IL BISOGNO DI CAMBIARE
Nell'Europa
medievale l'idea di riforma era stata costantemente presente alla mente di
tutti, specialmente in relazione all'ordinamento della Chiesa, dove, sempre
attesa e predicata, sembrava non essersi mai realizzata. Nella stessa epoca non
erano mancati, tanto nell'ambito della Chiesa quanto in quello dello Stato,
movimenti che puntavano al sovvertimento violento e repentino dello stato di
cose esistente. Ma ribelli e riformatori d'ogni tipo non lottavano per innovare:
al contrario, il loro intento dichiarato era di ristabilire un ordine
preesistente che col tempo si era corrotto o che era stato violato da un potere
tirannico. Così, ad esempio, i riformatori religiosi si presentavano di
solito come fautori di un «ritorno all'antico», di un ritorno
cioè alle credenze o alle usanze della Chiesa primitiva, oppure, negli
ordini monastici, alla rigorosa osservanza delle regole originariamente dettate
dal fondatore.
Ribelli e riformatori, insomma, guardavano al passato, non
al futuro. Naturalmente questo passato a cui ci si richiamava, poteva essere
un'illusione, un mito: spesso non era mai esistito. Le antiche consuetudini che
si rimpiangevano o le antiche libertà che si tentava di restaurare
potevano essere così antiche da affondare nella notte dei tempi o da
cadere addirittura fuori del tempo: non tanto qualcosa che c'era stata «una
volta» e che non c'era più, ma qualcosa che avrebbe dovuto esserci e
per il quale valeva in ogni caso la pena lottare. Resta il fatto che in generale
il nuovo si identificava con la corruzione e il male; il bene era il vecchio,
l'antico, l'eterno, il senza tempo. Un atteggiamento in parte diverso era emerso
nei movimenti millenaristici, in quei movimenti, cioè, che, come il
gioachimismo, fondavano il rifiuto dell'ordine esistente sulla profezia
dell'imminente avvento del Regno di Dio, a scorno dei malvagi e a sollievo degli
oppressi. Anche qui, però, quel futuro atteso e invocato non era
propriamente qualcosa di nuovo, perché Dio lo aveva previsto da sempre e
predeterminato nei più minuti particolari.
La raccomandazione di
guardarsi dalle novità restò a lungo una massima di prudenza
condivisa da filosofi e uomini politici. Il francese Michel de Montaigne
(1533-1592), per esempio, un grande scrittore imbevuto di scetticismo, nel corso
delle guerre civili che avevano devastato il suo Paese nella seconda metà
del Cinquecento, aveva visto ogni sorta di novità politiche e religiose e
non gli erano piaciute affatto. È comprensibile che fosse contrario allo
spirito di rivolta e che considerasse la guerra civile il peggiore dei mali
possibili. Andava però molto più in là: condannava in
blocco ogni tentativo di riforma. «Negli affari pubblici», scriveva,
«non v'è indirizzo tanto cattivo, purché antico e costante,
che non sia preferibile alle perturbazioni e ai cambiamenti». Un male
antico, ma conosciuto, diceva ancora è sempre preferibile a un male
nuovo, di cui non si ha esperienza. Sotto antiche leggi, per quanto cattive
siano, la società sopravvive; nuove leggi, invece mettono in gioco la
convivenza stessa degli uomini. Per questa sua diffidenza del nuovo, Montaigne
finiva per non apprezzare neppure le utopie, sul genere di quella di Tommaso
Moro, perché, nonostante il loro dichiarato carattere di gioco, di
finzione, di costruzione puramente intellettuale, le considerava possibili fonti
di tentazioni innovatrici.
Ci sono però periodi in cui il ritmo
della storia sembra accelerare e in cui di fronte a trasformazioni
apparentemente incontrollabili della società non è facile
applicare la massima del «non innovare». Il secolo di Montaigne era
uno di questi periodi. Il Seicento lo fu ancora di più: sia pure a
malincuore anche le classi dirigenti dovettero piegarsi alle novità. A
metà del secolo Carlo I d'Inghilterra (che era un re legittimo, e
perfino, a modo suo, un buon re, non un usurpatore o un tiranno) lasciò
la testa sotto la mannaia: era una bella novità, e soprattutto era una
bella minaccia per le classi dirigenti di tutta Europa. A un certo punto, per
loro, la preoccupazione non fu più tanto quella di «non
innovare», quanto quella di conservare il potere, magari a costo di qualche
riforma. Luigi XIV, assumendo il governo del suo Paese che Mazzarino gli
consegnava finalmente pacificato, non solo non temeva più di introdurre
novità, ma se ne faceva un obbligo e un vanto. «Sarebbe stato
certamente far cattivo uso di una così perfetta
tranquillità», avrebbe scritto poi nelle sue Memorie, «non
impiegarla all'unico scopo che poteva farmela apprezzare», ossia la riforma
dello Stato, l'eliminazione di usi e abusi inveterati, la costruzione di una
macchina amministrativa efficiente.
Il nuovo stava diventando di moda e con
esso l'idea di un progresso indefinito dell'umanità. Allontanarsi dalla
tradizione aveva significato sino a quel punto corruzione, degenerazione,
usurpazione; d'ora in poi avrebbe significato perfezionamento civile e
avanzamento verso una maggiore felicità di tutti. Il Settecento fu pieno
di progetti di riforma, di innovazioni, di invenzioni.
SAPERE AUDE!
«Il vero filosofo», scriveva
Voltaire nel 1765, «dissoda i campi incolti, aumenta il numero degli aratri
e quindi degli abitanti, dà lavoro al povero e lo arricchisce, incoraggia
i matrimoni, sistema l'orfano, non mormora contro le tasse necessarie...».
Strane occupazioni per un filosofo. Ma l'Illuminismo, di cui Voltaire è
stato l'esponente più rappresentativo, sta tutto in questo apparente
capovolgimento di ruoli: il filosofo si mette a fare l'imprenditore, l'uomo di
governo, l'amministratore, il filantropo (dal greco phìlos =
«amico» e ànthropos = «uomo»: «amico degli
uomini»); al tempo stesso gli imprenditori, gli uomini di governo, gli
amministratori sono invitati a farsi guidare dai lumi della ragione (da cui il
nome «Illuminismo») e cioè a diffidare dei luoghi comuni e
delle idee ricevute (pregiudizi) e a mettersi di buona voglia a studiare, a
sperimentare, a cercare in ogni attività le soluzioni più
vantaggiose.
Il capovolgimento dei ruoli, s'è detto, era solo
apparente. E infatti non si trattava tanto di un capovolgimento, quanto di
un'estensione: l'estensione del metodo dell'indagine razionale alle questioni
riguardanti la vita sociale, la politica e l'economia. Applicato allo studio
della natura questo metodo aveva prodotto nel secolo precedente una rivoluzione
intellettuale di incalcolabile portata, la nascita della moderna scienza
sperimentale, che aveva travolto in pochi decenni la tradizione aristotelica
vecchia di duemila anni. Tutti però si erano trovati d'accordo
sull'opportunità di limitarne il campo di applicazione: come aveva
scritto Cartesio nel suo Discorso sul metodo, una cosa era rovesciare in nome
della ragione l'autorità di Aristotele, una cosa assai diversa era
attentare all'autorità della Chiesa e dello Stato invadendo il campo
della religione e della politica.
Tutta questa prudenza non era bastata a
tranquillizzare il potere e a garantire agli scienziati e ai filosofi
razionalisti una piena libertà almeno nelle indagini riguardanti la
natura: Galileo era stato processato e condannato dal Sant'Uffizio, e Cartesio,
per non esporsi alla stessa sorte, aveva dovuto tenere nel cassetto diversi suoi
scritti. In ogni caso l'Illuminismo non era la prudenza, ma il coraggio della
ragione. Come scriveva nel 1784 il tedesco Immanuel Kant:
...
L'Illuminismo è l'uscita dell'uomo da uno stato di minorità che
egli deve imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di
valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se
stesso è questa minorità se la causa di essa non dipende da
difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far
uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sàpere aude!
Abbi il coraggio di servirti della tua intelligenza! Questo è il motto
dell'Illuminismo...
A parte il coraggio dell'intelligenza, e il
disprezzo per la stupidità, l'intolleranza e la superstizione, gli
illuministi non avevano molto in comune. Erano tutti convinti che la ragione
dovesse servire non solo a capire il mondo, ma anche a cambiarlo in meglio, a
renderlo, per così dire, più abitabile. Ma poi ciascuno pensava a
modo suo e tutti erano disposti a polemizzare pubblicamente con tutti gli altri:
solo i fanatici e gli imbecilli, pensavano, marciano compatti stringendosi
intorno ai propri dogmi. Gli illuministi avevano assunto il nome di philosophes,
filosofi, proprio perché il termine «filosofia» (che significa
l'amore e la ricerca della sapienza, non la presunzione di possederla) era
venuto a significare soprattutto il contrario di «fanatismo».
Gli
illuministi non costituivano dunque né una corrente di pensiero,
né un partito politico. Sul piano strettamente filosofico, a parte il
comune riferimento alla scienza sperimentale, di tipo galileiano-newtoniano, e
una generica simpatia per l'empirismo di Locke, erano degli eclettici. Sul
terreno della religione si dividevano tra deisti come Voltaire e atei come il
barone d'Holbach (1723-1789). I deisti erano seguaci di una religione
«naturale», fondata su pochi princìpi dedotti secondo buon
senso dalla generica credenza in un Essere supremo autore del mondo (da non
confondere quindi con i teisti, che sono i fedeli delle religioni storiche,
fondate su una presunta rivelazione divina e assimilate dagli illuministi a
forme più o meno gravi di superstizione). Gli atei riprendevano tutti i
classici argomenti contro la religione (la religione nasce dalla paura
irrazionale della morte, le Chiese sono strumenti di dominio, frutto della
collusione tra sacerdoti e tiranni, la morale ascetica è una
turlupinatura che ha il solo obiettivo di produrre inquietudine nell'animo dei
fedeli, che è la condizione che permette di mantenerli nelle nebbie della
superstizione e del fanatismo, ecc.), con appena un pizzico di malignità
in più, giustificato dall'opprimente presenza delle Chiese cristiane
nella società europea: «quando l'uomo osa pensare», scriveva
d'Holbach nel 1768, annunciando il Sàpere aude! di Kant, «il dominio
del prete è finito».
In politica i philosophes si dividevano
tra sostenitori di un regime costituzionale sul modello inglese, che possiamo
considerare come iniziatori o precursori delle correnti liberali, e sostenitori
di quella particolare forma di assolutismo che è detta comunemente
«dispotismo illuminato»; Montesquieu apparteneva ai primi, Voltaire ai
secondi. Piuttosto isolate erano le tesi democratiche di Rousseau, che dovevano
esercitare invece una notevole influenza sulle correnti più radicali
della Rivoluzione francese e ispirare gran parte delle teorizzazioni
ottocentesche della democrazia e del socialismo. Il fenomeno del dispotismo
illuminato e soprattutto la propensione di molti philosophes (oltre a Voltaire,
d'Holbach, Diderot, d'Alembert, ecc.) per questo tipo di governo meritano
qualche parola di spiegazione. Si tratta infatti di un caso molto istruttivo di
ambiguità, dove la mancanza di pregiudizi finiva per confondersi con la
mancanza di scrupoli, l'efficienza con la brutalità, la libertà
con la sudditanza a un potere che si autodefiniva
«illuminato».
Alla vigilia della Rivoluzione francese un po'
tutti i governi d'Europa hanno civettato con «i lumi». Ma i sovrani
che si possono associare all'esperienza dell'assolutismo illuminato non sono
moltissimi: Federico II, re di Prussia, detto «il Grande» (1712-1786),
Caterina II imperatrice di Russia (1729-1796), anche lei detta «la
Grande», Giuseppe II imperatore d'Austria (1741-1790), suo fratello Pietro
Leopoldo prima granduca di Toscana e poi imperatore d'Austria col nome di
Leopoldo II (1747-1792). Si potrebbe aggiungere qualche altro nome, ma i
personaggi che contano sono questi. Rispetto all'assolutismo classico quello
illuminato presentava alcune importanti differenze. Era nel complesso meno duro.
Nel campo del diritto penale, ad esempio, puntava ad una attenuazione delle
pene, che l'assolutismo tradizionale aveva invece voluto crudeli, spettacolari,
terrificanti (Pietro Leopoldo, decisamente il migliore tra i sovrani del suo
tempo, abolì la pena di morte in Toscana seguendo le indicazioni del
milanese Cesare Beccaria). Assumendo poi il principio della libertà di
coscienza, che ancora a Luigi XIV sembrava inconcepibile, combatteva con vario
successo preti e frati. Era insomma un tentativo di rendere ragionevole il
potere assoluto.
Ma le riforme amministrative di cui andava orgoglioso
erano dirette a rafforzare il potere del sovrano, non a modificare i rapporti
tra sovrano e sudditi (ad eccezione, forse, di Pietro Leopoldo). Federico II
è stato il vero creatore dello Stato burocratico-militare prussiano, una
delle varianti più oppressive dello Stato moderno e, fino al nostro
secolo, una delle principali cause delle sciagure d'Europa. Caterina II ha
scaricato il costo delle sue riforme amministrative sulle spalle dei contadini
russi riuscendo ad aggravarne la condizione di servitù, e allontanando
con ciò ancora di più la Russia dall'Europa. Giuseppe II, oltre a
concedere la libertà di culto alle minoranze religiose, ha voluto
impicciarsi nelle cose della Chiesa cattolica e decidere di testa sua persino in
materia di liturgia dando con ciò un'ennesima prova di autoritarismo e
dimostrando di aver capito ben poco delle esigenze di laicità avanzate
dai philosophes.
Nei rapporti internazionali, poi, i sovrani illuminati
continuarono nella tradizionale politica di potenza con una mancanza di scrupoli
ancora maggiore, se possibile, di quella dei vecchi sovrani assoluti: è
solo con l'assolutismo illuminato che trattati e accordi internazionali hanno
cominciato ad essere apertamente considerati, se così faceva comodo,
«pezzi di carta» da stracciare. Federico II riuscì a
scandalizzare tutte le corti d'Europa attaccando proditoriamente l'Impero
austriaco e riuscendo a sottrargli un'intera provincia, la Slesia. L'età
dell'assolutismo illuminato si è emblematicamente conclusa con la
spartizione dei territori polacchi tra Austria, Russia e Prussia: era un'idea di
Federico II, realizzata una prima volta nel 1772, estesa nel 1793 e conclusa nel
1795 (dopo la repressione dell'insurrezione nazionale di Taddeo Kosciuzsko) con
la totale cancellazione della Polonia dalla carta d'Europa.
Quale fascino
un sistema del genere poteva esercitare su uomini come Voltaire, Diderot o
d'Alembert che erano interamente votati ai valori dell'umanità e della
filantropia e che avevano scritto (soprattutto il primo) delle pagine
straordinarie sulle sanguinose follie della politica di potenza? Da un lato,
senza dubbio, era il fascino del potere, dell'efficienza, del
«realismo» politico e insomma di quella «capacità di
fare», e magari di «fare in grande» (anche se non sempre, anzi
quasi mai, di «far bene») che Voltaire riconosceva ai principi, ma che
dubitava potessero avere le repubbliche o i governi parlamentari. Dall'altro
lato era il fascino dell'intelligenza e delle cultura, che non mancava a quei
sovrani e che li aveva portati a concedere ai propri sudditi la tolleranza
religiosa e a riconoscere agli intellettuali la libertà di
pensiero.
La libertà di pensiero è un valore che oggi, almeno
in teoria, è condiviso da tutti, ma la cui proclamazione ufficiale da
parte di un'autorità pubblica aveva ancora, nel Settecento, la forza
entusiasmante di un atto di liberazione e di riparazione lungamente atteso. Del
resto, in Francia, che era la patria dell'Illuminismo, ma aveva un governo
scarsamente illuminato, questa liberazione era di là da venire e gli
intellettuali avevano a che fare tutti i giorni con la censura. In Prussia
Federico II l'aveva abolita, almeno nelle sue forme più stupidamente
vessatorie. Non per questo era un liberale: la libertà di pensiero era
l'alibi di uno dei regimi più autoritari d'Europa, un privilegio per gli
scrittori e per i professori d'università, strettamente condizionato alla
loro sottomissione e ai capricci del sovrano in carica. Kant ha riassunto
l'atteggiamento di Federico nella frase: - Ragionate fin che volete e su quel
che volete, ma obbedite! -. Che per Federico andasse bene così si
capisce. Il guaio è che Kant la pensava alla stessa maniera. E Voltaire
anche.
L'imperatrice Maria Teresa con quattro dei suoi figli
Federico II di Prussia
VOLTAIRE
Di famiglia borghese, François-Marie
Arouet, più noto con lo pseudonimo di Voltaire, era nato a Parigi nel
1694. Nel 1717 una sua satira contro la corruzione della Corte gli valse il suo
primo soggiorno alla Bastiglia, la prigione di Parigi, diventata celebre per
essere stata presa d'assalto dai rivoltosi nel 1789, all'inizio della
Rivoluzione francese. Nel 1726 Voltaire tornò alla Bastiglia: aveva
litigato con un nobile, e questi lo aveva fatto bastonare, come era
consuetudine, da un servitore. Furibondo, Voltaire aveva cercato in tutti i modi
di sfidare a duello l'avversario che però rifiutava di battersi con un
borghese. Finì arrestato e fu liberato solo a condizione di star lontano
da Parigi. Voltaire andò allora in Inghilterra restandovi fino al 1729:
qui fece conoscenza della filosofia di Newton e di Locke e dell'opera dei deisti
inglesi. Fu una esperienza decisiva: non solo trovò in Inghilterra una
libertà inimmaginabile in Francia, ma gli parve che i pensatori inglesi
si fossero egregiamente liberati delle bubbole metafisiche che avevano
tormentato i filosofi continentali, a cominciare da Cartesio. Nel 1734 uscirono
le Lettere filosofiche o Lettere sugli Inglesi che per l'entusiasmo che
esprimevano per l'Inghilterra e le sue libertà furono bruciate dal boia
di Parigi e gli fruttarono un altro mandato d'arresto, a cui sfuggì
espatriando.
Da tempo in corrispondenza con Federico II di Prussia, nel
1750 accettò l'invito a trasferirsi a Berlino. Nel 1753, però,
dopo una clamorosa rottura con il suo ospite, abbandonò la Germania. Dal
1758 si stabilì nel suo castello di Ferney in prossimità della
frontiera svizzera. A Parigi tornò l'anno della sua morte, il 1778. A
Berlino aveva pubblicato la sua prima importante opera storica, n secolo di
Luigi XI V, che era stata preceduta dalla Storia di Carlo XII e a cui seguirono
il Saggio sui costumi e lo spirito delle Nazioni (1756) e la Storia della Russia
sotto Pietro il Grande (1759). La scelta di tre grandi re quali Carlo XII di
Svezia, Luigi XIV e Pietro il Grande è indicativa delle inclinazioni
politiche di Voltaire: pur consapevole dei rischi di un governo autoritario e
personale, pensava che non ci fossero alternative ad esso e che l'unica
possibilità di progresso stesse nell'avvento di sovrani
illuminati.
Nel frattempo Voltaire aveva esercitato la sua straordinaria
vena satirica nella serie dei racconti filosofici iniziata con Zadig (1748) e
Micromegas (1752) culminata con Candido o dell'ottimismo (1759), uno dei suoi
capolavori, e continuata poi con L'ingenuo (1767). Un altro capolavoro è
il Dizionario filosofico ovvero la Ragione in ordine alfabetico, che è
forse il più brillante prodotto della polemica illuministica contro il
fanatismo, la stupidità e l'ingiustizia. Del Dizionario filosofico
riproduciamo, come esempio dello stile volterriano, la prima
voce.
Abate
Dove andate, Signor abate? - con quel che segue...
Ma lo sapete che abate significa «padre»? Se lo sarete davvero,
renderete servizio al pubblico, e farete senza dubbio la miglior cosa che possa
fare un uomo: padre di esseri ragionevoli. Opera in cui c'è qualche cosa
di divino.
Ma se voi siete il «Signor abate» soltanto
perché avete la tonsura, portate un collettino rotondo e un mantello
corto, e state in attesa di qualche beneficio, non meritate tal nome.
I
monaci di una volta chiamarono così il loro superiore che essi stessi
eleggevano: l'abate era il loro padre spirituale. Ma come cambia il significato
dei nomi nel tempo! Quell'abate spirituale era un povero, capo di numerosi altri
poveri. Ma questi poveri padri spirituali sono venuti ad avere col tempo le tre
e le quattrocentomila lire di rendita all'anno; e vi sono oggidì dei
poveri padri spirituali in Germania, che mantengono un reggimento di
Guardie.
Un povero, che ha fatto giuramento di restar povero e che di
conseguenza diventa sovrano! È stato già detto ma non bisogna
stancarsi di ripeterlo: è un fatto inammissibile. Gridan le leggi contro
questo abuso, la vera religione se ne indigna, e i poverelli autentici, nudi e
senza cibo levan strida e lamenti alla porta del palazzo del Signor
abate.
Ma qui i signori abati d'Italia e di Germania, delle Fiandre e della
Borgogna protestano, e dicono: - E perché non dovremmo accumulare anche
noi beni ed onori? Perché non dovremmo poter essere principi? Lo fanno
bene anche i vescovi: in origine essi erano poveri come noi; poi si sono
arricchiti, si sono elevati, e uno di loro è diventato persino superiore
ai re: lasciateci imitarli fin che possiamo -.
E avete ragione, signori:
invadete il mondo, poiché il mondo appartiene ai forti e ai furbi che lo
san conquistare.
Voi avete approfittato dei secoli di ignoranza e di
superstizione e di demenza, per spogliarci delle nostre eredità, per
metterci sotto i piedi, per ingrassarvi coi beni degli sventurati: attenti che
non arrivi il giorno del trionfo della ragione!
MONTESQUIEU
Charles-Louis de Secondat, barone di La
Brède e di Montesquieu (1689-1755), è con Voltaire il maggiore
esponente dell'Illuminismo francese. Tra i due, che avevano opinioni diverse su
molti argomenti, non ci fu mai stretta collaborazione, ma grande stima. Voltaire
fece di Montesquieu un elogio che è forse il più bello di quanti
si potessero fare a uno scienziato diligente e scrupoloso che però, come
del resto tutti i philosophes, aspirava soprattutto ad essere un elegante,
piacevole scrittore: Montesquieu (diceva Voltaire) sembra sfiorare ogni cosa e
invece va a fondo di tutto.
Dopo gli studi giuridici che lo avevano portato
ad abbracciare la magistratura (diventò presidente di sezione del
tribunale provinciale di Bordeaux) Montesquieu conseguì la
notorietà come scrittore con la pubblicazione delle Lettere persiane
(Amsterdam, 1721), brillante opera di critica della società del suo tempo
vista attraverso l'occhio divertito di un viaggiatore persiano che l'autore
immagina soggiornare a Parigi. Dopo la sua elezione all'Académie
Française, Montesquieu intraprese un viaggio di tre anni attraverso i
Paesi europei nel corso del quale raccolse una quantità di dati relativi
ai loro ordinamenti politici che avrebbe poi utilizzato nella sua opera
maggiore, lo Spirito delle leggi (Ginevra, 1748).
Preceduto dalle
Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza
(1734), e da più di quindici anni di lavoro intenso, lo Spirito delle
leggi ottenne al suo apparire uno strepitoso successo editoriale. Opera
monumentale ed enciclopedica, si proponeva di studiare le leggi di tutti i tempi
e di tutti i Paesi dal punto di vista del loro «spirito», cioè
dell'insieme di condizioni politiche, economiche, sociali e ambientali che,
diverse da Paese a Paese, producono legislazioni. La parte più nota
dell'opera è quella più propriamente politica, nella quale
Montesquieu individua tre diverse forme di governo, la repubblica (distinta in
democrazia e aristocrazia a seconda che il potere sia esercitato da tutto il
popolo o solo da una sua parte), la monarchia e il dispotismo, a ognuno dei
quali fa corrispondere un particolare atteggiamento dei cittadini nella vita
pubblica (rispettivamente: la virtù o la moderazione, l'onore, la paura)
che determina il mantenimento del potere costituito e informa di sé la
legislazione.
Uno dei passi più famosi dello Spirito delle leggi
è quello in cui Montesquieu espone la sua teoria della separazione dei
poteri:
... Esistono, in ogni Stato, tre sorte di poteri: il potere
legislativo, il potere esecutivo delle cose che dipendono dal diritto delle
genti, e il potere esecutivo di quelle che dipendono dal diritto civile.
In
base al primo di questi poteri, il principe o il magistrato fa delle leggi per
sempre o per qualche tempo, e corregge o abroga quelle esistenti. In base al
secondo, fa la pace o la guerra, invia o riceve delle ambascerie, stabilisce la
sicurezza, previene le invasioni. In base al terzo, punisce i delitti o giudica
le liti dei privati. Quest'ultimo potere sarà chiamato il potere
giudiziario, e l'altro, semplicemente, potere esecutivo dello Stato.
[...]
Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura il
potere legislativo è unito al potere esecutivo, non vi è
libertà, perché si può temere che lo stesso monarca o lo
stesso senato facciano leggi tiranniche per attuarle tirannicamente.
Non vi
è libertà se il potere giudiziario non è separato dal
potere legislativo e da quello esecutivo. Se esso fosse unito al potere
legislativo il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe
arbitrario, poiché il giudice sarebbe al tempo stesso legislatore. Se
fosse unito con il potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un
oppressore.
Tutto sarebbe perduto se la stessa persona, o lo stesso corpo
di grandi, o di nobili, o di popolo, esercitasse questi tre poteri: quello di
fare le leggi, quello di eseguire le pubbliche risoluzioni, e quello di
giudicare i delitti o le liti dei privati...
