica di potenza? Da un lato, senza dubbio, era il fascino del potere, dell'efficienza, del «realismo» politico e insomma di quella «capacità di fare», e magari di «fare in grande» (anche se non sempre, anzi quasi mai, di «far bene») che Voltaire riconosceva ai principi, ma che dubitava potessero avere le repubbliche o i governi parlamentari. Dall'altro lato era il fascino dell'intelligenza e delle cultura, che non mancava a quei sovrani e che li aveva portati a concedere ai propri sudditi la tolleranza religiosa e a riconoscere agli intellettuali la libertà di pensiero.
La libertà di pensiero è un valore che oggi, almeno in teoria, è condiviso da tutti, ma la cui proclamazione ufficiale da parte di un'autorità pubblica aveva ancora, nel Settecento, la forza entusiasmante di un atto di liberazione e di riparazione lungamente atteso. Del resto, in Francia, che era la patria dell'Illuminismo, ma aveva un governo scarsamente illuminato, questa liberazione era di là da venire e gli intellettuali avevano a che fare tutti i giorni con la censura. In Prussia Federico II l'aveva abolita, almeno nelle sue forme più stupidamente vessatorie. Non per questo era un liberale: la libertà di pensiero era l'alibi di uno dei regimi più autoritari d'Europa, un privilegio per gli scrittori e per i professori d'università, strettamente condizionato alla loro sottomissione e ai capricci del sovrano in carica. Kant ha riassunto l'atteggiamento di Federico nella frase: - Ragionate fin che volete e su quel che volete, ma obbedite! -. Che per Federico andasse bene così si capisce. Il guaio è che Kant la pensava alla stessa maniera. E Voltaire anche.
L'imperatrice Maria Teresa con quattro dei suoi figli

Federico II di Prussia


VOLTAIRE

Di famiglia borghese, François-Marie Arouet, più noto con lo pseudonimo di Voltaire, era nato a Parigi nel 1694. Nel 1717 una sua satira contro la corruzione della Corte gli valse il suo primo soggiorno alla Bastiglia, la prigione di Parigi, diventata celebre per essere stata presa d'assalto dai rivoltosi nel 1789, all'inizio della Rivoluzione francese. Nel 1726 Voltaire tornò alla Bastiglia: aveva litigato con un nobile, e questi lo aveva fatto bastonare, come era consuetudine, da un servitore. Furibondo, Voltaire aveva cercato in tutti i modi di sfidare a duello l'avversario che però rifiutava di battersi con un borghese. Finì arrestato e fu liberato solo a condizione di star lontano da Parigi. Voltaire andò allora in Inghilterra restandovi fino al 1729: qui fece conoscenza della filosofia di Newton e di Locke e dell'opera dei deisti inglesi. Fu una esperienza decisiva: non solo trovò in Inghilterra una libertà inimmaginabile in Francia, ma gli parve che i pensatori inglesi si fossero egregiamente liberati delle bubbole metafisiche che avevano tormentato i filosofi continentali, a cominciare da Cartesio. Nel 1734 uscirono le Lettere filosofiche o Lettere sugli Inglesi che per l'entusiasmo che esprimevano per l'Inghilterra e le sue libertà furono bruciate dal boia di Parigi e gli fruttarono un altro mandato d'arresto, a cui sfuggì espatriando.
Da tempo in corrispondenza con Federico II di Prussia, nel 1750 accettò l'invito a trasferirsi a Berlino. Nel 1753, però, dopo una clamorosa rottura con il suo ospite, abbandonò la Germania. Dal 1758 si stabilì nel suo castello di Ferney in prossimità della frontiera svizzera. A Parigi tornò l'anno della sua morte, il 1778. A Berlino aveva pubblicato la sua prima importante opera storica, n secolo di Luigi XI V, che era stata preceduta dalla Storia di Carlo XII e a cui seguirono il Saggio sui costumi e lo spirito delle Nazioni (1756) e la Storia della Russia sotto Pietro il Grande (1759). La scelta di tre grandi re quali Carlo XII di Svezia, Luigi XIV e Pietro il Grande è indicativa delle inclinazioni politiche di Voltaire: pur consapevole dei rischi di un governo autoritario e personale, pensava che non ci fossero alternative ad esso e che l'unica possibilità di progresso stesse nell'avvento di sovrani illuminati.
Nel frattempo Voltaire aveva esercitato la sua straordinaria vena satirica nella serie dei racconti filosofici iniziata con Zadig (1748) e Micromegas (1752) culminata con Candido o dell'ottimismo (1759), uno dei suoi capolavori, e continuata poi con L'ingenuo (1767). Un altro capolavoro è il Dizionario filosofico ovvero la Ragione in ordine alfabetico, che è forse il più brillante prodotto della polemica illuministica contro il fanatismo, la stupidità e l'ingiustizia. Del Dizionario filosofico riproduciamo, come esempio dello stile volterriano, la prima voce.

Abate
Dove andate, Signor abate? - con quel che segue... Ma lo sapete che abate significa «padre»? Se lo sarete davvero, renderete servizio al pubblico, e farete senza dubbio la miglior cosa che possa fare un uomo: padre di esseri ragionevoli. Opera in cui c'è qualche cosa di divino.
Ma se voi siete il «Signor abate» soltanto perché avete la tonsura, portate un collettino rotondo e un mantello corto, e state in attesa di qualche beneficio, non meritate tal nome.
I monaci di una volta chiamarono così il loro superiore che essi stessi eleggevano: l'abate era il loro padre spirituale. Ma come cambia il significato dei nomi nel tempo! Quell'abate spirituale era un povero, capo di numerosi altri poveri. Ma questi poveri padri spirituali sono venuti ad avere col tempo le tre e le quattrocentomila lire di rendita all'anno; e vi sono oggidì dei poveri padri spirituali in Germania, che mantengono un reggimento di Guardie.
Un povero, che ha fatto giuramento di restar povero e che di conseguenza diventa sovrano! È stato già detto ma non bisogna stancarsi di ripeterlo: è un fatto inammissibile. Gridan le leggi contro questo abuso, la vera religione se ne indigna, e i poverelli autentici, nudi e senza cibo levan strida e lamenti alla porta del palazzo del Signor abate.
Ma qui i signori abati d'Italia e di Germania, delle Fiandre e della Borgogna protestano, e dicono: - E perché non dovremmo accumulare anche noi beni ed onori? Perché non dovremmo poter essere principi? Lo fanno bene anche i vescovi: in origine essi erano poveri come noi; poi si sono arricchiti, si sono elevati, e uno di loro è diventato persino superiore ai re: lasciateci imitarli fin che possiamo -.
E avete ragione, signori: invadete il mondo, poiché il mondo appartiene ai forti e ai furbi che lo san conquistare.
Voi avete approfittato dei secoli di ignoranza e di superstizione e di demenza, per spogliarci delle nostre eredità, per metterci sotto i piedi, per ingrassarvi coi beni degli sventurati: attenti che non arrivi il giorno del trionfo della ragione!

MONTESQUIEU

Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu (1689-1755), è con Voltaire il maggiore esponente dell'Illuminismo francese. Tra i due, che avevano opinioni diverse su molti argomenti, non ci fu mai stretta collaborazione, ma grande stima. Voltaire fece di Montesquieu un elogio che è forse il più bello di quanti si potessero fare a uno scienziato diligente e scrupoloso che però, come del resto tutti i philosophes, aspirava soprattutto ad essere un elegante, piacevole scrittore: Montesquieu (diceva Voltaire) sembra sfiorare ogni cosa e invece va a fondo di tutto.
Dopo gli studi giuridici che lo avevano portato ad abbracciare la magistratura (diventò presidente di sezione del tribunale provinciale di Bordeaux) Montesquieu conseguì la notorietà come scrittore con la pubblicazione delle Lettere persiane (Amsterdam, 1721), brillante opera di critica della società del suo tempo vista attraverso l'occhio divertito di un viaggiatore persiano che l'autore immagina soggiornare a Parigi. Dopo la sua elezione all'Académie Française, Montesquieu intraprese un viaggio di tre anni attraverso i Paesi europei nel corso del quale raccolse una quantità di dati relativi ai loro ordinamenti politici che avrebbe poi utilizzato nella sua opera maggiore, lo Spirito delle leggi (Ginevra, 1748).
Preceduto dalle Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza (1734), e da più di quindici anni di lavoro intenso, lo Spirito delle leggi ottenne al suo apparire uno strepitoso successo editoriale. Opera monumentale ed enciclopedica, si proponeva di studiare le leggi di tutti i tempi e di tutti i Paesi dal punto di vista del loro «spirito», cioè dell'insieme di condizioni politiche, economiche, sociali e ambientali che, diverse da Paese a Paese, producono legislazioni. La parte più nota dell'opera è quella più propriamente politica, nella quale Montesquieu individua tre diverse forme di governo, la repubblica (distinta in democrazia e aristocrazia a seconda che il potere sia esercitato da tutto il popolo o solo da una sua parte), la monarchia e il dispotismo, a ognuno dei quali fa corrispondere un particolare atteggiamento dei cittadini nella vita pubblica (rispettivamente: la virtù o la moderazione, l'onore, la paura) che determina il mantenimento del potere costituito e informa di sé la legislazione.
Uno dei passi più famosi dello Spirito delle leggi è quello in cui Montesquieu espone la sua teoria della separazione dei poteri:

... Esistono, in ogni Stato, tre sorte di poteri: il potere legislativo, il potere esecutivo delle cose che dipendono dal diritto delle genti, e il potere esecutivo di quelle che dipendono dal diritto civile.
In base al primo di questi poteri, il principe o il magistrato fa delle leggi per sempre o per qualche tempo, e corregge o abroga quelle esistenti. In base al secondo, fa la pace o la guerra, invia o riceve delle ambascerie, stabilisce la sicurezza, previene le invasioni. In base al terzo, punisce i delitti o giudica le liti dei privati. Quest'ultimo potere sarà chiamato il potere giudiziario, e l'altro, semplicemente, potere esecutivo dello Stato. [...]
Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non vi è libertà, perché si può temere che lo stesso monarca o lo stesso senato facciano leggi tiranniche per attuarle tirannicamente.
Non vi è libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo. Se esso fosse unito al potere legislativo il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario, poiché il giudice sarebbe al tempo stesso legislatore. Se fosse unito con il potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore.
Tutto sarebbe perduto se la stessa persona, o lo stesso corpo di grandi, o di nobili, o di popolo, esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le pubbliche risoluzioni, e quello di giudicare i delitti o le liti dei privati...

Montesquieu descrive e loda l'organizzazione politica inglese uscita dalla Gloriosa Rivoluzione come realizzazione del suo ideale di governo «moderato», nel quale la coesistenza di poteri separati che si controllano e si limitano a vicenda produce la libertà del cittadino, intesa come tranquillità dell'individuo non esposto a costrizioni o ad attentati da parte dello Stato. L'idea della separazione dei poteri, che ha ispirato dapprima la costituzione degli Stati Uniti d'America, poi via via tutte le costituzioni europee, ha fatto dello Spirito delle leggi una sorta di Bibbia del pensiero liberale e un termine di riferimento obbligato delle moderne teorie costituzionali.

CESARE BECCARIA

Una tipica battaglia illuministica contro pregiudizi e superstizioni correnti fu quella condotta dal milanese Cesare Beccaria per una riforma della giustizia penale basata su criteri di ragionevolezza, umanità e utilità sociale. Nel campo del diritto penale i pregiudizi più diffusi da confutare erano quelli relativi all'efficacia dell'uso terroristico della pena e la superstizione da smascherare era la confusione pretesca tra diritto, morale e religione, tra giustizia umana e giustizia divina, tra reato e peccato. Si può dire che l'obiettivo primario di Beccaria era la laicizzazione della giustizia penale.
Beccaria era nato in una nobile famiglia di Milano il 15 marzo 1738. Laureatosi a Pavia nel 1758, la lettura degli illuministi francesi lo stimolò ad entrare nel gruppo di giovani, che si erano riuniti nel 1761 nell'Accademia dei Pugni, e che diedero vita alla più nota rivista dell'Illuminismo italiano, «Il Caffè» (1764-1766). Proprio nel 1764, a ventisei anni, e in perfetta sintonia con la campagna per la riforma della legislazione che «Il Caffé» avrebbe condotto nei suoi due anni di vita, Beccaria pubblicò la sua opera maggiore, Dei delitti e delle pene, accolta fin dalla sua prima apparizione da un grande e meritato favore.
Secondo Beccaria il diritto di punire è stato conferito allo Stato nel momento in cui gli uomini hanno abbandonato lo stato di natura per passare alla società civile. In forza del contratto sociale gli uomini hanno rinunciato all'uso della forza per l'autodifesa e lo Stato ha acquistato il monopolio della forza che usa per conservare la società, cioè per punire gli atti contrari alla pubblica utilità. La pena, che deve essere stabilita dalla legge e non arbitrariamente fissata dal giudice, deve risultare, secondo Beccaria, proporzionata al delitto: in altre parole più un atto è contrario alla pubblica utilità maggiore deve essere la punizione. È nell'interesse generale della società e non solo per ragioni umanitarie che le pene devono essere moderate, indirizzate più a scoraggiare il compimento di nuovi delitti che ad affliggere crudelmente (e inutilmente) il colpevole, tendere al recupero del condannato. I soli tipi di pena ammessi da Beccaria sono la detenzione e l'ammenda pecuniaria. La pena di morte è ingiusta e inutile. Ingiusta perché gli uomini non hanno trasferito allo Stato un diritto, quello sulla propria vita, di cui non avevano la facoltà di disporre. Inutile (come tutte le pene eccessive, crudeli, «esemplari», ossia terroristiche) perché non dissuade dal delitto i criminali incalliti e li rende, semmai, disposti a tutto (perché non hanno nulla da perdere). Meglio, allora, i lavori forzati a vita, che se non altro rendono il carcerato utile alla società.
Altrettanto famosi sono gli argomenti addotti da Beccaria contro la tortura (ingiusta perché costituisce una pena inflitta prima della condanna; inutile, perché sotto tortura l'inquisito tende a dire non la verità, ma quello che l'inquirente vuol sentirsi dire), contro le delazioni segrete e altri analoghi metodi processuali vigenti al suo tempo. Alcuni dei principi da lui affermati, come quello della personalità del reato (nessuno deve essere punito per un fatto commesso da altri), quello della presunzione di innocenza fino a prova contraria, o quello secondo cui nessuno può essere punito per un fatto che non sia stato in precedenza previsto dalla legge come reato, sono diventati patrimonio comune della cultura penale moderna. Il che non toglie che in molti Paesi esista ancora la pena di morte, che essa sia ancora molto popolare tra le gente (a dispetto di tutti i «lumi» della cultura occidentale, gli imbecilli sono sempre molto numerosi), che la tortura sia sempre largamente praticata (e non solo in Paesi a regime dittatoriale), che le pene detentive siano tuttora aggravate da inutili crudeltà, ecc.
Sull'onda del successo del Dei delitti e delle pene Beccaria fu invitato a Parigi. Vi si recò nel 1766 ma non seppe resistervi a lungo: l'ambiente non faceva per lui. Due anni più tardi divenne professore nelle Scuole Palatine di Milano. Ricoprì in seguito importanti cariche nell'amministrazione pubblica della Lombardia austriaca. Morì il 28 novembre 1794 a Milano.

JEAN-JACQUES ROUSSEAU

Nato a Ginevra nel 1712 da una famiglia di piccoli artigiani calvinisti, Jean Jacques Rousseau, dopo varie avventure e vagabondaggi, che aveva iniziato sin da ragazzo, era finito a Parigi, dove si era dedicato alla musica ed era entrato in rapporto con i più eminenti personaggi dell'epoca. Vivendo grazie all'aiuto di qualche amico, nel periodo 1752-1764 scrisse le sue opere più importanti (Discorso sull'origine dell'ineguaglianza, La nuova Eloisa, n contratto sociale, Emilio, Lettere dalla montagna) che gli attirarono la condanna del Parlamento di Parigi. Dopo aver vagato per alcuni anni in Europa, ossessionato dall'idea che tutti congiurassero ai suoi danni, tornò finalmente a Parigi dove visse poveramente copiando musica. È in questo periodo che scrisse le opere autobiografiche (le Confessioni, Rousseau giudice di Jean-Jacques, Fantasie del passeggiatore solitario). Morì nel 1778.
Fin dal suo primo saggio sul tema Se il progresso delle scienze abbia contribuito a corrompere o a purificare i costumi Rousseau si stacca dal razionalismo della cultura illuministica: il rinnovamento della società, secondo lui, deve scaturire dal sentimento più che dalla ragione. Le scienze e le tecniche non sono che fiori con cui si coprono le catene che stringono gli uomini; il progresso non è che il progresso della schiavitù, dell'oppressione del ricco sul povero; è la società stessa, e non l'individuo, la causa del male del mondo. Per Rousseau l'individuo è «naturalmente» buono: lo stato di natura è «uno stato che non esiste più, che forse non è mai esistito e probabilmente non esisterà mai [...] sul quale tuttavia è necessario avere idee giuste per giudicare bene intorno al nostro stato presente».
L'uomo è buono semplicemente perché ha un'innata ripugnanza del veder soffrire i suoi simili. Se questo atteggiamento non prevale nella vita sociale è a causa delle disuguaglianze nate dalla proprietà privata e dalla divisione del lavoro. La legge naturale aveva fondato l'uguaglianza, l'evoluzione sociale ha creato l'ineguaglianza. Il vero uomo «naturale», però, è essenzialmente «sociale». Si tratta dunque di costruire una società «naturale», in cui tutti gli uomini siano uguali e possano partecipare alla gestione della vita pubblica; in cui il potere risieda nel popolo e in cui il popolo, unico sovrano, sia in condizioni di esercitarlo direttamente.
In una società come questa ciascun cittadino ubbidendo alle leggi ubbidisce a se stesso, perde «la libertà naturale che ha come limiti solo le forze dell'individuo» e guadagna «la libertà civile che è limitata solo dalla volontà generale». La volontà generale non è una volontà unanime, ma si fonda sulla «sola legge che per natura esige un consenso unanime: il patto sociale, quell'associazione nella quale ogni uomo, pur unendosi a tutti gli altri non obbedisca che a se stesso, e resti libero come prima».
La democrazia diretta (non rappresentativa), ossia l'esercizio diretto della sovranità da parte del pa polo è uno dei punti fondamentali delle teorie di Rousseau. «La sovranità», diceva, «non può essere rappresentata per la stessa ragione per la quale non può essere alienata. Essa consiste nella volontà generale e la volontà generale non si rappresenta: è la volontà generale o è un'altra volontà».
I deputati al Parlamento non rappresentano che se stessi, sono tutt'al più commissari del popolo, non suoi rappresentanti. «Il popolo inglese pensa di essere libero, ma si inganna; è libero solo durante l'elezione dei membri del Parlamento; appena questi sono eletti è schiavo, non è più niente».
Poiché la sovranità si esercita essenzialmente nell'attività legislativa, anche se è il Parlamento che elabora le leggi, occorre almeno che per la loro definitiva approvazione siano sottoposte a referendum popolare.

LASCIAR FARE

Se rileggiamo la definizione che ne dava Voltaire, risulta evidente che per lui il «vero filosofo», era soprattutto un economista o un politico dell'economia. L'economia era una disciplina in gran parte nuova. Da sempre storici, politici, filosofi, osservatori delle cose umane avevano espresso giudizi o pareri e formulato norme di comportamento in relazione alla produzione e allo scambio di merci, alla circolazione delle monete, alla finanza pubblica e privata, alle imposte, ai prestiti, ecc. Mai però questo insieme di osservazioni e consigli aveva dato vita a una teoria organizzata, fondata su ipotesi generali e su precise modalità di verifica delle ipotesi stesse.
Neppure il mercantilismo era propriamente una teoria economica. Si trattava piuttosto di un orientamento di politica economica ispirato all'intento di incrementare la ricchezza nazionale (per lo più a scapito della ricchezza delle altre Nazioni). Ma i mezzi per raggiungere questo obiettivo erano diversi da Paese a Paese. Gli Olandesi, per esempio, che erano mercanti e marinai dovevano la loro prosperità alla libertà di commercio; per la stessa ragione tutte le Nazioni mercantili o marinare che sul piano dei costi e dell'efficienza non erano in grado di reggere la concorrenza degli Olandesi, tendevano a difendersi con limitazioni, divieti, monopoli ecc. Gli Inglesi erano per la libertà di commercio in casa d'altri e per il protezionismo in casa propria (gli atti di navigazione, ad esempio, il primo dei quali varato da Cromwell, erano diretti ad escludere gli stranieri dai traffici marittimi dell'Inghilterra). Quanto ai mercantilisti francesi, avevano puntato soprattutto a limitare le importazioni di manufatti dall'estero e a sviluppare un'industria di lusso che, adeguatamente protetta dallo Stato, potesse collocare i suoi carissimi prodotti sui mercati stranieri.
I fisiocrati costituirono la prima scuola economica in senso moderno. Come i giusnaturalisti nel campo del diritto, così i fisiocrati (che erano prima di tutto «filosofi», ossia «illuministi») in quello dell'economia ritenevano che esistessero delle leggi di natura che non possono essere alterate dalle leggi positive dello Stato senza gravi conseguenze: di qui il nome «fisiocrazia», che significa appunto «potere della Natura» (dal greco physis = «natura»). I fisiocrati diffidavano insomma di ogni provvedimento che potesse alterare l'andamento «naturale» dell'economia ed erano decisamente ostili alle politiche mercantilistiche, che insistevano sul ruolo preminente delle decisioni pubbliche rispetto a quelle dei privati nel determinare gli orientamenti della produzione e del commercio. A partire dai fisiocrati questa ostilità all'intervento statale nell'economia, che generalmente viene detta «liberista», ha trovato la sua espressione caratteristica nella formula laissez faire, laissez passer, ossia lasciar fare, non porre ostacoli all'iniziativa economica dei privati all'interno del Paese, né agli scambi commerciali con l'estero.
Il concetto di fisiocrazia aveva anche un altro significato. Nella ricerca dell'origine della ricchezza nazionale l'interesse dei fisiocrati rispetto a quello dei mercantilisti, si spostava dallo scambio alla produzione delle merci, e nell'ambito della produzione la loro attenzione si soffermava quasi esclusivamente sull'agricoltura, trascurando l'industria. L'agricoltura era infatti, secondo loro, l'unica attività capace di fornire un prodotto netto o surplus. Per prodotto netto i fisiocrati intendevano la differenza tra la ricchezza prodotta e la ricchezza consumata nel processo produttivo (si pensi alla moltiplicazione delle sementi operata dall'agricoltore, grazie alla forza vegetativa della natura). Tale surplus dipendeva, secondo i fisiocrati, non dalla produttività del lavoro, ma dalla fertilità «naturale» della terra.
La fisiocrazia fondava perciò l'analisi economica sull'esame del processo di distribuzione e di riproduzione del surplus. A questo proposito Quesnay, il caposcuola della fisiocrazia, distingueva la società in tre classi: la classe produttiva degli agricoltori (il cui lavoro concorre alla formazione del surplus), la classe dei proprietari terrieri che si appropriano di tale surplus (nella forma della rendita) e la classe degli artigiani, definita «sterile» in quanto dedita alla semplice trasformazione delle materie prime fornite dall'agricoltura e non alla loro produzione.
Per i fisiocrati si può parlare di «liberismo agrario». Ma la formula del laissez faire su fatta propria anche da un'altra scuola economica, quella a cui appartengono Adam Smith e David Ricardo, che, per il suo interesse verso il settore della produzione manifatturiera, potremmo chiamare del «liberismo industriale» e che è comunemente detta «classica», perché le sue teorie parvero per lungo tempo, nella sostanza, definitive, non riformabili. Adam Smith, che era professore all'Università di Glasgow, in Scozia, è l'autore del Saggio sulla natura e sulle cause della ricchezza delle Nazioni (1776), destinata a diventare una sorta di Bibbia del liberismo economico.
La tesi fondamentale di Adam Smith è che ciascuno tende naturalmente a operare sulla base del principio del massimo risultato con il minimo sforzo e che questo principio (che è alla base, per esempio, della divisione del lavoro) è tale da garantire la migliore difesa non solo degli interessi privati, ma anche dell'interesse generale. In altre parole l'interesse dei singoli e quello generale non sono in contrasto (come invece erano portati a credere i mercantilisti) e il modo migliore di difendere l'interesse generale non è quello di moltiplicare in ogni settore regole e controlli, ma esattamente il contrario. Intervenendo nell'economia lo Stato non può che indurre sprechi e distorsioni, mentre se tutti fossero liberi di agire secondo le loro tendenze naturali il risultato complessivo sarebbe automaticamente quello più desiderabile per tutti.
Questa ottimistica convinzione di Smith non era interamente condivisa da altri grandi economisti classici come Malthus, Ricardo o Marx. Malthus, ad esempio, riteneva che la popolazione tendesse a crescere con ritmi molto più alti delle risorse necessarie al suo sostentamento. Era persuaso che l'intervento statale in materia non servisse a niente (aiutare i poveri, ad esempio, equivaleva a indurli a fare più figli e cioè ad aggravare la situazione) ed era convinto che l'equilibrio tra risorse e popolazione si sarebbe comunque ristabilito da solo; ma i fattori «naturali» di riequilibrio erano la morte per inedia, la morte per malattia, la morte violenta (guerre, rivolte, ecc.), il che non suggeriva certo un'immagine positiva della natura e dei suoi meccanismi. Madre natura compariva qui piuttosto come una natura matrigna.
Il pessimismo era la nota dominante anche del pensiero di David Ricardo (1772-1823). Ricardo ha elaborato, sulle basi poste da Adam Smith, un'analisi compiuta del sistema capitalistico ed ha formulato una serie di teorie, più tardi riprese da Marx (e discusse in altre parti di questa opera), come quella del valore-lavoro (il valore delle merci è determinato dalla quantità di lavoro in esse incorporato, ossia dalla quantità di lavoro necessario in media per produrle) e quella dei salari, secondo la quale la retribuzione del lavoro tenderebbero irresistibilmente a fissarsi intorno al minimo necessario, in media, per assicurare la sopravvivenza dei lavoratori e delle loro famiglie. Complessivamente il ritratto della società capitalistica fornito da Ricardo era tutt'altro che rassicurante: lotte di classe, insanabili contrasti di interesse, squilibri e ingiustizie erano, per così dire, connaturati al sistema e lo Stato non poteva farci nulla, salvo, forse, alleviare il malessere sociale che derivava da posizioni di privilegio o di monopolio adottando una linea coerentemente liberistica. Così ad esempio, gli effetti perversi del monopolio della terra detenuto dalla classe dei proprietari terrieri (gli alti prezzi del grano e di altri generi alimentari, ad esempio) potevano essere in qualche misura attenuati eliminando ogni vincolo al commercio e aprendo il mercato nazionale ai prodotti agricoli stranieri.

IMPORTANTI FISIOCRATI

Tra gli autori di maggiore rilievo che hanno operato nell'ambito della fisiocrazia vanno ricordati Vincent-Jacques Turgot (1721-1781) che fu anche controllore generale delle finanze sotto Luigi XVI, Victor de Riqueti marchese di Mirabeau (1715-1789), padre di Honoré, uno dei maggiori politici dei primi anni della Rivoluzione francese, e soprattutto François Quesnay (1694-1774), autore dell'opera più significativa della fisiocrazia, il Tableau Economique (1758), uno schema o tabella che descrive come la ricchezza prodotta dall'agricoltura circoli tra le classi, permettendo la riproduzione annuale del prodotto netto. Il Tableau ha esercitato un'importante influenza sul pensiero economico successivo.
I modelli quantitativi con i quali gli economisti moderni cercano di descrivere (e di regolare) il funzionamento dei sistemi economici derivano, direttamente o indirettamente dallo schema di Quesnay.

LA RIVOLUZIONE AMERICANA

Per lungo tempo i rapporti dei coloni inglesi del Nord America con la madrepatria erano stati buoni: le colonie si amministravano in piena autonomia e godevano nei confronti della metropoli di una libertà che era del tutto sconosciuta alle colonie francesi e spagnole. Gli stretti legami economici con l'Inghilterra anche se implicavano una certa dipendenza, stimolavano tutto sommato la crescita delle colonie, mentre l'esercito e la marina inglesi costituivano una valida difesa contro la minaccia costituita dalle vicine colonie francesi.
La situazione però era destinata a peggiorare via via che procedeva il tumultuoso sviluppo della società coloniale. Le leggi inglesi imponevano alle colonie di acquistare in Inghilterra la maggior parte dei prodotti industriali di cui avevano bisogno e quasi tutta la produzione delle colonie doveva essere venduta alla madrepatria. L'Inghilterra godeva insomma di una posizione di monopolio sul commercio coloniale e in conseguenza di tale monopolio poteva vendere a caro prezzo le proprie merci ed acquistare a prezzi bassi le merci americane. Questa situazione non aveva suscitato forti opposizioni quando le colonie erano ancora in fase di organizzazione, ma era diventata insostenibile nella seconda metà del Settecento: le colonie erano ormai ricche e popolose, avevano un'agricoltura altamente sviluppata e un commercio in continua espansione.
Nel 1763 al termine di una dura guerra l'Inghilterra era riuscita a strappare alla Francia il Canada. Questa guerra, che aveva liberato gli Americani dalla pericolosa vicinanza francese, invece di rafforzare i legami con la madrepatria li allentò. Proprio perché non esisteva più un pericolo francese, la protezione dell'esercito inglese appariva agli Americani assai meno preziosa di un tempo. D'altra parte, per rifarsi delle ingenti spese di guerra, il governo di Londra pensò di imporre delle tasse ai coloni, ma non volle che fossero gli stessi rappresentanti dei coloni a decidere l'entità e la forma di tale tassazione. Con questo atto veniva violato un antico diritto del popolo inglese, secondo il quale nessuna tassa poteva essere imposta senza il consenso di coloro che dovevano pagarla. Così facendo, il Governo inglese mostrava di non voler riconoscere agli Americani le libertà accordate ai cittadini della madrepatria.
Non esiste una data precisa per indicare l'inizio della rivolta americana. Una serie di incidenti, di sommosse, di scontri trasformò via via in una guerra per l'indipendenza quella che all'inizio era soltanto una lotta in difesa dei diritti dei coloni americani, che si consideravano inglesi e che chiedevano perciò di essere trattati come i cittadini residenti in Inghilterra. L'esercito americano, formato di volontari, era nei primi tempi disorganizzato, male armato e molto indisciplinato. Durante il periodo del raccolto, per esempio, molti soldati abbandonavano il fronte e tornavano a casa per aiutare i familiari nei lavori agricoli. Sotto la guida di George Washington l'esercito americano si diede una disciplina e una organizzazione efficiente. Con ardite azioni di guerriglia riuscì a battere in più occasioni l'esercito inglese, più numeroso ma meno agile nelle manovre e svantaggiato dalla irregolarità dei rifornimenti che gli venivano dalla madrepatria. In questa irregolarità molto influiva l'opera della marina degli insorti, che intercettava i convogli e attaccava le navi avversarie sin nelle acque inglesi.
Terminata vittoriosamente la guerra nel 1783, le antiche colonie affrontarono il problema della propria organizzazione in Stato indipendente. Nel 1787 si riunì a Filadelfia una Convenzione che redasse la Costituzione degli Stati Uniti. Tale Costituzione adottava una formula federale che affidava al governo centrale le decisioni riguardanti la politica estera, l'esercito, la moneta e le principali questioni di comune interesse, per esempio la colonizzazione dei territori dell'Ovest. Per il resto ogni Stato era libero di governarsi in conformità alle antiche tradizioni di autonomia. Nel 1789, approvata la Costituzione da tutti i tredici Stati, venne eletto il primo presidente degli Stati Uniti: fu scelto George Washington, l'antico comandante dell'esercito degli insorti.
Nel 1776, agli inizi della rivolta, i rappresentanti degli insorti avevano approvato una Dichiarazione d'indipendenza, che con grande semplicità ed efficacia esponeva la teoria del diritto alla resistenza contro gli arbitri del potere (un precedente interessante è la dichiarazione di indipendenza delle Province Unite dei Paesi Bassi) e i principi fondamentali del giusnaturalismo (la dottrina secondo cui esistono leggi e diritti di natura che non possono essere violati dai governi né contraddetti dalle leggi positive). Vi si affermava tra l'altro:

... Consideriamo di per sé evidentissime queste verità: che tutti gli uomini sono creati uguali; che essi sono dotati dal Creatore di diritti inalienabili e che tra questi si annoverano la vita, la libertà, la ricerca della felicità; che appunto per assicurare questi diritti sono istituiti i governi, i quali traggono il loro giusto potere dal consenso dei governati; che qualora una forma di governo non permetta la realizzazione di questo scopi, il popolo ha diritto di cambiarla o di abolirla e di sostituire ad essa un'altra forma di governo fondata su principi tali e con tale ordinamento di poteri da avere le maggiori probabilità di garantire la sicurezza e la felicità. Certo, la prudenza consiglia che governi da lungo tempo stabiliti non siano mutati per ragioni di poco conto e l'esperienza dimostra che gli uomini sono più disposti a soffrire, quando i mali sono sopportabili, che a sollevarsi abolendo le forme di governo alle quali sono abituati. Ma quando una lunga serie di abusi e di usurpazioni, operando sempre nella stessa direzione, tradisce il disegno di ridurli sotto un assoluto dispotismo, è loro diritto, è loro dovere rovesciare un tale governo.

Contro il carattere tutto teorico di questo genere di enunciati c'è chi ricorda che tra i firmatari della dichiarazione americana c'erano non pochi proprietari di schiavi (George Washington era uno dei più grossi), che quanti si ribellavano alla schiavitù propria o degli altri continuarono per molto tempo ad essere legalmente impiccati negli Stati Uniti, che i pellirosse erano a mala pena considerati uomini (e infatti la loro vita, i loro beni, la loro libertà non valevano un soldo, per non parlare del loro diritto alla ricerca della felicità) e che ben pochi Americani si accorsero allora o poi della contraddizione. Ma l'incoerenza degli uomini non è mai stata un buon argomento contro la bontà dei princìpi.

LA FRONTIERA

Mentre nell'Europa moderna la parola «frontiera» significa confine, cioè un limite ben definito oltre il quale uno Stato non può estendere la sua autorità, nella storia americana è stata usata ad indicare una zona malamente definita e scarsamente popolata in via di colonizzazione. La «frontiera» americana non era dunque una linea fissa, ma una fascia mobile di territorio che veniva continuamente spostata in avanti da pionieri, missionari, coloni, in parte con modi pacifici, ma molto di più con l'uso della violenza: molto simile, insomma, a quell'altra frontiera nella quale si erano riversati per tutto il basso Medio Evo, nella loro secolare marcia verso Est e a scapito delle popolazioni slave, coloni, missionari e cavalieri tedeschi.
La regione che si stende tra gli Appalachi e il Mississippi, ricca di acqua e di boschi, ancora alla fine del Settecento era poco nota ed abitata in prevalenza da Pellirosse. I Francesi vi erano penetrati per primi ma, sconfitti nel 1763, avevano dovuto cedere all'Inghilterra i propri diritti su questi territori, mentre gli Spagnoli si erano insediati in quelli ad Ovest del grande fiume. Nel 1783, poi, al termine della guerra d'indipendenza, l'Inghilterra aveva ceduto a sua volta l'intera regione agli Stati Uniti. Solo da quel momento cominciò la massiccia penetrazione dei coloni americani e la vita di frontiera.
I primi americani che si spinsero di là dagli Appalachi erano cacciatori e mercanti di pellicce. Presto però furono seguiti da boscaioli e agricoltori, che disboscarono e dissodarono vaste estensioni di terra. La vita di questi pionieri non era né comoda né facile. Strappare alla foresta un pezzo di terra e dissodarlo costava una fatica estenuante. La loro dieta basata principalmente sul granturco e sulla carne salata, era insufficiente e poco igienica. Privi o quasi di assistenza medica, erano falcidiati da malattie come la malaria, la dissenteria, la febbre gialla, il colera. La loro esistenza era infine minacciata dalle bestie feroci, dai banditi e dagli Indiani, per quanto questi ultimi, dopo l'allontanamento dalla regione dei Francesi loro alleati, non potessero opporre nessuna efficace resistenza all'avanzata dei coloni.
Quando in un territorio, per l'assiduo lavoro dei pionieri, le condizioni di vita diventavano più stabili e sicure, iniziava un secondo flusso di coloni: arrivavano medici, negozianti, avvocati, giornalisti, maestri, predicatori, operai banchieri e naturalmente altri agricoltori. Quando raggiungeva un determinato livello di popolazione e di organizzazione interna, il vecchio territorio di frontiera veniva accolto come nuovo Stato nell'Unione. La frontiera si spostava allora più ad occidente e spesso i primi coloni rivendevano con buon guadagno il loro campo ai nuovi arrivati e partivano alla ricerca di nuove terre da dissodare. Tra il 1792 ed il 1803, nel giro di appena una dozzina d'anni, sorsero tre nuovi Stati ad Ovest degli Appalachi: il Kentucky, il Tennessee e l'Ohio.
Uno dei maggiori ostacoli alla colonizzazione dei territori ad occidente dei monti Appalachi era rappresentato dalla difficoltà delle comunicazioni. Alcune strade vennero aperte attraverso le catene montuose per collegare le terre dell'Ovest alle città della costa atlantica, ma il percorso era disagevole e il costo dei trasporti molto alto. Le difficoltà poterono dirsi veramente superate solo quando, nel 1803, con l'acquisto dalla Francia della Louisiana e della città di Nouvelle Orléans, ribattezzata New Orleans, fu possibile organizzare la navigazione fluviale sul Mississippi e sui suoi affluenti.
Si intraprese allora anche la costruzione di numerosi canali che, interessando la regione dei Grandi Laghi, completarono la rete delle comunicazioni. Divenne così possibile viaggiare da New York a New Orleans esclusivamente per vie d'acqua interne. Come conseguenza la colonizzazione si sviluppò ad un ritmo ancora più intenso: tra il 1812 e il 1837 otto nuovi Stati entrarono nell'Unione: la Florida (acquistata dalla Spagna), il Mississippi, l'Illinois, l'Alabama, il Missouri, l'Arkansas, il Michigan e l'Indiana.
Nel territorio degli otto Stati che si sono elencati vivevano nel 1810 meno di duecentomila persone; trent'anni più tardi la loro popolazione complessiva superava largamente i tre milioni.
Vittime del continuo spostarsi verso Ovest della frontiera americana erano i Pellirosse, oggetto di una ininterrotta e sanguinosa opera di spoliazione, che ha finito per assumere i caratteri di un vero e proprio genocidio (dal greco génos = «popolo», più il suffisso -cidio, dal latino caedere = «uccidere»: è lo sterminio in massa di un intero popolo). Quello indiano era un vecchio problema. Quando i primi coloni inglesi si erano insediati nell'America del Nord avevano stabilito rapporti relativamente cordiali con le popolazioni indigene. I coloni, però, erano innanzi tutto agricoltori e intendevano essere i padroni esclusivi delle terre che occupavano. Tendevano perciò a cacciare dai territori sui quali si stanziavano ogni altro occupante. Con ciò, inevitabilmente, i rapporti con gli Indiani non potevano non guastarsi.
Se i coloni inglesi finirono con l'adottare una politica di sterminio delle popolazioni indiane, Francesi e Spagnoli cercavano invece l'amicizia delle tribù indiane in funzione anti inglese. Nel 1763, con la sconfitta della Francia e il passaggio del Canada in mani inglesi, gli Indiani della valle dell'Ohio si trovarono soli a fronteggiare l'avanzata dei coloni americani. Si unirono in una grande confederazione sotto il comando di Pontiac, capo degli Ottawa e presero ad attaccare i coloni lungo tutta la frontiera dalla Pennsylvania alla Virginia. La loro azione fu stroncata nel sangue, ma il Governo inglese per evitare nuove complicazioni cercò di impedire o quanto meno di contenere la penetrazione dei coloni nei territori indiani.
A differenza di quelle inglesi, le autorità americane non facevano nulla per reprimere le violenze dei coloni contro gli Indiani; furono invece molto spesso impegnate in prima persona nella spoliazione e nello sterminio degli Indiani e, per esempio, inducendo con le minacce o con la corruzione questo o quel capo a firmare la cessione di nuovi territori, tra il 1795 e il 1809 riuscirono ad assicurare ai coloni bianchi oltre 20 milioni di ettari nei territori indiani. Nel 1809 un capo Shawnee, Tecumseh, si propose di bloccare l'avanzata dei bianchi. Egli capiva però che sul piano militare gli Indiani non avrebbero mai potuto battere gli Americani: nel territorio compreso tra i Grandi Laghi, il Mississippi e l'Ohio gli Indiani potevano raccogliere al più qualche migliaio di guerrieri, mentre i bianchi in grado di portare le armi erano centinaia di migliaia. L'unico mezzo per impedire la rovina del popolo indiano era dunque una riforma profonda, ma sostanzialmente pacifica, del suo modo di vivere. Il programma di Tecumseh si può riassumere in tre punti essenziali: unire tutte le tribù in una confederazione stabile; limitare i rapporti con i bianchi a pochi, essenziali scambi commerciali con il divieto assoluto per i capi tribù di firmare nuovi trattati di cessione; proibire a tutti gli Indiani il consumo di alcoolici, che non solo danneggiavano la salute dei guerrieri, ma erano lo strumento più efficace con cui le autorità americane avevano condotto la loro opera di corruzione.
Mentre Tecumseh si trovava presso i Creek per stringere con loro un'alleanza, reparti di truppa avanzarono sino al suo villaggio e lo distrussero: fu questa la cosiddetta «battaglia» di Tippecanoe, che diede l'avvio ad una serie di sanguinose guerre indiane. Tra il 1813 e il 1814 gli Americani guidati dal generale Andrew Jackson distrussero la forza militare dei potenti Creek e si impadronirono del loro territorio. Alcuni profughi Creek si rifugiarono nella Florida, che era allora spagnola, e si unirono alle tribù locali dei Seminole, già invise agli Americani perché accoglievano fraternamente gli schiavi neri fuggiti dalle piantagioni del Sud. Nel 1817, senza curarsi delle proteste della Spagna, gli Americani, guidati sempre da Jackson, penetrarono in Florida distruggendo ogni villaggio che incontravano sulla loro strada. I Seminole si difesero e un reparto dell'esercito americano, caduto in un'imboscata, venne annientato. La rabbia americana dopo questo episodio si accese ancora di più e due capi indiani, catturati a tradimento, vennero impiccati senza processo. Quanto agli Spagnoli, incapaci di difendere la Florida, preferirono nel 1819 cederla agli Stati Uniti in cambio di cinque milioni di dollari.
Per giustificare la loro brutale politica di spoliazione e di sterminio gli Americani erano soliti ripetere che gli Indiani erano del tutto incapaci di «civilizzarsi», ossia di assumere i modi di vita e le forme di pensiero dei bianchi. Ma i Cherokee della Georgia, ad esempio, in termini di civiltà, come hanno scritto due storici americani, avevano fatto «progressi civili assai maggiori di quelli compiuti dagli spacconi della Georgia che bramavano le loro terre»: avevano perfino inventato un alfabeto nel quale stampavano dei buoni libri e si erano dati una costituzione. Quando lo Stato della Georgia, ignorando i solenni trattati stipulati dal Governo federale volle impadronirsi del territorio occupato dai Cherokee, questi si rivolsero alla corte suprema degli Stati Uniti per avere giustizia ed ottennero una sentenza favorevole. Ma il presidente degli Stati Uniti era allora Andrew Jackson, che si era messo in luce con i massacri dei Creek e dei Seminole. Jackson ignorò la sentenza della Corte Suprema e il Governo della Georgia poté proseguire nella sua azione. I Cherokee si difesero con vigore, ma nel 1838 furono costretti a ritirarsi verso Ovest.

LA RIVOLUZIONE FRANCESE

La Rivoluzione francese è «la Rivoluzione» per eccellenza. Non perché sia stata la prima grande rivoluzione dei tempi moderni: questo ruolo spetta alla rivoluzione inglese, che l'ha preceduta di un secolo e mezzo. E neppure perché i suoi valori o ideali (si parla degli immortali «princìpi dell'Ottantanove» ed è universalmente noto il trinomio, «libertà, fraternità, uguaglianza») fossero particolarmente originali o innovativi: i Livellatori inglesi li avevano proclamati con altrettanta e forse maggiore eloquenza e i princìpi sanciti nella Dichiarazione di Indipendenza e nella Costituzione degli Stati Uniti erano esattamente gli stessi. Ma la rivoluzione inglese era rimasta un fatto circoscritto, con scarsa eco sul continente; in più, sconfitta l'ipotesi democratica dei Livellatori e fallito l'esperimento semirepubblicano (non era mai stato repubblicano per intero) di Cromwell, di democrazia e di repubblica non si era più parlato, né in Inghilterra né altrove. Quanto alla rivoluzione americana, era un evento troppo periferico per assumere un valore universale e pareva rientrare nella serie degli esperimenti politici caratteristici della tradizione coloniale, sul tipo delle reducciones dei gesuiti o della colonia quacchera della Pennsylvania. La Rivoluzione francese, invece, è scoppiata nel cuore dell'Europa ed è diventata molto rapidamente una rivoluzione da esportare: si chiama francese, ma si intende europea.
La società francese, come sappiamo, era divisa tra i due ordini privilegiati della nobiltà e del clero (il 3-4 % della popolazione) e il terzo Stato a cui la legge non riconosceva alcun privilegio. Nessuno di questi ordini o Stati era omogeneo al suo interno. La nobiltà comprendeva la grande aristocrazia di corte e la povera (e spesso ignorante) nobiltà di campagna. Anche l'aristocrazia di corte non era necessariamente ricca: spesso viveva dei favori e dei regali del re. In ogni caso spendeva molto: il nobile squattrinato e spendaccione era un personaggio comune nella Francia prerivoluzionaria. Il clero era diviso tra alto e basso clero, il primo interamente formato da aristocratici, il secondo molto simile, per cultura e condizioni economiche ai piccoli borghesi e ai contadini in mezzo ai quali viveva. Il terzo Stato comprendeva tutti gli altri: ricchi e poveri, borghesi e contadini, grandi intellettuali e analfabeti.
L'episodio di Voltaire fatto bastonare da un aristocratico che rifiutava di battersi con lui a duello è forse sufficiente a indicare il genere di rancore che la borghesia ricca e colta poteva nutrire dei confronti della nobiltà. Ma va aggiunto che la nobiltà, spinta da un crescente bisogno di denaro, aveva finito nella seconda metà del Settecento con il monopolizzare quasi tutti gli uffici civili e tutte le cariche militari, escludendone i borghesi. Quanto ai contadini, che rappresentavano la grande maggioranza dei Francesi, circa venti milioni, erano da tempo del tutto liberi: solo l'uno o il due per cento erano ancora soggetti a una qualche forma giuridicamente riconosciuta di servitù. Ma oltre alla soggezione legale c'era quella, più estesa, legata alle consuetudini, al rispetto per la magnificenza dei padroni, al timore reverenziale. Abbastanza diffuse erano poi le sopravvivenze feudali consistenti in tributi o obblighi diversi, spesso più fastidiosi che gravosi; anche qui tuttavia, nella seconda metà del Settecento, i nobili proprietari (e soprattutto i piccoli nobili di provincia privi di altre consistenti fonti di reddito) e la Chiesa tornarono ad esigerli con un certo rigore sulle proprie terre.
A parte le crescenti tensioni tra gli ordini privilegiati e il terzo Stato, quel che fece precipitare la crisi rivoluzionaria in Francia furono essenzialmente le difficoltà finanziarie dello Stato. Carico di debiti per le spese sostenute nelle inutili guerre del Settecento e per il costo del mantenimento della Corte, il Governo aveva tentato senza successo di rimuovere o di aggirare i privilegi fiscali della nobiltà e del clero, che, dopo tutto, erano i maggiori proprietari terrieri della Francia. Nobili e preti si dichiararono disposti a pagare le tasse e a contribuire in qualche modo al risanamento del bilancio ma a patto di tornare ad esercitare un ruolo politico nello Stato. Anche se lo sviluppo degli avvenimenti fu più complicato, l'ipotesi di negoziato che alla fine condusse alla riconvocazione, dopo centosettantacinque anni, degli Stati Generali, fu in sostanza questa: una certa perequazione fiscale in cambio della riforma dello Stato.
Fin qui sembrava che il conflitto riguardasse prevalentemente la monarchia da un lato e gli ordini privilegiati dall'altro. In questo conflitto la parte riformatrice era rappresentata dalla nobiltà: il clero voleva solo continuare a non pagare le tasse e il Governo non sapeva esattamente che riforme fare. Non è neppure facile però dire in che cosa propriamente consistesse il riformismo aristocratico. Una parte dei nobili condivideva le indicazioni di Montesquieu e pensava a un governo moderato sul modello inglese, in cui all'aristocrazia, come partner ufficiale della monarchia e come naturale riserva di uomini di governo, fosse riservato un ruolo preminente nella direzione del Paese. Un'altra parte però (ed era la maggioranza) cullava impossibili sogni di restaurazione feudale: il suo era, per così dire, un riformismo reazionario e nostalgico. In ogni modo, quando si giunse alla convocazione degli Stati Generali le cose cambiarono rapidamente.
Prima ancora che, il 5 maggio 1789, si riunisse l'assemblea, era sorta una questione di procedura. Nelle precedenti riunioni degli Stati Generali, nelle delibere comuni ciascun ordine aveva espresso un voto. Se si fosse votato con quel metodo il voto della nobiltà più il voto del clero avrebbero prevalso sul voto del terzo Stato. Se al contrario i tre ordini avessero votato tutti insieme e ogni deputato avesse espresso un voto, poiché al terzo Stato era stato concesso un numero di deputati pari a quelli degli altri due messi insieme, la maggioranza sarebbe stata sua. Non si trattava però solo di maggioranze. Se si fosse votato per testa e non per stato, infatti, il carattere stesso dell'assemblea sarebbe cambiato. Finché ogni ordine deliberava separatamente era ribadita la divisione del popolo francese in ordini o Stati; se le deliberazioni fossero state prese in comune sarebbe stata implicitamente negata quella divisione e si sarebbe fatto un grosso passo verso l'uguaglianza di tutti i Francesi di fronte alla legge.
Quando si accorsero del pericolo, la monarchia (impersonata dallo smorto e incerto Luigi XVI) e le classi privilegiate smisero di litigare e fecero causa comune. Era però troppo tardi: i rappresentanti del terzo Stato, di fronte al rifiuto opposto alle loro richieste, si proclamarono Assemblea Nazionale, forti del fatto di rappresentare la stragrande maggioranza del popolo francese. Alcuni rappresentanti del basso clero e della nobiltà si unirono a loro e alla fine anche i più recalcitranti, su invito dello stesso Luigi XVI, dovettero accettare il fatto compiuto. Gli Stati Generali, in quanto espressione della vecchia società feudale fondata sul privilegio e sulla disuguaglianza giuridica, erano morti. Ad essi si sostituiva un'Assemblea, che, benché formata dagli stessi uomini, era una cosa assai diversa: ogni deputato rappresentava ormai l'intera Nazione francese e non più il gruppetto di elettori del suo ordine che lo aveva prescelto. All'Assemblea Nazionale così fatta non toccava più proporre qualche riforma, ma elaborare una nuova costituzione per la Francia.

I LEADER DELLA RIVOLUZIONE

La Rivoluzione francese è indicata sempre come un rivoluzione «borghese», il che è senz'altro vero, se si considera che la borghesia è stata il gruppo sociale che ha tratto i maggiori vantaggi dalle conquiste della rivoluzione: l'abolizione dei privilegi di nascita o di stato e l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. La cosa tuttavia è molto meno vera se si bada a chi ha fatto davvero la rivoluzione. Nelle insurrezioni e negli scontri di piazza il protagonista principale è stato il popolo di Parigi (artigiani, operai, piccoli bottegai, poveri, ecc.). Tra i leader della Rivoluzione, invece, così come tra gli esponenti di quella cultura illuministica che ha fornito l'armamentario intellettuale della Rivoluzione, non pochi appartenevano alla nobiltà. Nei primi tempi della rivoluzione le figure di maggiore spicco alla guida del terzo Stato erano transfughi degli ordini privilegiati: l'abate Emmanuel-Joseph Sieyès (1748-1836), autore dell'opuscolo Che cos'è il terzo Stato? pubblicato con enorme successo nel febbraio dell'89, eletto dal terzo Stato a Parigi, e Honoré de Riqueti conte di Mirabeau (1749-1791), che, dopo esser stato espulso dal proprio ordine, era stato eletto dal terzo Stato a Aix-en-Provence. Mirabeau era, per così dire, «figlio d'arte»: suo padre era Victor, uno dei massimi esponenti della fisiocrazia.

IL GIURAMENTO DELLA PALLACORDA

Il 10 giugno 1789, rompendo gli indugi che per un mese avevano paralizzato i lavori degli Stati Generali sulla questione del voto per testa o per ordine, i rappresentanti del terzo Stato invitano i deputati degli altri ordini a unirsi a loro per la consueta verifica dei poteri. Solo qualche deputato del clero aderisce all'invito. Il 17, su proposta di Sieyès, l'assemblea così costituita si proclama Assemblea Nazionale. Il suo primo atto è di rassicurare i creditori dello Stato ponendo i loro soldi «sotto la protezione dell'onore e della lealtà della Nazione francese». Il 19 la maggioranza dei rappresentanti del clero si dichiara favorevole alla riunione e lo stesso fanno un'ottantina di deputati della nobiltà. Il 20 giugno i membri dell'assemblea trovano chiusa la sala delle riunioni in vista di una solenne seduta reale prevista per il 23. Si spostano allora in un vicino padiglione che, essendo destinato al gioco della pallacorda, non ha sedili ed è illuminato da finestre altissime, e qui giurano «di non separarsi mai e di riunirsi dovunque le circostanze lo richiedano, finché la Costituzione del regno non sia stabilita e poggiata su solide fondamenta». ll 23 il respinto dai vescovi e dalla maggioranza della nobiltà tenta una prova di forza: predisposto un minaccioso apparato militare, pronuncia un discorso arrogante che ignora le decisioni prese dall'Assemblea nell'ultima settimana e ordina agli Stati di dividersi e di lavorare separatamente. Quando il gran cerimoniere chiede ai deputati del terzo Stato di obbedire al re e di lasciare la sala, nessuno si muove Mirabeau risponde:
- Lasceremo i nostri posti solo spinti dalle baionette -; e Sieyès commenta sprezzante: - Siete gli stessi di sempre -. Il re non osa mettere in atto le minacce. Il 24 la maggioranza dei deputati del clero si unisce all'assemblea e il 25 è la volta di un folto gruppo di nobili, guidato, niente meno che da Luigi Filippo duca di Orléans (poi detto Filippo Egalité: fu il suo voto nel gennaio del 1793 a decidere la condanna a morte di Luigi XVI).

RIVOLUZIONE E ANTICO REGIME

Il termine «rivoluzione» viene adoperato in molti significati, alcuni dei quali abbiamo avuto occasione di illustrare altrove. In senso strettamente politico si può propriamente parlare di «rivoluzione» solo quando si tratti di un movimento di massa che, con l'uso o con la minaccia della violenza, si propone il rovesciamento delle autorità costituite e l'insediamento di una nuova autorità politica (conquista del potere); la conquista del potere, per altro, non è che una condizione necessaria per la realizzazione del programma rivoluzionario, che consiste in profonde e durevoli trasformazioni politiche, sociali ed economiche rispondenti ad una ideologia (e cioè ad una concezione della società e dello Stato) opposta a quella della vecchia classe di governo. Sulla base di questa definizione si può agevolmente determinare ciò che non è propriamente rivoluzione:

«Rivolta» (o «ribellione»): è un movimento insurrezionale a carattere limitato. La rivolta non ha programmi a lunga scadenza, ma pone piuttosto rivendicazioni immediate. Spesso tali rivendicazioni consistono nell'eliminazione o nella correzione di abusi commessi dall'autorità; in questo caso la rivolta, più che a sovvertire l'ordine costituito, tende a ristabilire un ordine preesistente, che il comportamento illegale dell'autorità ha turbato. Nella rivolta, insomma,prevale la protesta, mentre programmi politici e motivazioni ideologiche possono essere del tutto assenti. Anche il termine «ribellismo», usato per indicare la propensione all'insubordinazione violenta, sottolinea la prevalenza dei fattori psicologici (indocilità, insoddisfazione, ecc.) su quelli ideologici e politici. Le rivolte possono anche essere di vaste proporzioni e assumere carattere di particolare violenza, come è accaduto per esempio nelle jacqueries, ciò che tuttavia non consente di assimilarle alle rivoluzioni è l'assenza di un progetto complessivo di riorganizzazione della società.

«Congiura» (o «complotto» o «cospirazione»): è l'accordo segreto tra più persone per rovesciare o modificare l'ordinamento di uno Stato o per colpire ed eliminare una parte della classe politica. Congiure erano ad esempio quelle delle sette segrete e dei gruppi patriottici clandestini nel Risorgimento. Spesso le congiure nascono all'interno degli stessi gruppi di governo e possono essere dirette o contro altri gruppi di governo o contro l'opposizione. Si parla anche, in questo caso, di «macchinazione».

«Colpo di Stato»: è un'azione concertata all'interno delle stesse strutture statali (per lo più per iniziativa o con l'adesione delle forze armate) al fine di sostituire in tutto o in parte il personale di governo e di modificare almeno temporaneamente i meccanismi politici e di potere, di solito (ma non necessariamente) in senso autoritario. Si parla anche in casi del genere di «rivoluzione di Palazzo».

«Guerra civile»: è una guerra tra cittadini dello stesso Paese. Può essere strumento o conseguenza di una rivoluzione, ma può nascere anche dalla rivalità tra opposte fazioni della classe dirigente.

«Guerre di liberazione nazionale»: sono spesso chiamate rivoluzioni (per esempio: Rivoluzione americana, Rivoluzione algerina, ecc.) e ne hanno in effetti tutti i caratteri, tranne uno: di solito non tendono affatto a instaurare un nuovo ordine economico e sociale e spesso non realizzano nemmeno un significativo mutamento nei gruppi politici dirigenti.

Anche se la parola è più antica, la nozione attuale di rivoluzione ha meno di due secoli. Nell'antichità classica non c'era nemmeno la parola: si parlava di rivolte, sedizioni, congiure, guerre civili, ecc., tutte cose (come si è visto) sensibilmente diverse dalla rivoluzione. Quando la parola è entrata nel linguaggio politico (piuttosto tardi) è stata usata genericamente per indicare tumulti, sollevazioni, bruschi mutamenti di governo. È solo nel corso della Rivoluzione francese che la nozione moderna di rivoluzione è venuta precisandosi intorno ad alcuni caratteri decisamente nuovi. Innanzi tutto la rivoluzione è stata intesa come rottura definitiva e irreversibile con il passato. La rivoluzione è stata inoltre considerata come una svolta storica, nel senso che aveva aperto per l'umanità intera un'era nuova, l'era della libertà. Infine la rivoluzione (che propriamente non è lo stadio della libertà compiuta, ma piuttosto quello della transizione verso la libertà) è stata considerata un evento eccezionale che richiedeva misure eccezionali: in altre parole finché fosse durata l'emergenza rivoluzionaria, ossia finché il nuovo regime non si fosse consolidato, è parso lecito imporre severe restrizioni alla libertà dei cittadini e violare quegli stessi principi in nome dei quali la rivoluzione era stata fatta. In verità quest'ultima opinione, che ha caratterizzato il governo giacobino nel periodo del Terrore (e che è stata raccolta più tardi da altri partiti, come ad esempio i bolscevichi in Russia), non era affatto generalmente condivisa dalle altre correnti rivoluzionarie: vi si erano opposti vigorosamente, tra gli altri, i maggiori esponenti del gruppo girondino.
L'espressione «antico regime» è diventata di uso corrente proprio negli anni della Rivoluzione francese ed è rimasta nel linguaggio politico a indicare tutto ciò contro cui i rivoluzionari del 1789 avevano inteso combattere: la diseguaglianza civile, i privilegi aristocratici, l'assolutismo monarchico, i vincoli feudali, ecc. e cioè tutto l'insieme delle istituzioni politiche, giuridiche e sociali che hanno caratterizzato l'Europa occidentale tra XVI e XVIII secolo.

LA PRESA DELLA BASTIGLIA

All'apertura degli Stati Generali era ministro di Luigi XVI il banchiere ginevrino Jacques Necker. Necker aveva fondato la più importante banca di Francia e nel 1777 era stato nominato direttore generale delle finanze. Politicamente era un moderato, ma nel 1781 aveva indicato pubblicamente negli sperperi della corte una delle principali cause del dissesto finanziario. La cosa aveva suscitato gli entusiasmi dei borghesi e dei riformatori, ma gli era valso l'odio degli aristocratici e, naturalmente, degli ambienti di corte.
Richiamato nel 1788 a garanzia delle intenzioni riformatrici del re, la sua posizione nel governo era sempre rimasta molto debole; l'11 luglio 1789, in coincidenza con una sorta di congiura aristocratica che Mirabeau aveva denunciato all'assemblea qualche giorno prima, Necker e i ministri liberali furono licenziati e sostituiti con un Governo apertamente reazionario. Quando il popolo di Parigi, già inquieto per il forte rincaro del pane e per le voci di un imminente attacco delle truppe del re alla città, venne a sapere della destituzione di Necker insorse. Il 14 la Bastiglia, l'antica prigione di Parigi, praticamente sguarnita di difensori fu presa d'assalto. Intanto le assemblee degli elettori dei diversi distretti di Parigi avevano nominato un Comitato che cercò di mantenere il movimento sotto controllo: fu l'embrione della nuova organizzazione municipale di Parigi, la Comune, che sarebbe stata riorganizzata l'anno successivo e che avrebbe svolto un'importante funzione politica al tempo della Convenzione.
Il re richiamò Necker, a difesa delle conquiste della Rivoluzione venne formata una Guardia Nazionale (affidata al comando del marchese Marie-Joseph de La Fayette, che aveva dimostrato le sue propensioni liberali combattendo a fianco degli Americani nella loro guerra di indipendenza), e fu adottato come simbolo della Nazione francese il tricolore (il rosso e il blu erano i colori di Parigi, il bianco quello della dinastia regnante, i Borboni).

DALLA MONARCHIA ALLA REPUBBLICA

Mentre a Parigi l'Assemblea Nazionale cominciava i suoi lavori, in tutte le campagne di Francia scoppiò improvvisa e violenta una grande insurrezione contadina: i signori furono cacciati dalle loro terre, i loro magazzini saccheggiati, i castelli incendiati. La furia contadina non era diretta però soltanto contro i vecchi signori feudali, ma anche contro i proprietari borghesi che, come padroni, si erano rivelati anche più esosi degli antichi. Questa insurrezione spaventò terribilmente tutte le classi proprietarie, e quelle settimane sono passate alla storia come «la Grande Paura». Nobili, preti e borghesi capirono che al di là dei gravi contrasti che li dividevano era necessario ritrovare una solidarietà che permettesse di porre un argine alla rivolta delle classi inferiori. L'Assemblea Nazionale si affrettò ad abolire il sistema feudale che era una delle cause della protesta contadina e che costituiva il più grosso ostacolo al necessario accordo tra aristocrazia e borghesia. Poi lavorò alacremente alla elaborazione della nuova costituzione, che avrebbe dovuto sanzionare l'accordo di tutte le classi proprietarie.
La nuova costituzione non era certo una costituzione democratica. Venivano soppressi i privilegi fondati sulla nascita e le prerogative di Stato, e tutti erano uguali di fronte alle legge; venivano rafforzati però i privilegi connessi alla ricchezza, a cominciare dal diritto di voto, riservato ai cittadini di un certo censo, ossia da un certo reddito in su. La Dichiarazione dei diritti approvata dall'Assemblea Nazionale il 26 agosto 1789 aveva proclamato solennemente: «La legge è l'espressione della volontà generale. Tutti i cittadini hanno il diritto di concorrere personalmente o con i loro rappresentanti alla sua formazione», ma la costituzione promulgata nel 1791 divideva i Francesi in due classi: i ricchi, che potevano eleggere i propri rappresentanti all'Assemblea Nazionale, e i poveri che non potevano farlo e che quindi dovevano accontentarsi di essere rappresentati dai ricchi. Quei ceti popolari che, soprattutto a Parigi, avevano assicurato con le loro manifestazioni di piazza il successo della rivoluzione si vedevano sbarrare il passo all'esercizio del potere politico, mentre le vecchie classi privilegiate erano accolte, accanto ai borghesi, nella nuova classe dirigente.
La nuova Costituzione regolamentava anche la vita della Chiesa: tutti gli ordini religiosi furono sciolti, tranne quelli che svolgevano una funzione sociale riconosciuta, come l'istruzione della gioventù e l'assistenza ai malati. Quanto al clero secolare, la cosiddetta «costituzione civile» ne faceva una speciale categoria di burocrati: preti, parroci e vescovi, pagati dallo Stato, erano tenuti al giuramento di fedeltà alla costituzione e venivano scelti dalle assemblee degli elettori. Nello stesso tempo, le terre e le proprietà della Chiesa venivano incamerate e destinate a sanare il dissestato bilancio dello Stato. Meno della metà dei preti francesi accettò la costituzione civile del clero. Quelli che non accettarono, i cosiddetti «preti refrattari», buttati fuori dalle loro parrocchie, non avrebbero avuto difficoltà, nel corso del tempo, a scatenare una sorta di guerra di religione e a incanalare nella resistenza dei controrivoluzionari molte energie popolari (nella rivolta della Vandea, per esempio, scoppiata nel marzo del 1793).
Quanto al re, il suo non era più un potere assoluto, ma conservava un'autorità almeno pari a quella dell'Assemblea. In sostanza si trattava di un compromesso nient'affatto svantaggioso per quelle forze, la monarchia e l'aristocrazia, che erano state sconfitte dalla rivoluzione. Ma non è difficile immaginare quali sentimenti dovessero agitare il re e gli aristocratici: in due anni avevano perso una quantità di privilegi vecchi di secoli e ai loro occhi perfettamente legittimi. Il desiderio di recuperarli e forse il timore del peggio spinse l'uno e gli altri sulla strada della cospirazione e del tradimento. Così però, non facevano che accelerare l'apertura di una nuova e più radicale fase del movimento rivoluzionario. Fuori della Francia sulle prime la Rivoluzione era apparsa a molti come una crisi tutta interna e tra i governi d'Europa era serpeggiato un qualche compiacimento, secondo l'abituale attitudine a trarre vantaggi dalle difficoltà altrui. Ma la situazione che in Francia era sboccata nella Rivoluzione era comune a buona parte degli Stati europei e in tutti i Paesi agivano le stesse forze che là avevano rovesciato l'antico regime. Ben presto fu chiaro che la Rivoluzione avrebbe oltrepassato le frontiere francesi, dilagando per tutta l'Europa. I sovrani di Prussia e Austria pensarono di prevenire questa eventualità invadendo la Francia, dove contavano di restaurare l'antico regime. Il re di Francia, da parte sua, aveva sollecitato l'intervento straniero e nel giugno del 1791 aveva perfino tentato di rifugiarsi all'estero. Gli aristocratici, poi, erano emigrati e continuavano a emigrare a migliaia e esercitavano ugualmente sulle corti europee una incessante pressione per un intervento militare. Favorevole alla guerra, poi, era gran parte della sinistra della nuova Assemblea Nazionale Legislativa, che aveva iniziato i suoi lavori nell'ottobre del 1791.
Quando, nella primavera del 1792, iniziò la guerra, l'esercito regio si dimostrò incapace di arrestare l'invasione straniera. Una nuova esplosione rivoluzionaria spazzò allora la monarchia. Il 10 agosto a Parigi, per iniziativa della Comune la folla assaltò le Tuileries, dove era il re, e massacrò le guardie svizzere; il re si salvò rifugiandosi nella sala dell'Assemblea Nazionale Legislativa, ma fu sospeso dalle sue funzioni e imprigionato. I controrivoluzionari (o sospetti tali) che non erano ancora fuggiti all'estero furono imprigionati e molti di loro, prelevati dalle prigioni, dopo un'apparenza di giudizio, furono uccisi dalla folla nelle cosiddette stragi di settembre, avvenute tra il 2 e il 7 di quel mese a Parigi, Versailles, Lione, Reims, Orléans. Tutti i Francesi maschi - e non solo i ricchi - furono nel frattempo chiamati alle urne per eleggere una nuova assemblea, la Convenzione Nazionale, che il 21 settembre 1792 proclamò la Repubblica. Intanto l'esercito regio era stato sostituito da un'armata popolare, che proprio la vigilia della proclamazione della Repubblica era riuscito a strappare un primo successo a Valmy: in un duello di artiglieria svoltosi nella nebbia i Francesi avevano avuto la meglio sui Prussiani. Non si trattava di una vittoria importante sul piano militare, ma su quello politico e morale segnò una svolta decisa a favore della Francia rivoluzionaria. Nell'autunno, del resto, altre e più rilevanti vittorie costrinsero gli invasori a ritirarsi. Nel dicembre Luigi XVI fu messo sotto processo dalla Convenzione. Il 15 gennaio del 1793 con 683 voti su 721 fu riconosciuto colpevole. Il giorno dopo, con un solo voto di maggioranza fu decisa la sua morte. Il 21 gennaio Luigi XVI fu ghigliottinato.

LA DICHIARAZIONE DEI DIRITTI

I Rappresentanti del Popolo Francese, costituiti in Assemblea Nazionale, considerando che l'ignoranza, l'oblio o il disprezzo dei diritti dell'uomo sono le uniche cause delle sciagure pubbliche e della corruzione dei governi, hanno stabilito di esporre, in una solenne dichiarazione, i diritti naturali, inalienabili e sacri dell'uomo, affinché questa dichiarazione, costantemente presente a tutti i membri del corpo sociale, rammenti loro incessantemente i loro diritti e i loro doveri [...]. In conseguenza, l'Assemblea Nazionale riconosce e dichiara, in presenza e sotto gli auspici dell'Essere Supremo, i seguenti diritti dell'uomo e del cittadino:

Art. 1. Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull'utilità comune.

Art. 2. Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell'uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all'oppressione.

Art. 3. Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo o individuo può esercitare un'autorità che non emani espressamente da essa.

Art. 4. La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri: così, l'esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti. Questi limiti possono essere determinati solo dalla Legge.

Art. 6. La Legge è l'espressione della volontà generale. Tutti i cittadini hanno diritto di concorrere, personalmente o mediante i loro rappresentanti, alla sua formazione. Essa deve essere uguale per tutti, sia che protegga, sia che punisca. Tutti i cittadini essendo uguali ai suoi occhi sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti ed impieghi pubblici secondo la loro capacità, e senza altra distinzione che quella delle loro virtù e dei loro talenti. [...]

Art. 7. Nessun uomo può essere accusato, arrestato o detenuto se non nei casi determinati dalla Legge, e secondo le forme da essa prescritte. Quelli che procurano, spediscono, eseguono o fanno eseguire degli ordini arbitrari, devono essere puniti; ma ogni cittadino citato o tratto in arresto, in virtù della Legge, deve obbedire immediatamente; opponendo resistenza si rende colpevole.

Art. 9. Presumendosi innocente ogni uomo sino a quando non sia stato dichiarato colpevole, se si ritiene indispensabile arrestarlo, ogni rigore non necessario per assicurarsi della sua persona deve essere severamente represso dalla Legge.

Art. 10. Nessuno deve essere molestato per le sue opinioni, anche religiose, purché la manifestazione di esse non turbi l'ordine pubblico stabilito dalla Legge.

Art. 11. La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell'uomo; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell'abuso di questa libertà nei casi determinati dalla Legge.

Art. 12. La garanzia dei diritti dell'uomo e del cittadino ha bisogno di una forza pubblica, questa forza è dunque istituita per il vantaggio di tutti e non per l'utilità particolare di coloro ai quali essa è affidata.

Art. 13. Per il mantenimento della forza pubblica, e per le spese d'amministrazione, è indispensabile un contributo comune: esso deve essere ugualmente ripartito fra tutti i cittadini, in ragione delle loro sostanze.

Art. 14. Tutti i cittadini hanno il diritto di constatare, da loro stessi o mediante i loro rappresentanti, la necessità del contributo pubblico, di approvarlo liberamente, di controllarne l'impiego e di determinare la quantità, la ripartizione e la durata.

Art. 15. La società ha il diritto di chieder conto a ogni agente pubblico della sua amministrazione. [...]