Montesquieu descrive e
loda l'organizzazione politica inglese uscita dalla Gloriosa Rivoluzione come
realizzazione del suo ideale di governo «moderato», nel quale la
coesistenza di poteri separati che si controllano e si limitano a vicenda
produce la libertà del cittadino, intesa come tranquillità
dell'individuo non esposto a costrizioni o ad attentati da parte dello Stato.
L'idea della separazione dei poteri, che ha ispirato dapprima la costituzione
degli Stati Uniti d'America, poi via via tutte le costituzioni europee, ha fatto
dello Spirito delle leggi una sorta di Bibbia del pensiero liberale e un termine
di riferimento obbligato delle moderne teorie costituzionali.
CESARE BECCARIA
Una tipica battaglia illuministica contro
pregiudizi e superstizioni correnti fu quella condotta dal milanese Cesare
Beccaria per una riforma della giustizia penale basata su criteri di
ragionevolezza, umanità e utilità sociale. Nel campo del diritto
penale i pregiudizi più diffusi da confutare erano quelli relativi
all'efficacia dell'uso terroristico della pena e la superstizione da smascherare
era la confusione pretesca tra diritto, morale e religione, tra giustizia umana
e giustizia divina, tra reato e peccato. Si può dire che l'obiettivo
primario di Beccaria era la laicizzazione della giustizia penale.
Beccaria
era nato in una nobile famiglia di Milano il 15 marzo 1738. Laureatosi a Pavia
nel 1758, la lettura degli illuministi francesi lo stimolò ad entrare nel
gruppo di giovani, che si erano riuniti nel 1761 nell'Accademia dei Pugni, e che
diedero vita alla più nota rivista dell'Illuminismo italiano, «Il
Caffè» (1764-1766). Proprio nel 1764, a ventisei anni, e in perfetta
sintonia con la campagna per la riforma della legislazione che «Il
Caffé» avrebbe condotto nei suoi due anni di vita, Beccaria
pubblicò la sua opera maggiore, Dei delitti e delle pene, accolta fin
dalla sua prima apparizione da un grande e meritato favore.
Secondo
Beccaria il diritto di punire è stato conferito allo Stato nel momento in
cui gli uomini hanno abbandonato lo stato di natura per passare alla
società civile. In forza del contratto sociale gli uomini hanno
rinunciato all'uso della forza per l'autodifesa e lo Stato ha acquistato il
monopolio della forza che usa per conservare la società, cioè per
punire gli atti contrari alla pubblica utilità. La pena, che deve essere
stabilita dalla legge e non arbitrariamente fissata dal giudice, deve risultare,
secondo Beccaria, proporzionata al delitto: in altre parole più un atto
è contrario alla pubblica utilità maggiore deve essere la
punizione. È nell'interesse generale della società e non solo per
ragioni umanitarie che le pene devono essere moderate, indirizzate più a
scoraggiare il compimento di nuovi delitti che ad affliggere crudelmente (e
inutilmente) il colpevole, tendere al recupero del condannato. I soli tipi di
pena ammessi da Beccaria sono la detenzione e l'ammenda pecuniaria. La pena di
morte è ingiusta e inutile. Ingiusta perché gli uomini non hanno
trasferito allo Stato un diritto, quello sulla propria vita, di cui non avevano
la facoltà di disporre. Inutile (come tutte le pene eccessive, crudeli,
«esemplari», ossia terroristiche) perché non dissuade dal
delitto i criminali incalliti e li rende, semmai, disposti a tutto
(perché non hanno nulla da perdere). Meglio, allora, i lavori forzati a
vita, che se non altro rendono il carcerato utile alla
società.
Altrettanto famosi sono gli argomenti addotti da Beccaria
contro la tortura (ingiusta perché costituisce una pena inflitta prima
della condanna; inutile, perché sotto tortura l'inquisito tende a dire
non la verità, ma quello che l'inquirente vuol sentirsi dire), contro le
delazioni segrete e altri analoghi metodi processuali vigenti al suo tempo.
Alcuni dei principi da lui affermati, come quello della personalità del
reato (nessuno deve essere punito per un fatto commesso da altri), quello della
presunzione di innocenza fino a prova contraria, o quello secondo cui nessuno
può essere punito per un fatto che non sia stato in precedenza previsto
dalla legge come reato, sono diventati patrimonio comune della cultura penale
moderna. Il che non toglie che in molti Paesi esista ancora la pena di morte,
che essa sia ancora molto popolare tra le gente (a dispetto di tutti i
«lumi» della cultura occidentale, gli imbecilli sono sempre molto
numerosi), che la tortura sia sempre largamente praticata (e non solo in Paesi a
regime dittatoriale), che le pene detentive siano tuttora aggravate da inutili
crudeltà, ecc.
Sull'onda del successo del Dei delitti e delle pene
Beccaria fu invitato a Parigi. Vi si recò nel 1766 ma non seppe
resistervi a lungo: l'ambiente non faceva per lui. Due anni più tardi
divenne professore nelle Scuole Palatine di Milano. Ricoprì in seguito
importanti cariche nell'amministrazione pubblica della Lombardia austriaca.
Morì il 28 novembre 1794 a Milano.
JEAN-JACQUES ROUSSEAU
Nato a Ginevra nel 1712 da una famiglia di
piccoli artigiani calvinisti, Jean Jacques Rousseau, dopo varie avventure e
vagabondaggi, che aveva iniziato sin da ragazzo, era finito a Parigi, dove si
era dedicato alla musica ed era entrato in rapporto con i più eminenti
personaggi dell'epoca. Vivendo grazie all'aiuto di qualche amico, nel periodo
1752-1764 scrisse le sue opere più importanti (Discorso sull'origine
dell'ineguaglianza, La nuova Eloisa, n contratto sociale, Emilio, Lettere dalla
montagna) che gli attirarono la condanna del Parlamento di Parigi. Dopo aver
vagato per alcuni anni in Europa, ossessionato dall'idea che tutti congiurassero
ai suoi danni, tornò finalmente a Parigi dove visse poveramente copiando
musica. È in questo periodo che scrisse le opere autobiografiche (le
Confessioni, Rousseau giudice di Jean-Jacques, Fantasie del passeggiatore
solitario). Morì nel 1778.
Fin dal suo primo saggio sul tema Se il
progresso delle scienze abbia contribuito a corrompere o a purificare i costumi
Rousseau si stacca dal razionalismo della cultura illuministica: il rinnovamento
della società, secondo lui, deve scaturire dal sentimento più che
dalla ragione. Le scienze e le tecniche non sono che fiori con cui si coprono le
catene che stringono gli uomini; il progresso non è che il progresso
della schiavitù, dell'oppressione del ricco sul povero; è la
società stessa, e non l'individuo, la causa del male del mondo. Per
Rousseau l'individuo è «naturalmente» buono: lo stato di natura
è «uno stato che non esiste più, che forse non è mai
esistito e probabilmente non esisterà mai [...] sul quale tuttavia
è necessario avere idee giuste per giudicare bene intorno al nostro stato
presente».
L'uomo è buono semplicemente perché ha
un'innata ripugnanza del veder soffrire i suoi simili. Se questo atteggiamento
non prevale nella vita sociale è a causa delle disuguaglianze nate dalla
proprietà privata e dalla divisione del lavoro. La legge naturale aveva
fondato l'uguaglianza, l'evoluzione sociale ha creato l'ineguaglianza. Il vero
uomo «naturale», però, è essenzialmente
«sociale». Si tratta dunque di costruire una società
«naturale», in cui tutti gli uomini siano uguali e possano partecipare
alla gestione della vita pubblica; in cui il potere risieda nel popolo e in cui
il popolo, unico sovrano, sia in condizioni di esercitarlo direttamente.
In
una società come questa ciascun cittadino ubbidendo alle leggi ubbidisce
a se stesso, perde «la libertà naturale che ha come limiti solo le
forze dell'individuo» e guadagna «la libertà civile che
è limitata solo dalla volontà generale». La volontà
generale non è una volontà unanime, ma si fonda sulla «sola
legge che per natura esige un consenso unanime: il patto sociale,
quell'associazione nella quale ogni uomo, pur unendosi a tutti gli altri non
obbedisca che a se stesso, e resti libero come prima».
La democrazia
diretta (non rappresentativa), ossia l'esercizio diretto della sovranità
da parte del pa polo è uno dei punti fondamentali delle teorie di
Rousseau. «La sovranità», diceva, «non può essere
rappresentata per la stessa ragione per la quale non può essere alienata.
Essa consiste nella volontà generale e la volontà generale non si
rappresenta: è la volontà generale o è un'altra
volontà».
I deputati al Parlamento non rappresentano che se
stessi, sono tutt'al più commissari del popolo, non suoi rappresentanti.
«Il popolo inglese pensa di essere libero, ma si inganna; è libero
solo durante l'elezione dei membri del Parlamento; appena questi sono eletti
è schiavo, non è più niente».
Poiché la
sovranità si esercita essenzialmente nell'attività legislativa,
anche se è il Parlamento che elabora le leggi, occorre almeno che per la
loro definitiva approvazione siano sottoposte a referendum
popolare.
LASCIAR FARE
Se rileggiamo la definizione che ne dava
Voltaire, risulta evidente che per lui il «vero filosofo», era
soprattutto un economista o un politico dell'economia. L'economia era una
disciplina in gran parte nuova. Da sempre storici, politici, filosofi,
osservatori delle cose umane avevano espresso giudizi o pareri e formulato norme
di comportamento in relazione alla produzione e allo scambio di merci, alla
circolazione delle monete, alla finanza pubblica e privata, alle imposte, ai
prestiti, ecc. Mai però questo insieme di osservazioni e consigli aveva
dato vita a una teoria organizzata, fondata su ipotesi generali e su precise
modalità di verifica delle ipotesi stesse.
Neppure il mercantilismo
era propriamente una teoria economica. Si trattava piuttosto di un orientamento
di politica economica ispirato all'intento di incrementare la ricchezza
nazionale (per lo più a scapito della ricchezza delle altre Nazioni). Ma
i mezzi per raggiungere questo obiettivo erano diversi da Paese a Paese. Gli
Olandesi, per esempio, che erano mercanti e marinai dovevano la loro
prosperità alla libertà di commercio; per la stessa ragione tutte
le Nazioni mercantili o marinare che sul piano dei costi e dell'efficienza non
erano in grado di reggere la concorrenza degli Olandesi, tendevano a difendersi
con limitazioni, divieti, monopoli ecc. Gli Inglesi erano per la libertà
di commercio in casa d'altri e per il protezionismo in casa propria (gli atti di
navigazione, ad esempio, il primo dei quali varato da Cromwell, erano diretti ad
escludere gli stranieri dai traffici marittimi dell'Inghilterra). Quanto ai
mercantilisti francesi, avevano puntato soprattutto a limitare le importazioni
di manufatti dall'estero e a sviluppare un'industria di lusso che, adeguatamente
protetta dallo Stato, potesse collocare i suoi carissimi prodotti sui mercati
stranieri.
I fisiocrati costituirono la prima scuola economica in senso
moderno. Come i giusnaturalisti nel campo del diritto, così i fisiocrati
(che erano prima di tutto «filosofi», ossia «illuministi»)
in quello dell'economia ritenevano che esistessero delle leggi di natura che non
possono essere alterate dalle leggi positive dello Stato senza gravi
conseguenze: di qui il nome «fisiocrazia», che significa appunto
«potere della Natura» (dal greco physis = «natura»). I
fisiocrati diffidavano insomma di ogni provvedimento che potesse alterare
l'andamento «naturale» dell'economia ed erano decisamente ostili alle
politiche mercantilistiche, che insistevano sul ruolo preminente delle decisioni
pubbliche rispetto a quelle dei privati nel determinare gli orientamenti della
produzione e del commercio. A partire dai fisiocrati questa ostilità
all'intervento statale nell'economia, che generalmente viene detta
«liberista», ha trovato la sua espressione caratteristica nella
formula laissez faire, laissez passer, ossia lasciar fare, non porre ostacoli
all'iniziativa economica dei privati all'interno del Paese, né agli
scambi commerciali con l'estero.
Il concetto di fisiocrazia aveva anche un
altro significato. Nella ricerca dell'origine della ricchezza nazionale
l'interesse dei fisiocrati rispetto a quello dei mercantilisti, si spostava
dallo scambio alla produzione delle merci, e nell'ambito della produzione la
loro attenzione si soffermava quasi esclusivamente sull'agricoltura, trascurando
l'industria. L'agricoltura era infatti, secondo loro, l'unica attività
capace di fornire un prodotto netto o surplus. Per prodotto netto i fisiocrati
intendevano la differenza tra la ricchezza prodotta e la ricchezza consumata nel
processo produttivo (si pensi alla moltiplicazione delle sementi operata
dall'agricoltore, grazie alla forza vegetativa della natura). Tale surplus
dipendeva, secondo i fisiocrati, non dalla produttività del lavoro, ma
dalla fertilità «naturale» della terra.
La fisiocrazia
fondava perciò l'analisi economica sull'esame del processo di
distribuzione e di riproduzione del surplus. A questo proposito Quesnay, il
caposcuola della fisiocrazia, distingueva la società in tre classi: la
classe produttiva degli agricoltori (il cui lavoro concorre alla formazione del
surplus), la classe dei proprietari terrieri che si appropriano di tale surplus
(nella forma della rendita) e la classe degli artigiani, definita
«sterile» in quanto dedita alla semplice trasformazione delle materie
prime fornite dall'agricoltura e non alla loro produzione.
Per i fisiocrati
si può parlare di «liberismo agrario». Ma la formula del
laissez faire su fatta propria anche da un'altra scuola economica, quella a cui
appartengono Adam Smith e David Ricardo, che, per il suo interesse verso il
settore della produzione manifatturiera, potremmo chiamare del «liberismo
industriale» e che è comunemente detta «classica»,
perché le sue teorie parvero per lungo tempo, nella sostanza, definitive,
non riformabili. Adam Smith, che era professore all'Università di
Glasgow, in Scozia, è l'autore del Saggio sulla natura e sulle cause
della ricchezza delle Nazioni (1776), destinata a diventare una sorta di Bibbia
del liberismo economico.
La tesi fondamentale di Adam Smith è che
ciascuno tende naturalmente a operare sulla base del principio del massimo
risultato con il minimo sforzo e che questo principio (che è alla base,
per esempio, della divisione del lavoro) è tale da garantire la migliore
difesa non solo degli interessi privati, ma anche dell'interesse generale. In
altre parole l'interesse dei singoli e quello generale non sono in contrasto
(come invece erano portati a credere i mercantilisti) e il modo migliore di
difendere l'interesse generale non è quello di moltiplicare in ogni
settore regole e controlli, ma esattamente il contrario. Intervenendo
nell'economia lo Stato non può che indurre sprechi e distorsioni, mentre
se tutti fossero liberi di agire secondo le loro tendenze naturali il risultato
complessivo sarebbe automaticamente quello più desiderabile per
tutti.
Questa ottimistica convinzione di Smith non era interamente
condivisa da altri grandi economisti classici come Malthus, Ricardo o Marx.
Malthus, ad esempio, riteneva che la popolazione tendesse a crescere con ritmi
molto più alti delle risorse necessarie al suo sostentamento. Era
persuaso che l'intervento statale in materia non servisse a niente (aiutare i
poveri, ad esempio, equivaleva a indurli a fare più figli e cioè
ad aggravare la situazione) ed era convinto che l'equilibrio tra risorse e
popolazione si sarebbe comunque ristabilito da solo; ma i fattori
«naturali» di riequilibrio erano la morte per inedia, la morte per
malattia, la morte violenta (guerre, rivolte, ecc.), il che non suggeriva certo
un'immagine positiva della natura e dei suoi meccanismi. Madre natura compariva
qui piuttosto come una natura matrigna.
Il pessimismo era la nota dominante
anche del pensiero di David Ricardo (1772-1823). Ricardo ha elaborato, sulle
basi poste da Adam Smith, un'analisi compiuta del sistema capitalistico ed ha
formulato una serie di teorie, più tardi riprese da Marx (e discusse in
altre parti di questa opera), come quella del valore-lavoro (il valore delle
merci è determinato dalla quantità di lavoro in esse incorporato,
ossia dalla quantità di lavoro necessario in media per produrle) e quella
dei salari, secondo la quale la retribuzione del lavoro tenderebbero
irresistibilmente a fissarsi intorno al minimo necessario, in media, per
assicurare la sopravvivenza dei lavoratori e delle loro famiglie.
Complessivamente il ritratto della società capitalistica fornito da
Ricardo era tutt'altro che rassicurante: lotte di classe, insanabili contrasti
di interesse, squilibri e ingiustizie erano, per così dire, connaturati
al sistema e lo Stato non poteva farci nulla, salvo, forse, alleviare il
malessere sociale che derivava da posizioni di privilegio o di monopolio
adottando una linea coerentemente liberistica. Così ad esempio, gli
effetti perversi del monopolio della terra detenuto dalla classe dei proprietari
terrieri (gli alti prezzi del grano e di altri generi alimentari, ad esempio)
potevano essere in qualche misura attenuati eliminando ogni vincolo al commercio
e aprendo il mercato nazionale ai prodotti agricoli stranieri.
IMPORTANTI FISIOCRATI
Tra gli autori di maggiore rilievo che hanno
operato nell'ambito della fisiocrazia vanno ricordati Vincent-Jacques Turgot
(1721-1781) che fu anche controllore generale delle finanze sotto Luigi XVI,
Victor de Riqueti marchese di Mirabeau (1715-1789), padre di Honoré, uno
dei maggiori politici dei primi anni della Rivoluzione francese, e soprattutto
François Quesnay (1694-1774), autore dell'opera più significativa
della fisiocrazia, il Tableau Economique (1758), uno schema o tabella che
descrive come la ricchezza prodotta dall'agricoltura circoli tra le classi,
permettendo la riproduzione annuale del prodotto netto. Il Tableau ha esercitato
un'importante influenza sul pensiero economico successivo.
I modelli
quantitativi con i quali gli economisti moderni cercano di descrivere (e di
regolare) il funzionamento dei sistemi economici derivano, direttamente o
indirettamente dallo schema di Quesnay.
LA RIVOLUZIONE AMERICANA
Per lungo tempo i rapporti dei coloni
inglesi del Nord America con la madrepatria erano stati buoni: le colonie si
amministravano in piena autonomia e godevano nei confronti della metropoli di
una libertà che era del tutto sconosciuta alle colonie francesi e
spagnole. Gli stretti legami economici con l'Inghilterra anche se implicavano
una certa dipendenza, stimolavano tutto sommato la crescita delle colonie,
mentre l'esercito e la marina inglesi costituivano una valida difesa contro la
minaccia costituita dalle vicine colonie francesi.
La situazione
però era destinata a peggiorare via via che procedeva il tumultuoso
sviluppo della società coloniale. Le leggi inglesi imponevano alle
colonie di acquistare in Inghilterra la maggior parte dei prodotti industriali
di cui avevano bisogno e quasi tutta la produzione delle colonie doveva essere
venduta alla madrepatria. L'Inghilterra godeva insomma di una posizione di
monopolio sul commercio coloniale e in conseguenza di tale monopolio poteva
vendere a caro prezzo le proprie merci ed acquistare a prezzi bassi le merci
americane. Questa situazione non aveva suscitato forti opposizioni quando le
colonie erano ancora in fase di organizzazione, ma era diventata insostenibile
nella seconda metà del Settecento: le colonie erano ormai ricche e
popolose, avevano un'agricoltura altamente sviluppata e un commercio in continua
espansione.
Nel 1763 al termine di una dura guerra l'Inghilterra era
riuscita a strappare alla Francia il Canada. Questa guerra, che aveva liberato
gli Americani dalla pericolosa vicinanza francese, invece di rafforzare i legami
con la madrepatria li allentò. Proprio perché non esisteva
più un pericolo francese, la protezione dell'esercito inglese appariva
agli Americani assai meno preziosa di un tempo. D'altra parte, per rifarsi delle
ingenti spese di guerra, il governo di Londra pensò di imporre delle
tasse ai coloni, ma non volle che fossero gli stessi rappresentanti dei coloni a
decidere l'entità e la forma di tale tassazione. Con questo atto veniva
violato un antico diritto del popolo inglese, secondo il quale nessuna tassa
poteva essere imposta senza il consenso di coloro che dovevano pagarla.
Così facendo, il Governo inglese mostrava di non voler riconoscere agli
Americani le libertà accordate ai cittadini della madrepatria.
Non
esiste una data precisa per indicare l'inizio della rivolta americana. Una serie
di incidenti, di sommosse, di scontri trasformò via via in una guerra per
l'indipendenza quella che all'inizio era soltanto una lotta in difesa dei
diritti dei coloni americani, che si consideravano inglesi e che chiedevano
perciò di essere trattati come i cittadini residenti in Inghilterra.
L'esercito americano, formato di volontari, era nei primi tempi disorganizzato,
male armato e molto indisciplinato. Durante il periodo del raccolto, per
esempio, molti soldati abbandonavano il fronte e tornavano a casa per aiutare i
familiari nei lavori agricoli. Sotto la guida di George Washington l'esercito
americano si diede una disciplina e una organizzazione efficiente. Con ardite
azioni di guerriglia riuscì a battere in più occasioni l'esercito
inglese, più numeroso ma meno agile nelle manovre e svantaggiato dalla
irregolarità dei rifornimenti che gli venivano dalla madrepatria. In
questa irregolarità molto influiva l'opera della marina degli insorti,
che intercettava i convogli e attaccava le navi avversarie sin nelle acque
inglesi.
Terminata vittoriosamente la guerra nel 1783, le antiche colonie
affrontarono il problema della propria organizzazione in Stato indipendente. Nel
1787 si riunì a Filadelfia una Convenzione che redasse la Costituzione
degli Stati Uniti. Tale Costituzione adottava una formula federale che affidava
al governo centrale le decisioni riguardanti la politica estera, l'esercito, la
moneta e le principali questioni di comune interesse, per esempio la
colonizzazione dei territori dell'Ovest. Per il resto ogni Stato era libero di
governarsi in conformità alle antiche tradizioni di autonomia. Nel 1789,
approvata la Costituzione da tutti i tredici Stati, venne eletto il primo
presidente degli Stati Uniti: fu scelto George Washington, l'antico comandante
dell'esercito degli insorti.
Nel 1776, agli inizi della rivolta, i
rappresentanti degli insorti avevano approvato una Dichiarazione d'indipendenza,
che con grande semplicità ed efficacia esponeva la teoria del diritto
alla resistenza contro gli arbitri del potere (un precedente interessante
è la dichiarazione di indipendenza delle Province Unite dei Paesi Bassi)
e i principi fondamentali del giusnaturalismo (la dottrina secondo cui esistono
leggi e diritti di natura che non possono essere violati dai governi né
contraddetti dalle leggi positive). Vi si affermava tra l'altro:
...
Consideriamo di per sé evidentissime queste verità: che tutti gli
uomini sono creati uguali; che essi sono dotati dal Creatore di diritti
inalienabili e che tra questi si annoverano la vita, la libertà, la
ricerca della felicità; che appunto per assicurare questi diritti sono
istituiti i governi, i quali traggono il loro giusto potere dal consenso dei
governati; che qualora una forma di governo non permetta la realizzazione di
questo scopi, il popolo ha diritto di cambiarla o di abolirla e di sostituire ad
essa un'altra forma di governo fondata su principi tali e con tale ordinamento
di poteri da avere le maggiori probabilità di garantire la sicurezza e la
felicità. Certo, la prudenza consiglia che governi da lungo tempo
stabiliti non siano mutati per ragioni di poco conto e l'esperienza dimostra che
gli uomini sono più disposti a soffrire, quando i mali sono sopportabili,
che a sollevarsi abolendo le forme di governo alle quali sono abituati. Ma
quando una lunga serie di abusi e di usurpazioni, operando sempre nella stessa
direzione, tradisce il disegno di ridurli sotto un assoluto dispotismo, è
loro diritto, è loro dovere rovesciare un tale governo.
Contro
il carattere tutto teorico di questo genere di enunciati c'è chi ricorda
che tra i firmatari della dichiarazione americana c'erano non pochi proprietari
di schiavi (George Washington era uno dei più grossi), che quanti si
ribellavano alla schiavitù propria o degli altri continuarono per molto
tempo ad essere legalmente impiccati negli Stati Uniti, che i pellirosse erano a
mala pena considerati uomini (e infatti la loro vita, i loro beni, la loro
libertà non valevano un soldo, per non parlare del loro diritto alla
ricerca della felicità) e che ben pochi Americani si accorsero allora o
poi della contraddizione. Ma l'incoerenza degli uomini non è mai stata un
buon argomento contro la bontà dei princìpi.
LA FRONTIERA
Mentre nell'Europa moderna la parola
«frontiera» significa confine, cioè un limite ben definito
oltre il quale uno Stato non può estendere la sua autorità, nella
storia americana è stata usata ad indicare una zona malamente definita e
scarsamente popolata in via di colonizzazione. La «frontiera»
americana non era dunque una linea fissa, ma una fascia mobile di territorio che
veniva continuamente spostata in avanti da pionieri, missionari, coloni, in
parte con modi pacifici, ma molto di più con l'uso della violenza: molto
simile, insomma, a quell'altra frontiera nella quale si erano riversati per
tutto il basso Medio Evo, nella loro secolare marcia verso Est e a scapito delle
popolazioni slave, coloni, missionari e cavalieri tedeschi.
La regione che
si stende tra gli Appalachi e il Mississippi, ricca di acqua e di boschi, ancora
alla fine del Settecento era poco nota ed abitata in prevalenza da Pellirosse. I
Francesi vi erano penetrati per primi ma, sconfitti nel 1763, avevano dovuto
cedere all'Inghilterra i propri diritti su questi territori, mentre gli Spagnoli
si erano insediati in quelli ad Ovest del grande fiume. Nel 1783, poi, al
termine della guerra d'indipendenza, l'Inghilterra aveva ceduto a sua volta
l'intera regione agli Stati Uniti. Solo da quel momento cominciò la
massiccia penetrazione dei coloni americani e la vita di frontiera.
I primi
americani che si spinsero di là dagli Appalachi erano cacciatori e
mercanti di pellicce. Presto però furono seguiti da boscaioli e
agricoltori, che disboscarono e dissodarono vaste estensioni di terra. La vita
di questi pionieri non era né comoda né facile. Strappare alla
foresta un pezzo di terra e dissodarlo costava una fatica estenuante. La loro
dieta basata principalmente sul granturco e sulla carne salata, era
insufficiente e poco igienica. Privi o quasi di assistenza medica, erano
falcidiati da malattie come la malaria, la dissenteria, la febbre gialla, il
colera. La loro esistenza era infine minacciata dalle bestie feroci, dai banditi
e dagli Indiani, per quanto questi ultimi, dopo l'allontanamento dalla regione
dei Francesi loro alleati, non potessero opporre nessuna efficace resistenza
all'avanzata dei coloni.
Quando in un territorio, per l'assiduo lavoro dei
pionieri, le condizioni di vita diventavano più stabili e sicure,
iniziava un secondo flusso di coloni: arrivavano medici, negozianti, avvocati,
giornalisti, maestri, predicatori, operai banchieri e naturalmente altri
agricoltori. Quando raggiungeva un determinato livello di popolazione e di
organizzazione interna, il vecchio territorio di frontiera veniva accolto come
nuovo Stato nell'Unione. La frontiera si spostava allora più ad occidente
e spesso i primi coloni rivendevano con buon guadagno il loro campo ai nuovi
arrivati e partivano alla ricerca di nuove terre da dissodare. Tra il 1792 ed il
1803, nel giro di appena una dozzina d'anni, sorsero tre nuovi Stati ad Ovest
degli Appalachi: il Kentucky, il Tennessee e l'Ohio.
Uno dei maggiori
ostacoli alla colonizzazione dei territori ad occidente dei monti Appalachi era
rappresentato dalla difficoltà delle comunicazioni. Alcune strade vennero
aperte attraverso le catene montuose per collegare le terre dell'Ovest alle
città della costa atlantica, ma il percorso era disagevole e il costo dei
trasporti molto alto. Le difficoltà poterono dirsi veramente superate
solo quando, nel 1803, con l'acquisto dalla Francia della Louisiana e della
città di Nouvelle Orléans, ribattezzata New Orleans, fu possibile
organizzare la navigazione fluviale sul Mississippi e sui suoi
affluenti.
Si intraprese allora anche la costruzione di numerosi canali
che, interessando la regione dei Grandi Laghi, completarono la rete delle
comunicazioni. Divenne così possibile viaggiare da New York a New Orleans
esclusivamente per vie d'acqua interne. Come conseguenza la colonizzazione si
sviluppò ad un ritmo ancora più intenso: tra il 1812 e il 1837
otto nuovi Stati entrarono nell'Unione: la Florida (acquistata dalla Spagna), il
Mississippi, l'Illinois, l'Alabama, il Missouri, l'Arkansas, il Michigan e
l'Indiana.
Nel territorio degli otto Stati che si sono elencati vivevano
nel 1810 meno di duecentomila persone; trent'anni più tardi la loro
popolazione complessiva superava largamente i tre milioni.
Vittime del
continuo spostarsi verso Ovest della frontiera americana erano i Pellirosse,
oggetto di una ininterrotta e sanguinosa opera di spoliazione, che ha finito per
assumere i caratteri di un vero e proprio genocidio (dal greco génos =
«popolo», più il suffisso -cidio, dal latino caedere =
«uccidere»: è lo sterminio in massa di un intero popolo).
Quello indiano era un vecchio problema. Quando i primi coloni inglesi si erano
insediati nell'America del Nord avevano stabilito rapporti relativamente
cordiali con le popolazioni indigene. I coloni, però, erano innanzi tutto
agricoltori e intendevano essere i padroni esclusivi delle terre che occupavano.
Tendevano perciò a cacciare dai territori sui quali si stanziavano ogni
altro occupante. Con ciò, inevitabilmente, i rapporti con gli Indiani non
potevano non guastarsi.
Se i coloni inglesi finirono con l'adottare una
politica di sterminio delle popolazioni indiane, Francesi e Spagnoli cercavano
invece l'amicizia delle tribù indiane in funzione anti inglese. Nel 1763,
con la sconfitta della Francia e il passaggio del Canada in mani inglesi, gli
Indiani della valle dell'Ohio si trovarono soli a fronteggiare l'avanzata dei
coloni americani. Si unirono in una grande confederazione sotto il comando di
Pontiac, capo degli Ottawa e presero ad attaccare i coloni lungo tutta la
frontiera dalla Pennsylvania alla Virginia. La loro azione fu stroncata nel
sangue, ma il Governo inglese per evitare nuove complicazioni cercò di
impedire o quanto meno di contenere la penetrazione dei coloni nei territori
indiani.
A differenza di quelle inglesi, le autorità americane non
facevano nulla per reprimere le violenze dei coloni contro gli Indiani; furono
invece molto spesso impegnate in prima persona nella spoliazione e nello
sterminio degli Indiani e, per esempio, inducendo con le minacce o con la
corruzione questo o quel capo a firmare la cessione di nuovi territori, tra il
1795 e il 1809 riuscirono ad assicurare ai coloni bianchi oltre 20 milioni di
ettari nei territori indiani. Nel 1809 un capo Shawnee, Tecumseh, si propose di
bloccare l'avanzata dei bianchi. Egli capiva però che sul piano militare
gli Indiani non avrebbero mai potuto battere gli Americani: nel territorio
compreso tra i Grandi Laghi, il Mississippi e l'Ohio gli Indiani potevano
raccogliere al più qualche migliaio di guerrieri, mentre i bianchi in
grado di portare le armi erano centinaia di migliaia. L'unico mezzo per impedire
la rovina del popolo indiano era dunque una riforma profonda, ma sostanzialmente
pacifica, del suo modo di vivere. Il programma di Tecumseh si può
riassumere in tre punti essenziali: unire tutte le tribù in una
confederazione stabile; limitare i rapporti con i bianchi a pochi, essenziali
scambi commerciali con il divieto assoluto per i capi tribù di firmare
nuovi trattati di cessione; proibire a tutti gli Indiani il consumo di
alcoolici, che non solo danneggiavano la salute dei guerrieri, ma erano lo
strumento più efficace con cui le autorità americane avevano
condotto la loro opera di corruzione.
Mentre Tecumseh si trovava presso i
Creek per stringere con loro un'alleanza, reparti di truppa avanzarono sino al
suo villaggio e lo distrussero: fu questa la cosiddetta «battaglia» di
Tippecanoe, che diede l'avvio ad una serie di sanguinose guerre indiane. Tra il
1813 e il 1814 gli Americani guidati dal generale Andrew Jackson distrussero la
forza militare dei potenti Creek e si impadronirono del loro territorio. Alcuni
profughi Creek si rifugiarono nella Florida, che era allora spagnola, e si
unirono alle tribù locali dei Seminole, già invise agli Americani
perché accoglievano fraternamente gli schiavi neri fuggiti dalle
piantagioni del Sud. Nel 1817, senza curarsi delle proteste della Spagna, gli
Americani, guidati sempre da Jackson, penetrarono in Florida distruggendo ogni
villaggio che incontravano sulla loro strada. I Seminole si difesero e un
reparto dell'esercito americano, caduto in un'imboscata, venne annientato. La
rabbia americana dopo questo episodio si accese ancora di più e due capi
indiani, catturati a tradimento, vennero impiccati senza processo. Quanto agli
Spagnoli, incapaci di difendere la Florida, preferirono nel 1819 cederla agli
Stati Uniti in cambio di cinque milioni di dollari.
Per giustificare la
loro brutale politica di spoliazione e di sterminio gli Americani erano soliti
ripetere che gli Indiani erano del tutto incapaci di «civilizzarsi»,
ossia di assumere i modi di vita e le forme di pensiero dei bianchi. Ma i
Cherokee della Georgia, ad esempio, in termini di civiltà, come hanno
scritto due storici americani, avevano fatto «progressi civili assai
maggiori di quelli compiuti dagli spacconi della Georgia che bramavano le loro
terre»: avevano perfino inventato un alfabeto nel quale stampavano dei
buoni libri e si erano dati una costituzione. Quando lo Stato della Georgia,
ignorando i solenni trattati stipulati dal Governo federale volle impadronirsi
del territorio occupato dai Cherokee, questi si rivolsero alla corte suprema
degli Stati Uniti per avere giustizia ed ottennero una sentenza favorevole. Ma
il presidente degli Stati Uniti era allora Andrew Jackson, che si era messo in
luce con i massacri dei Creek e dei Seminole. Jackson ignorò la sentenza
della Corte Suprema e il Governo della Georgia poté proseguire nella sua
azione. I Cherokee si difesero con vigore, ma nel 1838 furono costretti a
ritirarsi verso Ovest.
LA RIVOLUZIONE FRANCESE
La Rivoluzione francese è «la
Rivoluzione» per eccellenza. Non perché sia stata la prima grande
rivoluzione dei tempi moderni: questo ruolo spetta alla rivoluzione inglese, che
l'ha preceduta di un secolo e mezzo. E neppure perché i suoi valori o
ideali (si parla degli immortali «princìpi dell'Ottantanove» ed
è universalmente noto il trinomio, «libertà,
fraternità, uguaglianza») fossero particolarmente originali o
innovativi: i Livellatori inglesi li avevano proclamati con altrettanta e forse
maggiore eloquenza e i princìpi sanciti nella Dichiarazione di
Indipendenza e nella Costituzione degli Stati Uniti erano esattamente gli
stessi. Ma la rivoluzione inglese era rimasta un fatto circoscritto, con scarsa
eco sul continente; in più, sconfitta l'ipotesi democratica dei
Livellatori e fallito l'esperimento semirepubblicano (non era mai stato
repubblicano per intero) di Cromwell, di democrazia e di repubblica non si era
più parlato, né in Inghilterra né altrove. Quanto alla
rivoluzione americana, era un evento troppo periferico per assumere un valore
universale e pareva rientrare nella serie degli esperimenti politici
caratteristici della tradizione coloniale, sul tipo delle reducciones dei
gesuiti o della colonia quacchera della Pennsylvania. La Rivoluzione francese,
invece, è scoppiata nel cuore dell'Europa ed è diventata molto
rapidamente una rivoluzione da esportare: si chiama francese, ma si intende
europea.
La società francese, come sappiamo, era divisa tra i due
ordini privilegiati della nobiltà e del clero (il 3-4 % della
popolazione) e il terzo Stato a cui la legge non riconosceva alcun privilegio.
Nessuno di questi ordini o Stati era omogeneo al suo interno. La nobiltà
comprendeva la grande aristocrazia di corte e la povera (e spesso ignorante)
nobiltà di campagna. Anche l'aristocrazia di corte non era
necessariamente ricca: spesso viveva dei favori e dei regali del re. In ogni
caso spendeva molto: il nobile squattrinato e spendaccione era un personaggio
comune nella Francia prerivoluzionaria. Il clero era diviso tra alto e basso
clero, il primo interamente formato da aristocratici, il secondo molto simile,
per cultura e condizioni economiche ai piccoli borghesi e ai contadini in mezzo
ai quali viveva. Il terzo Stato comprendeva tutti gli altri: ricchi e poveri,
borghesi e contadini, grandi intellettuali e analfabeti.
L'episodio di
Voltaire fatto bastonare da un aristocratico che rifiutava di battersi con lui a
duello è forse sufficiente a indicare il genere di rancore che la
borghesia ricca e colta poteva nutrire dei confronti della nobiltà. Ma va
aggiunto che la nobiltà, spinta da un crescente bisogno di denaro, aveva
finito nella seconda metà del Settecento con il monopolizzare quasi tutti
gli uffici civili e tutte le cariche militari, escludendone i borghesi. Quanto
ai contadini, che rappresentavano la grande maggioranza dei Francesi, circa
venti milioni, erano da tempo del tutto liberi: solo l'uno o il due per cento
erano ancora soggetti a una qualche forma giuridicamente riconosciuta di
servitù. Ma oltre alla soggezione legale c'era quella, più estesa,
legata alle consuetudini, al rispetto per la magnificenza dei padroni, al timore
reverenziale. Abbastanza diffuse erano poi le sopravvivenze feudali consistenti
in tributi o obblighi diversi, spesso più fastidiosi che gravosi; anche
qui tuttavia, nella seconda metà del Settecento, i nobili proprietari (e
soprattutto i piccoli nobili di provincia privi di altre consistenti fonti di
reddito) e la Chiesa tornarono ad esigerli con un certo rigore sulle proprie
terre.
A parte le crescenti tensioni tra gli ordini privilegiati e il terzo
Stato, quel che fece precipitare la crisi rivoluzionaria in Francia furono
essenzialmente le difficoltà finanziarie dello Stato. Carico di debiti
per le spese sostenute nelle inutili guerre del Settecento e per il costo del
mantenimento della Corte, il Governo aveva tentato senza successo di rimuovere o
di aggirare i privilegi fiscali della nobiltà e del clero, che, dopo
tutto, erano i maggiori proprietari terrieri della Francia. Nobili e preti si
dichiararono disposti a pagare le tasse e a contribuire in qualche modo al
risanamento del bilancio ma a patto di tornare ad esercitare un ruolo politico
nello Stato. Anche se lo sviluppo degli avvenimenti fu più complicato,
l'ipotesi di negoziato che alla fine condusse alla riconvocazione, dopo
centosettantacinque anni, degli Stati Generali, fu in sostanza questa: una certa
perequazione fiscale in cambio della riforma dello Stato.
Fin qui sembrava
che il conflitto riguardasse prevalentemente la monarchia da un lato e gli
ordini privilegiati dall'altro. In questo conflitto la parte riformatrice era
rappresentata dalla nobiltà: il clero voleva solo continuare a non pagare
le tasse e il Governo non sapeva esattamente che riforme fare. Non è
neppure facile però dire in che cosa propriamente consistesse il
riformismo aristocratico. Una parte dei nobili condivideva le indicazioni di
Montesquieu e pensava a un governo moderato sul modello inglese, in cui
all'aristocrazia, come partner ufficiale della monarchia e come naturale riserva
di uomini di governo, fosse riservato un ruolo preminente nella direzione del
Paese. Un'altra parte però (ed era la maggioranza) cullava impossibili
sogni di restaurazione feudale: il suo era, per così dire, un riformismo
reazionario e nostalgico. In ogni modo, quando si giunse alla convocazione degli
Stati Generali le cose cambiarono rapidamente.
Prima ancora che, il 5
maggio 1789, si riunisse l'assemblea, era sorta una questione di procedura.
Nelle precedenti riunioni degli Stati Generali, nelle delibere comuni ciascun
ordine aveva espresso un voto. Se si fosse votato con quel metodo il voto della
nobiltà più il voto del clero avrebbero prevalso sul voto del
terzo Stato. Se al contrario i tre ordini avessero votato tutti insieme e ogni
deputato avesse espresso un voto, poiché al terzo Stato era stato
concesso un numero di deputati pari a quelli degli altri due messi insieme, la
maggioranza sarebbe stata sua. Non si trattava però solo di maggioranze.
Se si fosse votato per testa e non per stato, infatti, il carattere stesso
dell'assemblea sarebbe cambiato. Finché ogni ordine deliberava
separatamente era ribadita la divisione del popolo francese in ordini o Stati;
se le deliberazioni fossero state prese in comune sarebbe stata implicitamente
negata quella divisione e si sarebbe fatto un grosso passo verso l'uguaglianza
di tutti i Francesi di fronte alla legge.
Quando si accorsero del pericolo,
la monarchia (impersonata dallo smorto e incerto Luigi XVI) e le classi
privilegiate smisero di litigare e fecero causa comune. Era però troppo
tardi: i rappresentanti del terzo Stato, di fronte al rifiuto opposto alle loro
richieste, si proclamarono Assemblea Nazionale, forti del fatto di rappresentare
la stragrande maggioranza del popolo francese. Alcuni rappresentanti del basso
clero e della nobiltà si unirono a loro e alla fine anche i più
recalcitranti, su invito dello stesso Luigi XVI, dovettero accettare il fatto
compiuto. Gli Stati Generali, in quanto espressione della vecchia società
feudale fondata sul privilegio e sulla disuguaglianza giuridica, erano morti. Ad
essi si sostituiva un'Assemblea, che, benché formata dagli stessi uomini,
era una cosa assai diversa: ogni deputato rappresentava ormai l'intera Nazione
francese e non più il gruppetto di elettori del suo ordine che lo aveva
prescelto. All'Assemblea Nazionale così fatta non toccava più
proporre qualche riforma, ma elaborare una nuova costituzione per la Francia.
I LEADER DELLA RIVOLUZIONE
La Rivoluzione francese è indicata
sempre come un rivoluzione «borghese», il che è senz'altro
vero, se si considera che la borghesia è stata il gruppo sociale che ha
tratto i maggiori vantaggi dalle conquiste della rivoluzione: l'abolizione dei
privilegi di nascita o di stato e l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla
legge. La cosa tuttavia è molto meno vera se si bada a chi ha fatto
davvero la rivoluzione. Nelle insurrezioni e negli scontri di piazza il
protagonista principale è stato il popolo di Parigi (artigiani, operai,
piccoli bottegai, poveri, ecc.). Tra i leader della Rivoluzione, invece,
così come tra gli esponenti di quella cultura illuministica che ha
fornito l'armamentario intellettuale della Rivoluzione, non pochi appartenevano
alla nobiltà. Nei primi tempi della rivoluzione le figure di maggiore
spicco alla guida del terzo Stato erano transfughi degli ordini privilegiati:
l'abate Emmanuel-Joseph Sieyès (1748-1836), autore dell'opuscolo Che
cos'è il terzo Stato? pubblicato con enorme successo nel febbraio
dell'89, eletto dal terzo Stato a Parigi, e Honoré de Riqueti conte di
Mirabeau (1749-1791), che, dopo esser stato espulso dal proprio ordine, era
stato eletto dal terzo Stato a Aix-en-Provence. Mirabeau era, per così
dire, «figlio d'arte»: suo padre era Victor, uno dei massimi esponenti
della fisiocrazia.
IL GIURAMENTO DELLA PALLACORDA
Il 10 giugno 1789, rompendo gli indugi che
per un mese avevano paralizzato i lavori degli Stati Generali sulla questione
del voto per testa o per ordine, i rappresentanti del terzo Stato invitano i
deputati degli altri ordini a unirsi a loro per la consueta verifica dei poteri.
Solo qualche deputato del clero aderisce all'invito. Il 17, su proposta di
Sieyès, l'assemblea così costituita si proclama Assemblea
Nazionale. Il suo primo atto è di rassicurare i creditori dello Stato
ponendo i loro soldi «sotto la protezione dell'onore e della lealtà
della Nazione francese». Il 19 la maggioranza dei rappresentanti del clero
si dichiara favorevole alla riunione e lo stesso fanno un'ottantina di deputati
della nobiltà. Il 20 giugno i membri dell'assemblea trovano chiusa la
sala delle riunioni in vista di una solenne seduta reale prevista per il 23. Si
spostano allora in un vicino padiglione che, essendo destinato al gioco della
pallacorda, non ha sedili ed è illuminato da finestre altissime, e qui
giurano «di non separarsi mai e di riunirsi dovunque le circostanze lo
richiedano, finché la Costituzione del regno non sia stabilita e poggiata
su solide fondamenta». ll 23 il respinto dai vescovi e dalla maggioranza
della nobiltà tenta una prova di forza: predisposto un minaccioso
apparato militare, pronuncia un discorso arrogante che ignora le decisioni prese
dall'Assemblea nell'ultima settimana e ordina agli Stati di dividersi e di
lavorare separatamente. Quando il gran cerimoniere chiede ai deputati del terzo
Stato di obbedire al re e di lasciare la sala, nessuno si muove Mirabeau
risponde:
- Lasceremo i nostri posti solo spinti dalle baionette -; e
Sieyès commenta sprezzante: - Siete gli stessi di sempre -. Il re non osa
mettere in atto le minacce. Il 24 la maggioranza dei deputati del clero si
unisce all'assemblea e il 25 è la volta di un folto gruppo di nobili,
guidato, niente meno che da Luigi Filippo duca di Orléans (poi detto
Filippo Egalité: fu il suo voto nel gennaio del 1793 a decidere la
condanna a morte di Luigi XVI).
RIVOLUZIONE E ANTICO REGIME
Il termine «rivoluzione» viene
adoperato in molti significati, alcuni dei quali abbiamo avuto occasione di
illustrare altrove. In senso strettamente politico si può propriamente
parlare di «rivoluzione» solo quando si tratti di un movimento di
massa che, con l'uso o con la minaccia della violenza, si propone il
rovesciamento delle autorità costituite e l'insediamento di una nuova
autorità politica (conquista del potere); la conquista del potere, per
altro, non è che una condizione necessaria per la realizzazione del
programma rivoluzionario, che consiste in profonde e durevoli trasformazioni
politiche, sociali ed economiche rispondenti ad una ideologia (e cioè ad
una concezione della società e dello Stato) opposta a quella della
vecchia classe di governo. Sulla base di questa definizione si può
agevolmente determinare ciò che non è propriamente
rivoluzione:
«Rivolta» (o «ribellione»): è
un movimento insurrezionale a carattere limitato. La rivolta non ha programmi a
lunga scadenza, ma pone piuttosto rivendicazioni immediate. Spesso tali
rivendicazioni consistono nell'eliminazione o nella correzione di abusi commessi
dall'autorità; in questo caso la rivolta, più che a sovvertire
l'ordine costituito, tende a ristabilire un ordine preesistente, che il
comportamento illegale dell'autorità ha turbato. Nella rivolta,
insomma,prevale la protesta, mentre programmi politici e motivazioni ideologiche
possono essere del tutto assenti. Anche il termine «ribellismo», usato
per indicare la propensione all'insubordinazione violenta, sottolinea la
prevalenza dei fattori psicologici (indocilità, insoddisfazione, ecc.) su
quelli ideologici e politici. Le rivolte possono anche essere di vaste
proporzioni e assumere carattere di particolare violenza, come è accaduto
per esempio nelle jacqueries, ciò che tuttavia non consente di
assimilarle alle rivoluzioni è l'assenza di un progetto complessivo di
riorganizzazione della società.
«Congiura» (o
«complotto» o «cospirazione»): è l'accordo segreto
tra più persone per rovesciare o modificare l'ordinamento di uno Stato o
per colpire ed eliminare una parte della classe politica. Congiure erano ad
esempio quelle delle sette segrete e dei gruppi patriottici clandestini nel
Risorgimento. Spesso le congiure nascono all'interno degli stessi gruppi di
governo e possono essere dirette o contro altri gruppi di governo o contro
l'opposizione. Si parla anche, in questo caso, di
«macchinazione».
«Colpo di Stato»: è
un'azione concertata all'interno delle stesse strutture statali (per lo
più per iniziativa o con l'adesione delle forze armate) al fine di
sostituire in tutto o in parte il personale di governo e di modificare almeno
temporaneamente i meccanismi politici e di potere, di solito (ma non
necessariamente) in senso autoritario. Si parla anche in casi del genere di
«rivoluzione di Palazzo».
«Guerra civile»:
è una guerra tra cittadini dello stesso Paese. Può essere
strumento o conseguenza di una rivoluzione, ma può nascere anche dalla
rivalità tra opposte fazioni della classe
dirigente.
«Guerre di liberazione nazionale»: sono spesso
chiamate rivoluzioni (per esempio: Rivoluzione americana, Rivoluzione algerina,
ecc.) e ne hanno in effetti tutti i caratteri, tranne uno: di solito non tendono
affatto a instaurare un nuovo ordine economico e sociale e spesso non realizzano
nemmeno un significativo mutamento nei gruppi politici
dirigenti.
Anche se la parola è più antica, la nozione
attuale di rivoluzione ha meno di due secoli. Nell'antichità classica non
c'era nemmeno la parola: si parlava di rivolte, sedizioni, congiure, guerre
civili, ecc., tutte cose (come si è visto) sensibilmente diverse dalla
rivoluzione. Quando la parola è entrata nel linguaggio politico
(piuttosto tardi) è stata usata genericamente per indicare tumulti,
sollevazioni, bruschi mutamenti di governo. È solo nel corso della
Rivoluzione francese che la nozione moderna di rivoluzione è venuta
precisandosi intorno ad alcuni caratteri decisamente nuovi. Innanzi tutto la
rivoluzione è stata intesa come rottura definitiva e irreversibile con il
passato. La rivoluzione è stata inoltre considerata come una svolta
storica, nel senso che aveva aperto per l'umanità intera un'era nuova,
l'era della libertà. Infine la rivoluzione (che propriamente non è
lo stadio della libertà compiuta, ma piuttosto quello della transizione
verso la libertà) è stata considerata un evento eccezionale che
richiedeva misure eccezionali: in altre parole finché fosse durata
l'emergenza rivoluzionaria, ossia finché il nuovo regime non si fosse
consolidato, è parso lecito imporre severe restrizioni alla
libertà dei cittadini e violare quegli stessi principi in nome dei quali
la rivoluzione era stata fatta. In verità quest'ultima opinione, che ha
caratterizzato il governo giacobino nel periodo del Terrore (e che è
stata raccolta più tardi da altri partiti, come ad esempio i bolscevichi
in Russia), non era affatto generalmente condivisa dalle altre correnti
rivoluzionarie: vi si erano opposti vigorosamente, tra gli altri, i maggiori
esponenti del gruppo girondino.