Art. 17. La proprietà essendo un diritto inviolabile e sacro, nessuno può esserne privato, salvo quando la necessità pubblica, legalmente constatata, lo esiga in maniera evidente, e previa una giusta indennità.

DESTRA E SINISTRA

Nel linguaggio politico «destra» e «sinistra» indicano rispettivamente i partiti reazionari o conservatori e quelli progressisti. I termini si riferiscono ai settori tradizionalmente occupati in Parlamento dai deputati dei due gruppi, visti però dal seggio della presidenza: visti dai banchi, i deputati di destra occupano la sinistra e quelli di sinistra occupano la destra. «Centro» ha la stessa origine e sta a indicare posizioni politicamente intermedie tra destra e sinistra. Le denominazioni risalgono alle assemblee della Rivoluzione francese, l'Assemblea Nazionale Legislativa e la Convenzione.

IL TERRORE

Dall'esecuzione di Luigi XVI in poi il potere passò nelle mani della sinistra della Convenzione (detta «Montagna» perché i seggi del settore di sinistra erano sensibilmente più elevati degli altri) formata essenzialmente dai membri dei club radicali dei giacobini (detti così dall'ex-monastero di San Giacomo dove si riunivano), capeggiati da Maximilien Robespierre (1758-1794) e dei cordiglieri (anche loro dal nome di un ex-convento) capeggiati da Jacques Hebert (1757-1794) e da Georges Danton (1759-1794).
Nella Convenzione la Montagna era numericamente in minoranza. Fuori dell'assemblea poteva però contare sull'appoggio della Comune di Parigi che controllava i ceti popolari della capitale e organizzava le manifestazioni di piazza dei sanculotti (dal francese sans-culotte: «senza» culotte ossia senza quel tipo di calzoni corti che era in uso negli ambienti borghesi e nobiliari e a cui i popolani preferivano i calzoni lunghi). Queste manifestazioni costituivano un'efficace strumento di intimidazione sui deputati del centro (detto, in contrapposizione alla Montagna, ma con evidente intento spregiativo la «Palude»), che offrivano il loro voto alla sinistra. Quelli della Montagna, insomma, si trovavano a governare poggiando su una maggioranza che li seguiva controvoglia e solo perché ne aveva paura.
Gli uomini della Convenzione erano dei borghesi che volevano l'abolizione reale e non solo formale dei privilegi, e la libertà politica per tutti i cittadini. Dal punto di vista sociale non pensavano certo all'abolizione della proprietà privata né meditavano di realizzare una qualche forma di uguaglianza economica. Ponevano però l'interesse generale al di sopra degli interessi privati:

Nessun uomo - aveva detto Robespierre - ha il diritto di accumulare dei mucchi di grano accanto al suo simile che muore di fame. Il primo diritto è quello di esistere. La prima legge sociale è pertanto quella che garantisce a tutti i membri della società i mezzi per l'esistenza: tutte le altre sono subordinate a questa.

La Convenzione elaborò anche una costituzione democratica che si ispirava a questi principi e che riecheggiava le teorie di Rousseau, ma che, con la scusa dell'emergenza, fu subito sospesa in attesa di tempi migliori e poi finì col non entrare mai in vigore.
Quello della sinistra, tra il 1793 e il 1794, è passato alla storia come governo del «Terrore». Espressione di questo governo fu soprattutto il Comitato di Salute Pubblica, a cui furono attribuiti poteri amplissimi e funzioni di sovrintendenza su tutti gli organi del potere. Di fronte alla drammatica situazione prodotta dalla guerra (la coalizione antifrancese comprendeva ormai tutta l'Europa) e dalla conseguente crisi economica i capi della Montagna, premuti anche dalle richieste degli strati più bisognosi della popolazione parigina (artigiani, salariati, piccoli bottegai) dal cui sostegno dipendeva la loro autorità sull'assemblea, avevano ritenuto di dover fare ampiamente ricorso a misure di carattere eccezionale, sia per assicurare l'approvvigionamento della capitale e delle armate rivoluzionarie, sia per reprimere le manifestazioni di opposizione (la «Vandea», ad esempio, una regione della Francia dove era scoppiata una grande rivolta contadina a sfondo monarchico e clericale). Dalla primavera del 1793 si moltiplicarono i provvedimenti di polizia, i sequestri, le requisizioni, i rastrellamenti, gli arresti arbitrari, i processi sommari, le condanne a morte e le deportazioni, in un delirio di provvedimenti, che, giustificati con l'emergenza, finirono per legalizzare ogni arbitrio e sopprimere tutte le garanzie costituzionali.
In questo modo, dopo l'eliminazione dei controrivoluzionari autentici, la Rivoluzione, per usare un'espressione diventata proverbiale, prese a divorare i suoi stessi figli: prima i monarchici liberali, poi i girondini (detti così dal dipartimento della Gironda, da cui provenivano in maggioranza) che erano repubblicani moderati, infine gli esponenti della stessa sinistra. Come forse i nostri lettori hanno notato l'anno di morte di Danton, di Hebert, di Robespierre è lo stesso. Ciascuno di loro non solo aveva idee diverse rispetto ai fini della Rivoluzione, ma era fortemente propenso a identificare se stesso con la Rivoluzione e perciò a considerare nemici della Francia i propri nemici e controrivoluzionari tutti quelli che la pensavano in modo diverso dal loro. Era la prima volta che in Europa si faceva la terribile scoperta che il fanatismo non è un'esclusiva dei preti.
Eliminati Danton e Hebert, restò alla guida della Convenzione Robespierre, l'«incorruttibile». Robespierre e i suoi seguaci (primo fra tutti Saint-Just, 1767-1794, un giovane insopportabilmente virtuoso) ostentavano un'inflessibile probità con la quale presumevano di legittimare l'orribile sommarietà della giustizia rivoluzionaria: una giustizia-spettacolo, che, anche se la mannaia e il cappio erano stati sostituiti da una stupida macchinetta, la ghigliottina, recente invenzione del dottor Guillotin, non era per nulla diversa nella sua logica «esemplare» e terroristica da quella dell'antico regime. Come sempre accade quando le garanzie che la legge accorda all'individuo vengono accantonate e l'arbitrio dilaga, il Terrore, a dispetto delle prediche di Robespierre e di Saint-Just, fu soprattutto un regime di corruzione: giudici, carcerieri e delatori si potevano comprare.
Il governo giacobino oltre che di moralisti e fanatici disponeva di tecnici capaci e riuscì bene o male a portare la Francia fuori della crisi e soprattutto a riorganizzare la resistenza dell'esercito. Ma ormai la borghesia, stanca dell'emergenza e preoccupata per il continuo stato di agitazione delle classi popolari, desiderava rientrare nella normalità, assicurarsi un periodo di pace sociale e di stabilità politica. In questa aspirazione concordava il vasto ceto dei contadini che erano diventati proprietari mediante l'acquisto delle terre confiscate alla Chiesa, agli emigrati e ai controrivoluzionari.
Si chiedeva un governo capace di porre un freno al disordine, di consolidare le conquiste della rivoluzione e di garantire il rispetto della vita e della proprietà dei cittadini. Il 27 luglio 1794 (il 9 termidoro, secondo il nuovo calendario rivoluzionario, entrato in vigore nel novembre dell'anno precedente, insieme al culto della Dea Ragione), un voto della Convenzione liquidava Robespierre e i suoi.
Il potere di Robespierre fu sostituito da un governo anche più corrotto del precedente, ma di tendenze moderate; formato in gran parte da ex-terroristi, lasciò che si scatenasse un altro tipo di terrore, diretto questa volta contro giacobini e sanculotti. La Francia conservava pur sempre un regime rivoluzionario-borghese, ma l'esperimento democratico della Convenzione, che aveva saputo partorire soltanto una costituzione mai applicata, era fallito. Prima di sciogliersi, la Convenzione elaborò e approvò una nuova costituzione, che reintroduceva limiti di censo al suffragio elettorale e affidava il potere esecutivo a un direttorio di cinque membri. La borghesia teneva ora saldamente in mano il potere, mentre le classi popolari ne venivano escluse. Il processo di rientro nella normalità di cui il Direttorio era espressione si concluse nel 1799 con l'avvento al potere del generale Napoleone Bonaparte, che instaurò un governo personale e autoritario. Nei dieci anni passati dalla riunione degli Stati Generali era stata compiuta un'immensa opera di trasformazione in tutti i campi, dall'amministrazione al diritto, dall'istruzione all'assistenza, dall'economia ai sistemi di pesi e misure. Il volto della Francia nel 1799 non sarebbe più stato quello di dieci anni prima: l'ondata rivoluzionaria, pur ritirandosi, aveva lasciato tracce indelebili.

Capo della frazione giacobina della Convenzione, Maximilien Robespierre fu il simbolo del Terrore. Non fu però né il solo né il principale responsabile di questo regime. Non era nemmeno propriamente un dittatore, come pure fu chiamato, dal momento che era sostenuto dalla maggioranza nella Convenzione e che non appena la maggioranza gli negò la fiducia, si lasciò condurre, senza opporre alcuna resistenza, al patibolo assieme ai suoi amici.

NAPOLEONE

Il dominio di Napoleone durò ininterrottamente per quindici anni, dal 1799 al 1814. Nello stesso periodo e attraverso la sua opera la Francia giunse a dominare su una grandissima parte dell'Europa, trasformando antichi regimi, sostituendo sovrani, mutando condizioni civili e politiche. Anche se al termine di questa fase, nel 1815, la vecchia Europa tentò di ripristinare le condizioni precedenti e di ricostruire l'antico ordine, gli effetti di questa ventata rivoluzionaria non poterono più essere cancellati.
Napoleone Bonaparte rappresentò per la borghesia francese ed europea una garanzia di stabilità e di continuità del nuovo regime, contro gli eccessi e le avventure dei giacobini, ma anche contro i tentativi di rivincita delle forze aristocratico-feudali. I risultati fondamentali della rivoluzione dovevano essere salvaguardati e mantenuti, ma il processo rivoluzionario non doveva procedere oltre. Nel complesso Napoleone assolse a questo compito, concentrando il potere nelle sue mani e dando al suo regime un carattere monarchico reso esplicito nel 1804 con la proclamazione di un nuovo Impero a carattere ereditario.
Per impulso di Napoleone proseguì l'opera di riorganizzazione e di consolidamento delle strutture dello Stato, già avviata dal Direttorio. Fu rafforzata la polizia, accentrata l'amministrazione e venne promulgato un Codice civile (1804), che traduceva in un complesso di leggi i principi della rivoluzione, interpretando però le esigenze moderate e di stabilità sociale proprie dell'alta borghesia. Il codice sviluppava il principio dell'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, ma poneva a fondamento del diritto la difesa della proprietà privata e dell'unità familiare. Militari, tecnici e burocrati napoleonici, che si riallacciavano esplicitamente alla tradizione riformista del Settecento, erano orgogliosi del proprio ruolo di interpreti dell'interesse generale della Nazione: si può dire che abbiano rappresentato la generazione eroica della burocrazia moderna. Lo Stato burocratico-borghese dell'Ottocento avrebbe ripreso in gran parte l'esperienza dell'amministrazione napoleonica, mettendoci però meno entusiasmo e più arroganza.
In politica estera Napoleone proseguì la guerra che le principali potenze europee avevano fatto alla Francia e, grazie alle grandi capacità personali di condottiero e di stratega, ottenne una serie quasi ininterrotta di successi. L'Impero Francese (che comprendeva oltre alla Francia, la Liguria, il Piemonte, l'Olanda, l'Istria e la Dalmazia, ecc.) e gli Stati vassalli (i regni di Spagna, d'Italia, di Napoli, la Confederazione del Reno, il Granducato di Varsavia) finirono per occupare circa metà dell'intero continente. Sembrava che la potenza della Francia napoleonica fosse invincibile. Due ostacoli insuperabili a un'ulteriore espansione francese erano però rappresentati dall'Inghilterra che era padrona del mare, e dalla Russia, che opponeva all'invasione l'immensità dei suoi territori. I preparativi per un attacco all'Inghilterra restarono senza seguito e l'invasione della Russia segnò l'inizio della fine per Napoleone.
D'altra parte si erano moltiplicati i nemici di Napoleone, sia interni (i cattolici, per esempio, contrari alla politica poco amichevole nei confronti della Chiesa, che Napoleone aveva ereditato, pur attenuandola, dai governi rivoluzionari) sia esterni. Benché la borghesia dei vari Paesi europei controllati dalla Francia fosse uscita rafforzata dalla diffusione delle nuove idee e dall'instaurazione di regimi filofrancesi, i popoli nel loro complesso cominciarono a mostrare insofferenza per il dominio imperiale. Particolare ostilità suscitava nella popolazione contadina il massiccio (e forzato) reclutamento di giovani per le armate francesi.
In Spagna le truppe francesi dovettero ripiegare di fronte all'improvvisa rivolta del popolo spagnolo (1808). Poi, recuperato il controllo delle città, Napoleone fu costretto a impegnare enormi forze nell'inutile tentativo di controllare il Paese e di reprimerne la guerriglia. In Russia senza aver mai subito una vera sconfitta sul campo, Napoleone fu ugualmente costretto auna disastrosa ritirata nel pieno dell'inverno, nel corso della quale il suo esercito, afflitto dal gelo e tormentato da nugoli di guerriglieri finì per disfarsi completamente (1813).
Ricostituita una grande armata, Napoleone subì da parte delle potenze europee nuovamente coalizzate la sua prima sconfitta in campo aperto a Lipsia nell'ottobre 1813. Dopo essere stato costretto ad abdicare di fronte allo sfaldarsi del suo Impero, ed essersi nuovamente impossessato del trono nei cosiddetti «Cento giorni», fu definitivamente sconfitto a Waterloo nel giugno del 1815.
Ritratto di Napoleone Bonaparte


GUERRIGLIA

Ai primi di maggio del 1808 il popolo di Madrid si sollevò contro i Francesi che avevano occupato la città e in breve la rivolta si estese a tutta la Spagna. Il corpo di spedizione francese presente in quel momento sul territorio spagnolo contava circa 100.000 soldati, una forza notevole e per di più comandata da abili generali. Era chiaro che in uno scontro frontale gli insorti sarebbero stati facilmente vinti. Ma i combattenti spagnoli evitarono con cura di impegnarsi in battaglie in campo aperto. Divisi in gruppi sparsi per i monti e le campagne, si limitarono ad affrontare i piccoli presidi e i reparti isolati, a ostacolare i rifornimenti al nemico, a interrompere le vie di comunicazione, a fare cioè tutto quanto poteva molestare l'avversario e logorare le sue forze. Con questa tecnica per cinque anni, dal 1808 al 1813, i partigiani spagnoli inflissero perdite enormi all'esercito francese. Proprio questo straordinario successo ha fatto sì che la parola spagnola guerrilla (= «piccola guerra») sia stata dovunque assunta a indicare quel particolare modo di combattere che gli Spagnoli avevano adottato contro i Francesi.
Non sono stati gli Spagnoli, però, a «inventare» la guerriglia, che pare strettamente imparentata alle esperienze del brigantaggio. Sua caratteristica fondamentale è l'esistenza di bande, ossia di piccoli gruppi armati, che in ragione della loro mobilità e della superiore conoscenza del terreno sono in grado di affrontare con successo forze regolari molto superiori per numero, armamento e organizzazione. La migliore conoscenza del terreno è di solito legata al fatto che il gruppo guerrigliero combatte sulla terra dove i suoi componenti sono nati e cresciuti; in questo caso (che è appunto il caso dei briganti tradizionali) esso gode spesso dell'ulteriore vantaggio di muoversi tra gente amica, da cui riceve rifornimenti e assistenza.

CULTURA POPOLARE E COSCIENZA NAZIONALE

Si chiama Romanticismo quel movimento artistico, letterario e filosofico che sul finire del Settecento reagì al razionalismo illuministico (ma forse si dovrebbe dire: al gusto illuministico della ragionevolezza) in nome dei sentimenti, delle passioni, delle oscure pulsioni vitali del mistero, della fede, della tradizione, e in generale di tutto ciò che non è ragionevole. Il prussiano Johann Georg Hamann (1730-1788), concittadino e amico di Kant, può essere considerato per la sua polemica anti-illuministica il padre del Romanticismo o lui stesso il primo dei romantici: nel 1757, al termine di una delle solite crisi esistenziali, frequenti nei giovani, aveva avuto una sorta di illuminazione religiosa e trovato nella Bibbia la risposta a tutti i suoi dubbi. Da quel momento aveva preso a interpretare ogni cosa in termini di rivelazione: non solo la Bibbia, ma la natura e la storia dell'uomo portano messaggi divini alla cui comprensione è assai più idonea la poesia che la scienza, l'intuizione che la ragione.
L'intuizione ci colloca, per così dire, all'interno delle cose, permettendoci di guardare (sia pure confusamente) dentro. La ragione, invece, guarda dall'esterno, ha delle immagini chiare e distinte, ma superficiali e non vede nulla di quel che conta: l'ironia e la miscredenza degli illuministi, il loro disprezzo per le credenze e le «superstizioni» popolari, la loro condanna del passato come un lugubre cimitero di errori sono, secondo Hamann, solo la manifestazione di una radicale incomprensione.
I filosofi dell'irrazionalismo, del sentimento e della fede hanno sugli scienziati e sui filosofi razionalisti o «positivi» questo grosso vantaggio: che le loro tesi non sono mai, per definizione, verificabili. Di quel che affermano nessuno può dire: «è vero» / «è falso». Si può dire soltanto: «mi piace» / «non mi piace» Anche Hamann può piacere o no (e a chi scrive, come forse il lettore avrà capito, non è mai piaciuto). Nei riguardi degli illuministi, però, Hamann non aveva tutti i torti. La comprensione della storia non richiede necessariamente la rivalutazione reazionaria e nostalgica della tradizione (alla quale spesso si riduce lo «storicismo romantico») né la comprensione degli altri comporta l'adesione alle loro superstizioni. È certo però che esse richiedono quanto meno l'abbandono di quella che possiamo chiamare «la boria dei lumi» e cioè la presunzione di aver solo da insegnare e niente (o quasi) da imparare.
Almeno nelle intenzioni (nei fatti le cose riescono sempre un po' diverse da come le si vorrebbe) la reazione dei Romantici era diretta contro l'«astrattezza» degli Illuministi, colpevoli di cercare spiegazioni semplici per cose complicate o di ignorare le cose che non riuscivano a capire (per esempio le motivazioni inconsce o «irrazionali» del comportamento umano). Quello che in particolare irritava dell'Illuminismo era il suo ottimismo progressista e cioè l'idea stessa dei «lumi» che, con il tempo e con un po' di buona volontà, avrebbero dovuto dissipare le tenebre della superstizione e dell'ignoranza che avvolgevano il mondo, garantendo così «le magnifiche sorti e progressive» dell'umanità (come ironicamente ebbe a definirle Giacomo Leopardi).
Il guaio era che questi «lumi», che avrebbero dovuto portare nel mondo la luce universale della ragione, qualche volta rappresentavano soltanto le ragioni particolari di un potente ma ristretto partito di intellettuali, che aveva centomila buoni motivi per combattere l'«oscurantismo» (come si cominciava a chiamare) di preti e reazionari d'ogni sorta, ma aveva anche la pericolosa tendenza a liquidare come superstizione o ignoranza le buone ragioni altrui. L'Illuminismo aveva indicato la radiosa e rettilinea strada del progresso e aveva invitato gli uomini di buon senso a percorrerla con decisione verso un futuro migliore. I romantici erano attratti invece dalla storia quale concretamente si era venuta svolgendo dal tempo dei tempi, piena di brutture e contraddizioni e seguendo percorsi forse difficili da rintracciare, tortuosi, ingombri di rovine, ma non per questo privi di significato.
Dal loro nuovo apprezzamento del sentimento e della tradizione, i romantici trassero due grandi scoperte (e forse bisognerebbe dire «invenzioni»): la cultura popolare e la coscienza nazionale. Uno dei massimi esponenti dello storicismo romantico, il tedesco Johann Gottfried Herder ha dato una delle prime definizioni moderne di «nazione»: se la immaginava come una sorta di organismo vivente, la cui anima però va cercata nella lingua e nelle tradizioni popolari, non nelle produzioni dei dotti e degli intellettuali. I canti popolari, le fiabe, i proverbi, ecc. erano per Herder le espressioni autentiche della creatività di un popolo. Compito degli intellettuali, allora, era di studiarli e raccoglierli come preziose testimonianze dello spirito di una Nazione, manifestazioni delle sue peculiarità morali e culturali.
I romantici cominciavano così a farsi propugnatori di una serie di nuovi valori collettivi (estranei all'individualismo illuministico) come Patria, Nazione, Popolo e simili, su cui gli illuministi intuendone la pericolosità, ma in mancanza di più precise informazioni, avevano per lo più ironizzato, forse nella speranza che si trattasse soltanto di fumose escogitazioni letterarie e di invenzioni di rétori. La diffidenza degli illuministi era tutt'altro che ingiustificata. All'inizio l'idea di Nazione era un prodotto relativamente innocente dell'immaginazione romantica. Esprimeva contro il cosmopolitismo illuminista, la coscienza delle diversità culturali e il desiderio di conservarne le peculiarità. Nel corso dell'Ottocento però avrebbe subito equivoche deformazioni; il sentimento della nazionalità si sarebbe affermato principalmente come aggressività e fanatismo e spesso indipendentemente dall'esistenza di qualsiasi realistico riferimento a una tradizione o a una cultura nazionale (un poco come accade nella religione, dove che Dio esista davvero non conta affatto; basta crederci). Assunto come strumento della politica di potenza, poi, il mito della Nazione, da immagine della pluralità delle tradizioni collettive e dei valori umani si sarebbe rovesciato in pura e semplice negazione dell'umanità.

JOHANN GOTTFRIED HERDER

Johann Gottfried Herder (1744-1803) fu allievo di Kant e amico di Hamann, dal quale imparò l'avversione per la «fredda» ragione illuministica. Concepiva il popolo (o Nazione) come unità organica che si contrappone allo Stato-macchina proprio del dispotismo illuminato. Il linguaggio era per Herder l'espressione genuina dell'anima del popolo: c'era quindi un intimo legame tra l'anima di un popolo, la sua lingua e la sua poesia. Nel 1770 Herder incontrò a Strasburgo il giovane Goethe; dalle loro conversazioni scaturì il volumetto di saggi Sul carattere e l'arte dei tedeschi (1773), dove contrapponeva la poesia popolare, che considerava la vera unica poesia, a quella d'arte, corrotta dall'intellettualismo e dove esaltava Shakespeare come poeta «germanico» e perciò (con arbitraria equivalenza) «tedesco» e «popolare» (anticamente deutsch significava appunto «popolare»).

IL TRONO E L'ALTARE

Con la caduta di Napoleone le potenze vincitrici, Austria, Inghilterra, Prussia e Russia, si proposero di ricostruire l'assetto politico e territoriale esistente in Europa prima della Rivoluzione francese. I rappresentanti delle cinque grandi potenze (le quattro vincitrici più la Francia) e quelli dei minori Stati europei (i quali però non avevano il potere di influire direttamente sulle decisioni) si riunirono a Vienna dal novembre del 1814 al giugno del 1815 e stabilirono con una serie di trattati il nuovo ordinamento dell'Europa destinato a restare inalterato fin verso il 1830 e in buona parte d'Europa addirittura fino al 1848. Il periodo seguito al Congresso di Vienna è chiamato «l'età della Restaurazione» perché segnato all'interno dei singoli Paesi dal ritorno dei vecchi regimi assolutistici e nei rapporti internazionali dalla ripresa dei tradizionali princìpi della legittimità e dell'equilibrio (quest'ultimo in particolare aveva cominciato ad affacciarsi a metà Seicento, nella pace di Westfalia, e aveva ispirato il lavoro della diplomazia europea per tutto il Settecento).
In base al primo di questi princìpi il Congresso di Vienna si propose di ricostituire gli Stati esistenti prima della Rivoluzione e di ristabilire le legittime dinastie cacciate da Napoleone. In base al secondo volle dar vita ad un sistema di potenze che si equivalessero come potenziale aggressivo in modo da impedire che una di loro prendesse il sopravvento sulle altre o tentasse di svolgere una politica espansionistica. I governi rivoluzionari e Napoleone sotto questo punto di vista avevano rappresentato un ritorno allo spregiudicato espansionismo di Luigi XIV, con l'aggravante che imprese militari e conquiste territoriali non rispondevano a una pura politica di potenza, ma, almeno in teoria, tendevano a sovvertire l'ordine sociale esistente e ad esportare fuori della Francia gli ideali della Rivoluzione.
Il fine comune dei governi riuniti a Vienna era la costruzione di un sistema che garantisse il mantenimento della pace da un lato e la conservazione sociale e politica dall'altro. Ogni governo perseguiva, poi, obiettivi suoi propri, ai quali cercava una legittimazione nel consenso delle altre potenze. L'Inghilterra, per esempio, aveva innanzi tutto la preoccupazione di consolidare il suo impero marittimo e coloniale. La Francia doveva riuscire, benché sconfitta, a svolgere un ruolo di grande potenza e a recuperare i confini che aveva prima della Rivoluzione.
Il principio della legittimità fu applicato con diverse eccezioni suggerite dalla preoccupazione preminente di conservare l'equilibrio. L'equilibrio, infatti, richiedeva una certa semplificazione della carta politica d'Europa, mediante opportuni accorpamenti di territori, e la costruzione di un cordone di Stati-cuscinetto intorno alla Francia, che per ben due volte in un secolo e mezzo aveva turbato l'equilibrio europeo, prima con Luigi XIV e poi con Napoleone, e che perciò continuava ad esser guardata con sospetto. Questi Stati-cuscinetto dovevano essere abbastanza forti da resistere validamente a un'eventuale aggressione, ma non tanto forti da costituire essi stessi un pericolo per la pace: furono il nuovo Regno dei Paesi Bassi (che riuniva dopo due secoli e più di separazione l'Olanda e il Belgio), il vecchio Regno di Sardegna (a cui si consentì di assorbire l'antica Repubblica di Genova) e la Confederazione Elvetica, di cui si proclamò la neutralità perpetua. L'altra antica e gloriosa repubblica italiana, quella di Venezia, andò a costituire con la Lombardia già austriaca il nuovo Regno del Lombardo-Veneto affidato all'imperatore d'Austria, come caposaldo di una sfera d'influenza estesa a tutta la penisola e riconosciuta dalle altre potenze. Anche la Prussia e la Russia ebbero dal Congresso alcuni ingrandimenti territoriali e si trovarono a confinare la prima con l'Austria e la Francia, la seconda con l'Austria e la Prussia. In Italia il predominio austriaco poggiava, oltre che sul dominio diretto sul Lombardo-Veneto, sul controllo di altri tre Stati, il Ducato di Parma, il Ducato di Modena e il Granducato di Toscana, su cui regnavano altrettanti principi asburgici o imparentati con gli Asburgo. L'influenza austriaca si estendeva poi anche allo Stato Pontificio con l'occupazione armata di alcune sue piazzeforti e al Regno delle Due Sicilie grazie a trattati d'alleanza. Completamente indipendente poteva dirsi il Regno di Sardegna che, come si è detto, era stato ingrandito con l'annessione dei territori dell'antica repubblica di Genova in funzione antifrancese, ma che era anche in grado, all'occorrenza, di bilanciare la potenza dell'Austria in Italia (una funzione a cui lo avrebbe incoraggiato in particolare il Governo inglese).
Per rendere più stabile questa sistemazione si volle dare vita a una vera e propria organizzazione internazionale, la Santa Alleanza, che prevedeva qualche rinuncia all'assoluta sovranità degli Stati membri. Proposto nel settembre 1815 dallo zar Alessandro I, firmato dalla Russia, dall'Austria e dalla Prussia (non però dall'Inghilterra che lo reputava illusorio e pericoloso per i suoi interessi) e aperto alla adesione di altri governi, il trattato della Santa Alleanza esprimeva l'impegno delle potenze a collaborare tra loro fraternamente e a governare secondo «precetti di giustizia, di carità e di pace». L'ideologia della Santa Alleanza era assai confusa, ma l'Austria, abilmente guidata dal suo primo ministro, il principe di Metternich (1773-1859), ne fece molto concretamente uno strumento di reazione e di repressione. Fu infatti stabilito che le potenze avrebbero agito concordemente per mantenere in Europa i regimi esistenti stroncando dovunque, anche con le armi, ogni tentativo sovversivo e ogni opposizione liberale.
La Restaurazione si presenta dunque come l'epoca del trionfo della reazione e dell'assolutismo. Ritornava l'ancien régime. Ritornavano dinastie e sovrani legati ai vecchi ordinamenti e a sorpassate idee politiche e sociali. Tornava il vecchio personale politico, deciso a soffocare le tendenze innovatrici (se necessario con ferree misure di polizia) e spesso indotto a ricorrere alla forza per l'incapacità di fare altro. Tornavano soprattutto i membri dei vecchi ordini privilegiati, nobili e preti, con una pericolosa carica di rancore e con la ferma intenzione di recuperare i beni, le terre, le posizioni di privilegio perdute con la Rivoluzione. Nell'antico regime nobiltà, Chiesa, monarchia si erano spesso trovate in conflitto ed anzi proprio le loro divisioni avevano innescato in Francia la bomba rivoluzionaria. Ora si ritrovavano strettamente solidali nella battaglia contro gli ideali nazionali, liberali o democratici: la nobiltà aveva perso il gusto di fare la fronda al potere, e le monarchie avevano rinunciato del tutto agli ideali laici ed umanitari del dispotismo illuminato, sostituiti da uno stucchevole e ipocrita paternalismo. Nel ricordo dello scampato pericolo comune e sulla base del generale bigottismo delle classi dirigenti restaurate nasceva una nuova e più salda alleanza fra trono e altare.
Da questa politica autoritaria e repressiva si sentivano minacciati soprattutto i ceti borghesi (banchieri, imprenditori, ricchi e modesti possidenti, industriali e commercianti, intellettuali, professionisti) che si erano affermati con la Rivoluzione e poi con Napoleone. Naturalmente non fu possibile distruggere d'un soffio tutto quello che era stato fatto nel periodo napoleonico, così come era difficile cancellare le aspirazioni espresse dai regimi nati in tutta Europa dalla Rivoluzione. Rimasero pertanto in vigore in molti casi leggi, istituti, disposizioni amministrative, ordinamenti finanziari e militari dell'epoca rivoluzionaria e napoleonica.
Le spinte liberali ed innovatrici trovavano in ogni caso un potente supporto nelle trasformazioni economiche e sociali che negli anni della Restaurazione assunsero un ritmo sempre più rapido in rapporto ai processi di industrializzazione che avevano avuto avvio nell'Inghilterra del secondo Settecento. I progressi nella ricerca scientifica e matematica e le scoperte nel campo della chimica, della fisica, della meccanica rivoluzionarono gradualmente l'agricoltura, l'industria, tutta quanta l'economia, e quindi i costumi ed il modo di vivere. È sufficiente pensare al sorgere delle prime fabbriche meccanizzate, o al grande sviluppo dei trasporti e delle vie di comunicazione. Si ebbero allora le prime applicazioni dell'illuminazione a gas e l'introduzione di nuovi sistemi nella produzione e nella lavorazione del ferro, sempre più largamente impiegato per usi civili e militari. E di pari passo con questi progressi esplose quella che avrebbe rappresentato nell'Ottocento europeo il problema dei problemi: la questione operaia, ossia l'insieme delle situazioni di conflitto sociale determinate dall'esistenza di un proletariato industriale sempre più numeroso e sottoposto a condizioni di vita e di lavoro troppo spesso disumane.

RIVOLUZIONI E MOTI DOPO IL CONGRESSO DI VIENNA

I primi tentativi di rovesciare o di modificare l'assetto politico dell'Europa stabilito dal Congresso di Vienna (e difeso dalla Santa Alleanza in base al principio del reciproco aiuto tra regimi reazionari), maturati soprattutto nell'ambiente degli ufficiali dell'esercito, si concretarono già all'inizio degli anni Venti. La rivoluzione iniziata in Spagna nel 1820 con l'ammutinamento delle truppe al comando del colonnello Rafael Riego quella di Napoli nello stesso 1820 e quella, assai più modesta, scoppiata in Piemonte nel 1821, portarono all'instaurazione di regimi costituzionali che furono però liquidati più o meno rapidamente dall'intervento militare della Santa Alleanza. La rivolta dei decabristi (dal russo dekabr = «dicembre») in Russia, promossa, come le precedenti, da gruppi di giovani ufficiali, fu repressa, nel dicembre del 1825, nel giro di ventiquattr'ore. Ebbe successo invece la rivoluzione del luglio 1830 in Francia, che portò alla caduta dei Borboni e all'avvento al trono di Luigi Filippo d'Orléans, figlio di quel Filippo Egalité il cui voto era stato decisivo nel gennaio del 1793 per la condanna a morte di Luigi XVI (il regno di Luigi Filippo è noto anche come «Monarchia di Luglio», dal mese della sua assunzione al trono). Come contraccolpo della rivoluzione di luglio in Francia si ebbe tra l'agosto e l'ottobre l'insurrezione del Belgio contro il dominio olandese, che si concluse con il riconoscimento dell'indipendenza belga. Quella della Polonia contro il dominio russo fu invece sanguinosamente soffocata nel settembre del 1831: «L'ordine regna a Varsavia» è l'infelice frase, diventata poi proverbiale, con cui il ministro degli esteri francese volle «diplomaticamente» comunicare alla Camera la fine della rivolta polacca, che per resistere aveva contato proprio sull'appoggio della Francia. Anche i moti del 1831 a Modena, a Parma e nelle Marche, subito repressi con l'intervento di truppe austriache, si possono considerare ripercussioni del luglio francese.

LE SOCIETÀ SEGRETE

Nell'impossibilità di esprimersi apertamente, gli ideali di libertà, di indipendenza nazionale, d'uguaglianza o anche soltanto i sentimenti di malcontento e d'ostilità contro i regimi restaurati dal Congresso di Vienna, trovarono sbocco nelle società segrete. Diffuse in tutta Europa sotto nomi diversi (Carbonari, Adelfi, Federati, ecc.) talvolta, come la Massoneria, risalenti al secolo precedente, avevano programmi ed obiettivi diversi: c'era chi aspirava alla repubblica e chi voleva soltanto una monarchia costituzionale, e c'erano naturalmente i nostalgici di quella particolarissima forma di dispotismo illuminato e burocratico che era rappresentata dall'Impero di Napoleone; non mancavano i democratici accesi e, addirittura, i comunisti. Molte delle congiure e delle insurrezioni che costellarono il periodo della Restaurazione sono riconducibili all'attività delle società segrete.