L'espressione «antico regime»
è diventata di uso corrente proprio negli anni della Rivoluzione francese
ed è rimasta nel linguaggio politico a indicare tutto ciò contro
cui i rivoluzionari del 1789 avevano inteso combattere: la diseguaglianza
civile, i privilegi aristocratici, l'assolutismo monarchico, i vincoli feudali,
ecc. e cioè tutto l'insieme delle istituzioni politiche, giuridiche e
sociali che hanno caratterizzato l'Europa occidentale tra XVI e XVIII
secolo.
LA PRESA DELLA BASTIGLIA
All'apertura degli Stati Generali era
ministro di Luigi XVI il banchiere ginevrino Jacques Necker. Necker aveva
fondato la più importante banca di Francia e nel 1777 era stato nominato
direttore generale delle finanze. Politicamente era un moderato, ma nel 1781
aveva indicato pubblicamente negli sperperi della corte una delle principali
cause del dissesto finanziario. La cosa aveva suscitato gli entusiasmi dei
borghesi e dei riformatori, ma gli era valso l'odio degli aristocratici e,
naturalmente, degli ambienti di corte.
Richiamato nel 1788 a garanzia delle
intenzioni riformatrici del re, la sua posizione nel governo era sempre rimasta
molto debole; l'11 luglio 1789, in coincidenza con una sorta di congiura
aristocratica che Mirabeau aveva denunciato all'assemblea qualche giorno prima,
Necker e i ministri liberali furono licenziati e sostituiti con un Governo
apertamente reazionario. Quando il popolo di Parigi, già inquieto per il
forte rincaro del pane e per le voci di un imminente attacco delle truppe del re
alla città, venne a sapere della destituzione di Necker insorse. Il 14 la
Bastiglia, l'antica prigione di Parigi, praticamente sguarnita di difensori fu
presa d'assalto. Intanto le assemblee degli elettori dei diversi distretti di
Parigi avevano nominato un Comitato che cercò di mantenere il movimento
sotto controllo: fu l'embrione della nuova organizzazione municipale di Parigi,
la Comune, che sarebbe stata riorganizzata l'anno successivo e che avrebbe
svolto un'importante funzione politica al tempo della Convenzione.
Il re
richiamò Necker, a difesa delle conquiste della Rivoluzione venne formata
una Guardia Nazionale (affidata al comando del marchese Marie-Joseph de La
Fayette, che aveva dimostrato le sue propensioni liberali combattendo a fianco
degli Americani nella loro guerra di indipendenza), e fu adottato come simbolo
della Nazione francese il tricolore (il rosso e il blu erano i colori di Parigi,
il bianco quello della dinastia regnante, i Borboni).
DALLA MONARCHIA ALLA REPUBBLICA
Mentre a Parigi l'Assemblea Nazionale
cominciava i suoi lavori, in tutte le campagne di Francia scoppiò
improvvisa e violenta una grande insurrezione contadina: i signori furono
cacciati dalle loro terre, i loro magazzini saccheggiati, i castelli incendiati.
La furia contadina non era diretta però soltanto contro i vecchi signori
feudali, ma anche contro i proprietari borghesi che, come padroni, si erano
rivelati anche più esosi degli antichi. Questa insurrezione
spaventò terribilmente tutte le classi proprietarie, e quelle settimane
sono passate alla storia come «la Grande Paura». Nobili, preti e
borghesi capirono che al di là dei gravi contrasti che li dividevano era
necessario ritrovare una solidarietà che permettesse di porre un argine
alla rivolta delle classi inferiori. L'Assemblea Nazionale si affrettò ad
abolire il sistema feudale che era una delle cause della protesta contadina e
che costituiva il più grosso ostacolo al necessario accordo tra
aristocrazia e borghesia. Poi lavorò alacremente alla elaborazione della
nuova costituzione, che avrebbe dovuto sanzionare l'accordo di tutte le classi
proprietarie.
La nuova costituzione non era certo una costituzione
democratica. Venivano soppressi i privilegi fondati sulla nascita e le
prerogative di Stato, e tutti erano uguali di fronte alle legge; venivano
rafforzati però i privilegi connessi alla ricchezza, a cominciare dal
diritto di voto, riservato ai cittadini di un certo censo, ossia da un certo
reddito in su. La Dichiarazione dei diritti approvata dall'Assemblea Nazionale
il 26 agosto 1789 aveva proclamato solennemente: «La legge è
l'espressione della volontà generale. Tutti i cittadini hanno il diritto
di concorrere personalmente o con i loro rappresentanti alla sua
formazione», ma la costituzione promulgata nel 1791 divideva i Francesi in
due classi: i ricchi, che potevano eleggere i propri rappresentanti
all'Assemblea Nazionale, e i poveri che non potevano farlo e che quindi dovevano
accontentarsi di essere rappresentati dai ricchi. Quei ceti popolari che,
soprattutto a Parigi, avevano assicurato con le loro manifestazioni di piazza il
successo della rivoluzione si vedevano sbarrare il passo all'esercizio del
potere politico, mentre le vecchie classi privilegiate erano accolte, accanto ai
borghesi, nella nuova classe dirigente.
La nuova Costituzione regolamentava
anche la vita della Chiesa: tutti gli ordini religiosi furono sciolti, tranne
quelli che svolgevano una funzione sociale riconosciuta, come l'istruzione della
gioventù e l'assistenza ai malati. Quanto al clero secolare, la
cosiddetta «costituzione civile» ne faceva una speciale categoria di
burocrati: preti, parroci e vescovi, pagati dallo Stato, erano tenuti al
giuramento di fedeltà alla costituzione e venivano scelti dalle assemblee
degli elettori. Nello stesso tempo, le terre e le proprietà della Chiesa
venivano incamerate e destinate a sanare il dissestato bilancio dello Stato.
Meno della metà dei preti francesi accettò la costituzione civile
del clero. Quelli che non accettarono, i cosiddetti «preti
refrattari», buttati fuori dalle loro parrocchie, non avrebbero avuto
difficoltà, nel corso del tempo, a scatenare una sorta di guerra di
religione e a incanalare nella resistenza dei controrivoluzionari molte energie
popolari (nella rivolta della Vandea, per esempio, scoppiata nel marzo del
1793).
Quanto al re, il suo non era più un potere assoluto, ma
conservava un'autorità almeno pari a quella dell'Assemblea. In sostanza
si trattava di un compromesso nient'affatto svantaggioso per quelle forze, la
monarchia e l'aristocrazia, che erano state sconfitte dalla rivoluzione. Ma non
è difficile immaginare quali sentimenti dovessero agitare il re e gli
aristocratici: in due anni avevano perso una quantità di privilegi vecchi
di secoli e ai loro occhi perfettamente legittimi. Il desiderio di recuperarli e
forse il timore del peggio spinse l'uno e gli altri sulla strada della
cospirazione e del tradimento. Così però, non facevano che
accelerare l'apertura di una nuova e più radicale fase del movimento
rivoluzionario. Fuori della Francia sulle prime la Rivoluzione era apparsa a
molti come una crisi tutta interna e tra i governi d'Europa era serpeggiato un
qualche compiacimento, secondo l'abituale attitudine a trarre vantaggi dalle
difficoltà altrui. Ma la situazione che in Francia era sboccata nella
Rivoluzione era comune a buona parte degli Stati europei e in tutti i Paesi
agivano le stesse forze che là avevano rovesciato l'antico regime. Ben
presto fu chiaro che la Rivoluzione avrebbe oltrepassato le frontiere francesi,
dilagando per tutta l'Europa. I sovrani di Prussia e Austria pensarono di
prevenire questa eventualità invadendo la Francia, dove contavano di
restaurare l'antico regime. Il re di Francia, da parte sua, aveva sollecitato
l'intervento straniero e nel giugno del 1791 aveva perfino tentato di rifugiarsi
all'estero. Gli aristocratici, poi, erano emigrati e continuavano a emigrare a
migliaia e esercitavano ugualmente sulle corti europee una incessante pressione
per un intervento militare. Favorevole alla guerra, poi, era gran parte della
sinistra della nuova Assemblea Nazionale Legislativa, che aveva iniziato i suoi
lavori nell'ottobre del 1791.
Quando, nella primavera del 1792,
iniziò la guerra, l'esercito regio si dimostrò incapace di
arrestare l'invasione straniera. Una nuova esplosione rivoluzionaria
spazzò allora la monarchia. Il 10 agosto a Parigi, per iniziativa della
Comune la folla assaltò le Tuileries, dove era il re, e massacrò
le guardie svizzere; il re si salvò rifugiandosi nella sala
dell'Assemblea Nazionale Legislativa, ma fu sospeso dalle sue funzioni e
imprigionato. I controrivoluzionari (o sospetti tali) che non erano ancora
fuggiti all'estero furono imprigionati e molti di loro, prelevati dalle
prigioni, dopo un'apparenza di giudizio, furono uccisi dalla folla nelle
cosiddette stragi di settembre, avvenute tra il 2 e il 7 di quel mese a Parigi,
Versailles, Lione, Reims, Orléans. Tutti i Francesi maschi - e non solo i
ricchi - furono nel frattempo chiamati alle urne per eleggere una nuova
assemblea, la Convenzione Nazionale, che il 21 settembre 1792 proclamò la
Repubblica. Intanto l'esercito regio era stato sostituito da un'armata popolare,
che proprio la vigilia della proclamazione della Repubblica era riuscito a
strappare un primo successo a Valmy: in un duello di artiglieria svoltosi nella
nebbia i Francesi avevano avuto la meglio sui Prussiani. Non si trattava di una
vittoria importante sul piano militare, ma su quello politico e morale
segnò una svolta decisa a favore della Francia rivoluzionaria.
Nell'autunno, del resto, altre e più rilevanti vittorie costrinsero gli
invasori a ritirarsi. Nel dicembre Luigi XVI fu messo sotto processo dalla
Convenzione. Il 15 gennaio del 1793 con 683 voti su 721 fu riconosciuto
colpevole. Il giorno dopo, con un solo voto di maggioranza fu decisa la sua
morte. Il 21 gennaio Luigi XVI fu ghigliottinato.
LA DICHIARAZIONE DEI DIRITTI
I Rappresentanti del Popolo Francese,
costituiti in Assemblea Nazionale, considerando che l'ignoranza, l'oblio o il
disprezzo dei diritti dell'uomo sono le uniche cause delle sciagure pubbliche e
della corruzione dei governi, hanno stabilito di esporre, in una solenne
dichiarazione, i diritti naturali, inalienabili e sacri dell'uomo,
affinché questa dichiarazione, costantemente presente a tutti i membri
del corpo sociale, rammenti loro incessantemente i loro diritti e i loro doveri
[...]. In conseguenza, l'Assemblea Nazionale riconosce e dichiara, in presenza e
sotto gli auspici dell'Essere Supremo, i seguenti diritti dell'uomo e del
cittadino:
Art. 1. Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei
diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che
sull'utilità comune.
Art. 2. Il fine di ogni associazione
politica è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili
dell'uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la
sicurezza e la resistenza all'oppressione.
Art. 3. Il principio di
ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo o
individuo può esercitare un'autorità che non emani espressamente
da essa.
Art. 4. La libertà consiste nel poter fare tutto
ciò che non nuoce ad altri: così, l'esercizio dei diritti naturali
di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri
della società il godimento di questi stessi diritti. Questi limiti
possono essere determinati solo dalla Legge.
Art. 6. La Legge
è l'espressione della volontà generale. Tutti i cittadini hanno
diritto di concorrere, personalmente o mediante i loro rappresentanti, alla sua
formazione. Essa deve essere uguale per tutti, sia che protegga, sia che
punisca. Tutti i cittadini essendo uguali ai suoi occhi sono ugualmente
ammissibili a tutte le dignità, posti ed impieghi pubblici secondo la
loro capacità, e senza altra distinzione che quella delle loro
virtù e dei loro talenti. [...]
Art. 7. Nessun uomo può
essere accusato, arrestato o detenuto se non nei casi determinati dalla Legge, e
secondo le forme da essa prescritte. Quelli che procurano, spediscono, eseguono
o fanno eseguire degli ordini arbitrari, devono essere puniti; ma ogni cittadino
citato o tratto in arresto, in virtù della Legge, deve obbedire
immediatamente; opponendo resistenza si rende colpevole.
Art. 9.
Presumendosi innocente ogni uomo sino a quando non sia stato dichiarato
colpevole, se si ritiene indispensabile arrestarlo, ogni rigore non necessario
per assicurarsi della sua persona deve essere severamente represso dalla
Legge.
Art. 10. Nessuno deve essere molestato per le sue opinioni,
anche religiose, purché la manifestazione di esse non turbi l'ordine
pubblico stabilito dalla Legge.
Art. 11. La libera comunicazione dei
pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi
dell'uomo; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare
liberamente, salvo a rispondere dell'abuso di questa libertà nei casi
determinati dalla Legge.
Art. 12. La garanzia dei diritti dell'uomo e
del cittadino ha bisogno di una forza pubblica, questa forza è dunque
istituita per il vantaggio di tutti e non per l'utilità particolare di
coloro ai quali essa è affidata.
Art. 13. Per il mantenimento
della forza pubblica, e per le spese d'amministrazione, è indispensabile
un contributo comune: esso deve essere ugualmente ripartito fra tutti i
cittadini, in ragione delle loro sostanze.
Art. 14. Tutti i cittadini
hanno il diritto di constatare, da loro stessi o mediante i loro rappresentanti,
la necessità del contributo pubblico, di approvarlo liberamente, di
controllarne l'impiego e di determinare la quantità, la ripartizione e la
durata.
Art. 15. La società ha il diritto di chieder conto a
ogni agente pubblico della sua amministrazione. [...]
Art. 17. La
proprietà essendo un diritto inviolabile e sacro, nessuno può
esserne privato, salvo quando la necessità pubblica, legalmente
constatata, lo esiga in maniera evidente, e previa una giusta
indennità.
DESTRA E SINISTRA
Nel linguaggio politico «destra» e
«sinistra» indicano rispettivamente i partiti reazionari o
conservatori e quelli progressisti. I termini si riferiscono ai settori
tradizionalmente occupati in Parlamento dai deputati dei due gruppi, visti
però dal seggio della presidenza: visti dai banchi, i deputati di destra
occupano la sinistra e quelli di sinistra occupano la destra. «Centro»
ha la stessa origine e sta a indicare posizioni politicamente intermedie tra
destra e sinistra. Le denominazioni risalgono alle assemblee della Rivoluzione
francese, l'Assemblea Nazionale Legislativa e la Convenzione.
IL TERRORE
Dall'esecuzione di Luigi XVI in poi il
potere passò nelle mani della sinistra della Convenzione (detta
«Montagna» perché i seggi del settore di sinistra erano
sensibilmente più elevati degli altri) formata essenzialmente dai membri
dei club radicali dei giacobini (detti così dall'ex-monastero di San
Giacomo dove si riunivano), capeggiati da Maximilien Robespierre (1758-1794) e
dei cordiglieri (anche loro dal nome di un ex-convento) capeggiati da Jacques
Hebert (1757-1794) e da Georges Danton (1759-1794).
Nella Convenzione la
Montagna era numericamente in minoranza. Fuori dell'assemblea poteva però
contare sull'appoggio della Comune di Parigi che controllava i ceti popolari
della capitale e organizzava le manifestazioni di piazza dei sanculotti (dal
francese sans-culotte: «senza» culotte ossia senza quel tipo di
calzoni corti che era in uso negli ambienti borghesi e nobiliari e a cui i
popolani preferivano i calzoni lunghi). Queste manifestazioni costituivano
un'efficace strumento di intimidazione sui deputati del centro (detto, in
contrapposizione alla Montagna, ma con evidente intento spregiativo la
«Palude»), che offrivano il loro voto alla sinistra. Quelli della
Montagna, insomma, si trovavano a governare poggiando su una maggioranza che li
seguiva controvoglia e solo perché ne aveva paura.
Gli uomini della
Convenzione erano dei borghesi che volevano l'abolizione reale e non solo
formale dei privilegi, e la libertà politica per tutti i cittadini. Dal
punto di vista sociale non pensavano certo all'abolizione della proprietà
privata né meditavano di realizzare una qualche forma di uguaglianza
economica. Ponevano però l'interesse generale al di sopra degli interessi
privati:
Nessun uomo - aveva detto Robespierre - ha il diritto di
accumulare dei mucchi di grano accanto al suo simile che muore di fame. Il primo
diritto è quello di esistere. La prima legge sociale è pertanto
quella che garantisce a tutti i membri della società i mezzi per
l'esistenza: tutte le altre sono subordinate a questa.
La Convenzione
elaborò anche una costituzione democratica che si ispirava a questi
principi e che riecheggiava le teorie di Rousseau, ma che, con la scusa
dell'emergenza, fu subito sospesa in attesa di tempi migliori e poi finì
col non entrare mai in vigore.
Quello della sinistra, tra il 1793 e il
1794, è passato alla storia come governo del «Terrore».
Espressione di questo governo fu soprattutto il Comitato di Salute Pubblica, a
cui furono attribuiti poteri amplissimi e funzioni di sovrintendenza su tutti
gli organi del potere. Di fronte alla drammatica situazione prodotta dalla
guerra (la coalizione antifrancese comprendeva ormai tutta l'Europa) e dalla
conseguente crisi economica i capi della Montagna, premuti anche dalle richieste
degli strati più bisognosi della popolazione parigina (artigiani,
salariati, piccoli bottegai) dal cui sostegno dipendeva la loro autorità
sull'assemblea, avevano ritenuto di dover fare ampiamente ricorso a misure di
carattere eccezionale, sia per assicurare l'approvvigionamento della capitale e
delle armate rivoluzionarie, sia per reprimere le manifestazioni di opposizione
(la «Vandea», ad esempio, una regione della Francia dove era scoppiata
una grande rivolta contadina a sfondo monarchico e clericale). Dalla primavera
del 1793 si moltiplicarono i provvedimenti di polizia, i sequestri, le
requisizioni, i rastrellamenti, gli arresti arbitrari, i processi sommari, le
condanne a morte e le deportazioni, in un delirio di provvedimenti, che,
giustificati con l'emergenza, finirono per legalizzare ogni arbitrio e
sopprimere tutte le garanzie costituzionali.
In questo modo, dopo
l'eliminazione dei controrivoluzionari autentici, la Rivoluzione, per usare
un'espressione diventata proverbiale, prese a divorare i suoi stessi figli:
prima i monarchici liberali, poi i girondini (detti così dal dipartimento
della Gironda, da cui provenivano in maggioranza) che erano repubblicani
moderati, infine gli esponenti della stessa sinistra. Come forse i nostri
lettori hanno notato l'anno di morte di Danton, di Hebert, di Robespierre
è lo stesso. Ciascuno di loro non solo aveva idee diverse rispetto ai
fini della Rivoluzione, ma era fortemente propenso a identificare se stesso con
la Rivoluzione e perciò a considerare nemici della Francia i propri
nemici e controrivoluzionari tutti quelli che la pensavano in modo diverso dal
loro. Era la prima volta che in Europa si faceva la terribile scoperta che il
fanatismo non è un'esclusiva dei preti.
Eliminati Danton e Hebert,
restò alla guida della Convenzione Robespierre,
l'«incorruttibile». Robespierre e i suoi seguaci (primo fra tutti
Saint-Just, 1767-1794, un giovane insopportabilmente virtuoso) ostentavano
un'inflessibile probità con la quale presumevano di legittimare
l'orribile sommarietà della giustizia rivoluzionaria: una
giustizia-spettacolo, che, anche se la mannaia e il cappio erano stati
sostituiti da una stupida macchinetta, la ghigliottina, recente invenzione del
dottor Guillotin, non era per nulla diversa nella sua logica
«esemplare» e terroristica da quella dell'antico regime. Come sempre
accade quando le garanzie che la legge accorda all'individuo vengono accantonate
e l'arbitrio dilaga, il Terrore, a dispetto delle prediche di Robespierre e di
Saint-Just, fu soprattutto un regime di corruzione: giudici, carcerieri e
delatori si potevano comprare.
Il governo giacobino oltre che di moralisti
e fanatici disponeva di tecnici capaci e riuscì bene o male a portare la
Francia fuori della crisi e soprattutto a riorganizzare la resistenza
dell'esercito. Ma ormai la borghesia, stanca dell'emergenza e preoccupata per il
continuo stato di agitazione delle classi popolari, desiderava rientrare nella
normalità, assicurarsi un periodo di pace sociale e di stabilità
politica. In questa aspirazione concordava il vasto ceto dei contadini che erano
diventati proprietari mediante l'acquisto delle terre confiscate alla Chiesa,
agli emigrati e ai controrivoluzionari.
Si chiedeva un governo capace di
porre un freno al disordine, di consolidare le conquiste della rivoluzione e di
garantire il rispetto della vita e della proprietà dei cittadini. Il 27
luglio 1794 (il 9 termidoro, secondo il nuovo calendario rivoluzionario, entrato
in vigore nel novembre dell'anno precedente, insieme al culto della Dea
Ragione), un voto della Convenzione liquidava Robespierre e i suoi.
Il
potere di Robespierre fu sostituito da un governo anche più corrotto del
precedente, ma di tendenze moderate; formato in gran parte da ex-terroristi,
lasciò che si scatenasse un altro tipo di terrore, diretto questa volta
contro giacobini e sanculotti. La Francia conservava pur sempre un regime
rivoluzionario-borghese, ma l'esperimento democratico della Convenzione, che
aveva saputo partorire soltanto una costituzione mai applicata, era fallito.
Prima di sciogliersi, la Convenzione elaborò e approvò una nuova
costituzione, che reintroduceva limiti di censo al suffragio elettorale e
affidava il potere esecutivo a un direttorio di cinque membri. La borghesia
teneva ora saldamente in mano il potere, mentre le classi popolari ne venivano
escluse. Il processo di rientro nella normalità di cui il Direttorio era
espressione si concluse nel 1799 con l'avvento al potere del generale Napoleone
Bonaparte, che instaurò un governo personale e autoritario. Nei dieci
anni passati dalla riunione degli Stati Generali era stata compiuta un'immensa
opera di trasformazione in tutti i campi, dall'amministrazione al diritto,
dall'istruzione all'assistenza, dall'economia ai sistemi di pesi e misure. Il
volto della Francia nel 1799 non sarebbe più stato quello di dieci anni
prima: l'ondata rivoluzionaria, pur ritirandosi, aveva lasciato tracce
indelebili.
Capo della frazione giacobina della Convenzione,
Maximilien Robespierre fu il simbolo del Terrore. Non fu però né
il solo né il principale responsabile di questo regime. Non era nemmeno
propriamente un dittatore, come pure fu chiamato, dal momento che era sostenuto
dalla maggioranza nella Convenzione e che non appena la maggioranza gli
negò la fiducia, si lasciò condurre, senza opporre alcuna
resistenza, al patibolo assieme ai suoi amici.
NAPOLEONE
Il dominio di Napoleone durò
ininterrottamente per quindici anni, dal 1799 al 1814. Nello stesso periodo e
attraverso la sua opera la Francia giunse a dominare su una grandissima parte
dell'Europa, trasformando antichi regimi, sostituendo sovrani, mutando
condizioni civili e politiche. Anche se al termine di questa fase, nel 1815, la
vecchia Europa tentò di ripristinare le condizioni precedenti e di
ricostruire l'antico ordine, gli effetti di questa ventata rivoluzionaria non
poterono più essere cancellati.
Napoleone Bonaparte
rappresentò per la borghesia francese ed europea una garanzia di
stabilità e di continuità del nuovo regime, contro gli eccessi e
le avventure dei giacobini, ma anche contro i tentativi di rivincita delle forze
aristocratico-feudali. I risultati fondamentali della rivoluzione dovevano
essere salvaguardati e mantenuti, ma il processo rivoluzionario non doveva
procedere oltre. Nel complesso Napoleone assolse a questo compito, concentrando
il potere nelle sue mani e dando al suo regime un carattere monarchico reso
esplicito nel 1804 con la proclamazione di un nuovo Impero a carattere
ereditario.
Per impulso di Napoleone proseguì l'opera di
riorganizzazione e di consolidamento delle strutture dello Stato, già
avviata dal Direttorio. Fu rafforzata la polizia, accentrata l'amministrazione e
venne promulgato un Codice civile (1804), che traduceva in un complesso di leggi
i principi della rivoluzione, interpretando però le esigenze moderate e
di stabilità sociale proprie dell'alta borghesia. Il codice sviluppava il
principio dell'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, ma poneva
a fondamento del diritto la difesa della proprietà privata e
dell'unità familiare. Militari, tecnici e burocrati napoleonici, che si
riallacciavano esplicitamente alla tradizione riformista del Settecento, erano
orgogliosi del proprio ruolo di interpreti dell'interesse generale della
Nazione: si può dire che abbiano rappresentato la generazione eroica
della burocrazia moderna. Lo Stato burocratico-borghese dell'Ottocento avrebbe
ripreso in gran parte l'esperienza dell'amministrazione napoleonica, mettendoci
però meno entusiasmo e più arroganza.
In politica estera
Napoleone proseguì la guerra che le principali potenze europee avevano
fatto alla Francia e, grazie alle grandi capacità personali di
condottiero e di stratega, ottenne una serie quasi ininterrotta di successi.
L'Impero Francese (che comprendeva oltre alla Francia, la Liguria, il Piemonte,
l'Olanda, l'Istria e la Dalmazia, ecc.) e gli Stati vassalli (i regni di Spagna,
d'Italia, di Napoli, la Confederazione del Reno, il Granducato di Varsavia)
finirono per occupare circa metà dell'intero continente. Sembrava che la
potenza della Francia napoleonica fosse invincibile. Due ostacoli insuperabili a
un'ulteriore espansione francese erano però rappresentati
dall'Inghilterra che era padrona del mare, e dalla Russia, che opponeva
all'invasione l'immensità dei suoi territori. I preparativi per un
attacco all'Inghilterra restarono senza seguito e l'invasione della Russia
segnò l'inizio della fine per Napoleone.
D'altra parte si erano
moltiplicati i nemici di Napoleone, sia interni (i cattolici, per esempio,
contrari alla politica poco amichevole nei confronti della Chiesa, che Napoleone
aveva ereditato, pur attenuandola, dai governi rivoluzionari) sia esterni.
Benché la borghesia dei vari Paesi europei controllati dalla Francia
fosse uscita rafforzata dalla diffusione delle nuove idee e dall'instaurazione
di regimi filofrancesi, i popoli nel loro complesso cominciarono a mostrare
insofferenza per il dominio imperiale. Particolare ostilità suscitava
nella popolazione contadina il massiccio (e forzato) reclutamento di giovani per
le armate francesi.
In Spagna le truppe francesi dovettero ripiegare di
fronte all'improvvisa rivolta del popolo spagnolo (1808). Poi, recuperato il
controllo delle città, Napoleone fu costretto a impegnare enormi forze
nell'inutile tentativo di controllare il Paese e di reprimerne la guerriglia. In
Russia senza aver mai subito una vera sconfitta sul campo, Napoleone fu
ugualmente costretto auna disastrosa ritirata nel pieno dell'inverno, nel corso
della quale il suo esercito, afflitto dal gelo e tormentato da nugoli di
guerriglieri finì per disfarsi completamente (1813).
Ricostituita
una grande armata, Napoleone subì da parte delle potenze europee
nuovamente coalizzate la sua prima sconfitta in campo aperto a Lipsia
nell'ottobre 1813. Dopo essere stato costretto ad abdicare di fronte allo
sfaldarsi del suo Impero, ed essersi nuovamente impossessato del trono nei
cosiddetti «Cento giorni», fu definitivamente sconfitto a Waterloo nel
giugno del 1815.
Ritratto di Napoleone Bonaparte
GUERRIGLIA
Ai primi di maggio del 1808 il popolo di
Madrid si sollevò contro i Francesi che avevano occupato la città
e in breve la rivolta si estese a tutta la Spagna. Il corpo di spedizione
francese presente in quel momento sul territorio spagnolo contava circa 100.000
soldati, una forza notevole e per di più comandata da abili generali. Era
chiaro che in uno scontro frontale gli insorti sarebbero stati facilmente vinti.
Ma i combattenti spagnoli evitarono con cura di impegnarsi in battaglie in campo
aperto. Divisi in gruppi sparsi per i monti e le campagne, si limitarono ad
affrontare i piccoli presidi e i reparti isolati, a ostacolare i rifornimenti al
nemico, a interrompere le vie di comunicazione, a fare cioè tutto quanto
poteva molestare l'avversario e logorare le sue forze. Con questa tecnica per
cinque anni, dal 1808 al 1813, i partigiani spagnoli inflissero perdite enormi
all'esercito francese. Proprio questo straordinario successo ha fatto sì
che la parola spagnola guerrilla (= «piccola guerra») sia stata
dovunque assunta a indicare quel particolare modo di combattere che gli Spagnoli
avevano adottato contro i Francesi.
Non sono stati gli Spagnoli,
però, a «inventare» la guerriglia, che pare strettamente
imparentata alle esperienze del brigantaggio. Sua caratteristica fondamentale
è l'esistenza di bande, ossia di piccoli gruppi armati, che in ragione
della loro mobilità e della superiore conoscenza del terreno sono in
grado di affrontare con successo forze regolari molto superiori per numero,
armamento e organizzazione. La migliore conoscenza del terreno è di
solito legata al fatto che il gruppo guerrigliero combatte sulla terra dove i
suoi componenti sono nati e cresciuti; in questo caso (che è appunto il
caso dei briganti tradizionali) esso gode spesso dell'ulteriore vantaggio di
muoversi tra gente amica, da cui riceve rifornimenti e
assistenza.
CULTURA POPOLARE E COSCIENZA NAZIONALE
Si chiama Romanticismo quel movimento
artistico, letterario e filosofico che sul finire del Settecento reagì al
razionalismo illuministico (ma forse si dovrebbe dire: al gusto illuministico
della ragionevolezza) in nome dei sentimenti, delle passioni, delle oscure
pulsioni vitali del mistero, della fede, della tradizione, e in generale di
tutto ciò che non è ragionevole. Il prussiano Johann Georg Hamann
(1730-1788), concittadino e amico di Kant, può essere considerato per la
sua polemica anti-illuministica il padre del Romanticismo o lui stesso il primo
dei romantici: nel 1757, al termine di una delle solite crisi esistenziali,
frequenti nei giovani, aveva avuto una sorta di illuminazione religiosa e
trovato nella Bibbia la risposta a tutti i suoi dubbi. Da quel momento aveva
preso a interpretare ogni cosa in termini di rivelazione: non solo la Bibbia, ma
la natura e la storia dell'uomo portano messaggi divini alla cui comprensione
è assai più idonea la poesia che la scienza, l'intuizione che la
ragione.
L'intuizione ci colloca, per così dire, all'interno delle
cose, permettendoci di guardare (sia pure confusamente) dentro. La ragione,
invece, guarda dall'esterno, ha delle immagini chiare e distinte, ma
superficiali e non vede nulla di quel che conta: l'ironia e la miscredenza degli
illuministi, il loro disprezzo per le credenze e le «superstizioni»
popolari, la loro condanna del passato come un lugubre cimitero di errori sono,
secondo Hamann, solo la manifestazione di una radicale incomprensione.
I
filosofi dell'irrazionalismo, del sentimento e della fede hanno sugli scienziati
e sui filosofi razionalisti o «positivi» questo grosso vantaggio: che
le loro tesi non sono mai, per definizione, verificabili. Di quel che affermano
nessuno può dire: «è vero» / «è falso».
Si può dire soltanto: «mi piace» / «non mi piace»
Anche Hamann può piacere o no (e a chi scrive, come forse il lettore
avrà capito, non è mai piaciuto). Nei riguardi degli illuministi,
però, Hamann non aveva tutti i torti. La comprensione della storia non
richiede necessariamente la rivalutazione reazionaria e nostalgica della
tradizione (alla quale spesso si riduce lo «storicismo romantico»)
né la comprensione degli altri comporta l'adesione alle loro
superstizioni. È certo però che esse richiedono quanto meno
l'abbandono di quella che possiamo chiamare «la boria dei lumi» e
cioè la presunzione di aver solo da insegnare e niente (o quasi) da
imparare.
Almeno nelle intenzioni (nei fatti le cose riescono sempre un po'
diverse da come le si vorrebbe) la reazione dei Romantici era diretta contro
l'«astrattezza» degli Illuministi, colpevoli di cercare spiegazioni
semplici per cose complicate o di ignorare le cose che non riuscivano a capire
(per esempio le motivazioni inconsce o «irrazionali» del comportamento
umano). Quello che in particolare irritava dell'Illuminismo era il suo ottimismo
progressista e cioè l'idea stessa dei «lumi» che, con il tempo
e con un po' di buona volontà, avrebbero dovuto dissipare le tenebre
della superstizione e dell'ignoranza che avvolgevano il mondo, garantendo
così «le magnifiche sorti e progressive» dell'umanità
(come ironicamente ebbe a definirle Giacomo Leopardi).
Il guaio era che
questi «lumi», che avrebbero dovuto portare nel mondo la luce
universale della ragione, qualche volta rappresentavano soltanto le ragioni
particolari di un potente ma ristretto partito di intellettuali, che aveva
centomila buoni motivi per combattere l'«oscurantismo» (come si
cominciava a chiamare) di preti e reazionari d'ogni sorta, ma aveva anche la
pericolosa tendenza a liquidare come superstizione o ignoranza le buone ragioni
altrui. L'Illuminismo aveva indicato la radiosa e rettilinea strada del
progresso e aveva invitato gli uomini di buon senso a percorrerla con decisione
verso un futuro migliore. I romantici erano attratti invece dalla storia quale
concretamente si era venuta svolgendo dal tempo dei tempi, piena di brutture e
contraddizioni e seguendo percorsi forse difficili da rintracciare, tortuosi,
ingombri di rovine, ma non per questo privi di significato.
Dal loro nuovo
apprezzamento del sentimento e della tradizione, i romantici trassero due grandi
scoperte (e forse bisognerebbe dire «invenzioni»): la cultura popolare
e la coscienza nazionale. Uno dei massimi esponenti dello storicismo romantico,
il tedesco Johann Gottfried Herder ha dato una delle prime definizioni moderne
di «nazione»: se la immaginava come una sorta di organismo vivente, la
cui anima però va cercata nella lingua e nelle tradizioni popolari, non
nelle produzioni dei dotti e degli intellettuali. I canti popolari, le fiabe, i
proverbi, ecc. erano per Herder le espressioni autentiche della
creatività di un popolo. Compito degli intellettuali, allora, era di
studiarli e raccoglierli come preziose testimonianze dello spirito di una
Nazione, manifestazioni delle sue peculiarità morali e culturali.
I
romantici cominciavano così a farsi propugnatori di una serie di nuovi
valori collettivi (estranei all'individualismo illuministico) come Patria,
Nazione, Popolo e simili, su cui gli illuministi intuendone la
pericolosità, ma in mancanza di più precise informazioni, avevano
per lo più ironizzato, forse nella speranza che si trattasse soltanto di
fumose escogitazioni letterarie e di invenzioni di rétori. La diffidenza
degli illuministi era tutt'altro che ingiustificata. All'inizio l'idea di
Nazione era un prodotto relativamente innocente dell'immaginazione romantica.
Esprimeva contro il cosmopolitismo illuminista, la coscienza delle
diversità culturali e il desiderio di conservarne le peculiarità.
Nel corso dell'Ottocento però avrebbe subito equivoche deformazioni; il
sentimento della nazionalità si sarebbe affermato principalmente come
aggressività e fanatismo e spesso indipendentemente dall'esistenza di
qualsiasi realistico riferimento a una tradizione o a una cultura nazionale (un
poco come accade nella religione, dove che Dio esista davvero non conta affatto;
basta crederci). Assunto come strumento della politica di potenza, poi, il mito
della Nazione, da immagine della pluralità delle tradizioni collettive e
dei valori umani si sarebbe rovesciato in pura e semplice negazione
dell'umanità.
JOHANN GOTTFRIED HERDER
Johann Gottfried Herder (1744-1803) fu
allievo di Kant e amico di Hamann, dal quale imparò l'avversione per la
«fredda» ragione illuministica. Concepiva il popolo (o Nazione) come
unità organica che si contrappone allo Stato-macchina proprio del
dispotismo illuminato. Il linguaggio era per Herder l'espressione genuina
dell'anima del popolo: c'era quindi un intimo legame tra l'anima di un popolo,
la sua lingua e la sua poesia. Nel 1770 Herder incontrò a Strasburgo il
giovane Goethe; dalle loro conversazioni scaturì il volumetto di saggi
Sul carattere e l'arte dei tedeschi (1773), dove contrapponeva la poesia
popolare, che considerava la vera unica poesia, a quella d'arte, corrotta
dall'intellettualismo e dove esaltava Shakespeare come poeta
«germanico» e perciò (con arbitraria equivalenza)
«tedesco» e «popolare» (anticamente deutsch significava
appunto «popolare»).
IL TRONO E L'ALTARE
Con la caduta di Napoleone le potenze
vincitrici, Austria, Inghilterra, Prussia e Russia, si proposero di ricostruire
l'assetto politico e territoriale esistente in Europa prima della Rivoluzione
francese. I rappresentanti delle cinque grandi potenze (le quattro vincitrici
più la Francia) e quelli dei minori Stati europei (i quali però
non avevano il potere di influire direttamente sulle decisioni) si riunirono a
Vienna dal novembre del 1814 al giugno del 1815 e stabilirono con una serie di
trattati il nuovo ordinamento dell'Europa destinato a restare inalterato fin
verso il 1830 e in buona parte d'Europa addirittura fino al 1848. Il periodo
seguito al Congresso di Vienna è chiamato «l'età della
Restaurazione» perché segnato all'interno dei singoli Paesi dal
ritorno dei vecchi regimi assolutistici e nei rapporti internazionali dalla
ripresa dei tradizionali princìpi della legittimità e
dell'equilibrio (quest'ultimo in particolare aveva cominciato ad affacciarsi a
metà Seicento, nella pace di Westfalia, e aveva ispirato il lavoro della
diplomazia europea per tutto il Settecento).
In base al primo di questi
princìpi il Congresso di Vienna si propose di ricostituire gli Stati
esistenti prima della Rivoluzione e di ristabilire le legittime dinastie
cacciate da Napoleone. In base al secondo volle dar vita ad un sistema di
potenze che si equivalessero come potenziale aggressivo in modo da impedire che
una di loro prendesse il sopravvento sulle altre o tentasse di svolgere una
politica espansionistica. I governi rivoluzionari e Napoleone sotto questo punto
di vista avevano rappresentato un ritorno allo spregiudicato espansionismo di
Luigi XIV, con l'aggravante che imprese militari e conquiste territoriali non
rispondevano a una pura politica di potenza, ma, almeno in teoria, tendevano a
sovvertire l'ordine sociale esistente e ad esportare fuori della Francia gli
ideali della Rivoluzione.
Il fine comune dei governi riuniti a Vienna era
la costruzione di un sistema che garantisse il mantenimento della pace da un
lato e la conservazione sociale e politica dall'altro. Ogni governo perseguiva,
poi, obiettivi suoi propri, ai quali cercava una legittimazione nel consenso
delle altre potenze. L'Inghilterra, per esempio, aveva innanzi tutto la
preoccupazione di consolidare il suo impero marittimo e coloniale. La Francia
doveva riuscire, benché sconfitta, a svolgere un ruolo di grande potenza
e a recuperare i confini che aveva prima della Rivoluzione.
Il principio
della legittimità fu applicato con diverse eccezioni suggerite dalla
preoccupazione preminente di conservare l'equilibrio. L'equilibrio, infatti,
richiedeva una certa semplificazione della carta politica d'Europa, mediante
opportuni accorpamenti di territori, e la costruzione di un cordone di
Stati-cuscinetto intorno alla Francia, che per ben due volte in un secolo e
mezzo aveva turbato l'equilibrio europeo, prima con Luigi XIV e poi con
Napoleone, e che perciò continuava ad esser guardata con sospetto. Questi
Stati-cuscinetto dovevano essere abbastanza forti da resistere validamente a
un'eventuale aggressione, ma non tanto forti da costituire essi stessi un
pericolo per la pace: furono il nuovo Regno dei Paesi Bassi (che riuniva dopo
due secoli e più di separazione l'Olanda e il Belgio), il vecchio Regno
di Sardegna (a cui si consentì di assorbire l'antica Repubblica di
Genova) e la Confederazione Elvetica, di cui si proclamò la
neutralità perpetua. L'altra antica e gloriosa repubblica italiana,
quella di Venezia, andò a costituire con la Lombardia già
austriaca il nuovo Regno del Lombardo-Veneto affidato all'imperatore d'Austria,
come caposaldo di una sfera d'influenza estesa a tutta la penisola e
riconosciuta dalle altre potenze. Anche la Prussia e la Russia ebbero dal
Congresso alcuni ingrandimenti territoriali e si trovarono a confinare la prima
con l'Austria e la Francia, la seconda con l'Austria e la Prussia. In Italia il
predominio austriaco poggiava, oltre che sul dominio diretto sul
Lombardo-Veneto, sul controllo di altri tre Stati, il Ducato di Parma, il Ducato
di Modena e il Granducato di Toscana, su cui regnavano altrettanti principi
asburgici o imparentati con gli Asburgo. L'influenza austriaca si estendeva poi
anche allo Stato Pontificio con l'occupazione armata di alcune sue piazzeforti e
al Regno delle Due Sicilie grazie a trattati d'alleanza. Completamente
indipendente poteva dirsi il Regno di Sardegna che, come si è detto, era
stato ingrandito con l'annessione dei territori dell'antica repubblica di Genova
in funzione antifrancese, ma che era anche in grado, all'occorrenza, di
bilanciare la potenza dell'Austria in Italia (una funzione a cui lo avrebbe
incoraggiato in particolare il Governo inglese).
Per rendere più
stabile questa sistemazione si volle dare vita a una vera e propria
organizzazione internazionale, la Santa Alleanza, che prevedeva qualche rinuncia
all'assoluta sovranità degli Stati membri. Proposto nel settembre 1815
dallo zar Alessandro I, firmato dalla Russia, dall'Austria e dalla Prussia (non
però dall'Inghilterra che lo reputava illusorio e pericoloso per i suoi
interessi) e aperto alla adesione di altri governi, il trattato della Santa
Alleanza esprimeva l'impegno delle potenze a collaborare tra loro fraternamente
e a governare secondo «precetti di giustizia, di carità e di
pace». L'ideologia della Santa Alleanza era assai confusa, ma l'Austria,
abilmente guidata dal suo primo ministro, il principe di Metternich (1773-1859),
ne fece molto concretamente uno strumento di reazione e di repressione. Fu
infatti stabilito che le potenze avrebbero agito concordemente per mantenere in
Europa i regimi esistenti stroncando dovunque, anche con le armi, ogni tentativo
sovversivo e ogni opposizione liberale.
La Restaurazione si presenta dunque
come l'epoca del trionfo della reazione e dell'assolutismo. Ritornava l'ancien
régime. Ritornavano dinastie e sovrani legati ai vecchi ordinamenti e a
sorpassate idee politiche e sociali. Tornava il vecchio personale politico,
deciso a soffocare le tendenze innovatrici (se necessario con ferree misure di
polizia) e spesso indotto a ricorrere alla forza per l'incapacità di fare
altro. Tornavano soprattutto i membri dei vecchi ordini privilegiati, nobili e
preti, con una pericolosa carica di rancore e con la ferma intenzione di
recuperare i beni, le terre, le posizioni di privilegio perdute con la
Rivoluzione. Nell'antico regime nobiltà, Chiesa, monarchia si erano
spesso trovate in conflitto ed anzi proprio le loro divisioni avevano innescato
in Francia la bomba rivoluzionaria. Ora si ritrovavano strettamente solidali
nella battaglia contro gli ideali nazionali, liberali o democratici: la
nobiltà aveva perso il gusto di fare la fronda al potere, e le monarchie
avevano rinunciato del tutto agli ideali laici ed umanitari del dispotismo
illuminato, sostituiti da uno stucchevole e ipocrita paternalismo. Nel ricordo
dello scampato pericolo comune e sulla base del generale bigottismo delle classi
dirigenti restaurate nasceva una nuova e più salda alleanza fra trono e
altare.
Da questa politica autoritaria e repressiva si sentivano minacciati
soprattutto i ceti borghesi (banchieri, imprenditori, ricchi e modesti
possidenti, industriali e commercianti, intellettuali, professionisti) che si
erano affermati con la Rivoluzione e poi con Napoleone. Naturalmente non fu
possibile distruggere d'un soffio tutto quello che era stato fatto nel periodo
napoleonico, così come era difficile cancellare le aspirazioni espresse
dai regimi nati in tutta Europa dalla Rivoluzione. Rimasero pertanto in vigore
in molti casi leggi, istituti, disposizioni amministrative, ordinamenti
finanziari e militari dell'epoca rivoluzionaria e napoleonica.
Le spinte
liberali ed innovatrici trovavano in ogni caso un potente supporto nelle
trasformazioni economiche e sociali che negli anni della Restaurazione assunsero
un ritmo sempre più rapido in rapporto ai processi di industrializzazione
che avevano avuto avvio nell'Inghilterra del secondo Settecento. I progressi
nella ricerca scientifica e matematica e le scoperte nel campo della chimica,
della fisica, della meccanica rivoluzionarono gradualmente l'agricoltura,
l'industria, tutta quanta l'economia, e quindi i costumi ed il modo di vivere.
È sufficiente pensare al sorgere delle prime fabbriche meccanizzate, o al
grande sviluppo dei trasporti e delle vie di comunicazione. Si ebbero allora le
prime applicazioni dell'illuminazione a gas e l'introduzione di nuovi sistemi
nella produzione e nella lavorazione del ferro, sempre più largamente
impiegato per usi civili e militari. E di pari passo con questi progressi
esplose quella che avrebbe rappresentato nell'Ottocento europeo il problema dei
problemi: la questione operaia, ossia l'insieme delle situazioni di conflitto
sociale determinate dall'esistenza di un proletariato industriale sempre
più numeroso e sottoposto a condizioni di vita e di lavoro troppo spesso
disumane.
RIVOLUZIONI E MOTI DOPO IL CONGRESSO DI VIENNA
I primi tentativi di rovesciare o di
modificare l'assetto politico dell'Europa stabilito dal Congresso di Vienna (e
difeso dalla Santa Alleanza in base al principio del reciproco aiuto tra regimi
reazionari), maturati soprattutto nell'ambiente degli ufficiali dell'esercito,
si concretarono già all'inizio degli anni Venti. La rivoluzione iniziata
in Spagna nel 1820 con l'ammutinamento delle truppe al comando del colonnello
Rafael Riego quella di Napoli nello stesso 1820 e quella, assai più
modesta, scoppiata in Piemonte nel 1821, portarono all'instaurazione di regimi
costituzionali che furono però liquidati più o meno rapidamente
dall'intervento militare della Santa Alleanza. La rivolta dei decabristi (dal
russo dekabr = «dicembre») in Russia, promossa, come le precedenti, da
gruppi di giovani ufficiali, fu repressa, nel dicembre del 1825, nel giro di
ventiquattr'ore. Ebbe successo invece la rivoluzione del luglio 1830 in Francia,
che portò alla caduta dei Borboni e all'avvento al trono di Luigi Filippo
d'Orléans, figlio di quel Filippo Egalité il cui voto era stato
decisivo nel gennaio del 1793 per la condanna a morte di Luigi XVI (il regno di
Luigi Filippo è noto anche come «Monarchia di Luglio», dal mese
della sua assunzione al trono). Come contraccolpo della rivoluzione di luglio in
Francia si ebbe tra l'agosto e l'ottobre l'insurrezione del Belgio contro il
dominio olandese, che si concluse con il riconoscimento dell'indipendenza belga.
Quella della Polonia contro il dominio russo fu invece sanguinosamente soffocata
nel settembre del 1831: «L'ordine regna a Varsavia» è
l'infelice frase, diventata poi proverbiale, con cui il ministro degli esteri
francese volle «diplomaticamente» comunicare alla Camera la fine della
rivolta polacca, che per resistere aveva contato proprio sull'appoggio della
Francia. Anche i moti del 1831 a Modena, a Parma e nelle Marche, subito repressi
con l'intervento di truppe austriache, si possono considerare ripercussioni del
luglio francese.
LE SOCIETŔ SEGRETE
Nell'impossibilità di esprimersi
apertamente, gli ideali di libertà, di indipendenza nazionale,
d'uguaglianza o anche soltanto i sentimenti di malcontento e d'ostilità
contro i regimi restaurati dal Congresso di Vienna, trovarono sbocco nelle
società segrete. Diffuse in tutta Europa sotto nomi diversi (Carbonari,
Adelfi, Federati, ecc.) talvolta, come la Massoneria, risalenti al secolo
precedente, avevano programmi ed obiettivi diversi: c'era chi aspirava alla
repubblica e chi voleva soltanto una monarchia costituzionale, e c'erano
naturalmente i nostalgici di quella particolarissima forma di dispotismo
illuminato e burocratico che era rappresentata dall'Impero di Napoleone; non
mancavano i democratici accesi e, addirittura, i comunisti. Molte delle congiure
e delle insurrezioni che costellarono il periodo della Restaurazione sono
riconducibili all'attività delle società
segrete.
L'INDIPENDENZA DELL'AMERICA LATINA
La Restaurazione in Europa e la formazione
della Santa Alleanza ebbero immediate ripercussioni nell'America latina, dove
nell'età napoleonica le comunicazioni tra le colonie e la madrepatria si
erano interrotte per l'azione della flotta inglese, padrona dell'Atlantico. Le
colonie avevano dovuto aprire i porti alle navi delle potenze neutrali mettendo
così fine, almeno provvisoriamente al monopolio commerciale spagnolo e
portoghese. È quasi inutile dire che questa situazione fu accolta con
grande favore dai commercianti e dagli uomini d'affari, che avevano finalmente
la possibilità di sperimentare i vantaggi del libero commercio. Quando,
al termine del conflitto europeo, la Spagna e il Portogallo vollero ritornare al
vecchio regime di monopolio, le colonie si ribellarono. Nella lotta di
liberazione ebbe un ruolo importante l'esempio delle tredici colonie
dell'America del Nord che alcuni decenni prima si erano liberate dal dominio
inglese. Ma un ruolo ancora più importante ebbero i suggerimenti e gli
aiuti che venivano dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti. Questi due Paesi
vedevano nella disgregazione del dominio coloniale della Spagna e del Portogallo
la possibilità di entrare da dominatori nell'immenso mercato dell'America
latina.
Il Brasile ottenne l'indipendenza in modo pacifico. Negli anni del
dominio di Napoleone in Europa la famiglia reale portoghese si era rifugiata in
colonia e quando il re era tornato in patria, vi era rimasto il figlio, Don
Pedro. Al tentativo portoghese di restaurare in Brasile il vecchio regime
coloniale seguì la secessione e la proclamazione dello stesso Don Pedro a
imperatore del Brasile. L'indipendenza delle colonie spagnole fu invece assai
più contrastata e sanguinosa, anche per le divisioni esistenti tra le
classi dirigenti, una frazione delle quali era favorevole al mantenimento del
dominio spagnolo.