L'INDIPENDENZA DELL'AMERICA LATINA

La Restaurazione in Europa e la formazione della Santa Alleanza ebbero immediate ripercussioni nell'America latina, dove nell'età napoleonica le comunicazioni tra le colonie e la madrepatria si erano interrotte per l'azione della flotta inglese, padrona dell'Atlantico. Le colonie avevano dovuto aprire i porti alle navi delle potenze neutrali mettendo così fine, almeno provvisoriamente al monopolio commerciale spagnolo e portoghese. È quasi inutile dire che questa situazione fu accolta con grande favore dai commercianti e dagli uomini d'affari, che avevano finalmente la possibilità di sperimentare i vantaggi del libero commercio. Quando, al termine del conflitto europeo, la Spagna e il Portogallo vollero ritornare al vecchio regime di monopolio, le colonie si ribellarono. Nella lotta di liberazione ebbe un ruolo importante l'esempio delle tredici colonie dell'America del Nord che alcuni decenni prima si erano liberate dal dominio inglese. Ma un ruolo ancora più importante ebbero i suggerimenti e gli aiuti che venivano dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti. Questi due Paesi vedevano nella disgregazione del dominio coloniale della Spagna e del Portogallo la possibilità di entrare da dominatori nell'immenso mercato dell'America latina.
Il Brasile ottenne l'indipendenza in modo pacifico. Negli anni del dominio di Napoleone in Europa la famiglia reale portoghese si era rifugiata in colonia e quando il re era tornato in patria, vi era rimasto il figlio, Don Pedro. Al tentativo portoghese di restaurare in Brasile il vecchio regime coloniale seguì la secessione e la proclamazione dello stesso Don Pedro a imperatore del Brasile. L'indipendenza delle colonie spagnole fu invece assai più contrastata e sanguinosa, anche per le divisioni esistenti tra le classi dirigenti, una frazione delle quali era favorevole al mantenimento del dominio spagnolo.
Protagonisti della liberazione delle colonie spagnole furono José de San Martin e Simon Bolivar. Al termine di una guerra durata quasi un decennio, Bolivar si impadronì delle province di Nuova Granada, Venezuela e Quito che nel dicembre del 1819 andarono a formare lo Stato indipendente della Grande Colombia. Il centro della resistenza spagnola era il Perù dove il viceré poteva contare sull'appoggio della popolazione. Proprio per colpire questa roccaforte spagnola José de San Martin, che nel frattempo aveva liberato la regione della Plata (Argentina), con una marcia leggendaria attraverso le Ande portò il suo esercito prima in Cile, liberato nel 1818, e poi, nel 1821, in Perù; qui l'esercito di San Martin, per evitare di attraversare le regioni desertiche che si estendono tra i due Paesi, arrivò via mare, trasportato dalla flotta inglese. Dal Nord comunque, dove esercitava una sorta di dittatura, anche Bolivar penetrò in Perù e San Martin, dopo essersi incontrato con il concorrente, preferì ritirarsi per non pregiudicare la causa dell'indipendenza.
In quasi tutto il continente sudamericano il movimento di liberazione fu diretta dalle famiglie creole, quelle che si aspettavano dall'indipendenza i maggiori vantaggi; non mancarono però rivolte a carattere popolare come quella del Messico tra il 1810 e il 1815. Sotto la guida di due preti, il creolo Miguel Hidalgo e il meticcio José Maria Morelos (entrambi catturati e giustiziati dagli Spagnoli, il primo nel 1811, il secondo nel 1815) la rivolta antispagnola in Messico aveva assunto uno spiccato carattere sociale con larga partecipazione degli strati più miserabili della popolazione, i peones. Proprio per questo non ebbe l'appoggio dei creoli e si scontrò con la ferma opposizione della Chiesa. La Chiesa e le classi superiori promossero invece la secessione quando in Spagna, in seguito al moto rivoluzionario del colonnello Riego del 1820, si era stabilito un Governo a tendenze democratiche.
Fu in questa occasione che il presidente degli Stati Uniti, James Monroe, nel dicembre del 1823, per prevenire un possibile intervento delle forze della Santa Alleanza nelle ex colonie spagnole, ma anche per scalzare l'influenza inglese nell'America latina, in un messaggio al Congresso formulò la celebre «dottrina Monroe», secondo la quale «i continenti americani, grazie alla condizione libera e indipendente che hanno acquistata e che intendono conservare, non possono essere considerati oggetto di future colonizzazioni da parte di nessuna potenza europea», sicché qualunque intervento militare europeo in una qualsiasi parte dell'America latina sarebbe stato senz'altro interpretato come «manifestazione di disposizioni ostili» nei confronti degli Stati Uniti stessi. Gli Stati Uniti, insomma, pretendevano una sorta di tutela nei confronti dell'America latina, che sapeva già molto 0pesantemente di imperialismo.
Al termine delle lotte di liberazione i nuovi Stati indipendenti nell'America latina erano una decina, ma il loro numero era destinato a crescere negli anni seguenti. Nel 1826, al Congresso di Panama, il tentativo di Bolivar di unire le ex colonie spagnole fallì anche per l'opposizione della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, che, interessati a sfruttare economicamente l'America latina, non volevano la nascita di uno Stato troppo potente. Subito dopo il congresso la Grande Colombia si divise in Colombia, Venezuela e Ecuador. Tra il 1825 e il 1828 nel corso della guerra scoppiata tra le Province Unite della Plata (Argentina) e il Brasile, nacque l'Uruguay. Nel 1839 le Province Unite dell'America centrale si suddivisero in Guatemala, San Salvador, Honduras, Nicaragua, Costarica. I problemi di confine costituirono un perenne motivo di attrito e provocarono una serie di guerre, come quella del 1836-1848 del Cile e dell'Argentina contro la Bolivia, quella del 1865-1870 del Paraguay contro l'Uruguay, l'Argentina e il Brasile, quella del 1879-1884 (detta Guerra del Pacifico) del Perù e della Bolivia contro Cile.
Non di rado dietro questi conflitti c'erano gli interessi delle potenze europee o degli Stati Uniti. La Guerra del Pacifico, ad esempio, fu vinta dal Cile con l'aiuto degli Inglesi interessati ai giacimenti di salnitro che erano oggetto della contesa. Tipica a questo riguardo fu, nel nostro secolo, la guerra detta del Chaco dalla regione desertica che due compagnie petrolifere concorrenti si disputavano nella speranza di trovarvi petrolio: gli eserciti boliviano e paraguaiano si massacrarono per anni e quando la guerra finì con la spartizione della regione contestata (e con 80.000 morti per la Bolivia e 50.000 per il Paraguay) si scoprì che il petrolio non c'era.
La vita interna dei Paesi latino-americani fu sin dall'inizio assai turbolenta. Tutti gli Stati, ad eccezione del Brasile, conobbero faticosi periodi di assestamento e cambiarono spesso forma di governo attraverso insurrezioni, pronunciamenti militari e colpi di Stato. Tra le cause di questa situazione c'era il caudillismo, vale a dire il fenomeno per il quale la partecipazione politica delle masse popolari si esprimeva innanzi tutto nell'aggregarsi intorno a un capo, caudillo. I caudillos, che non di rado erano meticci, prendevano spesso posizione contro le aristocrazie creole e si conquistavano l'appoggio dei contadini propugnando la riforma agraria. Quando però giungevano al potere raramente erano capaci di organizzare un governo efficiente e, soprattutto, di mantenere le promesse di riforma.
L'altro perenne elemento di tensione era rappresentato dall'esercito che, guidato da ufficiali creoli, tendeva invece a schierarsi con i grossi proprietari terrieri.
Il problema dell'esercito era complicato nell'America latina dal fatto che la carriera militare rappresentava per molti il solo modo possibile di affermazione e di successo, essendo ogni importante iniziativa economica nelle mani degli stranieri. Ciò spiega perché Stati con una popolazione modesta avessero un numero di soldati assolutamente sproporzionato al bisogno e perché in tutti i Paesi latino-americani la casta militare abbia sempre esercitato (e continui ancora ad esercitare) un ruolo decisivo nella vita politica.

L'EUROPA DEL PROGRESSO

L'Ottocento è stato il grande secolo dell'Europa e soprattutto il grande secolo della borghesia. Negli anni della Rivoluzione francese (una rivoluzione politica che di solito si qualifica per «borghese»), in Inghilterra aveva preso avvio un'altra rivoluzione, di natura completamente diversa, ma che aveva avuto davvero per protagonista la borghesia e che era destinata ad avere effetti ancor più sconvolgenti e non solo in Europa, ma in tutto il mondo: la Rivoluzione industriale.
Nel corso dell'Ottocento, il «contagio industriale» (come fu chiamato) si è comunicato dall'Inghilterra a gran parte dei Paesi dell'Europa centro-occidentale e agli Stati Uniti. In Russia e in Italia l'industrializzazione ha preso avvio solo tra la fine del secolo scorso e gli inizi del nostro: in precedenza c'erano state diverse avvisaglie che però, sebbene fossero servite a formare nuclei di classe operaia e a far maturare nei ceti borghesi una cultura tecnica e imprenditoriale, si erano dimostrate incapaci di durare e di estendersi. Il solo Paese non occidentale a entrare nel novero dei Paesi industrializzati fu, sempre alla fine dell'Ottocento, il Giappone. Gli altri furono generalmente condannati al sottosviluppo e cioè a vedere aumentare costantemente fino ad apparire pressoché incolmabile la distanza (in inglese: gap) dai Paesi avanzati.
Gli immensi progressi dell'economia e della tecnica che dall'Inghilterra si sono in questo modo irradiati verso il resto del mondo hanno mutato profondamente il modo di vivere e di pensare della gente. Le trasformazioni più vistose si sono avute nel campo dei mezzi di comunicazione e di trasporto, che hanno subito una trasformazione radicale. Qui il grande fatto nuovo sono state le ferrovie. Nel 1830 fu inaugurata in Inghilterra la linea ferroviaria Liverpool-Manchester, prima combinazione pratica della scoperta della macchina a vapore con l'idea della strada ferrata. Da quel momento una rete sempre più grande di strade ferrate cominciò a ricoprire il suolo dell'Europa e poi del Nord America, con un ritmo particolarmente rapido dopo il 1850. La ferrovia rivelò subito la sua importanza come mezzo di trasporto per merci voluminose e pesanti. Ma presto si mostrò utile e comoda anche per il trasporto di uomini, e così le stazioni si arricchirono di buffet e ristoranti, che accoglievano i viaggiatori e davano loro ristoro. La velocità dei treni, per quanto oggi possa apparire modesta era un notevole progresso rispetto alle possibilità precedenti: 30 km orari erano una gran cosa nel 1830 e ancor più i 50/60 km orari raggiunti sulle ferrovie inglesi intorno al 1850.
Accanto alla ferrovia, l'altra grande innovazione che rivoluzionò il campo dei trasporti fu la navigazione a vapore. L'affermazione del vapore in campo marittimo non fu né rapida né semplice. Il vantaggio del nuovo sistema era evidente, perché si poteva navigare senza dipendere dal vento, e questo era particolarmente importante per le navi da guerra. Ma se la velocità era maggiore, la capienza dello scafo era minore, perché il motore e le primitive ruote a pale portavano via molto spazio. Inoltre, se il vento non era mai costato niente, non si poteva dire lo stesso del carbone. Così le navi a vapore cominciarono ad essere impiegate specialmente sui brevi percorsi, talvolta con un sistema misto di vele e di motore a vapore. Solo più tardi, quando il problema dello spazio e dell'efficienza venne risolto sostituendo al sistema delle ruote a pale la propulsione ad elica, vennero usate anche nei viaggi transoceanici. Più o meno nello stesso tempo il ferro cominciò a sostituire il legno nella costruzione di scafi che risultavano più grandi e sicuri.
Se i trasporti diventavano in questo modo più rapidi e meno costosi, anche le notizie cominciarono a correre per il mondo a maggiore velocità, contribuendo a dare l'impressione che la Terra fosse improvvisamente diventata più piccola. Un importante passo in questa direzione fu rappresentato dal telegrafo: servizi telegrafici anche a carattere internazionale si svilupparono in modo particolare tra il 1840 e il 1850. Nel 1851 si poté comunicare telegraficamente dall'Inghilterra al continente, grazie ad un cavo sottomarino collocato tra Dover e Calais. Nel 1866 ciò fu possibile anche tra l'America e l'Europa, mediante il primo cavo transoceanico. Anche i servizi postali in questo periodo divennero più rapidi e organizzati e si avvantaggiarono dei progressi dei mezzi di trasporto. Nel 1840 l'Inghilterra adottò il francobollo, che è un sistema molto semplice di riscuotere la tariffa del servizio, mettendola a carico del mittente e non (come era consuetudine in passato) del destinatario.
Se tutte queste novità avevano reso possibile una rapida trasmissione delle notizie, lo sviluppo del giornalismo ne assicurò un'ampia diffusione e circolazione. In verità all'inizio i giornali più che notizie riportavano commenti e opinioni e avevano un pubblico e un raggio di circolazione abbastanza limitato. Solo gradualmente cominciarono ad assumere l'aspetto che hanno oggi, dove al lettore è offerta una larga informazione, opportunamente evidenziata dai titoli e organizzata in spazi e in pagine specializzate, e dove sono ospitati in misura sempre più ampia avvisi e disegni pubblicitari. Ad accrescere il numero dei lettori concorse la diminuzione del prezzo resa possibile dalle innovazioni tecniche nel campo della stampa e della fabbricazione della carta, dalla diminuzione dei costi di trasporto e di spedizione e infine dall'aumento delle inserzioni pubblicitarie.
Alcuni giornali cercarono di attirare l'interesse di un pubblico ancora più vasto di lettori puntando più che sull'informazione politica e culturale, sulla cronaca, nera e rosa, e cioè dando largo rilievo a fattacci, pettegolezzi, scandali. Uno dei primi giornali del genere fu Le Figaro, un settimanale parigino diventato quotidiano nel 1866 Tra i più prestigiosi giornali del mondo bisogna ricordare l'inglese Times, che nel 1850 tirava 55.000 copie, e 70.000 nel 1870. A quell'epoca tuttavia altri giornali lo superavano in tiratura, come il Daily Telegraph, anch'esso inglese, che nel 1870 tirava dalle 175 alle 190 mila copie.
Il giornale divenne ben presto uno strumento efficacissimo di formazione dell'opinione pubblica, e quindi di pressione politica. A proposito dell'influenza esercitata dalla stampa nella vita politica di un Paese si parlò di un «quarto potere» oltre ai tre (legislativo, esecutivo e giudiziario) in cui si articola l'autorità di uno Stato. Un caso clamoroso fu quello dei servizi giornalistici realizzati durante la guerra di Crimea dal Times, le cui rivelazioni sull'inefficienza militare inglese provocarono la caduta del Governo.
A partire specialmente dal 1830 e almeno nelle grandi metropoli dell'Occidente, la vita sembrò assumere un ritmo accelerato e un tono più intenso. La circolazione degli uomini, delle merci, delle notizie, si era fatta più rapida. Di ogni cosa c'era un'abbondanza mai vista. L'idea di «progresso», giustificata dagli straordinari successi della società industriale, era diventata popolare pervadendo la mentalità e il costume della gente. È vero che gran parte della popolazione non disponeva ancora del reddito necessario per godere dei benefici di questi progressi; è vero che anche le tecniche della guerra erano diventate più efficaci, preparando un'epoca di distruzioni senza precedenti; ed è vero che la ricchezza e la potenza dei Paesi occidentali poggiavano sullo sfruttamento di grandi masse di salariati al loro interno e di ancor più vaste masse di diseredati nei Paesi coloniali.
Ma per il momento a quest'altra faccia della civiltà occidentale si preferì non prestare troppa attenzione: con eccessivo ottimismo i più pensavano che si trattasse degli inevitabili ma temporanei inconvenienti di un progresso che, alla fine, avrebbe ripagato tutti (e con abbondanza) dei sacrifici sopportati.

NASCITA E SVILUPPO DELLA SOCIETÀ INDUSTRIALE

Alla Rivoluzione industriale è legata una generale e rapida trasformazione della società riconducibile principalmente a due processi: la formazione di una ristretta borghesia di industriali e di imprenditori capitalisti, e, all'altro capo della scala sociale, la nascita di una classe operaia destinata a restare sino ai nostri giorni il nucleo di condensazione di tutte le tensioni sociali. Industriali e imprenditori capitalisti provenivano dalle classi sociali più disparate: professionisti, commercianti, proprietari terrieri, piccola borghesia rurale (contadini agiati, affittuari) o urbana (artigiani, bottegai, tecnici, impiegati). Anche il proletariato di fabbrica era un aggregato di diseredati di provenienze diverse: ex contadini, ex artigiani, vagabondi, ecc. Rispetto ai ceti poveri tradizionali e alle preesistenti classi lavoratrici urbane la moderna classe operaia costituiva però una formazione sociale nuova, con caratteristiche del tutto peculiari.
La sostituzione del vecchio laboratorio artigiano e del sistema dell'industria a domicilio con la grande fabbrica moderna aveva significato per gli operai condizioni di lavoro per molti aspetti peggiori di quelle dell'età preindustriale. L'artigiano indipendente, il contadino, il lavorante a domicilio (che spesso era anche un contadino), pur non risparmiando fatica, potevano graduare la durata e l'intensità dello sforzo fisico a seconda delle loro forze. L'operaio industriale, al contrario, doveva lavorare sotto l'occhio del padrone e dei sorveglianti seguendo una disciplina durissima, spesso stupidamente dura, talvolta disumana. La dipendenza dell'operaio dal padrone o dal sorvegliante era massima: la cosa più simile alla fabbrica che ci fosse nel passato della moderna classe operaia era la caserma o la prigione.
L'orario di lavoro era interminabile: dodici, quattordici e anche più ore al giorno con intervalli di pochi minuti. Il contadino o l'artigiano tradizionale forse non lavoravano di meno, almeno d'estate, ma scandivano la giornata secondo ritmi naturali: lavoravano alla luce del giorno (il che significa che le giornate di lavoro avevano durate diverse nelle diverse stagioni), mangiavano quando avevano fame, ecc. Nel sistema di fabbrica, invece, era l'orologio a stabilire la durata della giornata di lavoro; era la sirena a dare il segnale dell'inizio e della fine della giornata; il lavoro notturno o comunque con illuminazione artificiale, un tempo piuttosto raro, divenne la norma, ecc. Ma tutto in fabbrica era innaturale: gli odori, i rumori, l'aria stessa che si respirava. Spesso il lavoro del contadino nei campi non era più salubre di quello dell'operaio in fabbrica, ma il contadino era abituato alle condizioni nelle quali lavorava, l'operaio no, e occorsero decenni perché riuscisse ad adattarsi all'ambiente ed alla disciplina di fabbrica.
Fuori della fabbrica le condizioni degli operai non erano migliori. La concorrenza delle grandi aziende capitalistiche, industriali e agrarie, rovinava economicamente piccoli artigiani e contadini, che andavano ad aumentare il numero degli uomini disponibili per il lavoro nelle fabbriche. Questo continuo flusso di nuova manodopera faceva diminuire i salari e aumentava per tutti il pericolo della disoccupazione. I salari consentivano la semplice sussistenza e talvolta neppure questa: abitazioni, alimentazione, abbigliamento erano miserabili, le condizioni igieniche disastrose. Le testimonianze dei contemporanei, economisti, giornalisti, funzionari pubblici, sono concordi nel dipingere a fosche tinte l'esistenza della classe operaia durante la prima fase della Rivoluzione industriale. Sembra certo che in Inghilterra fra il 1780 circa e il 1840, nonostante lo straordinario sviluppo economico legato appunto alla Rivoluzione industriale, le condizioni di vita delle classi povere e lavoratrici non solo non siano migliorate rispetto alle epoche precedenti, ma siano addirittura peggiorate. Lo confermano, tra l'altro, i dati relativi alla mortalità, che risulta in aumento, e quelli relativi alle condizioni di salute.
Solo verso il 1840, l'enorme espansione produttiva e la crescente combattività e organizzazione della classe operaia resero possibile sensibili miglioramenti nel tenore di vita, prima in Inghilterra e poi, più o meno rapidamente, in altri Paesi industrializzati d'Europa. Resta il fatto che l'edificazione della moderna società industriale è stata resa possibile dalla sofferenza di intere generazioni di lavoratori che non hanno ottenuto neppure una parte dei benefici delle formidabili trasformazioni rese possibili dal loro lavoro. La cosa non è vera soltanto per la Rivoluzione industriale inglese: si è ripetuta, sia pure in forme sempre diverse, per ogni altro Paese che ha avuto la fortuna (perché di fortuna in ogni caso si tratta) di imboccare la stessa strada. Dopo duecento anni dalla prima Rivoluzione industriale, e cadute molte illusioni relative al carattere automatico dello sviluppo, resta un problema capire in che modo, ossia sulla base di quale organizzazione sociale, sia possibile avviare un reale processo di industrializzazione e di crescita economica senza pagare prezzi così alti in termini di sofferenze umane.

IL PASSATO DELLA CLASSE OPERAIA

Accanto alla nuova classe operaia continuarono ad esistere artigiani tradizionali e lavoratori indipendenti, specialmente in certi settori come la tessitura della lana o della seta, che richiedevano un alto livello di abilità manuale, che non sempre le macchine riuscivano ad eguagliare. Qui la vecchia organizzazione dell'industria «dispersa» o «a domicilio» (nella quale cioè i mercanti-imprenditori distribuivano commesse di lavoro a un gran numero di artigiani che lavoravano alle loro dipendenze, ma a casa propria e spesso con macchine o strumenti propri) resistette di più. Alla lunga, però, il sistema di fabbrica e l'estensione dell'uso delle macchine, che permettevano una continua riduzione dei costi di fabbricazione, misero «fuori mercato» (come si suol dire) gli artigiani e i lavoranti a domicilio che impiegavano ancora i vecchi strumenti a mano. Per queste categorie di lavoratori divenne sempre più difficile trovare commesse di lavoro nonostante fossero disposti ad accettare mercedi sempre minori. Ai più, constatata l'impossibilità di reggere alla concorrenza della industrie meccanizzate, non restò altra alternativa che rinunciare alla propria indipendenza e offrire le proprie braccia alle fabbriche, andando così ad ingrossare il proletariato industriale. Rimaneva il doloroso rimpianto per le antiche condizioni di vita e di lavoro, che assicuravano all'abile artigiano, oltre al sostentamento, l'indipendenza e il rispetto degli altri. Ritroviamo l'espressione di questa sofferenza nelle parole che un lavoratore a domicilio inglese ebbe a pronunciare, nel 1839, ad una riunione di lavoratori:
... Io sono un tessitore a mano e ricordo bene il tempo in cui guadagnavo trenta scellini alla settimana. Oggi lo stesso lavoro renderebbe solo sette scellini e la metà di questa somma è necessaria per pagare l'affitto, il fuoco e l'illuminazione; quello che resta è così poco che la natura dell'uomo soccombe sotto il peso di troppe privazioni. La stanchezza dell'operaio è scambiata per pigrizia e i vicini cominciano a perdere fiducia in lui. Senza aiuto, disprezzato dagli estranei, infelice in seno alla famiglia, in mezzo ai suoi cari che, morendo di fame, gli chiedono a gran voce del pane, che cosa gli resta se non la disperazione?
Voglio parlarvi di me, non per attirare la vostra attenzione sulla mia persona, ma per dimostrarvi che io non parlo in base ai si dice, ma in base alle mie stesse sofferenze. Mio suocero, che viveva con me, non era riuscito il martedì sera ad ottenere la commessa di un lavoro. La nostra casa era priva di ogni mezzo di sussistenza. Il mercoledì mattina viene l'ora di colazione: niente colazione. Viene l'ora di pranzo: niente pranzo. Viene l'ora di cena: niente cena. E mia moglie aveva un bambino forte e sano attaccato al seno. Quando, a letto, rivolsi qualche domanda a mia moglie, non mi rispose. Mi allarmai e mi accorsi con orrore che era svenuta per l'esaurimento. Mi alzai, capovolsi la madia della farina e con i resti che erano sul fondo riuscii a fare in una coppetta una specie di pappa. A questo cibo devo la salvezza di mia moglie...

UNA SOCIETÀ CLASSISTA

Quella borghese è una società classista, ordinata, cioè, per classi. Abbiamo adoperato spesso il termine classe, senza preoccuparci di spiegarne nei dettagli il significato e lasciando che il suo valore risultasse dall'insieme del discorso. Ora però è necessario soffermarci su questo concetto che è assolutamente essenziale per capire il mondo che è nato dalla Rivoluzione industriale e nel quale ancora viviamo. Ed è necessario farlo perché esso non solo è uno dei concetti più importanti, ma anche uno dei più controversi della storiografia e delle scienze sociali. Si continua, cioè, a discutere sia sulla definizione del termine «classe» sia sull'importanza che nella storia hanno avuto le realtà che quel termine designa. Sostanzialmente nessuno nega l'esistenza di classi sociali nel senso di particolari insiemi di individui connotati da una qualche caratteristica comune (reddito, prestigio sociale, cultura, ecc.). Ma per chi attribuisce alle idee o alle personalità individuali un ruolo preponderante nello sviluppo storico, il peso delle classi è secondario, mentre per altri, come ad esempio il tedesco Karl Marx (1818-1883), è proprio nella divisione in classi della società e nella lotta tra i vari gruppi sociali che le idee e i comportamenti individuali trovano una spiegazione adeguata.
Sono stati per primi gli «economisti classici», come Adam Smith e David Riccardo, a dare tra Sette e Ottocento al termine «classe» il significato più tardi ripreso da Marx e che ancora oggi è quello più frequentemente usato. Purtroppo Marx non ha avuto il tempo di dare una definizione univoca di «classe» (il capitolo del Capitale, dedicato a questo tema è rimasto incompiuto). È abbastanza agevole però desumere dagli altri suoi scritti le sue idee in proposito: le classi sono il prodotto dei modi di produzione storicamente determinati e si definiscono in base alla professione, al reddito e alla proprietà (o comunque al tipo di controllo) dei mezzi di produzione (terra, macchine, ecc.). In base a questa definizione la società moderna fondata sul modo di produzione capitalistico sarebbe formata essenzialmente da tre grandi classi i cui membri vivono rispettivamente di salari (gli operai), di profitti (i capitalisti) e di rendite fondiarie (i grandi proprietari terrieri).
Naturalmente Marx non ignorava che le società reali appaiono molto più articolate: i gruppi sociali, a cominciare dall'innumerevole schiera dei cosiddetti «ceti medi», sono molti di più di tre. Ma per Marx l'esistenza di questi altri gruppi era dovuta semplicemente al persistere di modi di produzione superati e di pratiche sociali proprie del passato. Quel che contava per Marx era l'antagonismo insanabile tra capitalisti e proletari determinato dall'appropriazione da parte dei primi dell'intera ricchezza prodotta dai secondi, che in cambio del loro lavoro ricevono un salario, capace a malapena di garantire la loro sopravvivenza come classe (non però come individui: la fame e la malattia sono rimaste a lungo componenti abituali della condizione operaia). Quanto agli altri gruppi sociali, piccoli borghesi, artigiani, bottegai, ecc. si trattava di sopravvivenze, che potevano rendere temporaneamente più complesso il panorama dei conflitti di classe, ma non potevano alterare il dato di fondo della progressiva polarizzazione della società intorno alle formazioni antagonistiche dei capitalisti e dei lavoratori salariati. Marx prevedeva insomma la graduale «proletarizzazione» dei ceti intermedi, in sé privi di iniziativa e di autonomo dinamismo.
Nel Manifesto del Partito Comunista scritto e pubblicato nel 1848 da Marx in collaborazione con Friedrich Engels (1820-1895), si legge:

... la storia di ogni società sinora esistita, è la storia di lotte di classi. [...] Oppressori ed oppressi sono stati continuamente in reciproco contrasto, e hanno condotto una lotta ininterrotta ora latente, ora aperta, lotta che è finita sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta...

Contrariamente a quanto si crede comunemente non è stato Marx ad aver formulato il principio della lotta di classe. Sono stati invece alcuni storici francesi della prima metà dell'Ottocento, come Jacques-Nicolas-Augustin Thierry e François-Pierre-Guillaume Guizot, che hanno utilizzato quello schema per interpretare le vicende dell'Europa moderna come la storia della progressiva ascesa e del finale trionfo della borghesia sull'aristocrazia feudale. Fin qui Marx si era limitato ad accettare una ricostruzione storica consolidata. In proposito egli rivendicava soltanto il merito di avere dimostrato come l'esistenza delle classi sia legata a determinate fasi di sviluppo dei modi di produzione, e come la lotta di classe nella società moderna si differenzi per alcune caratteristiche assolutamente originali da quelle del passato.
La prima di queste caratteristiche è che la borghesia, a causa della spietata concorrenza che c'è tra i capitalisti stessi, non può esistere senza innovare continuamente gli strumenti di produzione (le macchine, le tecnologie, ecc.) e con essi tutto l'insieme dei rapporti sociali. Diversamente dalla aristocrazia feudale, infatti, la borghesia non può permettersi la conservazione pura semplice del modo di produzione esistente, ma può mantenere il suo ruolo di dominio soltanto in forza di uno sviluppo economico ininterrotto, in una sorta di corsa senza fine. La seconda è che lo stesso sviluppo del sistema industriale e la progressiva concentrazione del potere economico e finanziario (che si realizza sia attraverso la concorrenza tra capitalisti sia attraverso la proletarizzazione dei ceti medi, ossia la loro espropriazione e la riduzione dei produttori indipendenti a salariati) contribuiscono alla formazione di un sempre più vasto proletariato e alla sua maturazione politica. La crescita del capitalismo, in sostanza, produce la crescita parallela del suo antagonista: il proletariato.
Per questo l'antagonismo tra borghesia e proletariato sarebbe destinato, secondo Marx, a concludersi con il crollo del capitalismo e con la nascita di una società senza classi (comunismo). Marx non pensava che questo processo si sarebbe compiuto da solo, automaticamente: al contrario, riteneva che i membri delle classi sfruttate e in primo luogo gli operai dell'industria dovessero acquisire la coscienza della propria condizione di sfruttati, mettersi in grado di riconoscere i comuni interessi di classe e organizzarsi per determinare in qualche modo la propria condizione. Per Marx il proletariato può maturare una solida coscienza di classe solo attraverso l'organizzazione di un Partito Comunista il cui compito è appunto di rovesciare il sistema di potere della borghesia e di dirigere le masse popolari durante tutta la fase di transizione tra il modo di produzione capitalistico e il comunismo.
Per le correnti di pensiero non marxiste (dette talvolta, del tutto impropriamente, «borghesi») le classi sono aggregazioni di individui che si riconoscono in base al reddito e alla professione, ma anche in base a fattori extra economici quali il livello di istruzione, il tipo e il luogo di residenza, le consuetudini di consumo, le possibilità di accesso ai canali delle decisioni politiche, ecc. In questo genere di teorie, essendo più articolati i criteri di classificazione sociale, anche la stratificazione sociale (vale a dire la divisione dei membri di una collettività in diversi livelli, ognuno dei quali presenta una certa omogeneità) appare più complessa. Diventano allora importanti le suddivisioni delle classi in categorie (che corrispondono alle diverse attività presenti all'interno di ogni classe) o in strati (che sono i diversi livelli di professionalità e di reddito esistenti all'interno di una stessa classe). Nelle società moderne, per esempio, le tre grandi classi, la borghesia, la classe media e la classe operaia, appaiono a loro volta divise in strati e categorie: la borghesia si suddivide in grandi proprietari, imprenditori, dirigenti, professionisti, ecc.; la classe media in borghesia impiegatizia, piccola borghesia (commercianti, artigiani, ecc.), militari, religiosi, insegnanti, ecc.; la classe operaia si suddivide per settori produttivi (industriale, commerciale, contadina, ecc.) ma anche per gruppi di carattere verticale (si parla ad esempio di «aristocrazia operaia» e simili).
Se si tiene conto del numero dei membri di ogni classe, la forma schematica che di solito si attribuisce a una società stratificata è la piramide. Se la descrizione data da Marx del modo di produzione capitalistico corrispondesse alla realtà, le società industriali avanzate dovrebbero presentare una stratificazione a forma di piramide allungata, con l'alta borghesia (formata da un numero limitato di individui) al vertice e con le classi operaia e contadina (formate da un grandissimo numero di persone) alla base. La struttura a piramide sembra corrispondere però più alle società preindustriali o a quelle della prima età industriale (l'epoca di Marx), che non alle società dei moderni Paesi industrializzati. Queste presentano semmai una forma di cipolla: il vertice è stretto, ma la parte centrale (quella che rappresenta le classi medie) è prominente rispetto alla base.
Uno dei principali argomenti che si portano a confutazione dell'analisi marxista del capitalismo è che la previsione circa la progressiva polarizzazione della società in operai e capitalisti, con la conseguente eliminazione dei ceti intermedi, non si è affatto verificata.
Marx, insomma, avrebbe arbitrariamente esteso al futuro una tendenza alla proletarizzazione dei ceti medi, che ai suoi tempi era effettivamente in atto, ma che era destinata nel giro di pochi decenni ad arrestarsi e a invertirsi. Oggi, almeno nei Paesi occidentali (a livello mondiale il discorso è completamente diverso e forse richiederebbe altre categorie e altri strumenti di analisi), la crescita numerica riguarda precisamente le classi medie. Se questa loro crescita dovesse continuare, si potrebbe prevedere nel futuro dei Paesi occidentali un tipo di società non più verticistica, in cui gli strati alti sarebbero in pratica assorbiti da quelli inferiori.
Pellizza da Volpedo: "Quarto Stato"


LA LEGGE DEI POVERI

Una pagina interessante della Rivoluzione industriale in Inghilterra è quella della cosiddetta «legge dei poveri». La storia di questa legge comincia parecchio tempo prima dell'inizio della Rivoluzione industriale vera e propria. Dopo alcuni provvedimenti parziali emanati nel corso del Cinquecento, la formulazione compiuta di tale legge si ebbe infatti nel 1601. Sotto la veste di un provvedimento assistenziale, essa era in sostanza una legge contro la mendicità che, in conseguenza della cacciata dei contadini poveri dalle campagne, stava raggiungendo livelli preoccupanti (nel 1688 si stimava che la proporzione di poveri sulla popolazione totale inglese si aggirasse tra il 10 e il 15%).
La legge dei poveri obbligava le parrocchie (ossia quelli che oggi chiameremmo gli «enti locali») ad assistere i poveri del circondario e a tal fine introduceva un'apposita tassa. Poiché l'assistenza era organizzata su base locale, le parrocchie cercavano di scaricare una sull'altra i poveri di rispettiva appartenenza. Succedeva così, ad esempio, che un moribondo «straniero» venisse caricato su un carretto e spedito a morire al suo Paese. La legge sul domicilio approvata nel 1602 aveva infatti stabilito che chi cambiava residenza e non poteva dimostrare di avere propri mezzi di sussistenza, se c'era il fondato sospetto che prima o poi diventasse un gravame per la parrocchia che lo ospitava, poteva essere respinto alla parrocchia d'origine.
Gli assistiti dalle parrocchie, salvo i casi di assoluta incapacità, erano tenuti a lavorare ed erano inoltre obbligati ad abitare nelle workhouse (= «case di lavoro»), una specie di ospizi che in verità assomigliavano molto a delle prigioni ed erano quasi altrettanto temuti. Ancora nel 1723 venne ribadito che chi si rifiutava di entrare nelle workhouse perdeva il diritto ad ogni sussidio. Contemporaneamente furono inasprite le pene per la mendicità e il vagabondaggio: la frusta per la prima infrazione, il marchio a fuoco sulla pelle per la seconda, l'impiccagione per la terza. L'obiettivo della legge dei poveri e dei suoi successivi inasprimenti era chiaro: presi in mezzo fra il disgusto che ispirava il lavoro coatto nelle workhouse e il terrore delle pene comminate ai vagabondi, ai contadini poveri e agli artigiani rovinati non restava altra scelta che accettare la condizione di salariati e proporsi come lavoratori saltuari ai proprietari terrieri e più tardi, con l'avvio dell'industrializzazione, ai proprietari delle fabbriche.
La legge sui poveri venne profondamente riformata verso la fine del secolo XVIII. Cospirarono in tal senso le esigenze della produzione industriale, che richiedevano una maggiore mobilità della mano d'opera, e le sempre più gravi manifestazioni di rivolta da parte delle masse di poveri, operai e contadini, contro le durissime condizioni di vita e di lavoro a cui erano costrette. Venne così modificata le legge sul domicilio e venne abolito l'obbligo di residenza nelle workhouse. Nel 1795 in una storica riunione a Speenhamland i giudici di pace inglesi stabilirono che tutti i salari che non raggiungessero il minimo considerato indispensabile per la sopravvivenza dovessero essere integrati con un sussidio tratto in ogni parrocchia dal gettito della tassa sui poveri. Questo minimo fu fissato in 26 libbre di pane alla settimana per uomo adulto, più 13 libbre per la moglie e per ognuno dei figli: calcolando il salario minimo in pane si eliminavano gli inconvenienti derivanti da dislivelli o variazioni improvvise dei prezzi.
Era la prima volta che nella storia della società industriale si parlava esplicitamente di salario minimo generalizzato (e per di più garantito dall'aggancio al prezzo del pane, ossia da un sistema che oggi chiameremmo di «scala mobile»). Si tratta di un istituto che è tuttora oggetto di vive discussioni: da più parti viene proposto come alternativa alle molte e spesso inefficienti forme di assistenza pubblica oggi esistenti, mentre altri tacciano queste proposte di «avventurismo» (come si dice nel linguaggio dei politici) e di utopia.
Ci si può stupire che un provvedimento così radicale sia stato adottato, ben due secoli or sono, da una classe dirigente, come quella inglese, di cui tutto si può dire, tranne che avesse delle propensioni rivoluzionarie: tanto è vero che proprio in quegli anni stava impegnando tutte le energie del Paese nel combattere la rivoluzione che, scoppiata in Francia, minacciava di dilagare dappertutto. Forse, anzi, proprio la paura del contagio rivoluzionario può spiegare la decisione di Speenhamland e, più in generale, l'insieme dei provvedimenti che furono varati in Inghilterra in materia di assistenza: il nuovo sistema di sussidi poteva costituire un mezzo efficace per addormentare la coscienza popolare, contenere la diffusione del malcontento, prevenire esplosioni di rivolta che potessero in un modo qualsiasi richiamarsi all'esempio francese.
A parte però le contingenti preoccupazioni relative all'ordine pubblico e connesse al pericolo rivoluzionario, la legislazione sui poveri rispondeva a una situazione di emergenza specificamente inglese, determinata dalla fase ormai avanzata di industrializzazione a cui il Paese era arrivato. Il salario minimo garantito era il modo più semplice, più generale e più economico per sostituire tutte le preesistenti forme di protezione e di assistenza di cui le classi popolari avevano usufruito e che erano state spazzate via dallo sviluppo della società industriale. Vale la pena a questo punto ricordare quali fossero queste forme richiamandone in breve alcune tra le più importanti.
La popolazione rurale povera, (piccoli e piccolissimi proprietari e braccianti senza terra) aveva sempre trovato nelle terre comuni una importante riserva di materiali, di combustibili e di risorse alimentari. Nelle brughiere, nelle foreste, nelle paludi di proprietà comunale si potevano raccogliere i frutti della vegetazione spontanea, si poteva cacciare, pescare, pascolare qualche capo di bestiame. In caso di bisogno quelle terre diventavano un'area di rifugio dove era possibile costruire una baracca e, liberato il terreno intorno, seminare un po' di grano. Oltre a costituire un'importante integrazione del reddito ordinario dei contadini poveri, l'accesso a queste terre rappresentava la loro principale (o unica) forma di protezione contro gli incerti dell'attività agricola, i pericoli della disoccupazione o, più semplicemente, contro la mala sorte. Alla fine del Settecento queste opportunità erano praticamente scomparse in Inghilterra (e stavano scomparendo nell'Europa continentale) a causa dei decreti di recinzione delle terre comuni, che cancellavano con un tratto di penna e per lo più senza indennizzi diritti d'uso antichi di secoli.
In passato era convinzione pressoché unanime che il primo e più elementare obbligo dei governi fosse quello di provvedere adeguatamente in ogni circostanza ai bisogni alimentari della popolazione. Proprio in funzione di questa comune e radicata convinzione l'annona, ossia il sistema che presiedeva al rifornimento granario e alla distribuzione dei sussidi frumentari tra la popolazione, aveva costituito fin dalla più remota antichità l'apparato politicamente più delicato di ogni potere pubblico costituito. La legislazione annonaria, però, era essenzialmente «vincolistica», ossia tendeva a porre una serie di vincoli e di controlli sulla produzione e sul commercio dei grani (limitazioni o divieti di esportazione, calmieri e prezzi politici, ecc.) che contraddicevano le tendenze ormai diffuse al laissezfaire e soprattutto risultavano assai poco graditi a proprietari terrieri e a mercanti. Costoro di solito non erano affatto dei liberisti, ma pensavano che se la produzione e il commercio dei grani dovevano essere regolamentati dalla legge, dovevano esserlo per difendere i loro interessi e non quelli dei consumatori o, tanto meno, quelli dei poveri. Così, il sistema annonario era stato in larga parte smantellato in tutta Europa. Anche se non era mai stato un sistema molto efficiente, la sua scomparsa significava per le classi popolari la perdita di una fondamentale garanzia di sopravvivenza.
La legge sui poveri, dunque, nella forma che assunse sul finire del Settecento, era una sorta di ammortizzatore sociale della modernizzazione, ossia dei processi che avevano portato alla scomparsa delle corporazioni, all'eliminazione o al ridimensionamento dei vecchi sistemi annonari e assistenziali e infine alla privatizzazione delle terre comuni. Oltre che aiuto ai bisognosi, poi, l'integrazione di salario era una forma di sovvenzione all'industria: essa infatti consentiva ai capitalisti proprietari di fabbriche di pagare ai propri operai salari più bassi del minimo vitale. Infine, poiché i fondi necessari per i sussidi venivano prelevati dalle imposte e queste ultime gravavano in notevole misura sugli stessi operai, una buona parte di ciò che a costoro veniva dato con una mano gli veniva poi tolto con l'altra.