Protagonisti della liberazione delle colonie spagnole
furono José de San Martin e Simon Bolivar. Al termine di una guerra
durata quasi un decennio, Bolivar si impadronì delle province di Nuova
Granada, Venezuela e Quito che nel dicembre del 1819 andarono a formare lo Stato
indipendente della Grande Colombia. Il centro della resistenza spagnola era il
Perù dove il viceré poteva contare sull'appoggio della
popolazione. Proprio per colpire questa roccaforte spagnola José de San
Martin, che nel frattempo aveva liberato la regione della Plata (Argentina), con
una marcia leggendaria attraverso le Ande portò il suo esercito prima in
Cile, liberato nel 1818, e poi, nel 1821, in Perù; qui l'esercito di San
Martin, per evitare di attraversare le regioni desertiche che si estendono tra i
due Paesi, arrivò via mare, trasportato dalla flotta inglese. Dal Nord
comunque, dove esercitava una sorta di dittatura, anche Bolivar penetrò
in Perù e San Martin, dopo essersi incontrato con il concorrente,
preferì ritirarsi per non pregiudicare la causa
dell'indipendenza.
In quasi tutto il continente sudamericano il movimento
di liberazione fu diretta dalle famiglie creole, quelle che si aspettavano
dall'indipendenza i maggiori vantaggi; non mancarono però rivolte a
carattere popolare come quella del Messico tra il 1810 e il 1815. Sotto la guida
di due preti, il creolo Miguel Hidalgo e il meticcio José Maria Morelos
(entrambi catturati e giustiziati dagli Spagnoli, il primo nel 1811, il secondo
nel 1815) la rivolta antispagnola in Messico aveva assunto uno spiccato
carattere sociale con larga partecipazione degli strati più miserabili
della popolazione, i peones. Proprio per questo non ebbe l'appoggio dei creoli e
si scontrò con la ferma opposizione della Chiesa. La Chiesa e le classi
superiori promossero invece la secessione quando in Spagna, in seguito al moto
rivoluzionario del colonnello Riego del 1820, si era stabilito un Governo a
tendenze democratiche.
Fu in questa occasione che il presidente degli Stati
Uniti, James Monroe, nel dicembre del 1823, per prevenire un possibile
intervento delle forze della Santa Alleanza nelle ex colonie spagnole, ma anche
per scalzare l'influenza inglese nell'America latina, in un messaggio al
Congresso formulò la celebre «dottrina Monroe», secondo la
quale «i continenti americani, grazie alla condizione libera e indipendente
che hanno acquistata e che intendono conservare, non possono essere considerati
oggetto di future colonizzazioni da parte di nessuna potenza europea»,
sicché qualunque intervento militare europeo in una qualsiasi parte
dell'America latina sarebbe stato senz'altro interpretato come
«manifestazione di disposizioni ostili» nei confronti degli Stati
Uniti stessi. Gli Stati Uniti, insomma, pretendevano una sorta di tutela nei
confronti dell'America latina, che sapeva già molto 0pesantemente di
imperialismo.
Al termine delle lotte di liberazione i nuovi Stati
indipendenti nell'America latina erano una decina, ma il loro numero era
destinato a crescere negli anni seguenti. Nel 1826, al Congresso di Panama, il
tentativo di Bolivar di unire le ex colonie spagnole fallì anche per
l'opposizione della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, che, interessati a
sfruttare economicamente l'America latina, non volevano la nascita di uno Stato
troppo potente. Subito dopo il congresso la Grande Colombia si divise in
Colombia, Venezuela e Ecuador. Tra il 1825 e il 1828 nel corso della guerra
scoppiata tra le Province Unite della Plata (Argentina) e il Brasile, nacque
l'Uruguay. Nel 1839 le Province Unite dell'America centrale si suddivisero in
Guatemala, San Salvador, Honduras, Nicaragua, Costarica. I problemi di confine
costituirono un perenne motivo di attrito e provocarono una serie di guerre,
come quella del 1836-1848 del Cile e dell'Argentina contro la Bolivia, quella
del 1865-1870 del Paraguay contro l'Uruguay, l'Argentina e il Brasile, quella
del 1879-1884 (detta Guerra del Pacifico) del Perù e della Bolivia contro
Cile.
Non di rado dietro questi conflitti c'erano gli interessi delle
potenze europee o degli Stati Uniti. La Guerra del Pacifico, ad esempio, fu
vinta dal Cile con l'aiuto degli Inglesi interessati ai giacimenti di salnitro
che erano oggetto della contesa. Tipica a questo riguardo fu, nel nostro secolo,
la guerra detta del Chaco dalla regione desertica che due compagnie petrolifere
concorrenti si disputavano nella speranza di trovarvi petrolio: gli eserciti
boliviano e paraguaiano si massacrarono per anni e quando la guerra finì
con la spartizione della regione contestata (e con 80.000 morti per la Bolivia e
50.000 per il Paraguay) si scoprì che il petrolio non c'era.
La vita
interna dei Paesi latino-americani fu sin dall'inizio assai turbolenta. Tutti
gli Stati, ad eccezione del Brasile, conobbero faticosi periodi di assestamento
e cambiarono spesso forma di governo attraverso insurrezioni, pronunciamenti
militari e colpi di Stato. Tra le cause di questa situazione c'era il
caudillismo, vale a dire il fenomeno per il quale la partecipazione politica
delle masse popolari si esprimeva innanzi tutto nell'aggregarsi intorno a un
capo, caudillo. I caudillos, che non di rado erano meticci, prendevano spesso
posizione contro le aristocrazie creole e si conquistavano l'appoggio dei
contadini propugnando la riforma agraria. Quando però giungevano al
potere raramente erano capaci di organizzare un governo efficiente e,
soprattutto, di mantenere le promesse di riforma.
L'altro perenne elemento
di tensione era rappresentato dall'esercito che, guidato da ufficiali creoli,
tendeva invece a schierarsi con i grossi proprietari terrieri.
Il problema
dell'esercito era complicato nell'America latina dal fatto che la carriera
militare rappresentava per molti il solo modo possibile di affermazione e di
successo, essendo ogni importante iniziativa economica nelle mani degli
stranieri. Ciò spiega perché Stati con una popolazione modesta
avessero un numero di soldati assolutamente sproporzionato al bisogno e
perché in tutti i Paesi latino-americani la casta militare abbia sempre
esercitato (e continui ancora ad esercitare) un ruolo decisivo nella vita
politica.
L'EUROPA DEL PROGRESSO
L'Ottocento è stato il grande secolo
dell'Europa e soprattutto il grande secolo della borghesia. Negli anni della
Rivoluzione francese (una rivoluzione politica che di solito si qualifica per
«borghese»), in Inghilterra aveva preso avvio un'altra rivoluzione, di
natura completamente diversa, ma che aveva avuto davvero per protagonista la
borghesia e che era destinata ad avere effetti ancor più sconvolgenti e
non solo in Europa, ma in tutto il mondo: la Rivoluzione industriale.
Nel
corso dell'Ottocento, il «contagio industriale» (come fu chiamato) si
è comunicato dall'Inghilterra a gran parte dei Paesi dell'Europa
centro-occidentale e agli Stati Uniti. In Russia e in Italia
l'industrializzazione ha preso avvio solo tra la fine del secolo scorso e gli
inizi del nostro: in precedenza c'erano state diverse avvisaglie che
però, sebbene fossero servite a formare nuclei di classe operaia e a far
maturare nei ceti borghesi una cultura tecnica e imprenditoriale, si erano
dimostrate incapaci di durare e di estendersi. Il solo Paese non occidentale a
entrare nel novero dei Paesi industrializzati fu, sempre alla fine
dell'Ottocento, il Giappone. Gli altri furono generalmente condannati al
sottosviluppo e cioè a vedere aumentare costantemente fino ad apparire
pressoché incolmabile la distanza (in inglese: gap) dai Paesi
avanzati.
Gli immensi progressi dell'economia e della tecnica che
dall'Inghilterra si sono in questo modo irradiati verso il resto del mondo hanno
mutato profondamente il modo di vivere e di pensare della gente. Le
trasformazioni più vistose si sono avute nel campo dei mezzi di
comunicazione e di trasporto, che hanno subito una trasformazione radicale. Qui
il grande fatto nuovo sono state le ferrovie. Nel 1830 fu inaugurata in
Inghilterra la linea ferroviaria Liverpool-Manchester, prima combinazione
pratica della scoperta della macchina a vapore con l'idea della strada ferrata.
Da quel momento una rete sempre più grande di strade ferrate
cominciò a ricoprire il suolo dell'Europa e poi del Nord America, con un
ritmo particolarmente rapido dopo il 1850. La ferrovia rivelò subito la
sua importanza come mezzo di trasporto per merci voluminose e pesanti. Ma presto
si mostrò utile e comoda anche per il trasporto di uomini, e così
le stazioni si arricchirono di buffet e ristoranti, che accoglievano i
viaggiatori e davano loro ristoro. La velocità dei treni, per quanto oggi
possa apparire modesta era un notevole progresso rispetto alle
possibilità precedenti: 30 km orari erano una gran cosa nel 1830 e ancor
più i 50/60 km orari raggiunti sulle ferrovie inglesi intorno al
1850.
Accanto alla ferrovia, l'altra grande innovazione che
rivoluzionò il campo dei trasporti fu la navigazione a vapore.
L'affermazione del vapore in campo marittimo non fu né rapida né
semplice. Il vantaggio del nuovo sistema era evidente, perché si poteva
navigare senza dipendere dal vento, e questo era particolarmente importante per
le navi da guerra. Ma se la velocità era maggiore, la capienza dello
scafo era minore, perché il motore e le primitive ruote a pale portavano
via molto spazio. Inoltre, se il vento non era mai costato niente, non si poteva
dire lo stesso del carbone. Così le navi a vapore cominciarono ad essere
impiegate specialmente sui brevi percorsi, talvolta con un sistema misto di vele
e di motore a vapore. Solo più tardi, quando il problema dello spazio e
dell'efficienza venne risolto sostituendo al sistema delle ruote a pale la
propulsione ad elica, vennero usate anche nei viaggi transoceanici. Più o
meno nello stesso tempo il ferro cominciò a sostituire il legno nella
costruzione di scafi che risultavano più grandi e sicuri.
Se i
trasporti diventavano in questo modo più rapidi e meno costosi, anche le
notizie cominciarono a correre per il mondo a maggiore velocità,
contribuendo a dare l'impressione che la Terra fosse improvvisamente diventata
più piccola. Un importante passo in questa direzione fu rappresentato dal
telegrafo: servizi telegrafici anche a carattere internazionale si svilupparono
in modo particolare tra il 1840 e il 1850. Nel 1851 si poté comunicare
telegraficamente dall'Inghilterra al continente, grazie ad un cavo sottomarino
collocato tra Dover e Calais. Nel 1866 ciò fu possibile anche tra
l'America e l'Europa, mediante il primo cavo transoceanico. Anche i servizi
postali in questo periodo divennero più rapidi e organizzati e si
avvantaggiarono dei progressi dei mezzi di trasporto. Nel 1840 l'Inghilterra
adottò il francobollo, che è un sistema molto semplice di
riscuotere la tariffa del servizio, mettendola a carico del mittente e non (come
era consuetudine in passato) del destinatario.
Se tutte queste
novità avevano reso possibile una rapida trasmissione delle notizie, lo
sviluppo del giornalismo ne assicurò un'ampia diffusione e circolazione.
In verità all'inizio i giornali più che notizie riportavano
commenti e opinioni e avevano un pubblico e un raggio di circolazione abbastanza
limitato. Solo gradualmente cominciarono ad assumere l'aspetto che hanno oggi,
dove al lettore è offerta una larga informazione, opportunamente
evidenziata dai titoli e organizzata in spazi e in pagine specializzate, e dove
sono ospitati in misura sempre più ampia avvisi e disegni pubblicitari.
Ad accrescere il numero dei lettori concorse la diminuzione del prezzo resa
possibile dalle innovazioni tecniche nel campo della stampa e della
fabbricazione della carta, dalla diminuzione dei costi di trasporto e di
spedizione e infine dall'aumento delle inserzioni pubblicitarie.
Alcuni
giornali cercarono di attirare l'interesse di un pubblico ancora più
vasto di lettori puntando più che sull'informazione politica e culturale,
sulla cronaca, nera e rosa, e cioè dando largo rilievo a fattacci,
pettegolezzi, scandali. Uno dei primi giornali del genere fu Le Figaro, un
settimanale parigino diventato quotidiano nel 1866 Tra i più prestigiosi
giornali del mondo bisogna ricordare l'inglese Times, che nel 1850 tirava 55.000
copie, e 70.000 nel 1870. A quell'epoca tuttavia altri giornali lo superavano in
tiratura, come il Daily Telegraph, anch'esso inglese, che nel 1870 tirava dalle
175 alle 190 mila copie.
Il giornale divenne ben presto uno strumento
efficacissimo di formazione dell'opinione pubblica, e quindi di pressione
politica. A proposito dell'influenza esercitata dalla stampa nella vita politica
di un Paese si parlò di un «quarto potere» oltre ai tre
(legislativo, esecutivo e giudiziario) in cui si articola l'autorità di
uno Stato. Un caso clamoroso fu quello dei servizi giornalistici realizzati
durante la guerra di Crimea dal Times, le cui rivelazioni sull'inefficienza
militare inglese provocarono la caduta del Governo.
A partire specialmente
dal 1830 e almeno nelle grandi metropoli dell'Occidente, la vita sembrò
assumere un ritmo accelerato e un tono più intenso. La circolazione degli
uomini, delle merci, delle notizie, si era fatta più rapida. Di ogni cosa
c'era un'abbondanza mai vista. L'idea di «progresso», giustificata
dagli straordinari successi della società industriale, era diventata
popolare pervadendo la mentalità e il costume della gente. È vero
che gran parte della popolazione non disponeva ancora del reddito necessario per
godere dei benefici di questi progressi; è vero che anche le tecniche
della guerra erano diventate più efficaci, preparando un'epoca di
distruzioni senza precedenti; ed è vero che la ricchezza e la potenza dei
Paesi occidentali poggiavano sullo sfruttamento di grandi masse di salariati al
loro interno e di ancor più vaste masse di diseredati nei Paesi
coloniali.
Ma per il momento a quest'altra faccia della civiltà
occidentale si preferì non prestare troppa attenzione: con eccessivo
ottimismo i più pensavano che si trattasse degli inevitabili ma
temporanei inconvenienti di un progresso che, alla fine, avrebbe ripagato tutti
(e con abbondanza) dei sacrifici sopportati.
NASCITA E SVILUPPO DELLA SOCIETŔ INDUSTRIALE
Alla Rivoluzione industriale è legata
una generale e rapida trasformazione della società riconducibile
principalmente a due processi: la formazione di una ristretta borghesia di
industriali e di imprenditori capitalisti, e, all'altro capo della scala
sociale, la nascita di una classe operaia destinata a restare sino ai nostri
giorni il nucleo di condensazione di tutte le tensioni sociali. Industriali e
imprenditori capitalisti provenivano dalle classi sociali più disparate:
professionisti, commercianti, proprietari terrieri, piccola borghesia rurale
(contadini agiati, affittuari) o urbana (artigiani, bottegai, tecnici,
impiegati). Anche il proletariato di fabbrica era un aggregato di diseredati di
provenienze diverse: ex contadini, ex artigiani, vagabondi, ecc. Rispetto ai
ceti poveri tradizionali e alle preesistenti classi lavoratrici urbane la
moderna classe operaia costituiva però una formazione sociale nuova, con
caratteristiche del tutto peculiari.
La sostituzione del vecchio laboratorio artigiano e del sistema
dell'industria a domicilio con la grande fabbrica moderna aveva significato per
gli operai condizioni di lavoro per molti aspetti peggiori di quelle
dell'età preindustriale. L'artigiano indipendente, il contadino, il
lavorante a domicilio (che spesso era anche un contadino), pur non risparmiando
fatica, potevano graduare la durata e l'intensità dello sforzo fisico a
seconda delle loro forze. L'operaio industriale, al contrario, doveva lavorare
sotto l'occhio del padrone e dei sorveglianti seguendo una disciplina durissima,
spesso stupidamente dura, talvolta disumana. La dipendenza dell'operaio dal
padrone o dal sorvegliante era massima: la cosa più simile alla fabbrica
che ci fosse nel passato della moderna classe operaia era la caserma o la
prigione.
L'orario di lavoro era interminabile: dodici, quattordici e anche
più ore al giorno con intervalli di pochi minuti. Il contadino o
l'artigiano tradizionale forse non lavoravano di meno, almeno d'estate, ma
scandivano la giornata secondo ritmi naturali: lavoravano alla luce del giorno
(il che significa che le giornate di lavoro avevano durate diverse nelle diverse
stagioni), mangiavano quando avevano fame, ecc. Nel sistema di fabbrica, invece,
era l'orologio a stabilire la durata della giornata di lavoro; era la sirena a
dare il segnale dell'inizio e della fine della giornata; il lavoro notturno o
comunque con illuminazione artificiale, un tempo piuttosto raro, divenne la
norma, ecc. Ma tutto in fabbrica era innaturale: gli odori, i rumori, l'aria
stessa che si respirava. Spesso il lavoro del contadino nei campi non era
più salubre di quello dell'operaio in fabbrica, ma il contadino era
abituato alle condizioni nelle quali lavorava, l'operaio no, e occorsero decenni
perché riuscisse ad adattarsi all'ambiente ed alla disciplina di
fabbrica.
Fuori della fabbrica le condizioni degli operai non erano
migliori. La concorrenza delle grandi aziende capitalistiche, industriali e
agrarie, rovinava economicamente piccoli artigiani e contadini, che andavano ad
aumentare il numero degli uomini disponibili per il lavoro nelle fabbriche.
Questo continuo flusso di nuova manodopera faceva diminuire i salari e aumentava
per tutti il pericolo della disoccupazione. I salari consentivano la semplice
sussistenza e talvolta neppure questa: abitazioni, alimentazione, abbigliamento
erano miserabili, le condizioni igieniche disastrose. Le testimonianze dei
contemporanei, economisti, giornalisti, funzionari pubblici, sono concordi nel
dipingere a fosche tinte l'esistenza della classe operaia durante la prima fase
della Rivoluzione industriale. Sembra certo che in Inghilterra fra il 1780 circa
e il 1840, nonostante lo straordinario sviluppo economico legato appunto alla
Rivoluzione industriale, le condizioni di vita delle classi povere e lavoratrici
non solo non siano migliorate rispetto alle epoche precedenti, ma siano
addirittura peggiorate. Lo confermano, tra l'altro, i dati relativi alla
mortalità, che risulta in aumento, e quelli relativi alle condizioni di
salute.
Solo verso il 1840, l'enorme espansione produttiva e la crescente
combattività e organizzazione della classe operaia resero possibile
sensibili miglioramenti nel tenore di vita, prima in Inghilterra e poi,
più o meno rapidamente, in altri Paesi industrializzati d'Europa. Resta
il fatto che l'edificazione della moderna società industriale è
stata resa possibile dalla sofferenza di intere generazioni di lavoratori che
non hanno ottenuto neppure una parte dei benefici delle formidabili
trasformazioni rese possibili dal loro lavoro. La cosa non è vera
soltanto per la Rivoluzione industriale inglese: si è ripetuta, sia pure
in forme sempre diverse, per ogni altro Paese che ha avuto la fortuna
(perché di fortuna in ogni caso si tratta) di imboccare la stessa strada.
Dopo duecento anni dalla prima Rivoluzione industriale, e cadute molte illusioni
relative al carattere automatico dello sviluppo, resta un problema capire in che
modo, ossia sulla base di quale organizzazione sociale, sia possibile avviare un
reale processo di industrializzazione e di crescita economica senza pagare
prezzi così alti in termini di sofferenze umane.
IL PASSATO DELLA CLASSE OPERAIA
Accanto alla nuova classe operaia
continuarono ad esistere artigiani tradizionali e lavoratori indipendenti,
specialmente in certi settori come la tessitura della lana o della seta, che
richiedevano un alto livello di abilità manuale, che non sempre le
macchine riuscivano ad eguagliare. Qui la vecchia organizzazione dell'industria
«dispersa» o «a domicilio» (nella quale cioè i
mercanti-imprenditori distribuivano commesse di lavoro a un gran numero di
artigiani che lavoravano alle loro dipendenze, ma a casa propria e spesso con
macchine o strumenti propri) resistette di più. Alla lunga, però,
il sistema di fabbrica e l'estensione dell'uso delle macchine, che permettevano
una continua riduzione dei costi di fabbricazione, misero «fuori
mercato» (come si suol dire) gli artigiani e i lavoranti a domicilio che
impiegavano ancora i vecchi strumenti a mano. Per queste categorie di lavoratori
divenne sempre più difficile trovare commesse di lavoro nonostante
fossero disposti ad accettare mercedi sempre minori. Ai più, constatata
l'impossibilità di reggere alla concorrenza della industrie meccanizzate,
non restò altra alternativa che rinunciare alla propria indipendenza e
offrire le proprie braccia alle fabbriche, andando così ad ingrossare il
proletariato industriale. Rimaneva il doloroso rimpianto per le antiche
condizioni di vita e di lavoro, che assicuravano all'abile artigiano, oltre al
sostentamento, l'indipendenza e il rispetto degli altri. Ritroviamo
l'espressione di questa sofferenza nelle parole che un lavoratore a domicilio
inglese ebbe a pronunciare, nel 1839, ad una riunione di lavoratori:
... Io
sono un tessitore a mano e ricordo bene il tempo in cui guadagnavo trenta
scellini alla settimana. Oggi lo stesso lavoro renderebbe solo sette scellini e
la metà di questa somma è necessaria per pagare l'affitto, il
fuoco e l'illuminazione; quello che resta è così poco che la
natura dell'uomo soccombe sotto il peso di troppe privazioni. La stanchezza
dell'operaio è scambiata per pigrizia e i vicini cominciano a perdere
fiducia in lui. Senza aiuto, disprezzato dagli estranei, infelice in seno alla
famiglia, in mezzo ai suoi cari che, morendo di fame, gli chiedono a gran voce
del pane, che cosa gli resta se non la disperazione?
Voglio parlarvi di me,
non per attirare la vostra attenzione sulla mia persona, ma per dimostrarvi che
io non parlo in base ai si dice, ma in base alle mie stesse sofferenze. Mio
suocero, che viveva con me, non era riuscito il martedì sera ad ottenere
la commessa di un lavoro. La nostra casa era priva di ogni mezzo di sussistenza.
Il mercoledì mattina viene l'ora di colazione: niente colazione. Viene
l'ora di pranzo: niente pranzo. Viene l'ora di cena: niente cena. E mia moglie
aveva un bambino forte e sano attaccato al seno. Quando, a letto, rivolsi
qualche domanda a mia moglie, non mi rispose. Mi allarmai e mi accorsi con
orrore che era svenuta per l'esaurimento. Mi alzai, capovolsi la madia della
farina e con i resti che erano sul fondo riuscii a fare in una coppetta una
specie di pappa. A questo cibo devo la salvezza di mia
moglie...
UNA SOCIETŔ CLASSISTA
Quella borghese è una società
classista, ordinata, cioè, per classi. Abbiamo adoperato spesso il
termine classe, senza preoccuparci di spiegarne nei dettagli il significato e
lasciando che il suo valore risultasse dall'insieme del discorso. Ora
però è necessario soffermarci su questo concetto che è
assolutamente essenziale per capire il mondo che è nato dalla Rivoluzione
industriale e nel quale ancora viviamo. Ed è necessario farlo
perché esso non solo è uno dei concetti più importanti, ma
anche uno dei più controversi della storiografia e delle scienze sociali.
Si continua, cioè, a discutere sia sulla definizione del termine
«classe» sia sull'importanza che nella storia hanno avuto le
realtà che quel termine designa. Sostanzialmente nessuno nega l'esistenza
di classi sociali nel senso di particolari insiemi di individui connotati da una
qualche caratteristica comune (reddito, prestigio sociale, cultura, ecc.). Ma
per chi attribuisce alle idee o alle personalità individuali un ruolo
preponderante nello sviluppo storico, il peso delle classi è secondario,
mentre per altri, come ad esempio il tedesco Karl Marx (1818-1883), è
proprio nella divisione in classi della società e nella lotta tra i vari
gruppi sociali che le idee e i comportamenti individuali trovano una spiegazione
adeguata.
Sono stati per primi gli «economisti classici», come
Adam Smith e David Riccardo, a dare tra Sette e Ottocento al termine
«classe» il significato più tardi ripreso da Marx e che ancora
oggi è quello più frequentemente usato. Purtroppo Marx non ha
avuto il tempo di dare una definizione univoca di «classe» (il
capitolo del Capitale, dedicato a questo tema è rimasto incompiuto).
È abbastanza agevole però desumere dagli altri suoi scritti le sue
idee in proposito: le classi sono il prodotto dei modi di produzione
storicamente determinati e si definiscono in base alla professione, al reddito e
alla proprietà (o comunque al tipo di controllo) dei mezzi di produzione
(terra, macchine, ecc.). In base a questa definizione la società moderna
fondata sul modo di produzione capitalistico sarebbe formata essenzialmente da
tre grandi classi i cui membri vivono rispettivamente di salari (gli operai), di
profitti (i capitalisti) e di rendite fondiarie (i grandi proprietari
terrieri).
Naturalmente Marx non ignorava che le società reali
appaiono molto più articolate: i gruppi sociali, a cominciare
dall'innumerevole schiera dei cosiddetti «ceti medi», sono molti di
più di tre. Ma per Marx l'esistenza di questi altri gruppi era dovuta
semplicemente al persistere di modi di produzione superati e di pratiche sociali
proprie del passato. Quel che contava per Marx era l'antagonismo insanabile tra
capitalisti e proletari determinato dall'appropriazione da parte dei primi
dell'intera ricchezza prodotta dai secondi, che in cambio del loro lavoro
ricevono un salario, capace a malapena di garantire la loro sopravvivenza come
classe (non però come individui: la fame e la malattia sono rimaste a
lungo componenti abituali della condizione operaia). Quanto agli altri gruppi
sociali, piccoli borghesi, artigiani, bottegai, ecc. si trattava di
sopravvivenze, che potevano rendere temporaneamente più complesso il
panorama dei conflitti di classe, ma non potevano alterare il dato di fondo
della progressiva polarizzazione della società intorno alle formazioni
antagonistiche dei capitalisti e dei lavoratori salariati. Marx prevedeva
insomma la graduale «proletarizzazione» dei ceti intermedi, in
sé privi di iniziativa e di autonomo dinamismo.
Nel Manifesto del
Partito Comunista scritto e pubblicato nel 1848 da Marx in collaborazione con
Friedrich Engels (1820-1895), si legge:
... la storia di ogni
società sinora esistita, è la storia di lotte di classi. [...]
Oppressori ed oppressi sono stati continuamente in reciproco contrasto, e hanno
condotto una lotta ininterrotta ora latente, ora aperta, lotta che è
finita sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società
o con la comune rovina delle classi in lotta...
Contrariamente a
quanto si crede comunemente non è stato Marx ad aver formulato il
principio della lotta di classe. Sono stati invece alcuni storici francesi della
prima metà dell'Ottocento, come Jacques-Nicolas-Augustin Thierry e
François-Pierre-Guillaume Guizot, che hanno utilizzato quello schema per
interpretare le vicende dell'Europa moderna come la storia della progressiva
ascesa e del finale trionfo della borghesia sull'aristocrazia feudale. Fin qui
Marx si era limitato ad accettare una ricostruzione storica consolidata. In
proposito egli rivendicava soltanto il merito di avere dimostrato come
l'esistenza delle classi sia legata a determinate fasi di sviluppo dei modi di
produzione, e come la lotta di classe nella società moderna si differenzi
per alcune caratteristiche assolutamente originali da quelle del
passato.
La prima di queste caratteristiche è che la borghesia, a
causa della spietata concorrenza che c'è tra i capitalisti stessi, non
può esistere senza innovare continuamente gli strumenti di produzione (le
macchine, le tecnologie, ecc.) e con essi tutto l'insieme dei rapporti sociali.
Diversamente dalla aristocrazia feudale, infatti, la borghesia non può
permettersi la conservazione pura semplice del modo di produzione esistente, ma
può mantenere il suo ruolo di dominio soltanto in forza di uno sviluppo
economico ininterrotto, in una sorta di corsa senza fine. La seconda è
che lo stesso sviluppo del sistema industriale e la progressiva concentrazione
del potere economico e finanziario (che si realizza sia attraverso la
concorrenza tra capitalisti sia attraverso la proletarizzazione dei ceti medi,
ossia la loro espropriazione e la riduzione dei produttori indipendenti a
salariati) contribuiscono alla formazione di un sempre più vasto
proletariato e alla sua maturazione politica. La crescita del capitalismo, in
sostanza, produce la crescita parallela del suo antagonista: il
proletariato.
Per questo l'antagonismo tra borghesia e proletariato sarebbe
destinato, secondo Marx, a concludersi con il crollo del capitalismo e con la
nascita di una società senza classi (comunismo). Marx non pensava che
questo processo si sarebbe compiuto da solo, automaticamente: al contrario,
riteneva che i membri delle classi sfruttate e in primo luogo gli operai
dell'industria dovessero acquisire la coscienza della propria condizione di
sfruttati, mettersi in grado di riconoscere i comuni interessi di classe e
organizzarsi per determinare in qualche modo la propria condizione. Per Marx il
proletariato può maturare una solida coscienza di classe solo attraverso
l'organizzazione di un Partito Comunista il cui compito è appunto di
rovesciare il sistema di potere della borghesia e di dirigere le masse popolari
durante tutta la fase di transizione tra il modo di produzione capitalistico e
il comunismo.
Per le correnti di pensiero non marxiste (dette talvolta, del
tutto impropriamente, «borghesi») le classi sono aggregazioni di
individui che si riconoscono in base al reddito e alla professione, ma anche in
base a fattori extra economici quali il livello di istruzione, il tipo e il
luogo di residenza, le consuetudini di consumo, le possibilità di accesso
ai canali delle decisioni politiche, ecc. In questo genere di teorie, essendo
più articolati i criteri di classificazione sociale, anche la
stratificazione sociale (vale a dire la divisione dei membri di una
collettività in diversi livelli, ognuno dei quali presenta una certa
omogeneità) appare più complessa. Diventano allora importanti le
suddivisioni delle classi in categorie (che corrispondono alle diverse
attività presenti all'interno di ogni classe) o in strati (che sono i
diversi livelli di professionalità e di reddito esistenti all'interno di
una stessa classe). Nelle società moderne, per esempio, le tre grandi
classi, la borghesia, la classe media e la classe operaia, appaiono a loro volta
divise in strati e categorie: la borghesia si suddivide in grandi proprietari,
imprenditori, dirigenti, professionisti, ecc.; la classe media in borghesia
impiegatizia, piccola borghesia (commercianti, artigiani, ecc.), militari,
religiosi, insegnanti, ecc.; la classe operaia si suddivide per settori
produttivi (industriale, commerciale, contadina, ecc.) ma anche per gruppi di
carattere verticale (si parla ad esempio di «aristocrazia operaia» e
simili).
Se si tiene conto del numero dei membri di ogni classe, la forma
schematica che di solito si attribuisce a una società stratificata
è la piramide. Se la descrizione data da Marx del modo di produzione
capitalistico corrispondesse alla realtà, le società industriali
avanzate dovrebbero presentare una stratificazione a forma di piramide
allungata, con l'alta borghesia (formata da un numero limitato di individui) al
vertice e con le classi operaia e contadina (formate da un grandissimo numero di
persone) alla base. La struttura a piramide sembra corrispondere però
più alle società preindustriali o a quelle della prima età
industriale (l'epoca di Marx), che non alle società dei moderni Paesi
industrializzati. Queste presentano semmai una forma di cipolla: il vertice
è stretto, ma la parte centrale (quella che rappresenta le classi medie)
è prominente rispetto alla base.
Uno dei principali argomenti che si
portano a confutazione dell'analisi marxista del capitalismo è che la
previsione circa la progressiva polarizzazione della società in operai e
capitalisti, con la conseguente eliminazione dei ceti intermedi, non si è
affatto verificata.
Marx, insomma, avrebbe arbitrariamente esteso al futuro
una tendenza alla proletarizzazione dei ceti medi, che ai suoi tempi era
effettivamente in atto, ma che era destinata nel giro di pochi decenni ad
arrestarsi e a invertirsi. Oggi, almeno nei Paesi occidentali (a livello
mondiale il discorso è completamente diverso e forse richiederebbe altre
categorie e altri strumenti di analisi), la crescita numerica riguarda
precisamente le classi medie. Se questa loro crescita dovesse continuare, si
potrebbe prevedere nel futuro dei Paesi occidentali un tipo di società
non più verticistica, in cui gli strati alti sarebbero in pratica
assorbiti da quelli inferiori.
Pellizza da Volpedo: "Quarto Stato"
LA LEGGE DEI POVERI
Una pagina interessante della Rivoluzione
industriale in Inghilterra è quella della cosiddetta «legge dei
poveri». La storia di questa legge comincia parecchio tempo prima
dell'inizio della Rivoluzione industriale vera e propria. Dopo alcuni
provvedimenti parziali emanati nel corso del Cinquecento, la formulazione
compiuta di tale legge si ebbe infatti nel 1601. Sotto la veste di un
provvedimento assistenziale, essa era in sostanza una legge contro la
mendicità che, in conseguenza della cacciata dei contadini poveri dalle
campagne, stava raggiungendo livelli preoccupanti (nel 1688 si stimava che la
proporzione di poveri sulla popolazione totale inglese si aggirasse tra il 10 e
il 15%).
La legge dei poveri obbligava le parrocchie (ossia quelli che oggi
chiameremmo gli «enti locali») ad assistere i poveri del circondario e
a tal fine introduceva un'apposita tassa. Poiché l'assistenza era
organizzata su base locale, le parrocchie cercavano di scaricare una sull'altra
i poveri di rispettiva appartenenza. Succedeva così, ad esempio, che un
moribondo «straniero» venisse caricato su un carretto e spedito a
morire al suo Paese. La legge sul domicilio approvata nel 1602 aveva infatti
stabilito che chi cambiava residenza e non poteva dimostrare di avere propri
mezzi di sussistenza, se c'era il fondato sospetto che prima o poi diventasse un
gravame per la parrocchia che lo ospitava, poteva essere respinto alla
parrocchia d'origine.
Gli assistiti dalle parrocchie, salvo i casi di
assoluta incapacità, erano tenuti a lavorare ed erano inoltre obbligati
ad abitare nelle workhouse (= «case di lavoro»), una specie di ospizi
che in verità assomigliavano molto a delle prigioni ed erano quasi
altrettanto temuti. Ancora nel 1723 venne ribadito che chi si rifiutava di
entrare nelle workhouse perdeva il diritto ad ogni sussidio. Contemporaneamente
furono inasprite le pene per la mendicità e il vagabondaggio: la frusta
per la prima infrazione, il marchio a fuoco sulla pelle per la seconda,
l'impiccagione per la terza. L'obiettivo della legge dei poveri e dei suoi
successivi inasprimenti era chiaro: presi in mezzo fra il disgusto che ispirava
il lavoro coatto nelle workhouse e il terrore delle pene comminate ai vagabondi,
ai contadini poveri e agli artigiani rovinati non restava altra scelta che
accettare la condizione di salariati e proporsi come lavoratori saltuari ai
proprietari terrieri e più tardi, con l'avvio dell'industrializzazione,
ai proprietari delle fabbriche.
La legge sui poveri venne profondamente
riformata verso la fine del secolo XVIII. Cospirarono in tal senso le esigenze
della produzione industriale, che richiedevano una maggiore mobilità
della mano d'opera, e le sempre più gravi manifestazioni di rivolta da
parte delle masse di poveri, operai e contadini, contro le durissime condizioni
di vita e di lavoro a cui erano costrette. Venne così modificata le legge
sul domicilio e venne abolito l'obbligo di residenza nelle workhouse. Nel 1795
in una storica riunione a Speenhamland i giudici di pace inglesi stabilirono che
tutti i salari che non raggiungessero il minimo considerato indispensabile per
la sopravvivenza dovessero essere integrati con un sussidio tratto in ogni
parrocchia dal gettito della tassa sui poveri. Questo minimo fu fissato in 26
libbre di pane alla settimana per uomo adulto, più 13 libbre per la
moglie e per ognuno dei figli: calcolando il salario minimo in pane si
eliminavano gli inconvenienti derivanti da dislivelli o variazioni improvvise
dei prezzi.
Era la prima volta che nella storia della società
industriale si parlava esplicitamente di salario minimo generalizzato (e per di
più garantito dall'aggancio al prezzo del pane, ossia da un sistema che
oggi chiameremmo di «scala mobile»). Si tratta di un istituto che
è tuttora oggetto di vive discussioni: da più parti viene proposto
come alternativa alle molte e spesso inefficienti forme di assistenza pubblica
oggi esistenti, mentre altri tacciano queste proposte di
«avventurismo» (come si dice nel linguaggio dei politici) e di
utopia.
Ci si può stupire che un provvedimento così radicale
sia stato adottato, ben due secoli or sono, da una classe dirigente, come quella
inglese, di cui tutto si può dire, tranne che avesse delle propensioni
rivoluzionarie: tanto è vero che proprio in quegli anni stava impegnando
tutte le energie del Paese nel combattere la rivoluzione che, scoppiata in
Francia, minacciava di dilagare dappertutto. Forse, anzi, proprio la paura del
contagio rivoluzionario può spiegare la decisione di Speenhamland e,
più in generale, l'insieme dei provvedimenti che furono varati in
Inghilterra in materia di assistenza: il nuovo sistema di sussidi poteva
costituire un mezzo efficace per addormentare la coscienza popolare, contenere
la diffusione del malcontento, prevenire esplosioni di rivolta che potessero in
un modo qualsiasi richiamarsi all'esempio francese.
A parte però le
contingenti preoccupazioni relative all'ordine pubblico e connesse al pericolo
rivoluzionario, la legislazione sui poveri rispondeva a una situazione di
emergenza specificamente inglese, determinata dalla fase ormai avanzata di
industrializzazione a cui il Paese era arrivato. Il salario minimo garantito era
il modo più semplice, più generale e più economico per
sostituire tutte le preesistenti forme di protezione e di assistenza di cui le
classi popolari avevano usufruito e che erano state spazzate via dallo sviluppo
della società industriale. Vale la pena a questo punto ricordare quali
fossero queste forme richiamandone in breve alcune tra le più
importanti.
La popolazione rurale povera, (piccoli e piccolissimi
proprietari e braccianti senza terra) aveva sempre trovato nelle terre comuni
una importante riserva di materiali, di combustibili e di risorse alimentari.
Nelle brughiere, nelle foreste, nelle paludi di proprietà comunale si
potevano raccogliere i frutti della vegetazione spontanea, si poteva cacciare,
pescare, pascolare qualche capo di bestiame. In caso di bisogno quelle terre
diventavano un'area di rifugio dove era possibile costruire una baracca e,
liberato il terreno intorno, seminare un po' di grano. Oltre a costituire
un'importante integrazione del reddito ordinario dei contadini poveri, l'accesso
a queste terre rappresentava la loro principale (o unica) forma di protezione
contro gli incerti dell'attività agricola, i pericoli della
disoccupazione o, più semplicemente, contro la mala sorte. Alla fine del
Settecento queste opportunità erano praticamente scomparse in Inghilterra
(e stavano scomparendo nell'Europa continentale) a causa dei decreti di
recinzione delle terre comuni, che cancellavano con un tratto di penna e per lo
più senza indennizzi diritti d'uso antichi di secoli.
In passato era
convinzione pressoché unanime che il primo e più elementare
obbligo dei governi fosse quello di provvedere adeguatamente in ogni circostanza
ai bisogni alimentari della popolazione. Proprio in funzione di questa comune e
radicata convinzione l'annona, ossia il sistema che presiedeva al rifornimento
granario e alla distribuzione dei sussidi frumentari tra la popolazione, aveva
costituito fin dalla più remota antichità l'apparato politicamente
più delicato di ogni potere pubblico costituito. La legislazione
annonaria, però, era essenzialmente «vincolistica», ossia
tendeva a porre una serie di vincoli e di controlli sulla produzione e sul
commercio dei grani (limitazioni o divieti di esportazione, calmieri e prezzi
politici, ecc.) che contraddicevano le tendenze ormai diffuse al laissezfaire e
soprattutto risultavano assai poco graditi a proprietari terrieri e a mercanti.
Costoro di solito non erano affatto dei liberisti, ma pensavano che se la
produzione e il commercio dei grani dovevano essere regolamentati dalla legge,
dovevano esserlo per difendere i loro interessi e non quelli dei consumatori o,
tanto meno, quelli dei poveri. Così, il sistema annonario era stato in
larga parte smantellato in tutta Europa. Anche se non era mai stato un sistema
molto efficiente, la sua scomparsa significava per le classi popolari la perdita
di una fondamentale garanzia di sopravvivenza.
La legge sui poveri, dunque,
nella forma che assunse sul finire del Settecento, era una sorta di
ammortizzatore sociale della modernizzazione, ossia dei processi che avevano
portato alla scomparsa delle corporazioni, all'eliminazione o al
ridimensionamento dei vecchi sistemi annonari e assistenziali e infine alla
privatizzazione delle terre comuni. Oltre che aiuto ai bisognosi, poi,
l'integrazione di salario era una forma di sovvenzione all'industria: essa
infatti consentiva ai capitalisti proprietari di fabbriche di pagare ai propri
operai salari più bassi del minimo vitale. Infine, poiché i fondi
necessari per i sussidi venivano prelevati dalle imposte e queste ultime
gravavano in notevole misura sugli stessi operai, una buona parte di ciò
che a costoro veniva dato con una mano gli veniva poi tolto con
l'altra.
GLI APPRENDISTI
In Inghilterra e in tutti i Paesi
successivamente investiti dal «contagio industriale» la manodopera
infantile e quella femminile costituì una parte cospicua della prima leva
operaia. Nel 1834 si calcolava che più del 13% degli addetti
all'industria tessile inglese fosse costituito da fanciulli di meno di 13 anni.
Le piccole mani dei bimbi e delle donne si prestavano assai bene a svolgere
alcune operazioni produttive, soprattutto nel settore tessile. Nei primi tempi i
padroni delle fabbriche potevano impiegare soltanto gli «apprendisti di
parrocchia» ossia quei poveri bambini che erano abbandonati all'assistenza
delle parrocchie e che venivano ceduti agli industriali con contratti di
apprendistato la cui durata poteva raggiungere (e talvolta superare) i sette
anni. Più tardi però la miseria costrinse anche le famiglie
operaie a mandare in fabbrica bambini e adolescenti.
Alcuni di questi
bambini venivano messi a lavorare quando ancora erano così piccoli che
per arrivare alle macchine dovevano stare in piedi sopra una seggiola. Gli orari
di lavoro erano massacranti. A Manchester, uno dei maggiori centri industriali
dell'Inghilterra, nel 1816, la durata media della giornata lavorativa era di 14
ore; un capitalista, un certo David Dale, passava per filantropo perché
faceva fare ai suoi apprendisti soltanto 13 ore di lavoro al giorno. Non
mancavano tuttavia testimonianze di orari fino a 18 ore. L'intervallo per
consumare il pasto (pane nero, zuppa d'avena, un pezzo di lardo) era di appena
40 minuti e di questi una parte doveva talvolta essere impiegata per pulire le
macchine.
Le fabbriche erano per lo più ambienti insalubri, con i
soffitti bassi, con poche e strette finestre. Si lavorava immersi nella puzza,
nei vapori, nel rumore. Nei cotonifici, ad esempio, si respirava polvere di
cotone e fumo di candele; l'umidità dell'aria raggiungeva punte
elevatissime. Tra le malattie che colpivano la classe operaia c'era la
cosiddetta «febbre di fabbrica», simile alla «febbre di
prigione» che colpiva i carcerati, entrambe dovute al prolungato soggiorno
in locali malsani. Gli incidenti sul lavoro erano frequenti, data la scarsissima
attenzione posta dai costruttori di macchine e impianti industriali e dai
direttori delle fabbriche alla prevenzione degli infortuni e data soprattutto la
stanchezza che, al termine di un lunghissimo turno di lavoro, ottenebrava
l'attenzione degli operai e ne rallentava i riflessi.
La disciplina era
talvolta feroce. I sorveglianti (che sovente avevano una cointeressenza sugli
utili della fabbrica) erano peggio dei padroni. E gli operai che subivano le
angherie dei sorveglianti non si comportavano meglio nei confronti dei garzoni e
degli altri operai che erano alle loro dipendenze. Calci, pugni, cinghiate,
erano le abituali forme di correzione nell'apprendistato dei giovani. Quando
uscivano da questa terribile esperienza, questi ragazzi erano deformi malati,
ignoranti, talvolta corrotti; per soprammercato, non avevano imparato nessuna
abilità professionale perché le semplici operazioni a cui venivano
addetti non fornivano di solito alcuna qualifica. D'altra parte, col senno di
poi, si può ben dire che quel che occorreva che imparassero e a cui
dovevano in ogni modo abituarsi perché il processo di industrializzazione
potesse andare avanti era appunto la brutalità della condizione
operaia.
LA PROTESTA OPERAIA
Il primo e più evidente effetto
dell'introduzione delle macchine era un po' dappertutto l'aumento della
disoccupazione tra i lavoratori e il conseguente abbassamento dei salari. Col
procedere dell'industrializzazione, poi, divennero assai più gravi e
frequenti le crisi che periodicamente arrestavano la produzione e gettavano
masse di lavoratori sul lastrico o li costringevano a penose migrazioni. Le
innovazioni tecnologiche non solo rendevano superflua una parte dei lavoratori
normalmente impiegati nella produzione, ma distruggevano interi settori
produttivi che non resistevano alla concorrenza dei nuovi metodi.
Nelle
fabbriche dove molti artigiani e lavoranti a domicilio rovinati dalla
concorrenza delle macchine finivano per impiegarsi, le capacità tecniche
e le conoscenze che questi avevano accumulato in anni di lavoro servivano a poco
o non servivano affatto. Una delle caratteristiche dell'industria moderna era
appunto che a causa del sostenuto ritmo dell'innovazione tecnica il lavoratore
manuale veniva continuamente «espropriato» delle capacità e
delle conoscenze acquisite. In altre parole, le macchine sottraevano
periodicamente all'operaio quello che costituiva il suo principale patrimonio:
la forza fisica e la destrezza professionale. Così, i progressi della
tecnica, da cui in teoria ci si poteva aspettare un alleggerimento della fatica
umana, nella realtà determinavano un aggravamento delle condizioni di
vita dei lavoratori.
La colpa naturalmente non era delle macchine, ma del
sistema che faceva degli operai dei semplici accessori delle macchine e che
equiparava il lavoro umano a una qualsiasi altra merce, il cui valore era
determinato dal semplice gioco della domanda e dell'offerta. Gli operai
raramente vedevano il sistema che li opprimeva: vedevano però le sue
macchine e reagivano distruggendole o bruciandole. Anche in passato c'erano
state esplosioni di protesta violenta di gruppi di lavoratori contro lo
sfruttamento e le soperchierie dei datori di lavoro, mercanti e imprenditori,
contro la disoccupazione o contro i bassi salari; a guardar bene, però,
avevano caratteristiche diverse. In passato gli operai avevano di mira
genericamente le proprietà dei padroni: le abitazioni, i campi, i
magazzini. Ora la loro collera si dirigeva specificamente contro le
macchine.
Incendi e devastazioni di fabbriche si ebbero un po' dovunque, in
Inghilterra, in Belgio, in Germania, in Italia, sia nel Settecento che
nell'Ottocento. Per lo più si trattava di moti spontanei, non
organizzati, che le autorità di polizia non avevano difficoltà a
reprimere. In Inghilterra però, tra il 1810 e il 1820, la distruzione
delle macchine diventò lo strumento di lotta caratteristico di un
movimento di lavoratori, il luddismo, che non mancava né di
organizzazione, né di precisi obiettivi politici, né di capi abili
e coraggiosi. Si è perfino dubitato che i gruppi luddisti costituissero
il braccio armato delle nascenti trade unions («unioni dei
lavoratori») ossia delle prime organizzazioni sindacali: certo è che
esistevano dei collegamenti e alcuni luddisti riconosciuti erano capi o membri
di esse. Il luddismo in quanto forma violenta di resistenza operaia, oltre che
nella distruzione delle macchine, si manifestò nell'autoriduzione dei
prezzi ai mercati e nel saccheggio delle botteghe, nell'incendio delle
proprietà, nell'assassinio di industriali e proprietari particolarmente
odiati, nell'assalto armato alle fabbriche e finì per assumere i
caratteri di un vero e proprio movimento insurrezionale.
Il movimento
luddista prendeva il nome da un operaio, Ned Ludd, o Ludlam, che nel 1779 pare
abbia distrutto un telaio meccanico. Vero o falso che fosse l'episodio, Ned Ludd
era diventato un simbolo della protesta operaia e appunto con il nome di
Generale Ludd erano collettivamente indicati i misteriosi capi del movimento.
Figure mitiche di vendicatori degli oppressi alla Robin Hood o di condottieri
popolari come il Generale Ludd hanno sempre svolto un'importante funzione
simbolica nella maturazione dello spirito di rivolta delle classi subalterne. Un
movimento con caratteristiche e sviluppo molto simile al luddismo sorse intorno
al 1830 nelle contee dell'Inghilterra meridionale per opera, questa volta, dei
lavoratori agricoli, che sostituirono il leggendario Generale Ludd con un
altrettanto leggendario Capitano Swing.
In forza della sua organizzazione
il movimento luddista riuscì a mettere in gravissime difficoltà il
Governo inglese: i luddisti colpivano in modo inatteso e preparavano i loro
audaci colpi di mano con tanta segretezza che, nonostante il grande impiego di
spie e di agenti provocatori, la polizia non riusciva quasi mai a coglierli sul
fatto. Perché i luddisti distruggevano gli impianti industriali?
Certamente anch'essi erano mossi dal sentimento di odio che era comune a tutta
la classe operaia verso le macchine. Nel luddismo però c'era qualcosa di
più. L'uso delle macchine non solo era rovinoso per i lavoratori di ogni
categoria, ma contravveniva anche ad antiche leggi e consuetudini corporative
che proteggevano il lavoro degli artigiani. Queste leggi ormai non erano
più applicate, ma i luddisti le consideravano sempre in vigore e la
distruzione delle macchine appariva ai loro occhi innanzi tutto come un atto di
giustizia che riparava una violazione di precisi diritti.