GLI APPRENDISTI

In Inghilterra e in tutti i Paesi successivamente investiti dal «contagio industriale» la manodopera infantile e quella femminile costituì una parte cospicua della prima leva operaia. Nel 1834 si calcolava che più del 13% degli addetti all'industria tessile inglese fosse costituito da fanciulli di meno di 13 anni. Le piccole mani dei bimbi e delle donne si prestavano assai bene a svolgere alcune operazioni produttive, soprattutto nel settore tessile. Nei primi tempi i padroni delle fabbriche potevano impiegare soltanto gli «apprendisti di parrocchia» ossia quei poveri bambini che erano abbandonati all'assistenza delle parrocchie e che venivano ceduti agli industriali con contratti di apprendistato la cui durata poteva raggiungere (e talvolta superare) i sette anni. Più tardi però la miseria costrinse anche le famiglie operaie a mandare in fabbrica bambini e adolescenti.
Alcuni di questi bambini venivano messi a lavorare quando ancora erano così piccoli che per arrivare alle macchine dovevano stare in piedi sopra una seggiola. Gli orari di lavoro erano massacranti. A Manchester, uno dei maggiori centri industriali dell'Inghilterra, nel 1816, la durata media della giornata lavorativa era di 14 ore; un capitalista, un certo David Dale, passava per filantropo perché faceva fare ai suoi apprendisti soltanto 13 ore di lavoro al giorno. Non mancavano tuttavia testimonianze di orari fino a 18 ore. L'intervallo per consumare il pasto (pane nero, zuppa d'avena, un pezzo di lardo) era di appena 40 minuti e di questi una parte doveva talvolta essere impiegata per pulire le macchine.
Le fabbriche erano per lo più ambienti insalubri, con i soffitti bassi, con poche e strette finestre. Si lavorava immersi nella puzza, nei vapori, nel rumore. Nei cotonifici, ad esempio, si respirava polvere di cotone e fumo di candele; l'umidità dell'aria raggiungeva punte elevatissime. Tra le malattie che colpivano la classe operaia c'era la cosiddetta «febbre di fabbrica», simile alla «febbre di prigione» che colpiva i carcerati, entrambe dovute al prolungato soggiorno in locali malsani. Gli incidenti sul lavoro erano frequenti, data la scarsissima attenzione posta dai costruttori di macchine e impianti industriali e dai direttori delle fabbriche alla prevenzione degli infortuni e data soprattutto la stanchezza che, al termine di un lunghissimo turno di lavoro, ottenebrava l'attenzione degli operai e ne rallentava i riflessi.
La disciplina era talvolta feroce. I sorveglianti (che sovente avevano una cointeressenza sugli utili della fabbrica) erano peggio dei padroni. E gli operai che subivano le angherie dei sorveglianti non si comportavano meglio nei confronti dei garzoni e degli altri operai che erano alle loro dipendenze. Calci, pugni, cinghiate, erano le abituali forme di correzione nell'apprendistato dei giovani. Quando uscivano da questa terribile esperienza, questi ragazzi erano deformi malati, ignoranti, talvolta corrotti; per soprammercato, non avevano imparato nessuna abilità professionale perché le semplici operazioni a cui venivano addetti non fornivano di solito alcuna qualifica. D'altra parte, col senno di poi, si può ben dire che quel che occorreva che imparassero e a cui dovevano in ogni modo abituarsi perché il processo di industrializzazione potesse andare avanti era appunto la brutalità della condizione operaia.

LA PROTESTA OPERAIA

Il primo e più evidente effetto dell'introduzione delle macchine era un po' dappertutto l'aumento della disoccupazione tra i lavoratori e il conseguente abbassamento dei salari. Col procedere dell'industrializzazione, poi, divennero assai più gravi e frequenti le crisi che periodicamente arrestavano la produzione e gettavano masse di lavoratori sul lastrico o li costringevano a penose migrazioni. Le innovazioni tecnologiche non solo rendevano superflua una parte dei lavoratori normalmente impiegati nella produzione, ma distruggevano interi settori produttivi che non resistevano alla concorrenza dei nuovi metodi.
Nelle fabbriche dove molti artigiani e lavoranti a domicilio rovinati dalla concorrenza delle macchine finivano per impiegarsi, le capacità tecniche e le conoscenze che questi avevano accumulato in anni di lavoro servivano a poco o non servivano affatto. Una delle caratteristiche dell'industria moderna era appunto che a causa del sostenuto ritmo dell'innovazione tecnica il lavoratore manuale veniva continuamente «espropriato» delle capacità e delle conoscenze acquisite. In altre parole, le macchine sottraevano periodicamente all'operaio quello che costituiva il suo principale patrimonio: la forza fisica e la destrezza professionale. Così, i progressi della tecnica, da cui in teoria ci si poteva aspettare un alleggerimento della fatica umana, nella realtà determinavano un aggravamento delle condizioni di vita dei lavoratori.
La colpa naturalmente non era delle macchine, ma del sistema che faceva degli operai dei semplici accessori delle macchine e che equiparava il lavoro umano a una qualsiasi altra merce, il cui valore era determinato dal semplice gioco della domanda e dell'offerta. Gli operai raramente vedevano il sistema che li opprimeva: vedevano però le sue macchine e reagivano distruggendole o bruciandole. Anche in passato c'erano state esplosioni di protesta violenta di gruppi di lavoratori contro lo sfruttamento e le soperchierie dei datori di lavoro, mercanti e imprenditori, contro la disoccupazione o contro i bassi salari; a guardar bene, però, avevano caratteristiche diverse. In passato gli operai avevano di mira genericamente le proprietà dei padroni: le abitazioni, i campi, i magazzini. Ora la loro collera si dirigeva specificamente contro le macchine.
Incendi e devastazioni di fabbriche si ebbero un po' dovunque, in Inghilterra, in Belgio, in Germania, in Italia, sia nel Settecento che nell'Ottocento. Per lo più si trattava di moti spontanei, non organizzati, che le autorità di polizia non avevano difficoltà a reprimere. In Inghilterra però, tra il 1810 e il 1820, la distruzione delle macchine diventò lo strumento di lotta caratteristico di un movimento di lavoratori, il luddismo, che non mancava né di organizzazione, né di precisi obiettivi politici, né di capi abili e coraggiosi. Si è perfino dubitato che i gruppi luddisti costituissero il braccio armato delle nascenti trade unions («unioni dei lavoratori») ossia delle prime organizzazioni sindacali: certo è che esistevano dei collegamenti e alcuni luddisti riconosciuti erano capi o membri di esse. Il luddismo in quanto forma violenta di resistenza operaia, oltre che nella distruzione delle macchine, si manifestò nell'autoriduzione dei prezzi ai mercati e nel saccheggio delle botteghe, nell'incendio delle proprietà, nell'assassinio di industriali e proprietari particolarmente odiati, nell'assalto armato alle fabbriche e finì per assumere i caratteri di un vero e proprio movimento insurrezionale.
Il movimento luddista prendeva il nome da un operaio, Ned Ludd, o Ludlam, che nel 1779 pare abbia distrutto un telaio meccanico. Vero o falso che fosse l'episodio, Ned Ludd era diventato un simbolo della protesta operaia e appunto con il nome di Generale Ludd erano collettivamente indicati i misteriosi capi del movimento. Figure mitiche di vendicatori degli oppressi alla Robin Hood o di condottieri popolari come il Generale Ludd hanno sempre svolto un'importante funzione simbolica nella maturazione dello spirito di rivolta delle classi subalterne. Un movimento con caratteristiche e sviluppo molto simile al luddismo sorse intorno al 1830 nelle contee dell'Inghilterra meridionale per opera, questa volta, dei lavoratori agricoli, che sostituirono il leggendario Generale Ludd con un altrettanto leggendario Capitano Swing.
In forza della sua organizzazione il movimento luddista riuscì a mettere in gravissime difficoltà il Governo inglese: i luddisti colpivano in modo inatteso e preparavano i loro audaci colpi di mano con tanta segretezza che, nonostante il grande impiego di spie e di agenti provocatori, la polizia non riusciva quasi mai a coglierli sul fatto. Perché i luddisti distruggevano gli impianti industriali? Certamente anch'essi erano mossi dal sentimento di odio che era comune a tutta la classe operaia verso le macchine. Nel luddismo però c'era qualcosa di più. L'uso delle macchine non solo era rovinoso per i lavoratori di ogni categoria, ma contravveniva anche ad antiche leggi e consuetudini corporative che proteggevano il lavoro degli artigiani. Queste leggi ormai non erano più applicate, ma i luddisti le consideravano sempre in vigore e la distruzione delle macchine appariva ai loro occhi innanzi tutto come un atto di giustizia che riparava una violazione di precisi diritti.
Una canzone del tempo presentava il Generale Ludd come l'esecutore di una sentenza pronunciata con il voto unanime di tutti i lavoratori:

L'unanime sentenza ha condannato
queste dannate macchine a morire
e il Generale Ludd è incaricato
di farla ovunque e subito eseguire

Non bisogna però credere che l'azione del movimento luddista si esaurisse nel sogno di un'impossibile restaurazione del passato né che esso si opponesse in modo assoluto al progresso tecnologico. In verità la difesa degli antichi diritti dei lavoratori era anche un modo per avanzare rivendicazioni del tutto realistiche, che costituiscono ancora oggi la sostanza di ogni trattativa sindacale: un minimo salariale sotto il quale non potessero in nessun caso scendere le retribuzioni degli operai occupati, norme che proibissero le forme più brutali di sfruttamento specialmente nei confronti delle donne e dei ragazzi impiegati nelle fabbriche un sistema di assistenza per quei lavoratori che l'introduzione delle macchine e la modernizzazione dei processi di produzione lasciava senza lavoro, il diritto dei lavoratori di unirsi in associazioni di mestiere. In sostanza il luddismo lottava perché lo sviluppo industriale acquistasse un volto più «umano» e perché il progresso tecnologico, anziché essere utilizzato all'unico scopo di accrescere indefinitamente i profitti dei capitalisti, venisse impiegato anche ad alleviare le sofferenze e a soddisfare i bisogni di tutti. Il movimento luddista fu alla fine sconfitto da una repressione durissima, che, come si è accennato, si avvalse soprattutto dell'infiltrazione nelle organizzazioni segrete di spie e agenti provocatori. Per il reato di machinebreaking («distruzione delle macchine») fu introdotta la pena di morte e nel giro di cinque anni una ventina di luddisti salirono sul patibolo. Questa repressione, però, si scontrò a lungo con la solidarietà popolare verso i luddisti e, almeno in un primo tempo, anche con la simpatia di una parte dell'opinione pubblica liberale, che comprendeva le ragioni dei luddisti e paventava i danni di un troppo brusco mutamento nelle consuetudini industriali.

LUDDISMO

Il termine «luddismo» si usa per indicare specificamente il movimento che si è sviluppato nel secondo decennio dell'Ottocento in Inghilterra e che, inserendosi in un preciso contesto storico, non può essere genericamente identificato con i molti episodi di distruzione di macchine che hanno accompagnato un po' in tutta Europa la prima esperienza dell'industrializzazione. Il termine però ha finito per designare qualsiasi forma di resistenza violenta alla modernizzazione e all'innovazione tecnologica, ed anzi proprio questo è il suo impiego più frequente. Lotte di questo tipo hanno costellato in forme più o meno accentuate tutta la successiva storia della resistenza operaia sia in Europa sia negli Stati Uniti. Ciò nonostante, anche nell'ambito del movimento operaio, e soprattutto a partire dalle critiche formulate da Marx a questo tipo di lotta, il termine «luddismo» ha assunto una connotazione fortemente negativa, di rivolta cieca e brutale, forma «primitiva» di lotta, controproducente e arretrata.
Questa connotazione negativa viene richiamata, tra l'altro, dallo scrittore tedesco Ernst Toller (1893-1939), un esponente di rilievo della rivoluzione spartachista in Baviera del 1919, nel dramma da lui dedicato a I distruttori delle macchine (scritto nel 1922, in prigione). Un industriale confronta compiaciuto i modesti rischi di una rivolta luddista con i consistenti vantaggi dell'immancabile repressione:

- Non pavento la distruzione della macchina. Al contrario. In tempi come questi un fatto del genere potrebbe rafforzare la nostra posizione [...] La perdita materiale verrebbe bilanciata dalla prospettiva di un futuro disciplinato e legalitario.

Ma in un'altra battuta del dramma appare l'immagine esasperata di un'umanità schiava delle macchine (e specialmente di quel particolare meccanismo l'orologio, che ha scandito sin dall'inizio dell'età industriale la squallida esistenza quotidiana degli operai di fabbrica). E qui sembra trapelare, da un fondo di delusione e di pessimismo l'intima coscienza luddista dello stesso Toller:

- Ma io vi dico: non è morta la macchina; essa vive, vive! Essa tende le sue branche, avvinghia gli uomini [...] Verso Paesi cintati muovono scalpitanti eserciti [...] Avvizziscono i giardini, appestati da un soffio di zolfo. Dappertutto deserti di pietra, ove bimbi si uccidono e un mostruoso orologio guida l'uomo in una squallida cadenza. Tic tac al mattino, tic tac al meriggio, tic tac alla sera. Tu sei braccio, tu sei gamba, tu cervello. E l'anima... l'anima è morta!

A testimonianza dell'eroismo di molti militanti delle organizzazioni luddiste si racconta questo episodio. Al termine di uno sfortunato scontro a fuoco i luddisti, che avevano attaccato un'importante fabbrica, furono costretti a lasciare sul terreno due compagni gravemente feriti. Il proprietario della fabbrica li catturò e, poiché non volevano tradire i propri compagni, li lasciò morire dissanguati. Presso uno dei due, un giovane di diciannove anni, che si chiamava John Booth, restò sino al momento della morte un prete anglicano, il reverendo Robertson, il quale sperava di strappare al giovane, con la scusa della religione, qualche informazione sull'organizzazione luddista. A un tratto il giovane fece segno al reverendo di avvicinarsi:
- Sapete tenere un segreto, voi? mormorò.
- Certo, certo - rispose il reverendo, convinto di poter finalmente avere le informazioni desiderate.
- Be', anch'io - disse il giovane, e morì.

LA SOLIDARIETÀ OPERAIA

Le vecchie corporazioni artigiane si erano preoccupate di ridurre al minimo i pericoli della scarsità di lavoro e di evitare che in caso di crisi si scatenasse tra i maestri di uno stesso mestiere una concorrenza selvaggia che avrebbe danneggiato l'intiera categoria. Il principio stesso della concorrenza, anzi, era contrario all'etica della corporazione e proprio allo scopo di prevenirla le autorità corporative fissavano retribuzioni uguali per tutti, controllavano i metodi di lavorazione dei manufatti scoraggiando l'introduzione di innovazioni e cercavano di garantire attraverso il controllo dell'apprendistato che il numero degli artigiani aventi diritto ad esercitare un determinato mestiere non fosse superiore alle effettive possibilità di lavoro offerte dal mercato.
La Rivoluzione industriale, segnando il rapido declino dell'artigianato, portò alla distruzione anche del sistema corporativo, che era un'espressione caratteristica di quel modo di produzione. In molti Paesi europei, anzi, le corporazioni furono abolite prima ancora che il processo di industrializzazione fosse avviato davvero. In generale, seguendo l'esempio della Francia rivoluzionaria, che aveva condannato le corporazioni come residui del sistema feudale e ne aveva vietata la ricostituzione, era tassativamente proibita qualsiasi forma di associazione tra i lavoratori. Le coalizioni tra lavoratori, si diceva, creano ingiusti privilegi a favore dei coalizzati e a spese di tutti gli altri: dei lavoratori disoccupati, in primo luogo, che sarebbero disposti ad accettare salari inferiori pur di lavorare e sono impossibilitati a farlo; dei datori di lavoro, costretti a pagare la manodopera più di quanto non sarebbe necessario sulla base del libero gioco della domanda e dell'offerta; dei consumatori, infine, costretti in conseguenza di tutto ciò a pagare più care le merci che acquistano.
Che il sistema corporativo rientrasse nella logica del monopolio e del privilegio caratteristica dell'ancien régime era vero. Che il sistema corporativo riuscisse a difendere efficacemente i poveri privilegi di questo o quel gruppo artigiano contro la strapotenza dei mercanti-imprenditoriali era già meno vero. Comunque, coll'eliminazione del sistema corporativo i lavoratori si trovarono a trattare con i padroni. Era quello che i vecchi mercanti-imprenditori avevano sempre auspicato: la contrattazione diretta tra lavoratore e datore di lavoro e la riduzione della forza lavoro a una merce contrattabile sul mercato come qualsiasi altra.
A dispetto di tutte le chiacchiere sulla libertà e sull'uguaglianza, quello tra padrone e operaio non era un rapporto da pari a pari: data la sproporzione esistente tra le condizioni economiche dei contraenti, la contrattazione diretta del rapporto di lavoro, anziché garantire la libertà di entrambi, metteva il lavoratore nelle mani dell'imprenditore. Così, stabilito il principio della libera contrattazione del rapporto di lavoro, quella concorrenza tra lavoratori che le corporazioni artigiane avevano sempre cercato di scongiurare era diventata la regola: ogni operaio sapeva di poter essere sostituito nel suo lavoro da uno qualsiasi di quei disoccupati che si affollavano ai cancelli della fabbrica e che, spinti dalla fame e dalla disperazione, erano disposti ad accettare un salario più basso del suo.
Questa concorrenza fu una delle più tragiche esperienze della classe operaia nata dalla Rivoluzione industriale. Ma se la lotta per il pane quotidiano poteva mettere i lavoratori in antagonismo tra di loro, l'identico destino di insicurezza, di privazioni e di miseria fece sorgere in loro comuni sentimenti di solidarietà. Nella classe operaia si formò a poco a poco una mentalità nuova, opposta a quella dei padroni. Gli imprenditori capitalisti esaltavano la concorrenza individuale e imponevano a tutti una dura lotta per l'esistenza; gli operai, che di quella lotta erano chiamati a sopportare le peggiori conseguenze, cominciarono a concepire una società completamente diversa, fondata sulla cooperazione e non sulla competizione.
Non si trattava soltanto del vagheggiamento di una società futura: il principio della cooperazione ebbe un'applicazione immediata nella vita della moderna classe operaia. Il compito dell'assistenza, un tempo esercitato dalle corporazioni, fu ripreso dalle società di mutuo soccorso, che nei limiti dei loro modesti mezzi alleviarono molte sofferenze. Fu presto chiaro a tutti, del resto, che solo presentandosi uniti di fronte al padrone sarebbe stato possibile conquistare migliori condizioni di vita e di lavoro. La rivolta di un giorno, il rapido colpo di mano, la violenza vendicatrice nello stile dei luddisti potevano essere efficaci strumenti di lotta (e ad essi la classe operaia non rinunciò mai) ma erano insufficienti: occorreva una organizzazione solida, che permettesse di contrastare la volontà dei padroni giorno per giorno, permanentemente. A questa esigenza di organizzazione risposero le leghe di resistenza, le unioni di mestiere, i sindacati: la loro arma fondamentale divenne lo sciopero.
Già nella società preindustriale lo sciopero era una delle possibili forme di lotta delle classi lavoratrici. Con l'avvento della grande industria, però, esso ha assunto un carattere completamente nuovo e l'Inghilterra, che è stato il primo Paese europeo in cui si affermò la grande industria, fu anche quello in cui si fecero le prime esperienze significative. Dopo anni di persecuzioni, ma prima di qualunque altro Stato d'Europa, l'Inghilterra riconobbe agli operai, nel 1824, il diritto di associarsi liberamente e di scioperare. Anche prima di questa data esistevano in Inghilterra società operaie, ma la clandestinità in cui erano costrette ad operare ne aveva ostacolato lo sviluppo. A partire dal 1824, invece, le organizzazioni operaie, le trade unions, si diffusero rapidamente in tutto il Paese. In diversi casi si tentò di unire tutti gli operai di un determinato mestiere in un'unica associazione nazionale e più volte si giunse anche a raggruppare diverse organizzazioni nazionali di mestiere in una sola associazione generale dei lavoratori.
Queste unioni nazionali e queste associazioni generali ebbero per lo più vita breve e difficile. Nel complesso, tuttavia, le società operaie inglesi riuscirono, nei primi anni della loro esistenza legale, ad affrontare importanti battaglie. Lo sciopero, ormai permesso dalla legge, sia pure con qualche limitazione, si rivelò un'arma molto efficace. Senza richiedere necessariamente atti di violenza e perdite umane, lo sciopero, arrestando la produzione, poteva arrecare ai padroni danni economici anche più gravi delle rivolte e dei colpi di mano cui avevano fatto ricorso, tra gli altri, i luddisti. Lo sciopero, poi, poteva essere esteso con un adeguato sforzo di organizzazione ad un intero settore produttivo o ad un'intera regione del Paese, in modo da colpire non solo il singolo padrone, ma il padronato nel suo complesso. Al contrario i tentativi di insurrezione armata il più delle volte erano facilmente isolati e repressi dall'azione della polizia e dell'esercito.
L'arma dello sciopero non era però priva di rischi per chi la usava. In un certo senso, anzi, lo sciopero richiedeva dagli operai un coraggio uguale e forse superiore a quello necessario nella rivolta armata. Non era certo cosa da nulla per un operaio che conosceva per esperienza diretta la miseria, andarvi incontro volontariamente con tutta la famiglia rinunciando al già magro salario. Non era cosa da nulla per l'operaio sopportare per settimane e per mesi stenti e fame pur di non piegarsi ai soprusi del padrone. Gli operai che decidevano di ribellarsi ai propri oppressori con le armi in pugno, come avevano fatto i luddisti, affrontavano il rischio della morte o della prigione. Gli scioperanti affrontavano la prospettiva ancora più terribile di un lento affamamento: scendendo in lotta sapevano che avrebbero dovuto sopportare ogni giorno per tutta la durata dello sciopero la visione delle proprie mogli e dei propri figli affamati; e sapevano anche che, terminato lo sciopero, il padrone avrebbe trovato prima o poi il modo di vendicarsi.
Molte difficoltà all'organizzazione di scioperi nascevano dalla natura stessa della classe operaia. Quando gli operai di una fabbrica scioperavano, il padrone tentava di reclutare nella massa dei disoccupati dei «crumiri», cioè dei lavoratori disposti a prendere il posto degli scioperanti. Larga parte dei lavoratori impiegati nelle fabbriche era poi costituita da donne e, almeno agli inizi, da ragazzi, che difficilmente potevano essere organizzati e raramente potevano affrontare i sacrifici che comportava la partecipazione ad uno sciopero. Ma anche le donne e i ragazzi finirono per prendere parte alle lotte. Ecco come nelle memorie di un operaio riemerge l'immagine di uno sciopero avvenuto nel 1836 in una zona industriale degli Stati Uniti:

... Quando si seppe che ci sarebbe stata una riduzione dei salari ci fu un generale moto d'indignazione e gli operai decisero di scioperare. Così fu fatto. Le industrie, abbandonate dai lavoratori, furono costrette a chiudere. Dalle diverse fabbriche le ragazze si mossero in corteo verso il luogo della riunione. Parlarono alcuni vecchi militanti operai. Poi una delle ragazze salì sul podio ed espresse i sentimenti delle sue compagne in un discorso molto chiaro, dicendo che era loro dovere resistere ad ogni tentativo di ridurre i salari. Era la prima volta che una donna osava parlare in pubblico e la cosa suscitò stupore tra quanti avevano ascoltato il discorso. Cosa ancora più stupefacente, si seppe che in uno stabilimento era stata una ragazzetta di undici anni a guidare le compagne fuori dalla fabbrica...

Ferimenti, uccisioni, arresti, deportazioni accompagnavano d'altra parte anche le lotte condotte con la pacifica arma dello sciopero. Se il padrone arruolava crumiri, gli operai rispondevano con il «picchettaggio», ossia la formazione di squadre di sorveglianza incaricate di impedire l'ingresso dei crumiri in fabbrica. In questi casi scontri e violenze erano frequenti e qualunque incidente offriva alla polizia un buon pretesto per intervenire con la sua abituale brutalità; quanto ai giudici ed ai tribunali, essi non esitavano a condannare gli scioperanti applicando, nell'interesse dei padroni, leggi formulate da un Parlamento che, in forza delle leggi elettorali censitarie, era stato eletto dai padroni stessi.
Gli scioperi sono sempre stati una difficile forma di lotta e non deve stupire il fatto che le associazioni operaie inglesi abbiano raccolto nelle loro prime esperienze, assieme a molti successi, moltissime sconfitte. Ma anche quando gli operai uscivano sconfitti e la fame li costringeva a tornare al lavoro, raramente il padrone aveva motivo di rallegrarsi della propria vittoria. A parte le perdite subite in termini di mancata produzione e di mancato profitto, ogni sciopero gli ricordava l'esistenza di una tenace contestazione operaia che in qualsiasi momento poteva saltar fuori di nuovo: in altre circostanze, altri scioperi o altre forme di resistenza sarebbero tornati a colpirlo.

SCIOPERO, CRUMIRO, PICCHETTAGGIO

«Sciopero» è un termine composto dal prefisso sottrattivo ex- e dal latino opera = «lavoro»: vuol dire in sostanza sottrarsi al lavoro. «Crumiri» (dall'arabo khrumir) è il nome di alcune popolazioni della Tunisia stanziate ai confini con l'Algeria e tradizionalmente dedite al contrabbando tra i due Paesi. Nel 1881 quella del contrabbando dei Crumiri diventò improvvisamente (e artificiosamente) una gravissima questione internazionale: di fronte all'incapacità del Bey di Tunisi di reprimere efficacemente il fenomeno, i Francesi si impadronirono del Paese, che trasformarono in un loro protettorato. Da allora il termine ha prima assunto un generico significato spregiativo ed ha poi finito per indicare in modo specifico gli operai che si rifiutano di scioperare: forse perché lavorano «di contrabbando», o, più probabilmente, perché fanno il gioco del nemico, così come i Crumiri tunisini hanno fatto il gioco dei Francesi.
«Picchettaggio» viene dal francese piquet, che significa «palo», «piolo». Nel Seicento piquet ha cominciato a indicare anche piccoli distaccamenti di cavalleria (forse per il fatto che i cavalli pronti all'impiego erano legati al palo) e poi, per estensione, un qualsiasi piccolo reparto di truppa con funzioni speciali: di sorveglianza, di scorta, d'onore, ecc. Infine, per analogia, sono stati detti «picchetti» i gruppi di scioperanti che sorvegliano gli ingressi delle fabbriche per impedire ai crumiri di entrare al lavoro (o almeno per insultarli a dovere).

IL «BUON RE FILIPPO»

Sin dai primi tempi, in tutti i Paesi, gli operai avevano dovuto lottare contro l'ostilità delle autorità statali, che proibivano le associazioni dei lavoratori e gli scioperi e che con arresti, processi, uccisioni cercavano di mantenere l'ordine a beneficio dei padroni. La classe operaia tuttavia si fece spesso delle illusioni circa le buone intenzioni delle autorità e molte volte sperò che i poteri pubblici (Governo, magistratura, Parlamento ecc.) potessero assumere un atteggiamento neutrale nei conflitti di lavoro. Queste illusioni sono quasi sempre cadute e contro di esse si è presto affermato il principio che nella lotta per la liberazione dall'oppressione capitalistica le classi lavoratrici non possono fare assegnamento che sulle proprie forze.
In Francia nel luglio 1830 una sollevazione popolare aveva cacciato dal trono, come sappiamo, Carlo X, l'ultimo re legittimo della dinastia dei Borboni e il suo posto era stato preso da Luigi Filippo d'Orléans. Nelle giornate insurrezionali del luglio gli operai erano stati i combattenti più attivi e coraggiosi e da parte delle nuove autorità politiche non mancarono lodi e riconoscimenti per il loro valore e il loro patriottismo. Gli operai d'altra parte, pur non avendo guadagnato nulla nell'insurrezione, avevano fiducia nel nuovo re: «il buon re Filippo» lo chiamavano. Perciò quando con il ritorno della normalità ripresero come prima i conflitti di lavoro, gli operai si rivolsero alle autorità sperando di trovare in esse degli arbitri amichevoli e comprensivi: portavano al re petizioni, muovendosi in corteo con la bandiera tricolore in testa, oppure si rivolgevano ai prefetti e ai capi della polizia per ottenere riduzioni dell'orario di lavoro o aumenti di salario. Le loro richieste non furono mai accolte; ciononostante ancora nella primavera del 1831 ci furono a Parigi dimostrazioni operaie in cui le grida di «Pane, lavoro, libertà!» si confondevano con quelle di «Viva il re!».
Ciò che fece crollare questa ingenua fiducia furono i fatti di Lione del novembre 1831. A Lione, come del resto in tutta la Francia, il costo della vita andava aumentando, ma i salari erano sempre gli stessi. In breve la situazione divenne insostenibile. Gli operai delle numerose fabbriche di seterie della città chiesero un ragionevole aumento e si rivolsero al prefetto perché intervenisse nella questione con la sua autorità. Il prefetto accettò di convocare una commissione mista di fabbricanti e di operai, la quale stabilì una tariffa salariale che avrebbe dovuto assicurare ai lavoratori un minimo per vivere. Una parte dei fabbricanti però rifiutò di applicare la tariffa e il 21 novembre gli operai indissero grandi manifestazioni di protesta. Questa volta le autorità vollero provare la maniera forte e fecero intervenire l'esercito per disperdere i dimostranti. I soldati aprirono il fuoco sulla folla, ma gli operai opposero una vigorosa resistenza e in capo a tre giorni di lotta si impadronirono dell'intera città: sebbene privi di una solida organizzazione, avevano vinto. A questo punto sorse il problema di come utilizzare la vittoria. Alcuni gruppi tentarono di proclamare la repubblica e di dare in questo modo un significato politico all'insurrezione. Ma la stragrande maggioranza degli insorti era ancora convinta che la classe operaia non dovesse impicciarsi di politica e nonostante il comportamento dell'esercito regio si proclamò di nuovo assolutamente devota a Luigi Filippo, re dei Francesi. Alla fine le autorità, che erano state cacciate da Lione a prezzo di una lotta sanguinosa, rientrarono in città richiamate dagli insorti stessi. Ma appena ebbero riacquistato il controllo della situazione arrestarono decine di militanti operai e abolirono ogni tariffa salariale. Così una grande vittoria si trasformò in una dolorosa sconfitta.
I fatti del novembre 1831 insegnarono molte cose alla classe operaia francese. Insegnarono che gli operai armati potevano battere anche un grosso esercito regolare, che delle autorità dello Stato (e in primo luogo dei re) non ci si poteva fidare, giacché esse erano le naturali alleate dei padroni, che era inutile dichiarare di non voler fare politica dal momento che le autorità politiche si schieravano contro i lavoratori anche nelle lotte puramente economiche, e infine che era necessario organizzare la resistenza operaia in modo che potesse continuare anche dopo le inevitabili sconfitte.
A Lione dopo il novembre del 1831 l'organizzazione operaia ebbe un grandioso sviluppo; la stessa cosa avvenne in quasi tutte le zone industriali della Francia. Di fronte a ciò il Governo pensò di limitare drasticamente il diritto di associazione. Le organizzazioni operaie reagirono alla minaccia scendendo di nuovo nelle piazze. A Lione tra il 9 e l'11 aprile 1834 si combatté aspramente. La città, occupata dagli operai, venne riconquistata strada per strada da una armata di ventimila soldati, che compirono innumerevoli stragi e devastazioni. Il 13 aprile, in seguito ad una provocazione poliziesca, insorse Parigi: le autorità avevano provocato i disordini perché volevano dare una lezione a tutti gli oppositori. Il generale Bugeaud prima di iniziare la repressione disse alle truppe: «Bisogna far piazza pulita. Camerati, siate spietati». E spietati i camerati del generale furono davvero: i racconti dei testimoni di quei fatti sono raccapriccianti.
La sera del 14 aprile il massacro terminò. I membri del Parlamento andarono da Luigi Filippo per ringraziarlo per quello che aveva fatto per il mantenimento dell'ordine. Rispondendo ai loro ringraziamenti, «il buon re Filippo» disse compiaciuto: «È stata davvero una buona lezione per tutti coloro che hanno avuto tante volte la criminale audacia di attaccare il nostro governo».

I CARTISTI

La solidarietà operaia si espresse innanzi tutto nella costruzione di organizzazioni sindacali e di mutuo soccorso che affrontavano con sistemi diversi i problemi economici dei lavoratori: il salario, la durata del lavoro, le condizioni sanitarie, l'abitazione, l'assistenza. Ma la società fondata sulla cooperazione che gli operai avevano cominciato a concepire come negazione di quella in cui erano costretti a vivere non poteva essere veramente costruita se non affrontando anche quel tipo di problemi che si dicono politici e che riguardano l'organizzazione stessa della società nel suo complesso. Ma naturalmente agli operai il diritto di occuparsi di politica non era riconosciuto ed essi se lo sono dovuto conquistare con dure lotte.
La grande maggioranza degli operai viveva in condizioni di tale abbrutimento che la possibilità di occuparsi seriamente di politica esulava totalmente dai suoi orizzonti. Anche tra gli operai più impegnati, del resto, molti erano convinti che prima di pensare ad una riforma dello Stato fosse necessario lottare per conquistare più umane condizioni di vita e di lavoro, organizzando fabbrica per fabbrica e mestiere per mestiere l'unità dei lavoratori. Solo nel 1838 ricomparve nel programma del movimento operaio inglese la vecchia «utopia» democratica del suffragio universale.
L'8 maggio di quell'anno l'Associazione generale degli operai di Londra (London Working Men's Association) pubblicava e trasmetteva a tutte le organizzazioni operaie d'Inghilterra una carta di rivendicazioni, la Carta del Popolo, in cui si chiedeva l'estensione del diritto di voto a tutte le persone adulte. Il 28 maggio la Carta era presentata in una riunione pubblica a Glasgow: al comizio erano presenti duecentomila lavoratori con centinaia di bandiere e quaranta bande musicali. Nasceva così il movimento cartista che per dieci anni raccolse la forze operaie della Gran Bretagna. Nell'intenzione dei suoi promotori il movimento cartista avrebbe dovuto indirizzare al Parlamento ripetute petizioni per sollecitare l'accoglimento della Carta. Qualora il Parlamento fosse rimasto sordo alla volontà popolare, in tutto il Paese e in tutti i settori produttivi gli operai avrebbero dovuto proclamare uno sciopero e sostenerlo indefinitivamente, sino alla vittoria. In questo modo lo sciopero, da arma puramente economica veniva trasformata dai cartisti in strumento di trasformazione anche politica della società, che si affiancava al più antico metodo dell'insurrezione armata.
La richiesta del suffragio universale dava al movimento cartista un carattere genericamente democratico che poteva raccogliere molti consensi anche fuori degli ambienti operai. I borghesi democratici, infatti, erano anch'essi favorevoli al suffragio universale e, almeno all'inizio, furono alleati del cartismo. Si trattava però di un equivoco. Il Cartismo era nato come movimento schiettamente operaio e per i capi della Working Men's Association il diritto di voto era proprio uno strumento di lotta anticapitalistica e di riforma sociale. Un sacerdote metodista, Joseph Rayno Stephens, che prese parte attivamente all'agitazione cartista, in un comizio a Manchester sottolineò con semplicità ed efficacia il carattere sociale del movimento:

... Il Cartismo, amici miei, non è una questione politica; qui non si tratta solo di conquistare il diritto di voto. Il Cartismo è innanzi tutto una questione di forchetta e di coltello. La Carta per noi significa buone abitazioni, buoni cibi, buone condizioni di vita, più brevi orari di lavoro...

Nel Cartismo, insomma, le richieste di democrazia politica, avevano una connotazione nettamente socialista. All'internodi questa comune ispirazione socialista si incontravano naturalmente le tendenze più diverse. C'erano i riformisti (come i membri della Working Men's Association) che contrari alle insurrezioni ed ai colpi di mano, credevano nell'efficacia della persuasione, dell'educazione e vedevano nella democrazia politica l'unica strada possibile verso la realizzazione di una società più umana. E c'erano i rivoluzionari che chiamavano gli operai alla lotta armata e alla distruzione violenta dell'ordine sociale esistente. Tra i rivoluzionari c'era anche un predicatore, un certo Stephen che dava un'intonazione religiosa ai suoi appelli alla rivoluzione sociale:

... Se, contro il comandamento di Dio, voi che producete ogni ricchezza non avete il diritto di godere il frutto delle vostre fatiche, ebbene allora combattete pure a coltello i vostri nemici, perché i vostri nemici sono i nemici di Dio. Se il fucile e la pistola, se la spada e la picca non bastano, le donne impugnino le loro forbici e i ragazzi gli aghi e gli spilloni. E se ogni arma mancasse, il fuoco, sì, il fuoco, il fuoco ripeto, appiccate il fuoco ai palazzi...

Il Cartismo fu in Europa il primo grande movimento di massa volto ad una trasformazione socialista della società. Per la prima volta dovette affrontare, nel Paese capitalistico più avanzato del mondo, difficili problemi di organizzazione e di strategia rivoluzionaria: riforme o rivoluzione? sciopero generale rivoluzionario o insurrezione armata? alleanza con i borghesi democratici, che tentavano di utilizzare ai propri fini le agitazioni operaie, o coerente lotta di classe fondata esclusivamente sulla forza proletaria e diretta contro tutti i padroni, democratici o no? Il Cartismo mise alla prova dottrine e metodi diversi. Commise errori e subì sconfitte.
Incertezze e contrasti interni ne indebolirono l'azione. Ma il Cartismo seppe trasformare la rivolta delle folle operaie in uno sforzo ordinato e coerente di opposizione al sistema capitalistico. In questo senso esso rappresentò un'esperienza decisiva nella storia del movimento operaio dell'Occidente.

GLI OPERAI E LA POLITICA

Una sera di gennaio del 1792 nove uomini si erano dati appuntamento nella taverna «La Campana» di Exeter Street a Londra. Mentre cenavano con pane e formaggio innaffiati da qualche boccale di birra, avevano parlato delle solite cose: le difficoltà della loro umile esistenza, il rincaro insopportabile di tutti i generi di prima necessità. Solo alla fine del pasto, accese le pipe, affrontarono l'argomento per il quale si erano incontrati. Erano persone per bene, sobrie, abili e attive nel loro lavoro. Come gli altri avventori della taverna, appartenevano al popolo minuto degli artigiani, dei bottegai, degli operai. Ma la questione che avevano preso a discutere era un argomento insolito per gente della loro condizione: la riforma del Parlamento. In Inghilterra esisteva già da molto tempo un Parlamento che condivideva con il re il potere di fare le leggi e di governare il Paese. Ma il sistema elettorale faceva in modo che solo gli aristocratici e i borghesi potessero contare in Parlamento. In generale occuparsi di politica era un privilegio riservato a poche persone.
Quella sera quei nove uomini si trovarono d'accordo nel giudicare ingiusto tale privilegio e nel ritenere necessaria una riforma che estendesse il diritto di voto ad ogni persona adulta senza esclusione di classe. Essi perciò decisero di fondare un'associazione che riunisse tutti quelli che condividevano questa convinzione. Nacque così la London Corresponding Society, che ebbe come scopo immediato di entrare in corrispondenza con i gruppi analoghi che erano già sorti o che andavano sorgendo in altre città, in modo da allargare in tutto il Paese e in tutte le categorie sociali l'interesse e le discussioni intorno ai problemi della riforma parlamentare. In quindici giorni la Società raccolse diverse adesioni e la sua attività si sviluppò rapidamente, suscitando le paure delle autorità: cominciarono le persecuzioni, gli arresti, i processi, le condanne.
La London Corresponding Society è considerata da molti la prima organizzazione politica della classe operaia inglese. In realtà, come abbiamo visto, i fondatori e i membri della Società non erano tutti appartenenti a quella nuova classe operaia che era nata in Inghilterra da pochi decenni con il sorgere della grande industria meccanizzata: c'erano con loro artigiani, negozianti e perfino piccoli imprenditori e intellettuali poveri. Anche l'obiettivo che si prefiggeva la Società, cioè la riforma del Parlamento e l'estensione del diritto di voto, non era un obiettivo specificatamente operaio, giacché non interessava direttamente la vita degli operai e l'organizzazione del lavoro e della produzione nella società industriale. La Società insomma si rivolgeva tanto agli operai quanto ai lavoratori di altre categorie in quanto ciascuno di loro era anche un cittadino inglese e come tale avrebbe dovuto avere il diritto di scegliere i propri rappresentanti al Parlamento.
Anche se non era un'organizzazione prettamente operaia, la Società rappresentava qualcosa che avrebbe avuto grande importanza per il futuro sviluppo del movimento operaio. Essa rifiutava l'idea (che a quei tempi era comunemente accettata) che solo i ricchi potessero e dovessero provvedere alle necessità e agli interessi dei lavoratori. Essa per la prima volta chiamava i lavoratori a fare da sé, ad organizzarsi in modo autonomo e ad occuparsi direttamente di politica.

SOCIALISMO E COMUNISMO

Le parole socialismo e comunismo non hanno avuto sempre lo stesso significato ed anche oggi sono usate in modi diversi, sicché qualche volta le vediamo adoperare come sinonimi, altre volte addirittura come contrari. Il termine «comunismo» è più antico di «socialismo». Per molto tempo ha indicato quelle dottrine che auspicavano che tutti i beni fossero messi in comune, in modo da realizzare l'eguaglianza delle fortune tra i membri di una stessa comunità. Questo tipo di dottrine era frutto della fantasia di filosofi e di poeti che progettavano società perfette, senza però preoccuparsi di stabilire in che misura esse fossero realizzabili. In verità quasi nessuno pensava che questi progetti dovessero o potessero essere realizzati. L'immagine di una perfetta società comunistica in cui tutti gli uomini fossero uguali aveva innanzi tutto un valore morale, nel senso che il confronto tra questo modello ideale e la realtà serviva a mettere in evidenza i mali della diseguaglianza e dell'ingiustizia sociale e a sollecitare nella coscienza di ogni uomo sentimenti di fratellanza, di solidarietà e di benevolenza nei confronti del prossimo.
Il comunismo moderno, nato tra la fine del XVIII secolo e i primi decenni del secolo XIX, quando cioè in Europa era ormai avviata la rivoluzione industriale che metteva di fronte capitalisti e proletari è molto diverso. In primo luogo il comunismo moderno non è più una dottrina elaborata a tavolino da qualche intellettuale, ma è un ideale che sorge dalle condizioni di vita e dalle lotte della classe operaia. In secondo luogo il comunismo non è più soltanto un appello morale rivolto genericamente ad ogni uomo affinché si adoperi a mitigare e a correggere i mali della società: il comunismo è un concreto programma politico volto a cambiare dalle fondamenta la struttura della società capitalistica mediante l'organizzazione delle forze lavoratrici.
In terzo luogo nel comunismo moderno cambia il modo stesso di intendere la comunanza dei beni. Il comunismo antico l'aveva per lo più interpretata come uguale distribuzione delle ricchezze, ossia beni di consumo (cibo, vestiario ecc.) senza proporsi (almeno nella maggioranza dei casi) una riforma del modo di produzione di tali beni. Perciò nel comunismo antico la proprietà privata dei mezzi di produzione (terra, macchine e strumenti di lavoro, materie prime ecc.) non era necessariamente condannata, anche se era prevista qualche forma di limitazione e di controllo della proprietà stessa. Al contrario, il comunismo moderno in quanto nasce come critica della società capitalistica, sa bene che l'ineguale distribuzione delle ricchezze e ogni altra ingiustizia sociale sono solo una conseguenza del monopolio dei mezzi di produzione detenuto dalla classe dei capitalisti. La diseguaglianza va dunque debellata abolendo la proprietà privata dei mezzi di produzione e sostituendola con forme di gestione collettiva da parte di tutti i lavoratori («socializzazione» dei mezzi di produzione).
La parola «socialismo» è entrata nell'uso comune da non più di un secolo e mezzo. Socialisti furono chiamati all'inizio quei pensatori che criticavano il sistema capitalistico mettendone in rilievo i difetti e le ingiustizie. Furono questi primi socialisti che, partendo dal presupposto che ogni ricchezza è prodotta dal lavoro, denunciarono il profitto dei capitalisti come un'odiosa appropriazione del frutto del lavoro altrui. Essi non si limitarono perciò a chiedere per gli operai più umane condizioni di vita, come facevano molti altri studiosi e uomini politici spinti da preoccupazioni puramente umanitarie: essi rivendicarono il diritto di ogni lavoratore ad ottenere l'intero prodotto del proprio lavoro. Ciò però significava l'eliminazione del sistema capitalistico o almeno una sua radicale riforma nel senso di una società fondata sulla collaborazione, nella quale la classe lavoratrice nel suo complesso potesse avere il controllo dei mezzi di produzione. Anche il socialismo, come il comunismo, aveva perciò come obiettivo fondamentale la socializzazione dei mezzi di produzione.
In che cosa si differenziano dunque il socialismo e il comunismo? Si può dire innanzi tutto che mentre le teorie comunistiche richiedevano la socializzazione integrale dei mezzi di produzione, molte teorie socialistiche si accontentavano di una socializzazione solo parziale, limitata per esempio al settore delle banche o a quello della terra ecc. In secondo luogo il socialismo, a differenza del comunismo, non è rigidamente egualitario. Secondo la distinzione fatta da Karl Marx, la società socialista è quel tipo di organizzazione sociale in cui a ciascuno è richiesto un lavoro adeguato alle sue capacità e ciascuno viene compensato in proporzione al lavoro fatto; la società comunista, invece, è quella in cui ciascuno contribuisce come può alla produzione della ricchezza comune ed è compensato in rapporto ai suoi bisogni, non alle sue capacità produttive.
In terzo luogo (ed è forse la differenza più importante) il comunismo rappresenta la scomparsa completa delle classi e di ogni altra divisione sociale, compresa quella tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra funzioni direttive e funzioni subalterne; perciò nel comunismo scompare la distinzione tra governanti e governati, scompaiono gli strumenti di coercizione (polizia, tribunali ecc.) volti ad imporre l'osservanza delle leggi e delle disposizioni emanate dalle autorità, scompare lo Stato e ad esso si sostituisce l'autogestione della società. Nel socialismo, invece continua ad esistere uno Stato, con la sua burocrazia, con un suo apparato di repressione, con un suo sistema di leggi, di norme, di regolamenti.
È necessario aggiungere un'ultima osservazione. Da oltre settant'anni, e cioè a partire dalla rivoluzione russa del 1917, la parola «comunismo» viene di solito usata per indicare i partiti e i regimi nati da quell'avvenimento o che comunque si richiamano ad esso. Veninano così chiamati «comunisti» i regimi esistenti nell'ex URSS, in Cina, in molti Paesi dell'Europa orientale e i partiti che, nel resto del mondo, erano – e in alcuni casi sono - in qualche modo collegati ad essi. Questi regimi e questi partiti hanno sempre proclamato di voler realizzare il comunismo e in questo senso non è sbagliato chiamarli comunisti.
Solo in questo senso, però, giacché in senso proprio, essendo il comunismo la negazione di qualsiasi potere statale, espressioni come «regime comunista» o «Stato comunista», sono pure e semplici contraddizioni in termini. In ogni caso i regimi detti «comunisti» non hanno né realizzato il comunismo né avvicinato in qualche misura la sua realizzazione. Si può anzi dubitare che abbiano messo in atto anche soltanto una qualche forma di socialismo: l'espressione «socialismo reale», che è usata per indicare quel che i regimi comunisti sono stati capaci di fare, vuole appunto sottolineare che esso non ha niente a che fare con i princìpi e gli ideali del socialismo.

UNA DEMOCRAZIA PISTOLERA

Dall'altra parte dell'Atlantico la Rivoluzione industriale aveva investito abbastanza presto gli Stati Uniti, che rappresentavano la prima e la più grande democrazia dell'Occidente e che erano destinati a diventare nel corso di un secolo o poco più la guida indiscussa dell'Occidente. Lo sviluppo economico degli Stati Uniti, però, avrebbe avuto caratteristiche assai diverse da quelle dell'Europa. Uno dei principali fattori di crescita degli Stati Uniti fu infatti la disponibilità pressoché illimitata di terre, che permise di assorbire senza traumi lo sviluppo della popolazione e l'instaurazione di rapporti capitalistici di produzione: la violenza che in Europa esplodeva nei conflitti sociali, negli Stati Uniti veniva dirottata almeno in parte verso la frontiera, contro Indiani e Messicani. Un altro essenziale fattore di sviluppo fu l'incessante flusso di emigranti dall'Europa, che, in una situazione in cui la terra era sovrabbondante, i capitali non mancavano e il punto debole era costituito appunto dalla manodopera (la risorsa tendenzialmente più scarsa), consentì sempre di evitare strozzature drammatiche. Gli Stati Uniti, un grande Paese libero, ricco, lontano ma pure inconfondibilmente europeo, esercitavano una straordinaria attrattiva su quegli Europei che in patria erano alle prese con l'oppressione politica o con la miseria (la miseria tradizionale o quella tutta nuova prodotta dall'industrializzazione). Allo stesso modo, nonostante i pericoli e i disagi a cui andavano incontro i pionieri, l'Ovest esercitava una straordinaria attrattiva sugli Americani. Le terre vergini sembravano offrire illimitate possibilità di arricchimento e di affermazione a chiunque avesse coraggio e Spirito d'intraprendenza. La frontiera doveva diventare un po' il simbolo del modo di vita americano: libertà, competizione, successo.
Molti, in Europa e negli Stati Uniti, erano convinti che l'abbondanza di terre e lo sfruttamento delle incalcolabili risorse dell'Ovest avrebbero assicurato alla società americana, nel rispetto di forme di convivenza libere e democratiche, un pacifico e ininterrotto sviluppo verso un sempre maggiore benessere. Gli avvenimenti successivi avrebbero dimostrato che queste speranze erano scarsamente fondate. Per assicurarsi il controllo dei territori dell'Ovest gli Stati Uniti dovettero aggredire e spogliare a più riprese il Messico e poi impostare una politica di deportazione e di sterminio delle popolazioni indiane. La frontiera era il simbolo dell'America anche negli aspetti più inquietanti della sua esperienza quotidiana: l'assuefazione alla brutalità, alla violenza, alla sopraffazione dei più deboli. Forse gli Stati Uniti erano il Paese più democratico dell'Occidente, ma si trattava di una democrazia assai poco pacifica e che mostrava un disprezzo per i valori dell'umanità e per il diritto delle genti che non era certo inferiore (e spesso risultava nettamente superiore) a quello delle peggiori monarchie assolute del vecchio continente.
Era vero, invece, che l'utilizzazione delle risorse dei territori dell'Ovest avrebbe contribuito in modo decisivo alla crescita economica degli Stati Uniti. Il Governo degli Stati Uniti possedeva ufficialmente tutte le terre delle regioni non ancora colonizzate. Per favorire e insieme per controllare l'imponente fenomeno della colonizzazione, il Governo metteva in vendita le terre da dissodare fissandone l'estensione e il prezzo. Ancora nel 1800 non era possibile acquistare lotti inferiori a 320 acri (130 ettari circa), sicché per entrarne in possesso era necessario sborsare una notevole somma di denaro. Ma nel 1804 la quota minima fu portata a 160 acri e nel 1820 ad appena 80; contemporaneamente il prezzo venne ridotto da due dollari a poco più di un dollaro per acro.
Questi provvedimenti favorirono l'afflusso nell'Ovest di gente di modeste condizioni economiche e consentirono la formazione in quelle regioni di una classe di piccoli e medi proprietari terrieri. Con questi caratteri la colonizzazione avanzò celermente sino al Mississippi. Qui giunta, però, si arrestò per lunghi anni. I coloni non si allontanavano volentieri dalle terre umide e grasse che erano a oriente del gran fiume. Dall'altra parte del Mississippi le condizioni ambientali erano poco incoraggianti: sino alle Montagne Rocciose si estendevano le grandi pianure, calde in estate e gelide in inverno e soggette a lunghi periodi di siccità. Pochi gli alberi, scarsi i corsi d'acqua. Vi regnavano i bisonti, i coyote, i serpenti e, soprattutto, le fiere tribù di Indiani cacciatori a cui si erano aggiunti di recente circa centomila Pellirosse costretti dall'avanzata dei bianchi ad abbandonare i loro antichi territori tra gli Appalachi e il Mississippi. In parte a causa delle difficoltà del clima e del suolo, in parte per timore degli Indiani, i coloni rinunciarono per il momento ad occupare stabilmente la regione delle grandi pianure. Non rinunciarono però ad attraversarla per dirigersi verso regioni più ricche ed ospitali situate al di là delle Montagne Rocciose: la California e l'Oregon.
La Gran Bretagna e gli Stati Uniti rivendicavano entrambi la sovranità sul territorio dell'Oregon dove mercanti dei due Paesi si erano spinti fin dalla fine del Settecento per acquistare pellicce dagli Indiani. Per parecchi anni gli Americani mostrarono solo un modesto interesse per questa regione e i mercanti inglesi, che avevano il loro centro a Fort Vancouver, poterono operarvi liberamente e proficuamente. Intorno al 1833, però, con il pretesto che gli Indiani erano ormai pronti a convertirsi al cristianesimo, gli Americani mandarono nell'Oregon diversi missionari, che fondarono degli stabilimenti a Walla Walla e nella fertile vallata del Willamette. Gli Indiani non mostrarono affatto di interessarsi alla religione dei bianchi, ma l'insediamento dei missionari servì a far conoscere agli americani dell'Est le grandi attrattive del Paese (la fertilità del terreno, la salubrità dell'aria, la ricchezza di boschi, di fiumi, di pascoli) e aprì la strada all'afflusso di nuovi coloni. In capo ad un decennio una forte corrente d'emigrazione aveva preso a dirigersi verso l'Oregon, e nel 1846 gli Stati Uniti poterono trattare da una posizione di forza la spartizione del territorio con la Gran Bretagna.
La California è uno dei territori che gli Stati Uniti strapparono al Messico negli anni Quaranta. Gli Americani che vi si erano stabiliti prima di quella data erano poche centinaia, ma proprio nel gennaio del 1848, qualche settimana prima dell'annessione, venne scoperto nella regione l'oro. In tutta l'America si diffuse allora la febbre dell'oro e turbe di cercatori si spinsero con tutti i mezzi verso la California. Nelle località dove era segnalata la presenza dell'oro intere cittadine sorgevano da un giorno all'altro; esse però venivano abbandonate altrettanto rapidamente quando i giacimenti si esaurivano o quando la notizia di nuovi più ricchi ritrovamenti spingeva altrove la folla dei cercatori. Nonostante il suo carattere tumultuoso, lo sviluppo della California proseguì e si consolidò. L'oro non era la sola ricchezza della regione. Le sue terre erano tra le più fertili d'America e nel suo sottosuolo un altro prodotto attendeva di essere scoperto e di soppiantare l'oro come causa di una nuova «febbre»: il petrolio.

L'OREGON E LA CALIFORNIA

Nella prima metà dell'Ottocento l'avanzata dei coloni americani raggiunse la vallata del Mississippi. Di qui, attraverso le grandi pianure a oriente delle Montagne Rocciose, i pionieri si spinsero verso le regioni dove era nata una nuova frontiera: l'Oregon e la California. I coloni partivano dalla città di Indipendence, sul Missouri, che era chiamata «la porta della prateria» perché ad essa facevano capo le principali piste del Far West. Le carovane che comprendevano decine di carri coperti percorrevano in un giorno 30 o 35 chilometri con il bel tempo, 10 o 15 se il tempo era brutto; la sera si faceva tappa e i carri venivano disposti in quadrato per difendersi dalle belve e dagli eventuali attacchi di Indiani ostili. La pista dell'Oregon era lunga più di tremila chilometri e occorrevano da quattro a cinque mesi per percorrerla. Nel 1841 partì il primo grande convoglio; nel 1845 almeno cinquemila americani avevano compiuto lo stesso percorso. La pista della California si staccava da quella dell'Oregon poco prima del fiume Snake, attraversava il deserto del Nevada e la Sierra Nevada e terminava a Sutter's Fort, nella valle del Sacramento. Complessivamente il viaggio per la California era ancora più lungo e massacrante di quello per l'Oregon. La terza pista che partiva da Indipendence era diretta a Santa Fé, una città in territorio messicano fondata nel Seicento dagli Spagnoli. La pista era stata aperta tra il 1820 e il 1830 dai mercanti americani che commerciavano con il Messico. Furono proprio questi mercanti che attraversarono per primi le pianure con i pesanti carri coperti carichi di merci, sperimentando quel sistema di carovane organizzate che avrebbe più tardi permesso la colonizzazione dell'Oregon e della California. Anche Santa Fé, con tutto il territorio nel Nuovo Messico, passò nel 1848 agli Stati Uniti.
L'annessione dell'Oregon e della California


IL QUARANTOTTO

«Fare un quarantotto» vuol dire fare confusione, baccano, mandare ogni cosa all'aria. Questo modo di dire così frequente nel linguaggio familiare è legato all'impressione che l'anno 1848 ha lasciato nella memoria degli Europei.
Di «confusione» in quell'anno ce ne fu davvero molta: guerre, insurrezioni, rivolte scossero da un capo all'altro il continente europeo. A Berlino il re Federico Guglielmo IV fu costretto a permettere la convocazione di un'Assemblea Costituente, Budapest e Praga insorsero contro l'esercito austriaco; a Vienna le folle manifestarono chiedendo la Costituzione. Molti governi caddero, molti sovrani nel tentativo di conservare il trono approvarono in fretta e furia quelle riforme alle quali per decenni si erano tenacemente opposti; perfino il papa, Pio IX, nel clima acceso di quei giorni, sembrò diventare un riformatore. Parigi, che nel febbraio aveva dato il via all'ondata rivoluzionaria, ebbe l'impressione di rivivere i momenti più entusiasmanti della sua prima grande rivoluzione: il re Luigi Filippo era fuggito, si tornava al suffragio universale e alla repubblica.
L'area più violentemente scossa dall'ondata rivoluzionaria fu l'Impero asburgico, dove in modo più evidente che altrove si incontrarono (e in parte si scontrarono) la componente liberale e quella nazionale del movimento. Mentre in Austria borghesia e mondo contadino si mobilitavano contro l'ordine feudale e contro il governo autoritario, le nazionalità soggette (Ungheresi, Italiani, Boemi, Slavi del sud) rivendicavano la propria autonomia. Sotto queste spinte convergenti l'imperatore, costretto dovunque alla difensiva sul terreno militare, dopo aver licenziato il vecchio Metternich, simbolo dell'Europa della Restaurazione e della Santa Alleanza, dovette piegarsi a concessioni di ogni tipo, nazionali e costituzionali.
L'Italia rientrava per intero, direttamente o indirettamente, nell'area asburgica. La rivoluzione ebbe il suo epicentro a Milano e Venezia, dove assunse caratteristiche nettamente democratiche. Quasi subito però il movimento prese la forma di una guerra di liberazione nazionale sotto la guida dei moderati: Carlo Alberto, re di Sardegna, sostenuto dagli altri sovrani italiani (compreso il papa), era infatti intervenuto contro l'Austria entrando in Lombardia con il suo esercito. La coalizione antiaustriaca ebbe breve durata: i vari principi italiani (a cominciare dal papa) ritirarono quasi subito i loro contingenti, un po' per paura che le forze eversive prendessero il sopravvento su quelle moderate e un po' per il fondato sospetto che la «guerra nazionale» servisse in definitiva solo all'espansionismo sabaudo. Quanto a Carlo Alberto, dopo una campagna condotta in modo stanco e incerto, tale da suscitare le legittime diffidenze degli ambienti democratici piemontesi e lombardi, il 24 luglio 1848 fu sconfitto a Custoza dal maresciallo Radetzky (fin dal 1831 governatore militare della Lombardia e dal 1849 al 1857 governatore generale) e costretto all'armistizio.
Nel frattempo in Francia la Seconda Repubblica (come viene chiamata), che era nata per l'azione concorde di borghesi e operai, aveva sperimentato quanto fosse difficile mettere d'accordo le due componenti su una piattaforma di democrazia politica e di riforme sociali. Il Governo provvisorio nato in febbraio e a cui avevano partecipato esponenti operai e socialisti, aveva proclamato il diritto al lavoro e per renderlo effettivo aveva istituito i cosiddetti «Opifici Nazionali» (Ateliers Nationaux) destinati ad assorbire manodopera disoccupata. Nell'aprile, però, le elezioni per l'Assemblea Nazionale incaricata di elaborare la costituzione della nuova repubblica francese avevano segnato la sconfitta dei gruppi radicali e socialisti.
L'affermazione non solo dei repubblicani moderati, ma dei monarchici dichiarati, legittimisti (ossia sostenitori dei Borboni) oppure orleanisti (i nostalgici di Luigi Filippo) costituiva una palese sconfessione da parte dell'elettorato, soprattutto di quello rurale, della politica sociale del Governo provvisorio e stava a dimostrare quanto fosse isolata in Francia la classe operaia. Si giunse di lì a poco allo scioglimento degli Opifici Nazionali e questo provvedimento provocò, nel giugno, l'insurrezione degli operai parigini. Soffocata nel sangue la rivolta operaia, la Costituente concluse in pochi mesi i suoi lavori. Nel dicembre furono indette le elezioni per il Presidente della Repubblica: sull'onda reazionaria e moderata che era seguita alle sanguinose giornate di giugno e che si era espressa nella richiesta di un «uomo forte» alla guida del Paese, vinse con larghissima maggioranza il principe Luigi Napoleone, nipote del grande Napoleone e pretendente alla sua successione. La Seconda Repubblica somigliava sempre di più a una monarchia e presto lo sarebbe diventata.
Nonostante le sconfitte e i ripiegamenti del movimento rivoluzionario europeo (ma in parte proprio come reazione a questi), vi fu in diversi Stati italiani tra la fine del 1848 e l'inizio del 1849 una ripresa di iniziativa delle forze radicali. Centro ideale della resistenza democratica fu Roma, dove nel febbraio del 1849, cacciato il papa, fu proclamata la Repubblica, a capo della quale venne nominato Giuseppe Mazzini. Nello stesso tempo il Governo piemontese, premuto dalle forze radicali, ritentò la carta della guerra denunciando l'armistizio con l'Austria; il suo esercito, male organizzato e peggio guidato fu nuovamente e sonoramente sconfitto a Novara (2 marzo 1849) da Radetzky. Carlo Alberto, contestatissimo da tutte le parti politiche, abdicò lasciando al figlio, Vittorio Emanuele II, l'ingrato compito di concludere la pace.
L'Austria, dopo aver ristabilito nell'estate del 1848 la situazione militare in Lombardia e in Boemia (dove nel giugno il comandante della guarnigione imperiale aveva schiacciato il movimento rivoluzionario bombardando Praga e istituendo una sorta di dittatura militare) rivolse i suoi sforzi contro l'Ungheria che sotto la guida di Kossuth (1802-1894) riuscì a resistere fino all'agosto del 1849. Anche in Germania in un complicato gioco di finte e inganni tra governi (in primo luogo quello della Prussia) e Parlamenti la controrivoluzione ebbe alla fine il sopravvento e i programmi di unificazione della Germania furono lasciati cadere insieme agli ideali democratici che sulle prime avevano ispirato il movimento.
La bufera rivoluzionaria era passata dovunque venivano ristabilite le forze conservatrici. In Italia la Repubblica romana fu assalita da un corpo di spedizione francese che Luigi Napoleone (prossimo imperatore dei Francesi col nome di Napoleone III) aveva pensato bene di organizzare per conciliarsi i favori dei cattolici che lo sostenevano e della Chiesa; difesa da Garibaldi, la Repubblica su sopraffatta ai primi di luglio. La resistenza di Venezia, assediata dagli Austriaci e colpita da un'epidemia di colera, fu piegata solo nell'agosto. A quel punto in Europa i giochi erano fatti: salvo il caso della Francia, dove la Seconda Repubblica avrebbe presto lasciato il posto al Secondo Impero, tornavano ovunque sovrani e governi temporaneamente spodestati.
Il moto del Quarantotto aveva acceso un incendio generale e improvviso, ma di corta durata. Gli erano mancati omogeneità di intenti e coordinamento di iniziative. Gli obiettivi sembravano simili in tutti i Paesi: libertà politica (e quindi nascita di regimi costituzionali, che ponessero definitivamente termine all'assolutismo), indipendenza e unità nazionale (e quindi ricomposizione dell'assetto europeo uscito dal Congresso di Vienna sulla base del principio di nazionalità): il movimento però era cresciuto senza riuscire mai a darsi un'effettiva unità. Vi erano stati coinvolti gruppi sociali diversi (grande e piccola borghesia, classe operaia, contadini) tutti con proprie aspirazioni e con interessi spesso in contrasto. Ancora una volta, poi, come già era accaduto nelle precedenti ondate rivoluzionarie, mentre erano stati soprattutto i gruppi sociali marginali o le classi lavoratrici urbane (studenti, operai, piccoli borghesi, disoccupati) a battersi nelle strade e ad assumere le iniziative più audaci, era toccato ai membri dei gruppi sociali più influenti (professionisti, intellettuali, proprietari, imprenditori capitalisti) assumere la guida del movimento e interpretarne lo spirito.
Al di là delle comuni ma generiche aspirazioni liberali, anche gli ideali più propriamente politici del movimento erano risultati assai eterogenei: si andava dai liberali moderati non contrari a compromessi con il vecchio regime e con i vecchi gruppi dirigenti ai democratici e repubblicani estremi (Mazzini in Italia), o ai socialisti (Louis Blanc in Francia). A frantumare il movimento in tante vicende slegate c'erano stati infine i particolarismi e le rivalità nazionali (si pensi soltanto, nell'ambito dell'Impero asburgico, ai contrasti che tradizionalmente opponevano Tedeschi a Ungheresi, Slavi a Italiani, Ungheresi a Slavi, Italiani a Tedeschi ecc.). Su tutto ciò potevano facilmente innestarsi ambizioni dinastiche e giochi di potenza: la scelta «nazionale» di Carlo Alberto e di Casa Savoia, ad esempio, era per intero riconducibile a un disegno di ingrandimento del Regno di Sardegna a spese del Lombardo-Veneto.
Di fronte alla divisione delle forze rivoluzionarie, quelle della conservazione avevano mantenuto solidi strumenti di potere (a cominciare dall'organizzazione delle forze armate) e vaste capacità di intervento. Così, quando era parso che il vecchio equilibrio europeo fosse definitivamente alterato e che uno dei suoi pilastri, l'Impero multinazionale asburgico, fosse sul punto di crollare, quelle forze erano riuscite a riprendere in mano la situazione.
Non si trattava però di una seconda Restaurazione. Lo schieramento delle forze nazionaliste, democratiche e liberali era stato indubbiamente sconfitto, ma i veri vincitori non erano stati i reazionari, buoni al più a guidare la repressione, ma i moderati, i sostenitori, cioè, del cambiamento nella continuità, della necessità di cambiare qualcosa perché tutto più o meno restasse come prima. In Italia il Piemonte, dopo la breve prevalenza di un orientamento quasi democratico, tornò in mano ai moderati (di cui sarebbe diventato geniale guida negli anni Cinquanta Camillo Benso conte di Cavour): a Genova i bersaglieri piemontesi si rifecero delle sconfitte subite dagli Austriaci soffocando nel sangue una rivolta democratica e popolare che chiedeva la prosecuzione della guerra rivoluzionaria contro l'Austria. Nonostante tutto però il nuovo re, Vittorio Emanuele II, confermò la scelta nazionalista e liberale e dodici anni più tardi sarebbe stato premiato diventando il primo re d'Italia.
In Francia Napoleone III, diventato imperatore con un colpo di Stato sostenuto da tutti i conservatori e i reazionari del Paese, fu costretto a dare al suo Impero da operetta un'impronta semiliberale e per esempio, sul piano internazionale, ad appoggia re in funzione antiaustriaca il Piemonte di Cavour. Anche nell'Impero asburgico, dove era salito al trono il giovane Francesco Giuseppe, destinato a regnare per quasi settant'anni, dopo una lunga parentesi di governo autoritario, centralista e burocratico, si sarebbe cercato un compromesso con alcuni settori del movimento nazionale e liberale associando gli Ungheresi ai Tedeschi nella direzione dell'Impero (che fu detto, appunto, austro-ungarico).
Quanto alla Germania, disperse le forze liberali e democratiche, la causa nazionale non fu lasciata cadere: semplicemente, furono le forze conservatrici, le dinastie e i governi dei diversi Stati tedeschi a raccoglierla e a farla trionfare. Spettò alla maggiore potenza tedesca, la Prussia, guidata dal primo ministro Otto von Bismarck, portare a compimento il processo di unificazione nazionale. Dopo una vittoriosa guerra contro l'Impero asburgico, che servì a escludere ogni possibile interferenza austriaca nella questione tedesca, e dopo aver clamorosamente battuto la Francia di Napoleone III, che presumeva di poter condizionare l'assetto politico della Germania, la Prussia fu in grado di imporre la propria volontà agli altri Stati tedeschi: il 18 gennaio 1871 i principi tedeschi proclamarono il re di Prussia imperatore di Germania.
Le "cinque giornate" di Milano


OPERAI SOCIALISTI E BORGHESI DEMOCRATICI

L'esperienza forse più significativa delle difficoltà di collaborazione tra il movimento operaio e le correnti democratiche della borghesia fu quella che si svolse in Francia tra il febbraio e il giugno del 1848. Come sappiamo, a Luigi Filippo erano bastati pochi anni per farsi odiare dagli operai francesi che all'inizio del suo regno avevano riposto in lui speranze e fiducia. In breve però, i suoi atteggiamenti autoritari, la ristrettezza della base politica della sua monarchia costituzionale, la corruzione dei suoi ministri e dei suoi funzionari lo avevano reso insopportabile anche ad una larga parte della borghesia.
La comune opposizione alla monarchia avvicinò operai e borghesi democratici: gli uni e gli altri lavorarono intensamente, in organizzazioni clandestine comuni, a rovesciare il Governo. Nel febbraio del 1848, finalmente, in coincidenza di una grave crisi economica che aveva fatto esplodere il malcontento generale, un vigoroso movimento insurrezionale cacciò Luigi Filippo dalla Francia. Gli insorti proclamarono la repubblica. Come già nel luglio del 1830, erano stati soprattutto gli operai a combattere sulle barricate. Nel 1830 gli operai francesi non avevano posto alcuna rivendicazione di potere, fidando esclusivamente, per un miglioramento delle proprie condizioni, nella buona volontà dei nuovi governanti. Nel febbraio del 1848, resi diffidenti dall'esperienza passata, non si accontentarono più di promesse, ma vollero che alcuni loro rappresentanti entrassero nel Governo.
Uno dei due rappresentanti operai era un noto esponente socialista, Louis Blanc; l'altro un semplice meccanico, conosciuto col nome di Albert. Tutti gli altri membri del Governo erano borghesi. Albert non contò mai nulla; Louis Blanc fu subito isolato e poté fare assai poco; tuttavia fu più tardi indicato come il responsabile di tutti gli errori del Governo. L'esperienza del 1848 in Francia indicò come la partecipazione isolata di alcuni esponenti operai ad un Governo borghese, anche se democratico non sia assolutamente sufficiente a garantire un indirizzo stabile di riforme sociali.
Una delle prime dichiarazioni del Governo nato dalla rivoluzione diceva:

... Il Governo provvisorio della Repubblica francese s'impegna a garantire l'esistenza degli operai attraverso il lavoro.
S'impegna a garantire il lavoro a tutti i cittadini.
Riconosce che gli operai devono associarsi tra loro per godere del frutto del loro lavoro...

Intanto però il Paese era in piena crisi economica e il numero dei disoccupati era in continuo aumento. Gli operai, che non riuscivano ad avere delle riforme, chiedevano almeno che non li si lasciasse morire di fame. Il Governo ricorse ad un fortunato espediente: arruolò, con la paga di un franco e mezzo al giorno, tutti i disoccupati in una specie di grande esercito del lavoro, organizzato in brigate e plotoni, sul modello dell'esercito vero. A capo di questo esercito di lavoratori mise uomini fidati, cioè avversari decisi dei socialisti. Diede poi a questo esercito il nome di «Opifici Nazionali», tanto da far credere che la sua funzione fosse quella di produrre beni e di fornire servizi nell'interesse della comunità. Il suo vero scopo però era quello di dividere i lavoratori e di assoldarne una parte a sostegno del Governo. Lo spiegò molto bene all'Assemblea Costituente il ministro che aveva ideato e organizzato gli Opifici Nazionali:

... Non sono fabbriche; non dovete cadere in equivoco: si tratta di un esercito di lavoratori. Questo esercito vive intorno a Parigi e dentro Parigi e finora in ogni posto si è sempre dimostrato pacifico, amico dell'ordine, paziente, rassegnato. Questo solo risultato compensa largamente le grandi spese sostenute...

Quando la borghesia francese si sentì abbastanza forte per affrontare uno scontro aperto con la classe operaia, gli Opifici Nazionali vennero liquidati e i centomila operai in essi impiegati furono gettati sul lastrico. Il Governo e la maggioranza dell'Assemblea Costituente adottarono i provvedimenti necessari il 21 e il 22 giugno. La mattina del 23 giugno Parigi fu attraversata dai primi cortei operai di protesta: vennero erette le prime barricate. Qualche democratico, sinceramente addolorato della tragedia che si avvicinava, tentò di convincere il Governo e l'Assemblea Costituente a fare un gesto di comprensione e di simpatia per gli operai, che avrebbe potuto ancora arrestare la crescita della collera popolare. Ma il ministro della guerra, il generale Cavaignac, un repubblicano di destra che aveva l'appoggio dell'Assemblea Costituente, dichiarò che non c'era nulla da fare che bisognava solo aspettare. Egli voleva che l'insurrezione operaia crescesse ancora, sicuro di poterla poi schiacciare, spezzando una volta per tutte la resistenza del proletariato parigino.
Sino al 25 giugno si combatté per le strade di Parigi. Gli operai erano disorganizzati, senza capi, senza alcuna possibilità di prevalere sulle ingenti forze messe in campo dal generale Cavaignac. Si batterono ugualmente con valore e furono massacrati. Un grande pensatore socialista, Pierre-Joseph Proudhon, lasciò nel suo diario un'agghiacciante testimonianza degli avvenimenti del giugno:

... Questa insurrezione è la più terribile di quelle che si sono avute negli ultimi sessant'anni. Sono stati commessi enormi massacri da parte della guardia mobile dell'esercito. [...] Gli insorti hanno dato prova di un coraggio indomito. [...] Il terrore regna a Parigi...

Il 28 giugno scriveva:

... Si fucila alla Conciergérie, al Municipio; da quarantotto ore non si combatte più, ma si continua con le fucilazioni; si fucilano i prigionieri feriti, disarmati. [...] Si diffondono atroci calunnie sugli insorti allo scopo di eccitare contro di loro la vendetta. [...] Che orrore!...

IL RISORGIMENTO ITALIANO

Con «Risorgimento» viene indicato il processo che nel corso del secolo XIX ha condotto alla formazione di uno Stato nazionale italiano a regime liberale. Il nome stesso fa riferimento a una delle leggende fabbricate dal pensiero risorgimentale: quella di un'antichissima Nazione italiana, i cui diritti e i cui valori sarebbero stati conculcati nel periodo delle cosiddette «dominazioni straniere» prima dalla Spagna (dagli inizi del Cinquecento agli inizi del Settecento), poi dall'Austria. Naturalmente una tale Nazione, almeno nel senso di una comune, generale volontà degli Italiani di essere un solo popolo e di avere un solo Governo, non è mai esistita sino al 1861, quando è stato proclamato il Regno d'Italia, come conseguenza dell'annessione al Piemonte delle altre regioni italiane precedentemente soggette a governi diversi. Gli stessi protagonisti del Risorgimento italiano erano perfettamente consapevoli che la coscienza nazionale era patrimonio di una parte esigua del popolo italiano e si dice che, compiuta unità della patria, uno di loro abbia commentato con una punta di preoccupazione: - L'Italia è fatta: ora bisogna fare gli Italiani -.
Nel 1815, ossia alla conclusione del Congresso di Vienna, esistevano in Italia ben nove Stati (senza contare San Marino). Benché non mancassero tra gli abitanti delle diverse regioni tradizioni e legami comuni, in pratica essi si consideravano vicendevolmente stranieri. Viceversa la presenza austriaca in gran parte dell'Italia non era sentita come un dominio straniero, in quanto l'esistenza di nazionalità diverse sotto un unico Impero era un fatto tutt'altro che raro.
Anche le comunicazioni erano nei primi decenni dell'Ottocento ancora assai lente e difficili. Andare da Milano a Roma o da Genova a Napoli non era una cosa da nulla come oggi. La prima linea ferroviaria fu inaugurata nel 1839, da Napoli a Portici (8 km), ma le ferrovie non cominciarono a svilupparsi su larga scala che assai più tardi. Il telegrafo ebbe un'applicazione molto lenta, e se il primo battello a vapore fece la sua comparsa a Napoli già nel 1818, dopo pochi viaggi era ridotto fuori uso. A ostacolare gli scambi commerciali tra le varie regioni c'erano le numerosissime barriere doganali: tra Milano e Bologna se ne incontravano sei. Per andare da Firenze a Milano (350 km) le merci impiegavano ancora, nel 1839, dai 40 ai 50 giorni.
È naturale che in queste condizioni le idee di patria e di unità nazionale stentassero a farsi strada. Dapprima trovarono terreno favorevole solo nelle classi colte e specialmente in quegli intellettuali di condizione borghese o aristocratica che si erano formati alla cultura illuministica o erano rimasti legati in qualche modo all'esperienza napoleonica. Furono questi gli animatori di moti e cospirazioni che si svilupparono dapprima nel 1820-21 a Napoli e a Torino, poi nel 1830 a Modena e in altre parti d'Italia, e che furono duramente repressi dai vari governi talvolta con la partecipazione diretta di truppe austriache. Tali moti si basavano ancora su programmi nei quali era nettamente prevalente su quello dell'indipendenza nazionale, l'obiettivo di ottenere riforme politiche in senso moderatamente liberale. Questi movimenti, ristretti a pochi seguaci, erano ulteriormente indeboliti dall'illusione di una possibile alleanza con qualcuno almeno dei sovrani dell'antico regime.
Il primo che formulò chiaramente un programma di indipendenza nazionale fu, dopo il 1830, Giuseppe Mazzini, il quale dedicò l'intera vita (trascorsa in gran parte in esilio), a propagandare l'idea che la rinascita italiana doveva essere il frutto dell'iniziativa dello stesso popolo italiano, senza l'aiuto o la partecipazione né di sovrani italiani, che si erano dimostrati in più occasioni totalmente inaffidabili (fidare nelle parole di un re, diceva, è come riposare sulle pale di un mulino), né di potenze straniere. Per dar forza a questa sua idea, Mazzini fondò l'organizzazione clandestina della Giovane Italia mediante la quale organizzò insurrezioni e colpi di mano, che non ebbero alcun successo immediato, ma servirono egregiamente a fare «propaganda con i fatti» (per adoperare un'espressione che sarebbe stata più tardi usata dagli anarchici).
Queste azioni, che oggi si direbbero «terroristiche», da un lato avevano valore di esempio, abituando gli Italiani all'idea che non fosse possibile alcun riscatto nazionale senza «martiri» e senza un adeguato sacrificio di sangue. Da un altro lato, proprio il sangue versato in queste imprese suicide e quello che inevitabilmente vi si aggiungeva per effetto delle rappresaglie poliziesche serviva a scavare un solco di odio e di diffidenza tra il popolo e i governi, scongiurando l'eventualità che Mazzini temeva di più: il trionfo di una linea di compromesso, che, attraverso un rinnovamento di facciata dei vecchi regimi, avrebbe ridato a questi il fiato per durare e allontanato indefinitamente una prospettiva rivoluzionaria. Il riscatto nazionale italiano, infatti, non tollerava, secondo Mazzini, mezze misure: doveva coincidere con un totale e radicale rinnovamento non solo delle istituzioni politiche, ma dell'animo e della cultura degli Italiani.
Nonostante l'efficacia di questa azione di propaganda, gli ideali di patriottismo e di libertà coltivati da Mazzini continuarono ad essere patrimonio di pochi, poiché gli strati sociali inferiori e le grandi masse contadine non videro mai in essi validi motivi di mobilitazione. Come avrebbe osservato Garibaldi nelle sue memorie a proposito della campagna del 1848-49, «la bella gioventù» che lo seguiva era quasi tutta formata da «elemento cittadino e culto, poiché ben si conosce che tra i corpi volontari che ebbi l'onore di comandare in Italia, l'elemento contadino è mancato sempre».
In generale patriottismo e rivoluzione erano la stessa cosa agli occhi dei moderati e dei conservatori. Basti pensare che ancora dopo il 1845 «patria» era parola sospetta in Piemonte e che persino i partecipanti ai congressi degli scienziati italiani venivano schedati dalla polizia di Carlo Alberto. I programmi nazionali e patriottici poterono esprimersi in modi più espliciti quando, dopo il 1840, una nuova corrente politica (che aveva il suo maggiore esponente nell'abate piemontese Vincenzo Gioberti), sviluppò un progetto di emancipazione italiana basato sull'idea che la rivoluzione nazionale non dovesse significare senz'altro abbattimento del vecchio ordine e sovversione sociale. Gioberti sostenne anzi che il papa e il clero cattolico avrebbero potuto trovare nuova forza e nuovo prestigio mettendosi alla testa di questo processo e facendosi promotori di una federazione degli Stati italiani.
Neppure i programmi di Gioberti erano destinati a essere realizzati, anche se per un momento parve che un papa (Pio IX) cominciasse a metterli in pratica. Il loro effetto fu però di rendere i programmi nazionali più «rispettabili» e meno temuti, suscitando vaste adesioni all'idea dell'indipendenza italiana anche tra i «benpensanti».
Ma il fatto che assicurò il successo del movimento nazionale, fu l'adesione ad esso della monarchia dei Savoia. Carlo Alberto, dopo che i moti scoppiati nel 1848 a Milano e a Venezia avevano messo in difficoltà gli Austriaci, scese in campo penetrando con il suo esercito in Lombardia. La guerra contro l'Austria finì in un disastro. Ma nonostante la sconfitta, in Piemonte il regime costituzionale fu mantenuto e, specialmente sotto il governo del conte di Cavour (1851-1861), vennero avviate importanti riforme economiche e politiche. Egli riuscì inoltre a guadagnare l'appoggio della Francia (interessata a diminuire la potenza austriaca) e a convincere molti governi europei che porre il re di Sardegna alla guida del movimento nazionale italiano era l'unico modo per evitare che tale movimento assumesse caratteristiche rivoluzionarie pericolose per tutti. Così dopo una nuova guerra contro l'Austria vinta con l'aiuto della Francia (1859), il Piemonte poté annettersi la Lombardia e insieme la Toscana, Modena e Parma, le cui popolazioni erano nel frattempo insorte contro i rispettivi governi.
L'annessione dell'Italia meridionale al Piemonte fu invece opera di Giuseppe Garibaldi, un abile e coraggioso capo militare, esperto nella tattica della guerriglia e convinto democratico. Sbarcato in Sicilia nel 1860 con un numero esiguo di volontari (la sua spedizione è detta «dei Mille»), riuscì a sollevare la popolazione contro la vecchia dinastia borbonica e ad aumentare rapidamente gli effettivi del suo esercito. Conquistata l'isola, risalì l'Italia meridionale fino a Napoli. Fu questo l'unico esempio di guerra di popolo combattuta con successo nel corso del Risorgimento. Il Governo piemontese, soddisfatto delle conquiste di Garibaldi, che operava in nome del re Vittorio Emanuele II, ma preoccupato di non lasciare l'iniziativa nelle sue mani, organizzò una spedizione militare che strappò allo Stato Pontificio l'Umbria e le Marche, ma che soprattutto aveva lo scopo di tagliare la strada a Garibaldi, che, senza tener conto della possibile reazione dell'Austria e della stessa Francia (dove Napoleone III aveva bisogno dell'appoggio dei clericali), meditava di proseguire l'avanzata su Roma.
In questo modo tutte le regioni italiane (salvo il Veneto e il Lazio) furono unite nel Regno d'Italia (1861). Il Risorgimento poteva dirsi concluso, come i moderati volevano, senza gravi rivolgimenti sociali, sotto il controllo e l'iniziativa della dinastia dei Savoia e della classe dirigente piemontese. Le classi popolari erano rimaste in gran parte estranee al movimento, oppure se vi avevano partecipato (come nel caso dei contadini meridionali) furono ben presto respinte ai margini del nuovo Stato nazionale e le loro speranze di rinnovamento sociale andarono interamente deluse. Il nuovo Stato italiano nasceva come espressione di una minoranza: la borghesia.
Giuseppe Mazzini (1805-1872)


CAPITALISMO E SCHIAVITÙ

Gli Stati Uniti, che nel nostro secolo sarebbero diventati il più grande Paese capitalistico del mondo, a metà del secolo scorso conservavano ancora un'istituzione che in Europa era scomparsa da mille e cinquecento anni: la schiavitù come forma di sfruttamento della manodopera agricola. Da secoli contro la schiavitù si erano venuti accumulando argomenti di ogni sorta: morali, religiosi, umanitari ecc. Alla fine la schiavitù era stata formalmente condannata dalle potenze europee, i mercanti di schiavi venivano perseguiti penalmente e la tratta dei neri, se non era stata stroncata, veniva quanto meno combattuta. Anche negli Stati Uniti, naturalmente, la discussione sulla legittimità e sulla opportunità di una simile istituzione era molto accesa e lo era tanto più in quanto essa coinvolgeva interessi economici molto consistenti.
In linea di principio non c'era nessuna incompatibilità tra capitalismo e schiavitù, ma in concreto gli interessi delle regioni capitalisticamente più avanzate degli Stati Uniti e quelli delle regioni a economia schiavistica erano da tempo entrati in rotta di collisione. L'oggetto del conflitto erano i territori dell'Ovest. Non si trattava solo di decidere chi alla fine si sarebbe impadronito di quelle terre: il problema riguardava piuttosto il modello di sviluppo che gli Stati Uniti avrebbero dovuto seguire. Per certi aspetti era un problema antico. Tra il Nord e il Sud degli Stati Uniti esistevano infatti fin dall'epoca coloniale profonde differenze economiche, sociali e culturali che il processo di industrializzazione aveva reso esplosive.
L'economia del Sud era fondata sulle grandi piantagioni di tabacco e di cotone affidate al lavoro degli schiavi; nel Nord invece le terre erano coltivate da agricoltori liberi e nelle città prosperava ogni sorta di attività commerciali, industriali e marittime. La società del Sud era caratterizzata dal contrasto tra la ristretta classe dei grandi proprietari terrieri e la massa degli schiavi africani, allevati in greggi come il bestiame. La società del Nord era invece più varia e dinamica, le diseguaglianze erano meno appariscenti, la schiavitù pressoché inesistente e in alcuni Stati formalmente proibita.
Nei primi decenni dell'Ottocento il Nord entrò in una fase di rapido sviluppo industriale. Questo aveva favorito, tra l'altro, l'immigrazione di migliaia di operai europei, desiderosi di trovare un lavoro e disposti ad accettare un salario che, per quanto generalmente superiore a quello che avrebbero ricevuto in patria, era pur sempre misero: molti piantatori del Sud erano convinti che i propri schiavi vivessero in condizioni migliori di quelle riservate agli operai del Nord. Come era successo in Inghilterra e come stava succedendo in altri Paesi europei, l'industrializzazione modificò sensibilmente la società del Nord. Il nuovo ceto dei capitalisti industriali e degli uomini d'affari spodestò le vecchie classi dirigenti dell'età coloniale e impose a tutti la propria supremazia, che era poi la supremazia del denaro. Il vecchio artigianato fu a poco a poco sostituito dal più rigido sistema di fabbrica e le condizioni di vita delle classi lavoratrici peggiorarono.
Ma il mutamento più vistoso che seguì l'industrializzazione fu un eccezionale sviluppo urbano. Pur avendo, a differenza di quelli del Sud, una vivace vita cittadina, gli Stati del Nord avevano conservato fino ai primi dell'Ottocento una caratteristica impronta agricola. Con l'industrializzazione molte aziende agricole incapaci di rinnovarsi tecnicamente furono messe in difficoltà, le comunità di villaggio cominciarono a disgregarsi e i contadini presero ad affluire nelle città attirati dalle nuove possibilità di sistemazione. Anche i nuovi immigrati, pur partecipando numerosi alla colonizzazione dell'Ovest, si fermavano di preferenza nelle grandi città della costa atlantica, dove trovavano un ambiente meno insolito.
Mentre nel Nord si sviluppava una grande società industriale urbana, il Sud si evolveva in senso opposto. Il cotone era diventato il prodotto più importante delle piantagioni e alla sua coltivazione erano impiegati, verso la metà dell'Ottocento, circa il sessanta per cento degli schiavi esistenti negli Stati Uniti. La coltura del cotone, come quella del tabacco, impoveriva rapidamente il terreno: per questo i piantatori si spingevano senza sosta verso Ovest, occupando tutti i terreni migliori dai quali cacciavano gli Indiani o i pionieri che vi si erano stabiliti per primi. Al «regno del cotone», come venne chiamata questa grande area che si estendeva dalla Carolina del Sud al Texas facevano corona le altre regioni del Sud, dove erano coltivati di preferenza riso, zucchero e tabacco. Se i prodotti erano diversi, identico era il sistema della piantagione e identici gli interessi dei piantatori.
Il cotone e gli altri prodotti assicuravano ai piantatori enormi guadagni, ma l'economia del Sud non ne traeva beneficio. Tutte le ricchezze accumulate sfruttando il lavoro degli schiavi venivano infatti impiegate ad estendere ulteriormente le piantagioni, trascurando ogni altra attività. Così, mentre gli Stati settentrionali si costruivano una potente industria, il Sud restava una regione esclusivamente agricola e nei confronti del Nord scivolò a poco a poco verso una posizione di dipendenza quasi coloniale. Il cotone del Sud, infatti, serviva ad alimentare le industrie tessili del Nord. Se era esportato in Europa, erano le navi del Nord che lo trasportavano oltre oceano ed erano i commercianti del Nord che concludevano l'affare con i loro corrispondenti europei. D'altra parte, essendo privo di fabbriche, il Sud era costretto a rivolgersi al Nord per ottenere tutti i prodotti industriali di cui aveva bisogno.
Il malcontento per questa situazione era molto diffuso negli Stati del Sud, che si consideravano vittime dei volgari affaristi del Nord. Era prevedibile che si sarebbe giunti ad una rottura qualora al predominio economico degli Stati settentrionali si fosse aggiunto il predominio politico. In questo senso la questione più scottante era proprio quella dei territori da colonizzare, nei quali sarebbero nati nuovi Stati, la cui influenza sul Governo centrale avrebbe potuto modificare l'antico equilibrio tra Sud e Nord. Per i piantatori del Sud estendere il sistema della piantagione e la schiavitù in queste regioni significava non solo conquistare altre terre, ma anche garantirsi il controllo politico dei nuovi Stati. Per la stessa ragione gli industriali e gli uomini d'affari del Nord erano decisamente contrari a che la schiavitù prendesse piede nell'Ovest. Essi si preoccupavano pochissimo della sorte dei neri e non parlarono mai di abolire la schiavitù negli Stati in cui già esisteva: volevano semplicemente impedire che sorgessero nuovi Stati a base schiavistica, in modo da conquistare un pieno ed efficace controllo della vita economica e politica del Paese.

NAT TURNER E JOHN BROWN

Le capacità di resistenza o di rivolta degli schiavi neri erano molto prossime allo zero: avviliti, disorientati, trapiantati brutalmente in un mondo ostile e violento, con nessun altro conforto all'infuori di un po' di religione, i neri non disponevano neppure degli elementari strumenti culturali necessari a prendere coscienza della propria condizione. Ciò non significa che non ci fossero esplosioni di protesta. Ma la protesta dei neri d'America si esprimeva soprattutto in forme individuali: la fuga, il furto, l'omicidio; la resistenza collettiva e la ribellione armata erano fenomeni rari, fatalmente destinati a una rapida sconfitta.
Uno dei più importanti e sanguinosi tentativi di rivolta armata fu quello guidato nel 1831 da Nat Turner, uno schiavo della contea di Southampton in Virginia. Mentre si trovava in prigione in attesa di essere giustiziato lo stesso Nat Turner raccontò la storia della sua vita e del suo tentativo di insurrezione a un avvocato che l'anno successivo la pubblicò in un opuscolo.
La nonna di Nat Turner era originaria della Costa d'oro e, subito dopo lo sbarco in America, all'età di appena tredici anni, aveva dato alla luce una bambina, la madre di Nat. La madre di Nat era morta quando il figlio aveva quindici anni; il padre era scappato tempo prima abbandonando la famiglia. Fin da piccolo Nat era parso troppo intelligente per essere allevato come uno schiavo qualunque e il suo padrone volle insegnargli a leggere e a scrivere. Così la sua vita fu diversa da quella degli altri ragazzi di colore: niente fatiche pesanti, solo lavori nei quali poteva mettere a frutto l'intelligenza naturale e l'istruzione ricevuta. Faceva il falegname, costruiva macchine, sperimentava trappole e altri congegni. Ma soprattutto leggeva e meditava la Bibbia tanto da diventare il miglior conoscitore della Sacra Scrittura di tutta la contea e da meritarsi il nomignolo di «il Predicatore».
Pieno di fervore religioso, nei lunghi digiuni di penitenza e di preghiera immaginava di avere delle visioni e si convinse da certi segni di essere destinato dalla volontà divina a una grande impresa. Ripeteva continuamente quei brani della Bibbia nei quali credeva di trovare conferma della missione assegnatagli: «Cristo ci ha liberati perché fossimo liberi; state dunque saldi e non vi lasciate di nuovo porre sotto il peso della schiavitù»; «si spezzino le catene della malvagità, si sciolgano i legami del giogo, si lascino liberi gli oppressi, s'infranga ogni sorta di catene»; «presto sarà il momento in cui gli ultimi saranno i primi e i primi saranno gli ultimi». Nella sua esaltazione religiosa, Nat finì per vedere se stesso come un implacabile strumento di punizione. Sognava che, a un suo cenno, tutti gli schiavi si sarebbero sollevati per formare un nero, maestoso esercito del Signore.
Quando credette di aver ricevuto l'ultimo e definitivo segno della volontà di Dio, Nat decise di passare all'azione. Aveva trentun anni. Insieme con alcuni compagni studiò accuratamente il piano servendosi di una carta topografica che aveva ricopiato nella biblioteca del padrone. Nat intendeva marciare su Jerusalem, capitale della contea, e conquistare l'armeria. Quindi gli insorti si sarebbero rifugiati nelle Paludi della Morte, a cinquanta chilometri dalla città, dove la difficoltà del terreno e l'abbondanza di selvaggina e di pesce avrebbero permesso loro di resistere agli attacchi dei bianchi.
La rivolta scoppiò il 21 agosto 1831. Gli insorti massacrarono senza pietà tutti i bianchi che incontravano per impedire che fosse dato l'allarme. Vennero uccisi 55 bianchi e altri 20 furono feriti. Ma una ragazzetta sfuggì al massacro e avvertì le autorità. Gli insorti furono fermati a un chilometro da Jerusalem dalle truppe a cavallo di tre contee, a cui si erano uniti i proprietari bianchi della zona. Il gruppo dei ribelli, che inizialmente contava 25 persone, era aumentato fino a 75. Molti di loro, però, che si erano ubriacati nonostante il severo divieto di Nat, invece di battersi si diedero alla fuga. Nat aveva sperato che i diecimila neri della contea si sarebbero ribellati e uniti a lui. Non fu così. Parecchi neri, anzi, si armarono per schierarsi con i padroni.
Nat fu catturato il 30 ottobre. Durante il processo dichiarò di non sentirsi colpevole e di non provare rimorso, perché sterminare i bianchi per liberare i neri era un'opera santa. Fu impiccato l'11 novembre. Dei suoi compagni 16 vennero impiccati, 15 deportati e 25 prosciolti da ogni accusa per evitare che i loro proprietari dovessero pagare i danni causati dalla rivolta. I bianchi si vendicarono per proprio conto uccidendo un centinaio di negri che avevano solidarizzato con i ribelli. I corpi degli impiccati furono sepolti secondo le regole. Ma quello di Nat Turner fu consegnato ai medici i quali lo scuoiarono e della carne fecero grasso. Dalla sua pelle fu ricavato un portamonete. Subito dopo il processo fu vietato ai padroni di liberare i propri schiavi e di insegnare ai bambini neri a leggere e scrivere.
Un altro importante episodio di rivolta si deve invece a un bianco, John Brown. John Brown, come Nat Turner, era uno spirito profondamente religioso, ed era convinto che la schiavitù fosse un orribile peccato. Riteneva che ogni buon cristiano dovesse combatterla con tutti i mezzi a sua disposizione e anche con le armi, se necessario. Odiava i proprietari di schiavi, i preti che promettendo la libertà in paradiso esortavano i neri ad accettare la schiavitù in terra, e gli uomini politici che in teoria si dichiaravano contrari alla schiavitù, ma in pratica non facevano nulla per abolirla.
John Brown, invece, voleva fare tutto il possibile. Aveva messo insieme un'organizzazione segreta chiamata «ferrovia sotterranea» che aiutava i neri a fuggire dalle piantagioni e a rifugiarsi negli Stati del Nord. Una volta, nel Missouri, liberò con la forza undici schiavi e li trasportò in Canada. Fu inseguito dai poliziotti e da un gruppo di schiavisti per ben ottantadue giorni su oltre 1600 chilometri di strade e sentieri gelati, ma riuscì a sfuggire alla caccia nonostante che il presidente degli Stati Uniti avesse messo sulla sua testa una taglia di 3000 dollari. Tutto questo però non gli sembrava sufficiente. Studiò allora le tecniche della guerriglia e passò ad organizzare la lotta armata. Nell'ottobre del 1859 con i tre figli e altri compagni bianchi e neri, ventidue uomini in tutto, occupò la città di Harper's Ferry in Virginia e si impadronì dell'arsenale dove erano custodite le armi. L'intenzione era di rifornirsi di armi, convincere altri schiavi neri ad unirsi a lui e ritirarsi sui monti Allegheny che si estendevano dai confini dello Stato di New York fin nel cuore degli Stati schiavisti del sud. Qui sarebbe sorto a poco a poco un esercito guerrigliero che con improvvisi attacchi alle fattorie avrebbe liberato altri schiavi che a loro volta si sarebbero uniti alla lotta.
Senonché, come già era successo con Nat Turner, invitati a ribellarsi, i neri non si mossero. Nella speranza di rincuorarli e di convincerli a combattere, invece di ritirasi subito sulle montagne, John Brown volle dimostrare che la sua banda era abbastanza forte da tenere un'intera città e perse del tempo; ne perse dell'altro con i prigionieri (una trentina in tutto), per rassicurarli che non sarebbero stati uccisi; infine lasciò passare un treno per dimostrare che la sua guerra era diretta solo contro lo schiavismo e che per il resto le sue intenzioni erano pacifiche. Così però diede modo a un reparto dell'esercito di raggiungere e circondare la banda. Dieci uomini, tra cui due figli di John Brown, caddero combattendo. John Brown con cinque compagni, tutti feriti, resistettero per coprire la fuga degli altri, poi si arresero. In tribunale John Brown non si limitò a difendere se stesso e i compagni, ma accusò i giudici di essere i veri delinquenti:

... Sono intervenuto in difesa dei poveri disprezzati. Se ritenete necessario che io debba sacrificare la mia vita in nome della giustizia e mescolare il mio sangue e quello dei miei figli con il sangue di milioni di esseri, in questa terra di schiavi, che vedono i loro diritti calpestati da leggi malvagie, crudeli e ingiuste, ebbene, così sia...

Fu condannato all'impiccagione. Dal carcere scrisse ad un amico:

...Quando sarò pubblicamente assassinato non voglio che si dicano per me preghiere ipocrite. Voglio che ad assistermi non ci siano dei preti, ma dei piccoli ragazzi e ragazze schiavi, trasandati, cenciosi, a testa e a piedi nudi, guidati da qualche vecchia schiava dai capelli grigi...

La mattina dell'esecuzione consegnò un biglietto ad una guardia. Vi era scritto:

Charleston, Virginia, 2 dicembre 1859.

Io, John Brown, sono ora certissimo che i delitti di questo colpevole Paese non saranno mai lavati che dal sangue. Solamente ora capisco che mi illudevo che la liberazione degli schiavi potesse essere fatta senza spargere molto, molto sangue.

Non passò neppure un anno e mezzo dalla sua esecuzione, che gli eserciti del Nord marciarono contro il Sud cantando La canzone di John Brown:

John Brown's body lies a mould'ring in the grave
John Brown's body lies a mould'ring in the grave
John Brown's body lies a mould'ring in the grave
his soul goes marching on!

Glory! glory! hallelujah!
Glory! glory! hallelujah!
Glory! glory! hallelujah!
His soul is marching on!

LA CAPANNA DELLO ZIO TOM

La capanna dello zio Tom, (Uncle Tom's Cabin) è il più noto romanzo di Harriet Beecher Stowe (1811-1896) una scrittrice di discreto talento, capace di unire alla sua prevalente tendenza al patetico tocchi realistici e quasi umoristici. Harriet Beecher Stowe apparteneva ad una famiglia di ministri e predicatori presbiteriani della Nuova Inghilterra. A sua volta profondamente religiosa era una fervente antischiavista e al tema della schiavitù dedicò numerosi racconti e un secondo romanzo, Dred, Racconto della grande palude desolata (1856). Pubblicato a puntate tra il 1851 e il 1852, La capanna dello zio Tom narra le vicende di un coraggioso schiavo nero di nobile animo, che il padrone è costretto a vendere a causa di improvvise difficoltà economiche. Vittima delle persecuzioni del suo nuovo padrone, un individuo gretto e crudele, Tom si impone all'ammirazione degli altri schiavi per la rassegnazione, la forza morale e la fede con cui sopporta umiliazioni e angherie.
Il libro ottenne un immediato successo tanto che fu tradotto in moltissime lingue e nel giro di pochi anni vendette centinaia di migliaia di copie. È stato considerato ai suoi tempi una vigorosa denuncia dello schiavismo e ha dato un formidabile contributo alla propaganda abolizionistica. Oggi conserva un valore, per così dire, «storico», di documento, giacché letterariamente è molto debole: abbondano, secondo il gusto del tempo, le scene strappalacrime come quelle della morte della padroncina e quella dello stesso Tom.
Dal punto di vista politico il romanzo della Stowe è stato giudicato molto severamente soprattutto dai critici di indirizzo radicale per il fastidioso paternalismo con cui viene affrontato il problema della schiavitù. In effetti l'immagine dello schiavo buono che sopporta con rassegnazione i maltrattamenti del padrone risulta alla coscienza contemporanea oltre modo irritante: è anche per questo che l'espressione «zio Tom» è considerata molto offensiva dai neri americani, che giustamente non considerano la rassegnazione una virtù.

LA GUERRA DI SECESSIONE

Fino alla metà dell'Ottocento l'equilibrio politico tra Sud e Nord fu mantenuto, ricorrendo all'espediente di ammettere di volta in volta nell'Unione uno Stato schiavista ed uno libero. A quel punto però si formò negli Stati del Nord un nuovo partito, il partito repubblicano, che aveva come programma di vietare ogni ulteriore espansione della schiavitù nei territori ancora in via di organizzazione. Capo del nuovo partito era Abraham Lincoln un uomo di notevoli capacità che aveva la fiducia tanto degli uomini d'affari della costa atlantica quanto dei liberi agricoltori dell'Ovest. Quando nel 1860 Abraham Lincoln fu eletto presidente degli Stati Uniti con il voto quasi unanime degli Stati del Nord, undici Stati del Sud decisero la «secessione»: decisero cioè di abbandonare l'Unione e di costituire un nuovo organismo indipendente, la Confederazione degli Stati d'America, con capitale Richmond, in Virginia. La guerra cominciò l'11 aprile 1861.
Un vantaggio per l'esercito sudista era rappresentato dal fatto di avere compiti eminentemente difensivi. L'obiettivo di guerra dei confederati era infatti il riconoscimento della secessione, mentre i nordisti per riportare nell'Unione gli Stati del Sud dovevano occuparne il territorio. L'esercito sudista aveva poi i più forti reparti di cavalleria e disponeva di migliori ufficiali: la maggioranza degli ufficiali di carriera dell'esercito americano proveniva infatti dal Sud e allo scoppio della guerra si schierò con la Confederazione. Ma l'esercito dell'Unione era più numeroso e meglio armato: le industrie del Nord lo rifornivano con regolarità ed abbondanza. La Confederazione invece, che aveva pochissime industrie, doveva rivolgersi all'estero per ottenere le armi, le munizioni e gli altri prodotti necessari alla condotta di una guerra che si rivelò subito terribilmente distruttiva. La marina del Nord, nettamente superiore a quella del Sud, pose un blocco strettissimo alle coste della Confederazione e rese estremamente difficili i rifornimenti. La resistenza dei sudisti fu lunga e accanita, ma alla fine la potenza industriale del Nord ebbe la meglio.
La Guerra di secessione fu una delle più sanguinose guerre di tutti i tempi. Il Nord mise in campo circa due milioni di uomini e il Sud più di un milione. I morti furono 360.000 per il Nord e più di 250.000 per il Sud. Centinaia di migliaia furono i feriti e gli invalidi. La devastazione e il saccheggio erano un normale sistema di guerra delle truppe nordiste; il generale Sherman ridusse in cenere intere città, Columbia, Richmond, Atlanta, producendo danni per molte centinaia di milioni di dollari.
Durante la guerra e di fronte alla imprevista resistenza dei Sudisti il presidente Lincoln si era deciso a proclamare l'emancipazione degli schiavi del Sud, nella speranza che i neri si ribellassero contro i loro padroni. In effetti il contributo dei neri era stato importante: 186 mila neri avevano combattuto nell'esercito dell'Unione e ben 60 mila erano morti. Numerosi furono quelli che pur rimanendo nel Sud avevano aiutato i Nordisti fornendo loro informazioni e compiendo sabotaggi ai danni dei propri padroni. Al termine della guerra quattro milioni di neri americani ottennero la libertà. Ma il problema nero era ben lontano dall'aver trovato una soluzione.
Nella mente dei bianchi la liberazione dei neri non doveva significare il riconoscimento della loro uguaglianza con gli altri cittadini, e presto i neri si accorsero che le cose non erano cambiate gran che e che i diritti conquistati servivano a poco. I neri erano poveri, privi di denaro, di terra, d'istruzione: chiesero che venissero distribuiti a ciascuno di loro quaranta acri (poco più di sedici ettari) di terra e un mulo per poterla lavorare. Invece le piantagioni rimasero in possesso dei vecchi proprietari che ripresero a comandare come prima. Nel 1900 su un totale di otto milioni di neri solamente 700 mila possedevano un pezzo di terra e tra questi più di mezzo milione erano carichi di debiti. L'economia del Sud era uscita sconvolta dalla guerra, la povertà era spaventosa, ma i vecchi padroni erano tornati in breve tempo a comandare.
Quanto al Nord, la guerra segnò l'inizio di una fase di grande sviluppo economico: le industrie e gli affari prosperarono come mai era accaduto prima di allora. Lo constatava tra gli altri John Sherman, il fratello del terribile generale nordista:

... La verità è che la fine vittoriosa della guerra dà ai progetti dei grandi capitalisti un tono più elevato e una portata molto più ampia di qualsiasi altro progetto precedente. Oggi essi parlano di milioni di dollari con la stessa disinvoltura con cui prima della guerra parlavano di migliaia...

Il Nord aveva davvero raggiunto i suoi obiettivi di guerra.
Le principali battaglie della Guerra di Secessione americana

ABRAHAM LINCOLN

Abraham Lincoln (1809-1865), capo del partito repubblicano ed esponente degli Stati del Nord, era contrario, in linea di principio, alla schiavitù: «La schiavitù» affermò in un famoso discorso tenuto a Peoria nell'Illinois il 6 ottobre 1854 «si fonda sulla natura egoista dell'uomo, mentre la condanna della schiavitù nasce dall'amore per la giustizia». L'amore di Lincoln per la giustizia non arrivava però sino al punto di reclamare l'abolizione della schiavitù. Il suo programma, prevedeva soltanto che la schiavitù fosse proibita nei nuovi territori dell'Ovest. Quanto agli Stati del Sud, Lincoln si limitava ad auspicare che anche in essi, con l'andare del tempo, la schiavitù finisse per scomparire.
L'elezione di Lincoln alla presidenza degli Stati Uniti provocò la secessione degli Stati del Sud e l'inizio della guerra civile. Ma neppure quando la guerra era aperta, Lincoln volle porre tra i suoi obiettivi l'abolizione della schiavitù: «il mio scopo in questa lotta» dichiarò «è di salvare l'unità del Paese, non di distruggere la schiavitù». Solo alla fine del 1862 Lincoln si decise per ragioni di opportunità a proclamare l'emancipazione degli schiavi. Anche la fine della schiavitù tuttavia non avrebbe dovuto significare secondo il pensiero di Lincoln, la conquista da parte dei neri di una condizione di eguaglianza sociale e politica con i bianchi. Antischiavista convinto, Lincoln era un altrettanto convinto razzista. Nel 1858 si era espresso in proposito molto chiaramente:

... Io non sono mai stato favorevole all'uguaglianza sociale o politica fra la razza bianca e la razza nera. Non sono né sono mai stato favorevole a far votare i neri o a permettere che occupino uffici pubblici o che sposino persone bianche. Sono convinto che fra la razza bianca e quella nera c'è una differenza fisica che vieterà per sempre che le due razze possano vivere insieme su un piano di eguaglianza sociale e politica. E visto che non possono essere uguali, una deve essere superiore all'altra. Io sostengo che la razza bianca deve comandare sulla razza nera...

Lincoln fu assassinato cinque giorni dopo la fine della guerra di secessione. L'assassino era un uomo del Sud che aveva voluto vendicare in questo modo la sconfitta del proprio Paese. Si dice spesso che Lincoln morì per la causa della liberazione; in realtà egli fu semplicemente una delle tante vittime del grande conflitto scoppiato tra il Nord industriale e il Sud agrario per il controllo dei nuovi territori dell'Ovest.

DALLA SCHIAVITÙ ALLA SEGREGAZIONE

A poco a poco gli antichi padroni tornarono al potere nel Sud e approvarono leggi che toglievano ai neri quei pochi diritti che avevano conquistato al termine della Guerra di secessione. Queste leggi furono chiamate «Leggi di Jim Crow», dal nome dispregiativo che i bianchi davano ai neri. In sostanza le Jim Crow Laws sostituirono la schiavitù con la segregazione, cioè con la separazione assoluta fra bianchi e neri, naturalmente a tutto vantaggio dei primi. I neri furono segregati sui mezzi di trasporto, nei luoghi pubblici, compresi ospedali, chiese e cimiteri, nelle scuole, nei quartieri di abitazione, nelle fabbriche e in tutti i luoghi di lavoro. In tribunale essi giuravano su Bibbie separate. Perfino i gabinetti erano separati. Alla fine della guerra civile i neri avevano ottenuto il diritto di voto e infatti nelle prime elezioni furono eletti numerosi rappresentanti di colore. Vi furono 14 deputati e 2 senatori neri. 140 neri furono eletti nel Parlamento della Louisiana; 40 in quello del Mississippi; 39 in quello della Carolina del Sud; 27 in quello della Georgia; in tre Stati il vicegovernatore fu un nero. Ma presto anche il diritto al voto fu tolto ai neri. Dapprima furono usati imbrogli e violenze. I neri che votavano o che ricoprivano una carica o che in qualche modo dimostravano di non volersi rassegnare ad essere trattati come cittadini di rango inferiore non trovavano lavoro oppure venivano minacciati, picchiati, spesso uccisi. Tra il 1880 e il 1910 si verificarono ogni anno circa cento linciaggi di neri. A parte le violenze e le intimidazioni, il diritto di voto fu negato ai neri anche con mezzi legali. Furono approvate leggi che escludevano dall'elettorato chi non sapeva leggere e chi non poteva pagare una determinata tassa, vale a dire gli analfabeti e i poveri. La grande maggioranza dei neri era composta appunto di analfabeti (solamente un nero su dieci sapeva leggere e scrivere, ma i maestri venuti dal Nord per istruirli furono attaccati con violenza dai bianchi) e di poveri. Per quelli che sapevano leggere o che riuscivano a pagare qualche tassa fu escogitato il trucco di permettere il voto solo ai discendenti di quelli che avevano votato nelle elezioni del 1° gennaio 1860; ma in quell'anno, naturalmente, nessun nero aveva potuto votare. Nel 1900 fu eletto l'ultimo deputato nero. Per ventotto anni nel Parlamento americano non entrò alcun uomo di colore. I neri non sapevano fare altro lavoro che quello del contadino ed erano troppo ignoranti per dedicarsi ad altri mestieri. Molti di loro cominciarono ad abbandonare il Sud per recarsi al Nord dove speravano di trovare migliori condizioni di vita e di lavoro. A New York tra il 1890 e il 1910 la popolazione di colore aumentò di quattro volte e lo stesso fenomeno avvenne in altre grandi città. Ma anche al Nord si trovarono alle prese con le difficoltà di sempre: erano poveri e avevano la pelle nera.

LA PRIMA INTERNAZIONALE

Nella prima metà dell'Ottocento i movimenti operai dei diversi Paesi si erano sviluppati indipendentemente l'uno dall'altro, mantenendo solo scarsi contatti reciproci. Eppure i problemi della classe operaia erano simili in tutti i Paesi a economia industriale e il nemico era ovunque lo stesso: la borghesia capitalistica. Nel Quarantotto si era avuta una riprova del fatto che la sorte di ciascun movimento operaio era legata a quella di tutti gli altri: la sconfitta della classe operaia parigina nel giugno di quell'anno aveva segnato una battuta d'arresto per il movimento operaio in tutto il continente europeo. Per alcuni anni le associazioni dei lavoratori e i gruppi socialisti, duramente colpiti dalla reazione delle classi dominanti, avevano perso in Europa qualsiasi capacità di iniziativa. Quando finalmente rinacque un'organizzazione operaia, un'idea si era fatta strada in ogni Paese: quella della solidarietà internazionale dei lavoratori.
Le prime manifestazioni di questa solidarietà avevano assunto il carattere di una ferma opposizione agli indirizzi egoistici ed allo spirito guerrafondaio cui si ispirava la politica estera dei governi. Durante la guerra di secessione americana, per esempio, si era profilato ad un certo punto il pericolo che il Governo britannico intervenisse nel conflitto a fianco del Sud schiavista. In quella occasione le organizzazioni operaie inglesi avevano scatenato una vasta agitazione nel Paese, aiutando così concretamente la causa della liberazione dei neri. Più tardi fu la questione polacca a mobilitare le energie dei militanti operai: i primi contatti operativi tra le associazioni operaie francesi, inglesi, tedesche e italiane si ebbero appunto in vista di un'azione internazionale di protesta contro l'oppressione del popolo polacco da parte della Russia zarista.
Da questi contatti nacque l'idea di un'Associazione Internazionale dei Lavoratori (più tardi detta Prima Internazionale) che fu fondata il 28 settembre 1864 nel corso di un'affollata assemblea tenuta in St. Martin's Hall a Londra. Lo scopo della nuova Associazione era di creare una centrale di collegamento tra le organizzazioni che nei diversi Paesi lottavano per l'emancipazione della classe operaia. Ogni anno si doveva riunire un congresso per definire gli obiettivi comuni della classe operaia e per prendere tutte le iniziative necessarie allo sviluppo del movimento. Tra un congresso e l'altro il compito di mantenere i collegamenti tra le organizzazioni operaie nei diversi Paesi e di coordinarne le attività era affidato al Consiglio generale dell'Associazione.
Fin dall'inizio Karl Marx e Friedrich Engels, che nel 1848 erano stati gli autori del Manifesto del Partito Comunista, ebbero una parte importante nel Consiglio generale dell'Internazionale. Appunto a Karl Marx fu affidata la stesura degli Statuti che dovevano reggere l'Associazione e dell'Indirizzo inaugurale che l'Internazionale rivolse agli operai di tutto il mondo. La Prima Internazionale non fu però un'organizzazione marxista: al contrario coesistevano in essa correnti diverse. Le società operaie italiane, per esempio, restarono per qualche tempo sotto l'influsso di Giuseppe Mazzini, che aveva partecipato alla costituzione dell'Associazione, ma che ruppe quasi subito con essa in nome della religione, della patria e del principio della collaborazione tra le classi. In un indirizzo rivolto ai lavoratori italiani nel giugno del 1871 Mazzini scriveva:

... Io da lungo non vi scrivo direttamente, ma scrivendo intorno alle cose del Paese, non ho mai taciuto dell'elemento vostro né del mutamento delle vostre condizioni come di cosa inseparabile da ogni possibile progresso italiano. Di voi non temeva e sapeva che per apprestarvi a quel progresso, non avevate bisogno di sprone. E s'oggi m'indirizzo a voi, lo fo per avvertirvi d'un pericolo che vi minaccia e che sta in voi soli d'allontanare. Di mezzo al moto normale degli uomini del lavoro è sorta un'Associazione che minaccia falsarlo nel fine, nei mezzi e nello spirito al quale v'ispiraste finora e dal quale soltanto otterrete vittoria. Parlo dell'Internazionale.
Quest'associazione, fondata anni addietro in Londra e alla quale io ricusai fin da principio la mia cooperazione, è diretta da un Consiglio, anima del quale è Karl Marx, tedesco, uomo d'ingegno acuto ma, come quello di Proudhon, dissolvente, di tempra dominatrice, geloso dell'altrui influenza, senza forti credenze filosofiche o religiose, e temo, con più elemento d'ira, s'anche giusta, che non d'amore nel cuore. Il Consiglio, composto d'uomini appartenenti a Paesi diversi e nei quali sono diverse le condizioni del popolo, non può avere unità di concetto positivo sui mali esistenti e sui rimedi possibili, ma deve inevitabilmente conchiudere più che ad altro a semplici negazioni. [...]
I principi promossi dai Capi e dagli influenti dell'Internazionale sono:
Negazione di Dio, cioè dell'unica ferma, eterna incrollabile base dei doveri altrui verso la vostra classe, della certezza che siete chiamati a vincere e che vincerete. Cancellata l'esistenza d'una prima causa intelligente, è cancellata l'esistenza d'una legge morale suprema su tutti gli uomini e costituente per tutti un obbligo: è cancellata la possibilità d'una legge di Progresso, d'un disegno intelligente regolatore della vita dell'Umanità. [...]
Negazione della Patria, della Nazione: - cioè del punto d'appoggio alla leva colla quale potete operare a pro di voi medesimi e dell'Umanità. [...] La patria vi fu data da Dio, perché in un gruppo di venticinque milioni di fratelli affini più strettamente a voi per nome, lingua, fede, aspirazioni comuni e lungo glorioso sviluppo di tradizioni e culto di sepolture di cari spariti e ricordi solenni di Martiri caduti per affermar la Nazione, trovaste più facile e valido aiuto al compimento d'una missione, alla parte di lavoro che la posizione geografica e le attitudini speciali v'assegnano. [...]
Negazione d'ogni proprietà individuale, cioè d'ogni stimolo alla produzione da quello della necessità di vivere infuori. La proprietà, quando è conseguenza del Lavoro, rappresenta l'attività del corpo, dell'organismo, come il pensiero rappresenta quella dell'anima: è il segno visibile della nostra parte nella trasformazione del mondo materiale, come le nostre idee, i nostri diritti di libertà e d'inviolabilità della coscienza sono il segno della nostra parte nella trasformazione del mondo morale. [...] Bisogna tendere all'impianto d'un ordine di cose nel quale la proprietà non possa diventar monopolio e non scenda in futuro se non dal lavoro, nel quale, quanto al presente, le leggi tendano a scemare gradatamente il suo permanente concentramento in poche mani e si giovino d'ogni giusto mezzo ad agevolarne la trasmissione e il riparto. Ma l'abolizione della proprietà individuale e la sostituzione della proprietà collettiva sopprimerebbero ogni sprone al lavoro [...] sopprimerebbero la libertà del lavoro negli individui e attribuendo all'autorità di pochi rappresentanti lo Stato o il Comune accessibili all'egoismo, alla seduzione, a tendenze arbitrarie, l'amministrazione d'ogni proprietà, ricondurrebbe sott'altro nome tutti i cittadini al sistema del salario al quale vorremmo a poco a poco sottentrasse l'associazione...

Contro Mazzini, l'Internazionale ribadì il principio della lotta di classe come strumento per giungere all'abolizione di tutte le classi, ossia come strumento per ottenere l'emancipazione completa, economica oltre che politica, del proletariato. Ma anche tra i diversi gruppi socialisti esistevano profonde divisioni. I socialisti libertari o anarchici, che si rifacevano al pensiero di Proudhon e di Bakunin, indicavano l'origine e il puntello di ogni diseguaglianza sociale nello Stato, considerato come l'organizzazione legale della violenza contro la libertà e la felicità degli uomini. Anche lo Stato «democratico», che vorrebbe presentarsi come lo Stato di tutti, esercita di fatto, secondo gli anarchici, un'autorità tirannica sui cittadini, perpetuando la divisione tra sfruttatori e sfruttati e tra oppressori ed oppressi. Per i socialisti libertari o anarchici l'emancipazione della classe operaia doveva significare insieme abolizione delle classi e distruzione dello Stato.
Anche i marxisti ritenevano che ogni Stato (e perciò anche lo Stato democratico) non fosse altro che l'espressione violenta della diseguaglianza e della divisione della società in classi. Esprimevano questa idea in forma un po' paradossale dicendo che ogni Stato è la «dittatura» di una classe sulle altre. Anche per i marxisti, dunque, l'abolizione delle classi avrebbe dovuto coincidere con l'estinzione di ogni forma di autorità statale. Ma per costruire una società senza classi (una società comunista) essi ritenevano necessario innanzi tutto impadronirsi dell'apparato dello Stato: se l'abolizione di ogni diseguaglianza sociale e di ogni autorità restava il fine ultimo del movimento socialista, il suo obiettivo immediato e irrinunciabile era la conquista del potere politico da parte del proletariato, e cioè la costruzione (come dicevano) di una «dittatura» del proletariato.
Tra queste due posizioni non era possibile alcuna conciliazione e la Prima Internazionale si divise nel 1872 in due tronconi, quello socialista e quello anarchico, ciascuno dei quali sopravvisse per pochi anni. Nonostante le divisioni ideologiche la Prima Internazionale rappresentò un momento fondamentale della storia del movimento operaio, dando attuazione ed evidenza al principio dell'unità di interessi e di aspirazioni che al di sopra di tutte le barriere di nazionalità o di razza dovrebbe accomunare gli sfruttati di tutto il mondo.
Karl Marx e Friedrich Engels in una foto di famiglia


PREAMBOLO DEGLI STATUTI GENERALI DELL'ASSOCIAZIONE INTERNAZIONALE DEI LAVORATORI

Considerando che l'emancipazione della classe operaia deve essere opera della classe operaia stessa, che la lotta per l'emancipazione della classe operaia non è una lotta per privilegi di classe e monopoli, ma per stabilire eguali diritti e doveri e per abolire ogni dominio dl classe; che la soggezione economica del lavoratore a colui che gode del monopolio dei mezzi di lavoro, cioè delle fonti della vita, forma la base della servitù in tutte le sue forme, la base di ogni miseria sociale, di ogni degradazione spirituale e di ogni dipendenza politica; che di conseguenza l'emancipazione economica della classe operaia e il grande fine cui deve essere subordinato, come mezzo, ogni movimento politico; che tutti gli sforzi per raggiungere questo grande fine sono falliti per la mancanza di solidarietà le molteplici categorie di operai in ogni Paese e l'assenza di una unione fraterna tra le classi operaie dei diversi Paesi; che l'emancipazione degli operai non e un problema locale né nazionale, ma un problema sociale che abbraccia tutti i Paesi in cui esiste la società moderna, e la cui soluzione dipende dalla collaborazione pratica e teorica dei Paesi più progrediti; che il presente risveglio della classe operaia nei Paesi industrialmente più progrediti d'Europa, mentre ridesta nuove speranze ed in pari tempo un serio ammonimento a non ricadere nei vecchi errori, esige l'unione immediata dei movimenti ancora disuniti; per queste considerazioni è stata fondata l'Associazione Internazionale degli Operai.

SOCIETÀ SENZA CAPI

Nel grande filone delle dottrine socialiste e comuniste se ne distinguono alcune, che chiamiamo anarchiche o libertarie, per le quali la trasformazione della società richiede in primo luogo la distruzione d'ogni forma di autorità statale. Anche nel marxismo, come abbiamo visto, il fine ultimo della rivoluzione è l'eliminazione dello Stato; il marxismo però prevede un periodo più o meno lungo di transizione in cui l'organizzazione statale con tutti i suoi strumenti di coercizione continua ad esistere, sia pure sotto il controllo della classe operaia (dittatura del proletariato). L'anarchismo nega che sia necessario un tale periodo di transizione e nega soprattutto che una rivoluzione antiautoritaria possa essere compiuta con metodi autoritari.
Di per sé la parola anarchia significa semplicemente assenza di un padrone, mancanza di ogni autorità superiore. Perciò essa può indicare tanto lo stato di disordine e di confusione derivante dalla mancanza (o dall'inefficienza) di un Governo, quanto la felice condizione di una società che non ha bisogno di alcuna autorità governativa, perché la pace e l'ordine regnano spontaneamente tra i suoi membri. Il termine anarchia ha dunque un doppio significato, l'uno negativo, l'altro positivo.
Per molto tempo il significato negativo fu il solo ad essere usato. Il primo che adoperò il termine anarchia in senso positivo e che definì se stesso anarchico fu il pensatore francese Pierre-Joseph Proudhon nel 1840. La premessa del pensiero anarchico è che l'uomo è per natura portato a vivere in società e che ha in sé tutti gli attributi necessari per conciliare la libertà con l'ordine sociale: «La giustizia» scriveva Proudhon «esiste in noi come l'amore, come le idee di bellezza, di utilità, di verità, come tutte le nostre capacità e facoltà». Poiché l'uomo è per natura capace di vivere in una società libera, coloro che tentano di imporre alla società delle leggi che sono espressione soltanto della loro particolare volontà sono i veri nemici dell'umanità. Ribellandosi ad ogni autorità costituita gli anarchici compiono dunque innanzi tutto un elementare gesto di difesa: «Chiunque metta le mani su di me per governarmi - ebbe a dire Proudhon - è un usurpatore e un tiranno: lo dichiaro mio nemico». Ma difendendo se stessi e la società dall'usurpazione dei governi, gli anarchici lavorano già alla costruzione di un'organizzazione sociale sulla spontanea cooperazione di uomini liberi ed uguali: in essa gli individui dovrebbero unirsi, ma su base esclusivamente volontaria, formando comuni o associazioni di lavoratori che, a loro volta, potrebbero federarsi in organizzazioni più vaste e capaci di dare il necessario coordinamento all'attività produttività delle diverse comunità. In questa rete di libere associazioni e di comunità spontanee i vari interessi troverebbero un equilibrio ed una conciliazione sulla base della naturale tendenza degli uomini ad aiutarsi reciprocamente. Certo la società vagheggiata dagli anarchici ha una struttura troppo semplice per essere una società più efficiente e più ricca dell'attuale. Ma l'abbondanza dei beni materiali non ha di per sé valore. Una volta soddisfatti i bisogni elementari di ogni uomo, il solo progresso auspicabile è quello della cultura, dell'arte, della scienza.
Come disse un anarchico russo, Pëter Alekseevic Kropotkin, «gli anarchici aspirano ad una società in cui i rapporti umani siano regolati non da leggi o da governi, ma da accordi reciproci tra i membri della società stessa che si adattino alle esigenze sempre crescenti di una vita libera e ricevano stimoli sempre nuovi dal progresso della scienza e dall'affermazione dei più nobili ideali». Per raggiungere questo obiettivo è necessario distruggere tutto ciò che nella società attuale mortifica la libertà dell'uomo. Questo appello alla rivolta ed alla distruzione ha fatto spesso confondere l'anarchismo con un atteggiamento di pura e semplice negazione. Ma gli anarchici vogliono distruggere per ricostruire, e la loro rivolta è diretta a ristabilire l'equilibrio naturale che l'autorità ha turbato e corrotto. «La passione per la distruzione - ha scritto Michail Bakunin - è anche passione creatrice».

Io non sono veramente libero - ha scritto ancora - che quando tutti gli esseri umani che mi circondano, uomini e donne, sono ugualmente liberi. La libertà, lungi dall'essere un limite o la negazione della mia libertà, ne è al contrario la condizione necessaria e la conferma. Io non divento libero veramente che per mezzo della libertà degli altri, di modo che più numerosi sono gli uomini liberi che mi circondano e più profonda e più ampia diventa la mia libertà. Al contrario è la schiavitù degli uomini che pone una barriera alla mia libertà o, ciò che è lo stesso, è la loro bestialità che è una negazione della mia umanità; perché ripeto, non posso dirmi libero veramente che quando la mia libertà o, ciò che significa la stessa cosa, quando la mia dignità d'uomo, il mio diritto umano (che consiste nel non obbedire a nessun altro uomo e nel non determinare i miei atti se non conformemente alle mie proprie convinzioni), riflessi dalla coscienza egualmente libera di tutti, mi ritornano confermati dall'assenso di tutti. La mia libertà personale così confermata dalla libertà di tutti si estende all'infinito.

LA COMUNE DI PARIGI

Il 19 luglio del 1870 scoppiò la guerra tra la Francia di Napoleone III e la Prussia governata dal primo ministro Otto di Bismarck. Si è già accennato alle ragioni della guerra. Bismarck intendeva giungere all'unità della Germania, non però per iniziativa popolare, ma con il consenso (più o meno spontaneo) degli altri principi tedeschi e come conseguenza di una clamorosa affermazione della potenza militare prussiana. Fece perciò in modo che il fatuo Napoleone III, che credeva davvero di poter fare la voce grossa in Europa come il suo grande zio, provocasse la guerra a cui l'esercito prussiano si preparava da tempo e a cui parteciparono tutti gli altri Stati tedeschi. Il 1° settembre, a Sedan, i prussiani circondarono il grosso dell'armata francese e lo stesso Napoleone III fu fatto prigioniero. Tre giorni dopo a Parigi veniva proclamata la Repubblica: era la Terza Repubblica francese. Il Governo provvisorio, ma soprattutto le forze democratiche, radicali e repubblicane cercarono di organizzare una disperata resistenza (vi prese parte anche l'ormai vecchio Garibaldi) con lo scopo, quanto meno, di ottenere meno gravose condizioni di pace. L'esercito prussiano mise l'assedio a Parigi, che, sottoposta a bombardamenti e soprattutto stretta dalla fame, il 28 gennaio 1871 dovette capitolare; lo stesso giorno a Versailles veniva firmato l'armistizio. Dieci giorni prima nella Sala degli Specchi a Versailles il re di Prussia, Guglielmo era stato proclamato imperatore di Germania e Bismarck era stato nominato Cancelliere.
Poco dopo fu eletta l'Assemblea Nazionale incaricata di elaborare la nuova costituzione. Come già era successo nel Quarantotto, l'assemblea repubblicana era in realtà piena di monarchici. Il governo venne affidato ad Adolfo Thiers, un antico avversario di Luigi Napoleone, che però nel 1848, in odio ai socialisti, aveva accettato la sua candidatura alla presidenza della Seconda Repubblica. Il 28 febbraio 1871 Thiers trasformò l'armistizio in preliminari di pace. La pace imposta da Bismarck fu durissima: due grandi regioni francesi, l'Alsazia e la Lorena, passarono al neonato Impero germanico; la Francia dovette impegnarsi a pagare un enorme indennizzo di guerra, e a tollerare come garanzia del pagamento un esercito di occupazione tedesco; in più i Tedeschi pretesero di entrare in Parigi e di sfilare in trionfo. I Parigini, in grande maggioranza radicali e socialisti, che già diffidavano dei generali francesi per l'inefficienza con cui avevano difeso la capitale e il Paese, e che diffidavano dell'Assemblea Nazionale e del Governo per il loro moderatismo e per la decisione di riunirsi a Versailles anziché a Parigi, videro nell'ingresso dei Tedeschi la conferma dei loro peggiori sospetti e si ribellarono. Il 18 marzo 1871 le truppe mandate da Thiers a ristabilire l'ordine fraternizzarono con il popolo di Parigi; due generali, catturati dai ribelli, vennero fucilati. Era nata la Comune di Parigi. In assenza del Governo, il potere nella capitale fu assunto dal Comitato centrale della Guardia Nazionale formato da delegati dei vari battaglioni. Chi erano costoro? Così sono stati presentati da uno scrittore «comunardo» (come si chiamano i seguaci della Comune):

... Non ne conosco alcuno. Mi dicono i loro nomi, non li ho mai uditi. Sono delegati di battaglioni, conosciuti solamente nei loro quartieri. Hanno avuto i loro successi di uomini di parola e di uomini d'azione nelle assemblee [...]. Non sono ancora che sei o sette, in questo momento, nella grande sala dove l'Impero, or non è molto, danzava in uniforme dorata [...]. Oggi una mezza dozzina di giovanotti dalle scarpe grosse, con una berretta di maglia di lana, senza spalline rappresentano il Governo...

La prima preoccupazione di questi uomini fu di affidare al popolo l'elezione della Comune, cioè dell'amministrazione comunale parigina, che avrebbe avuto il compito non solo di reggere le sorti di Parigi, ma anche di offrire a tutta la Francia un modello di Governo autonomo e popolare. Il 26 marzo si svolsero le elezioni: la maggioranza dei voti andò ad esponenti socialisti. Fu questo il fatto nuovo che rese famosa la Comune: per la prima volta nella storia si ebbe l'avvento di un Governo socialista. I membri della Comune avevano solo una scarsa esperienza di amministrazione ed anche il loro livello di istruzione era molto modesto, eppure affrontarono con successo la situazione di disordine amministrativo e di disorganizzazione dei servizi pubblici che era stata provocata dalla fuga dei ministri e dei funzionari del Governo.
Altre città francesi come Lione, Marsiglia, Tolosa, Narbonne, ebbero, sia pure per brevissimo tempo, la loro Comune. Quella di Parigi non dimenticò di lanciare il suo appello anche ai contadini, sul cui spirito conservatore faceva leva Thiers per isolare il movimento rivoluzionario affermatosi nelle città. In un famoso manifesto rivolto dai comunardi ai contadini era sottolineata l'identità di interessi che univa i lavoratori delle città e quelli delle campagne:

... Fratello, ti ingannano. I nostri interessi sono gli stessi. Quello che io domando anche tu lo vuoi: l'affrancamento che io reclamo è il tuo. [...] Da te come da noi la giornata di lavoro è lunga e dura. [...] A te come a me mancano la libertà, il riposo, la vita dello spirito e del cuore. [...] Ecco perché Parigi si agita, reclama, si solleva e vuole cambiare le leggi che danno ogni potere ai ricchi a danno dei lavoratori. Parigi vuole che il figlio del contadino sia istruito quanto il figlio del ricco e gratis. [...] Parigi vuole dare la terra al contadino, gli strumenti all'operaio, il lavoro a tutti...

Ma il programma della Comune poté essere realizzato solo in minima parte perché essa fu costretta innanzi tutto a pensare alla propria difesa. Thiers, il 2 aprile, respingendo ogni tentativo di soluzione pacifica e deciso a stroncare alle radici il movimento, lanciò contro Parigi un esercito di centomila uomini. Si ripeteva l'esperienza del giugno 1848. Ma anche il ricordo di quelle terribili giornate doveva impallidire in confronto alla spietata decisione con cui venne stroncata la Comune. Dal 21 al 27 maggio 1871 Parigi visse forse le giornate più tragiche ed eroiche della sua storia. Gli episodi di valore non si contano: l'intera popolazione si batté con la forza della disperazione. Le donne non furono da meno degli uomini. Un loro proclama diceva:

... Bisogna vincere o morire. Voi che vi chiedete che cosa importi il trionfo della nostra causa se si devono perdere coloro che si amano, sappiate che il solo mezzo di salvare coloro che vi sono cari è quello di gettarvi nella lotta...

In questa lotta, i ragazzi rivaleggiarono con gli adulti. Seguivano i battaglioni nelle trincee, nei forti, si inerpicavano sui cannoni; taluni degli addetti ai pezzi della porta Maillot, uno dei punti in cui la difesa fu più accanita, erano dei ragazzi di 13 o 14 anni. L'esercito del Thiers ne cattura 660, e molti caddero nelle strade.
Alla fine di questa terribile «settimana di sangue» le esecuzioni sommarie furono forse ventimila; trentottomila furono gli arresti a cui fecero seguito condanne e deportazioni. Le vittime della grande carneficina, fra i morti in battaglia e i fucilati, furono, pare, non meno di centomila. Ma nessuno ha mai potuto contarli.

LA SETTIMANA DI SANGUE

Jules Vallès (1832-1885) è stato un grande giornalista radicale, più volte finito in prigione per i suoi scritti contro il regime di Napoleone III. Come membro dell'assemblea della Comune e come direttore del «Grido del Popolo», il giornale più diffuso a Parigi in quel periodo, svolse un'intensa attività ispirata agli ideali e ai programmi del socialismo libertario. Durante la disperata resistenza che i comunardi opposero alle truppe versagliesi combatté eroicamente sulle barricate. Quando anche l'ultima barricata cadde riuscì, con l'aiuto di coraggiosi cittadini, a sfuggire alla cattura ed alla fucilazione. A Londra, dove si rifugiò, raccontò la sua vita nei quattro romanzi del ciclo Jacques Vingtras. Nel terzo di questi romanzi, L'insorto, Vallès ha rievocato la sua partecipazione alle vicende della Comune. Ne utilizziamo alcuni brani come flash su quegli ultimi, terribili, giorni di lotta, «la settimana di sangue».

Lunedì 22 maggio
Credevo che Parigi avesse già l'aria di essere morta prima ancora di essere uccisa. Ecco invece che donne e bambini si uniscono ai combattenti! Una bandiera rossa tutta nuova è stata piantata da una bella ragazza e sopra queste pietre grigie fa l'effetto di un papavero sopra un vecchio muro.

Martedì 23 maggio
Nella zona del Panthéon si è scatenata la battaglia. Ah! Come è triste vedere al sorgere del sole questa distesa di barelle, tutte imbrattate di porpora umana! Sono i feriti di lassù, della via Vavin e del boulevard Arago, che vengono portati alle ambulanze. Ho dormito in un punto qualunque del municipio; vicino ad un morto, come l'altra notte.

Mercoledì 24 maggio
Dall'altra parte della Senna la resistenza sembra solida. Ad ogni mucchio di pietre è attaccato un pugno di uomini che ci salutano e che alle cattive notizie che portiamo rispondono:
- Di qui forse i versagliesi non avranno tanta fortuna... E poi, tanto peggio!... Si farà quel che c'è da fare, ecco tutto! -.
Le sentinelle si mettono a sedere con l'aria di contadini che si riposano quando verso mezzogiorno si porta loro la zuppa sui campi. Accanto alle bluse degli operai ci sono vestiti e camicette femminili. Le mogli e i figlioletti son venuti qui col brodo e la pietanza, si stende la tovaglia sulla terra nuda.
Offriamo qualche bicchiere di vino. Dicono: - Non troppo! -. Fra tutti coloro con i quali abbiamo voluto bere non ne abbiamo visto neppure uno che fosse anche solo un po' alticcio.

Domenica 28 maggio
Siamo sulla barricata gigante che si trova sulla strada di Belleville. Rispondiamo col fucile e col cannone al fuoco terribile diretto contro di noi. Alle finestre delle case d'angolo i nostri han messo dei materassi, che fumano sotto i colpi dei proiettili. Di tanto in tanto una testa si abbatte sul davanzale, come la testa di un burattino: colpito!
Abbiamo un cannone servito da artiglieri silenziosi e valenti. Uno di essi non ha più di vent'anni, ha i capelli color del grano e le pupille color fiordaliso. Arrossisce come una ragazza quando riceve i nostri complimenti per l'esattezza dei suoi tiri.

Improvvisamente le finestre si sguarniscono, la diga sprofonda. Il cannoniere biondo ha lanciato un grido. Una pallottola lo ha colpito in fronte e ha fatto come un occhio nero fra i suoi due occhi azzurri.
- Siam perduti! Si salvi chi può! -.

- Chi vuole nascondere due insorti? -.
Abbiamo gridato questo nei cortili, con lo sguardo fisso sui piani delle case, come dei mendicanti che aspettano che si butti loro un soldo.
Nessuno ci fa l'elemosina! Questa elemosina chiesta con le armi in mano!
Dove posso ficcarmi? A dieci passi di qui c'è un albergo, dove ho abitato un volta. Questo quartiere è stato conquistato già da cinque giorni e ci sono pochi soldati in giro.
Salgo le scale.
Busso dolcemente; l'albergatore viene ad aprire.
- Sono io, non gridate! Se mi cacciate via sono morto...
- Entrate. Signor Vallès...