Una canzone del
tempo presentava il Generale Ludd come l'esecutore di una sentenza pronunciata
con il voto unanime di tutti i lavoratori:
L'unanime sentenza ha
condannato
queste dannate macchine a morire
e il Generale Ludd
è incaricato
di farla ovunque e subito eseguire
Non
bisogna però credere che l'azione del movimento luddista si esaurisse nel
sogno di un'impossibile restaurazione del passato né che esso si
opponesse in modo assoluto al progresso tecnologico. In verità la difesa
degli antichi diritti dei lavoratori era anche un modo per avanzare
rivendicazioni del tutto realistiche, che costituiscono ancora oggi la sostanza
di ogni trattativa sindacale: un minimo salariale sotto il quale non potessero
in nessun caso scendere le retribuzioni degli operai occupati, norme che
proibissero le forme più brutali di sfruttamento specialmente nei
confronti delle donne e dei ragazzi impiegati nelle fabbriche un sistema di
assistenza per quei lavoratori che l'introduzione delle macchine e la
modernizzazione dei processi di produzione lasciava senza lavoro, il diritto dei
lavoratori di unirsi in associazioni di mestiere. In sostanza il luddismo
lottava perché lo sviluppo industriale acquistasse un volto più
«umano» e perché il progresso tecnologico, anziché
essere utilizzato all'unico scopo di accrescere indefinitamente i profitti dei
capitalisti, venisse impiegato anche ad alleviare le sofferenze e a soddisfare i
bisogni di tutti. Il movimento luddista fu alla fine sconfitto da una
repressione durissima, che, come si è accennato, si avvalse soprattutto
dell'infiltrazione nelle organizzazioni segrete di spie e agenti provocatori.
Per il reato di machinebreaking («distruzione delle macchine») fu
introdotta la pena di morte e nel giro di cinque anni una ventina di luddisti
salirono sul patibolo. Questa repressione, però, si scontrò a
lungo con la solidarietà popolare verso i luddisti e, almeno in un primo
tempo, anche con la simpatia di una parte dell'opinione pubblica liberale, che
comprendeva le ragioni dei luddisti e paventava i danni di un troppo brusco
mutamento nelle consuetudini industriali.
LUDDISMO
Il termine «luddismo» si usa per
indicare specificamente il movimento che si è sviluppato nel secondo
decennio dell'Ottocento in Inghilterra e che, inserendosi in un preciso contesto
storico, non può essere genericamente identificato con i molti episodi di
distruzione di macchine che hanno accompagnato un po' in tutta Europa la prima
esperienza dell'industrializzazione. Il termine però ha finito per
designare qualsiasi forma di resistenza violenta alla modernizzazione e
all'innovazione tecnologica, ed anzi proprio questo è il suo impiego
più frequente. Lotte di questo tipo hanno costellato in forme più
o meno accentuate tutta la successiva storia della resistenza operaia sia in
Europa sia negli Stati Uniti. Ciò nonostante, anche nell'ambito del
movimento operaio, e soprattutto a partire dalle critiche formulate da Marx a
questo tipo di lotta, il termine «luddismo» ha assunto una
connotazione fortemente negativa, di rivolta cieca e brutale, forma
«primitiva» di lotta, controproducente e arretrata.
Questa
connotazione negativa viene richiamata, tra l'altro, dallo scrittore tedesco
Ernst Toller (1893-1939), un esponente di rilievo della rivoluzione spartachista
in Baviera del 1919, nel dramma da lui dedicato a I distruttori delle macchine
(scritto nel 1922, in prigione). Un industriale confronta compiaciuto i modesti
rischi di una rivolta luddista con i consistenti vantaggi dell'immancabile
repressione:
- Non pavento la distruzione della macchina. Al
contrario. In tempi come questi un fatto del genere potrebbe rafforzare la
nostra posizione [...] La perdita materiale verrebbe bilanciata dalla
prospettiva di un futuro disciplinato e legalitario.
Ma in un'altra
battuta del dramma appare l'immagine esasperata di un'umanità schiava
delle macchine (e specialmente di quel particolare meccanismo l'orologio, che ha
scandito sin dall'inizio dell'età industriale la squallida esistenza
quotidiana degli operai di fabbrica). E qui sembra trapelare, da un fondo di
delusione e di pessimismo l'intima coscienza luddista dello stesso
Toller:
- Ma io vi dico: non è morta la macchina; essa vive,
vive! Essa tende le sue branche, avvinghia gli uomini [...] Verso Paesi cintati
muovono scalpitanti eserciti [...] Avvizziscono i giardini, appestati da un
soffio di zolfo. Dappertutto deserti di pietra, ove bimbi si uccidono e un
mostruoso orologio guida l'uomo in una squallida cadenza. Tic tac al mattino,
tic tac al meriggio, tic tac alla sera. Tu sei braccio, tu sei gamba, tu
cervello. E l'anima... l'anima è morta!
A testimonianza
dell'eroismo di molti militanti delle organizzazioni luddiste si racconta questo
episodio. Al termine di uno sfortunato scontro a fuoco i luddisti, che avevano
attaccato un'importante fabbrica, furono costretti a lasciare sul terreno due
compagni gravemente feriti. Il proprietario della fabbrica li catturò e,
poiché non volevano tradire i propri compagni, li lasciò morire
dissanguati. Presso uno dei due, un giovane di diciannove anni, che si chiamava
John Booth, restò sino al momento della morte un prete anglicano, il
reverendo Robertson, il quale sperava di strappare al giovane, con la scusa
della religione, qualche informazione sull'organizzazione luddista. A un tratto
il giovane fece segno al reverendo di avvicinarsi:
- Sapete tenere un
segreto, voi? mormorò.
- Certo, certo - rispose il reverendo,
convinto di poter finalmente avere le informazioni desiderate.
- Be',
anch'io - disse il giovane, e morì.
LA SOLIDARIETŔ OPERAIA
Le vecchie corporazioni artigiane si erano
preoccupate di ridurre al minimo i pericoli della scarsità di lavoro e di
evitare che in caso di crisi si scatenasse tra i maestri di uno stesso mestiere
una concorrenza selvaggia che avrebbe danneggiato l'intiera categoria. Il
principio stesso della concorrenza, anzi, era contrario all'etica della
corporazione e proprio allo scopo di prevenirla le autorità corporative
fissavano retribuzioni uguali per tutti, controllavano i metodi di lavorazione
dei manufatti scoraggiando l'introduzione di innovazioni e cercavano di
garantire attraverso il controllo dell'apprendistato che il numero degli
artigiani aventi diritto ad esercitare un determinato mestiere non fosse
superiore alle effettive possibilità di lavoro offerte dal
mercato.
La Rivoluzione industriale, segnando il rapido declino
dell'artigianato, portò alla distruzione anche del sistema corporativo,
che era un'espressione caratteristica di quel modo di produzione. In molti Paesi
europei, anzi, le corporazioni furono abolite prima ancora che il processo di
industrializzazione fosse avviato davvero. In generale, seguendo l'esempio della
Francia rivoluzionaria, che aveva condannato le corporazioni come residui del
sistema feudale e ne aveva vietata la ricostituzione, era tassativamente
proibita qualsiasi forma di associazione tra i lavoratori. Le coalizioni tra
lavoratori, si diceva, creano ingiusti privilegi a favore dei coalizzati e a
spese di tutti gli altri: dei lavoratori disoccupati, in primo luogo, che
sarebbero disposti ad accettare salari inferiori pur di lavorare e sono
impossibilitati a farlo; dei datori di lavoro, costretti a pagare la manodopera
più di quanto non sarebbe necessario sulla base del libero gioco della
domanda e dell'offerta; dei consumatori, infine, costretti in conseguenza di
tutto ciò a pagare più care le merci che acquistano.
Che il
sistema corporativo rientrasse nella logica del monopolio e del privilegio
caratteristica dell'ancien régime era vero. Che il sistema corporativo
riuscisse a difendere efficacemente i poveri privilegi di questo o quel gruppo
artigiano contro la strapotenza dei mercanti-imprenditoriali era già meno
vero. Comunque, coll'eliminazione del sistema corporativo i lavoratori si
trovarono a trattare con i padroni. Era quello che i vecchi
mercanti-imprenditori avevano sempre auspicato: la contrattazione diretta tra
lavoratore e datore di lavoro e la riduzione della forza lavoro a una merce
contrattabile sul mercato come qualsiasi altra.
A dispetto di tutte le
chiacchiere sulla libertà e sull'uguaglianza, quello tra padrone e
operaio non era un rapporto da pari a pari: data la sproporzione esistente tra
le condizioni economiche dei contraenti, la contrattazione diretta del rapporto
di lavoro, anziché garantire la libertà di entrambi, metteva il
lavoratore nelle mani dell'imprenditore. Così, stabilito il principio
della libera contrattazione del rapporto di lavoro, quella concorrenza tra
lavoratori che le corporazioni artigiane avevano sempre cercato di scongiurare
era diventata la regola: ogni operaio sapeva di poter essere sostituito nel suo
lavoro da uno qualsiasi di quei disoccupati che si affollavano ai cancelli della
fabbrica e che, spinti dalla fame e dalla disperazione, erano disposti ad
accettare un salario più basso del suo.
Questa concorrenza fu una
delle più tragiche esperienze della classe operaia nata dalla Rivoluzione
industriale. Ma se la lotta per il pane quotidiano poteva mettere i lavoratori
in antagonismo tra di loro, l'identico destino di insicurezza, di privazioni e
di miseria fece sorgere in loro comuni sentimenti di solidarietà. Nella
classe operaia si formò a poco a poco una mentalità nuova, opposta
a quella dei padroni. Gli imprenditori capitalisti esaltavano la concorrenza
individuale e imponevano a tutti una dura lotta per l'esistenza; gli operai, che
di quella lotta erano chiamati a sopportare le peggiori conseguenze,
cominciarono a concepire una società completamente diversa, fondata sulla
cooperazione e non sulla competizione.
Non si trattava soltanto del
vagheggiamento di una società futura: il principio della cooperazione
ebbe un'applicazione immediata nella vita della moderna classe operaia. Il
compito dell'assistenza, un tempo esercitato dalle corporazioni, fu ripreso
dalle società di mutuo soccorso, che nei limiti dei loro modesti mezzi
alleviarono molte sofferenze. Fu presto chiaro a tutti, del resto, che solo
presentandosi uniti di fronte al padrone sarebbe stato possibile conquistare
migliori condizioni di vita e di lavoro. La rivolta di un giorno, il rapido
colpo di mano, la violenza vendicatrice nello stile dei luddisti potevano essere
efficaci strumenti di lotta (e ad essi la classe operaia non rinunciò
mai) ma erano insufficienti: occorreva una organizzazione solida, che
permettesse di contrastare la volontà dei padroni giorno per giorno,
permanentemente. A questa esigenza di organizzazione risposero le leghe di
resistenza, le unioni di mestiere, i sindacati: la loro arma fondamentale
divenne lo sciopero.
Già nella società preindustriale lo sciopero era
una delle possibili forme di lotta delle classi lavoratrici. Con l'avvento della
grande industria, però, esso ha assunto un carattere completamente nuovo
e l'Inghilterra, che è stato il primo Paese europeo in cui si
affermò la grande industria, fu anche quello in cui si fecero le prime
esperienze significative. Dopo anni di persecuzioni, ma prima di qualunque altro
Stato d'Europa, l'Inghilterra riconobbe agli operai, nel 1824, il diritto di
associarsi liberamente e di scioperare. Anche prima di questa data esistevano in
Inghilterra società operaie, ma la clandestinità in cui erano
costrette ad operare ne aveva ostacolato lo sviluppo. A partire dal 1824,
invece, le organizzazioni operaie, le trade unions, si diffusero rapidamente in
tutto il Paese. In diversi casi si tentò di unire tutti gli operai di un
determinato mestiere in un'unica associazione nazionale e più volte si
giunse anche a raggruppare diverse organizzazioni nazionali di mestiere in una
sola associazione generale dei lavoratori.
Queste unioni nazionali e queste
associazioni generali ebbero per lo più vita breve e difficile. Nel
complesso, tuttavia, le società operaie inglesi riuscirono, nei primi
anni della loro esistenza legale, ad affrontare importanti battaglie. Lo
sciopero, ormai permesso dalla legge, sia pure con qualche limitazione, si
rivelò un'arma molto efficace. Senza richiedere necessariamente atti di
violenza e perdite umane, lo sciopero, arrestando la produzione, poteva arrecare
ai padroni danni economici anche più gravi delle rivolte e dei colpi di
mano cui avevano fatto ricorso, tra gli altri, i luddisti. Lo sciopero, poi,
poteva essere esteso con un adeguato sforzo di organizzazione ad un intero
settore produttivo o ad un'intera regione del Paese, in modo da colpire non solo
il singolo padrone, ma il padronato nel suo complesso. Al contrario i tentativi
di insurrezione armata il più delle volte erano facilmente isolati e
repressi dall'azione della polizia e dell'esercito.
L'arma dello sciopero
non era però priva di rischi per chi la usava. In un certo senso, anzi,
lo sciopero richiedeva dagli operai un coraggio uguale e forse superiore a
quello necessario nella rivolta armata. Non era certo cosa da nulla per un
operaio che conosceva per esperienza diretta la miseria, andarvi incontro
volontariamente con tutta la famiglia rinunciando al già magro salario.
Non era cosa da nulla per l'operaio sopportare per settimane e per mesi stenti e
fame pur di non piegarsi ai soprusi del padrone. Gli operai che decidevano di
ribellarsi ai propri oppressori con le armi in pugno, come avevano fatto i
luddisti, affrontavano il rischio della morte o della prigione. Gli scioperanti
affrontavano la prospettiva ancora più terribile di un lento affamamento:
scendendo in lotta sapevano che avrebbero dovuto sopportare ogni giorno per
tutta la durata dello sciopero la visione delle proprie mogli e dei propri figli
affamati; e sapevano anche che, terminato lo sciopero, il padrone avrebbe
trovato prima o poi il modo di vendicarsi.
Molte difficoltà
all'organizzazione di scioperi nascevano dalla natura stessa della classe
operaia. Quando gli operai di una fabbrica scioperavano, il padrone tentava di
reclutare nella massa dei disoccupati dei «crumiri», cioè dei
lavoratori disposti a prendere il posto degli scioperanti. Larga parte dei
lavoratori impiegati nelle fabbriche era poi costituita da donne e, almeno agli
inizi, da ragazzi, che difficilmente potevano essere organizzati e raramente
potevano affrontare i sacrifici che comportava la partecipazione ad uno
sciopero. Ma anche le donne e i ragazzi finirono per prendere parte alle lotte.
Ecco come nelle memorie di un operaio riemerge l'immagine di uno sciopero
avvenuto nel 1836 in una zona industriale degli Stati Uniti:
...
Quando si seppe che ci sarebbe stata una riduzione dei salari ci fu un generale
moto d'indignazione e gli operai decisero di scioperare. Così fu fatto.
Le industrie, abbandonate dai lavoratori, furono costrette a chiudere. Dalle
diverse fabbriche le ragazze si mossero in corteo verso il luogo della riunione.
Parlarono alcuni vecchi militanti operai. Poi una delle ragazze salì sul
podio ed espresse i sentimenti delle sue compagne in un discorso molto chiaro,
dicendo che era loro dovere resistere ad ogni tentativo di ridurre i salari. Era
la prima volta che una donna osava parlare in pubblico e la cosa suscitò
stupore tra quanti avevano ascoltato il discorso. Cosa ancora più
stupefacente, si seppe che in uno stabilimento era stata una ragazzetta di
undici anni a guidare le compagne fuori dalla fabbrica...
Ferimenti,
uccisioni, arresti, deportazioni accompagnavano d'altra parte anche le lotte
condotte con la pacifica arma dello sciopero. Se il padrone arruolava crumiri,
gli operai rispondevano con il «picchettaggio», ossia la formazione di
squadre di sorveglianza incaricate di impedire l'ingresso dei crumiri in
fabbrica. In questi casi scontri e violenze erano frequenti e qualunque
incidente offriva alla polizia un buon pretesto per intervenire con la sua
abituale brutalità; quanto ai giudici ed ai tribunali, essi non esitavano
a condannare gli scioperanti applicando, nell'interesse dei padroni, leggi
formulate da un Parlamento che, in forza delle leggi elettorali censitarie, era
stato eletto dai padroni stessi.
Gli scioperi sono sempre stati una
difficile forma di lotta e non deve stupire il fatto che le associazioni operaie
inglesi abbiano raccolto nelle loro prime esperienze, assieme a molti successi,
moltissime sconfitte. Ma anche quando gli operai uscivano sconfitti e la fame li
costringeva a tornare al lavoro, raramente il padrone aveva motivo di
rallegrarsi della propria vittoria. A parte le perdite subite in termini di
mancata produzione e di mancato profitto, ogni sciopero gli ricordava
l'esistenza di una tenace contestazione operaia che in qualsiasi momento poteva
saltar fuori di nuovo: in altre circostanze, altri scioperi o altre forme di
resistenza sarebbero tornati a colpirlo.
SCIOPERO, CRUMIRO, PICCHETTAGGIO
«Sciopero» è un termine composto
dal prefisso sottrattivo ex- e dal latino opera = «lavoro»: vuol dire
in sostanza sottrarsi al lavoro. «Crumiri» (dall'arabo khrumir)
è il nome di alcune popolazioni della Tunisia stanziate ai confini con
l'Algeria e tradizionalmente dedite al contrabbando tra i due Paesi. Nel 1881
quella del contrabbando dei Crumiri diventò improvvisamente (e
artificiosamente) una gravissima questione internazionale: di fronte
all'incapacità del Bey di Tunisi di reprimere efficacemente il fenomeno,
i Francesi si impadronirono del Paese, che trasformarono in un loro
protettorato. Da allora il termine ha prima assunto un generico significato
spregiativo ed ha poi finito per indicare in modo specifico gli operai che si
rifiutano di scioperare: forse perché lavorano «di
contrabbando», o, più probabilmente, perché fanno il gioco
del nemico, così come i Crumiri tunisini hanno fatto il gioco dei
Francesi.
«Picchettaggio» viene dal francese piquet, che
significa «palo», «piolo». Nel Seicento piquet ha cominciato
a indicare anche piccoli distaccamenti di cavalleria (forse per il fatto che i
cavalli pronti all'impiego erano legati al palo) e poi, per estensione, un
qualsiasi piccolo reparto di truppa con funzioni speciali: di sorveglianza, di
scorta, d'onore, ecc. Infine, per analogia, sono stati detti
«picchetti» i gruppi di scioperanti che sorvegliano gli ingressi delle
fabbriche per impedire ai crumiri di entrare al lavoro (o almeno per insultarli
a dovere).
IL «BUON RE FILIPPO»
Sin dai primi tempi, in tutti i Paesi, gli
operai avevano dovuto lottare contro l'ostilità delle autorità
statali, che proibivano le associazioni dei lavoratori e gli scioperi e che con
arresti, processi, uccisioni cercavano di mantenere l'ordine a beneficio dei
padroni. La classe operaia tuttavia si fece spesso delle illusioni circa le
buone intenzioni delle autorità e molte volte sperò che i poteri
pubblici (Governo, magistratura, Parlamento ecc.) potessero assumere un
atteggiamento neutrale nei conflitti di lavoro. Queste illusioni sono quasi
sempre cadute e contro di esse si è presto affermato il principio che
nella lotta per la liberazione dall'oppressione capitalistica le classi
lavoratrici non possono fare assegnamento che sulle proprie forze.
In
Francia nel luglio 1830 una sollevazione popolare aveva cacciato dal trono, come
sappiamo, Carlo X, l'ultimo re legittimo della dinastia dei Borboni e il suo
posto era stato preso da Luigi Filippo d'Orléans. Nelle giornate
insurrezionali del luglio gli operai erano stati i combattenti più attivi
e coraggiosi e da parte delle nuove autorità politiche non mancarono lodi
e riconoscimenti per il loro valore e il loro patriottismo. Gli operai d'altra
parte, pur non avendo guadagnato nulla nell'insurrezione, avevano fiducia nel
nuovo re: «il buon re Filippo» lo chiamavano. Perciò quando con
il ritorno della normalità ripresero come prima i conflitti di lavoro,
gli operai si rivolsero alle autorità sperando di trovare in esse degli
arbitri amichevoli e comprensivi: portavano al re petizioni, muovendosi in
corteo con la bandiera tricolore in testa, oppure si rivolgevano ai prefetti e
ai capi della polizia per ottenere riduzioni dell'orario di lavoro o aumenti di
salario. Le loro richieste non furono mai accolte; ciononostante ancora nella
primavera del 1831 ci furono a Parigi dimostrazioni operaie in cui le grida di
«Pane, lavoro, libertà!» si confondevano con quelle di
«Viva il re!».
Ciò che fece crollare questa ingenua
fiducia furono i fatti di Lione del novembre 1831. A Lione, come del resto in
tutta la Francia, il costo della vita andava aumentando, ma i salari erano
sempre gli stessi. In breve la situazione divenne insostenibile. Gli operai
delle numerose fabbriche di seterie della città chiesero un ragionevole
aumento e si rivolsero al prefetto perché intervenisse nella questione
con la sua autorità. Il prefetto accettò di convocare una
commissione mista di fabbricanti e di operai, la quale stabilì una
tariffa salariale che avrebbe dovuto assicurare ai lavoratori un minimo per
vivere. Una parte dei fabbricanti però rifiutò di applicare la
tariffa e il 21 novembre gli operai indissero grandi manifestazioni di protesta.
Questa volta le autorità vollero provare la maniera forte e fecero
intervenire l'esercito per disperdere i dimostranti. I soldati aprirono il fuoco
sulla folla, ma gli operai opposero una vigorosa resistenza e in capo a tre
giorni di lotta si impadronirono dell'intera città: sebbene privi di una
solida organizzazione, avevano vinto. A questo punto sorse il problema di come
utilizzare la vittoria. Alcuni gruppi tentarono di proclamare la repubblica e di
dare in questo modo un significato politico all'insurrezione. Ma la stragrande
maggioranza degli insorti era ancora convinta che la classe operaia non dovesse
impicciarsi di politica e nonostante il comportamento dell'esercito regio si
proclamò di nuovo assolutamente devota a Luigi Filippo, re dei Francesi.
Alla fine le autorità, che erano state cacciate da Lione a prezzo di una
lotta sanguinosa, rientrarono in città richiamate dagli insorti stessi.
Ma appena ebbero riacquistato il controllo della situazione arrestarono decine
di militanti operai e abolirono ogni tariffa salariale. Così una grande
vittoria si trasformò in una dolorosa sconfitta.
I fatti del
novembre 1831 insegnarono molte cose alla classe operaia francese. Insegnarono
che gli operai armati potevano battere anche un grosso esercito regolare, che
delle autorità dello Stato (e in primo luogo dei re) non ci si poteva
fidare, giacché esse erano le naturali alleate dei padroni, che era
inutile dichiarare di non voler fare politica dal momento che le autorità
politiche si schieravano contro i lavoratori anche nelle lotte puramente
economiche, e infine che era necessario organizzare la resistenza operaia in
modo che potesse continuare anche dopo le inevitabili sconfitte.
A Lione
dopo il novembre del 1831 l'organizzazione operaia ebbe un grandioso sviluppo;
la stessa cosa avvenne in quasi tutte le zone industriali della Francia. Di
fronte a ciò il Governo pensò di limitare drasticamente il diritto
di associazione. Le organizzazioni operaie reagirono alla minaccia scendendo di
nuovo nelle piazze. A Lione tra il 9 e l'11 aprile 1834 si combatté
aspramente. La città, occupata dagli operai, venne riconquistata strada
per strada da una armata di ventimila soldati, che compirono innumerevoli stragi
e devastazioni. Il 13 aprile, in seguito ad una provocazione poliziesca, insorse
Parigi: le autorità avevano provocato i disordini perché volevano
dare una lezione a tutti gli oppositori. Il generale Bugeaud prima di iniziare
la repressione disse alle truppe: «Bisogna far piazza pulita. Camerati,
siate spietati». E spietati i camerati del generale furono davvero: i
racconti dei testimoni di quei fatti sono raccapriccianti.
La sera del 14
aprile il massacro terminò. I membri del Parlamento andarono da Luigi
Filippo per ringraziarlo per quello che aveva fatto per il mantenimento
dell'ordine. Rispondendo ai loro ringraziamenti, «il buon re Filippo»
disse compiaciuto: «È stata davvero una buona lezione per tutti
coloro che hanno avuto tante volte la criminale audacia di attaccare il nostro
governo».
I CARTISTI
La solidarietà operaia si espresse
innanzi tutto nella costruzione di organizzazioni sindacali e di mutuo soccorso
che affrontavano con sistemi diversi i problemi economici dei lavoratori: il
salario, la durata del lavoro, le condizioni sanitarie, l'abitazione,
l'assistenza. Ma la società fondata sulla cooperazione che gli operai
avevano cominciato a concepire come negazione di quella in cui erano costretti a
vivere non poteva essere veramente costruita se non affrontando anche quel tipo
di problemi che si dicono politici e che riguardano l'organizzazione stessa
della società nel suo complesso. Ma naturalmente agli operai il diritto
di occuparsi di politica non era riconosciuto ed essi se lo sono dovuto
conquistare con dure lotte.
La grande maggioranza degli operai viveva in
condizioni di tale abbrutimento che la possibilità di occuparsi
seriamente di politica esulava totalmente dai suoi orizzonti. Anche tra gli
operai più impegnati, del resto, molti erano convinti che prima di
pensare ad una riforma dello Stato fosse necessario lottare per conquistare
più umane condizioni di vita e di lavoro, organizzando fabbrica per
fabbrica e mestiere per mestiere l'unità dei lavoratori. Solo nel 1838
ricomparve nel programma del movimento operaio inglese la vecchia
«utopia» democratica del suffragio universale.
L'8 maggio di
quell'anno l'Associazione generale degli operai di Londra (London Working Men's
Association) pubblicava e trasmetteva a tutte le organizzazioni operaie
d'Inghilterra una carta di rivendicazioni, la Carta del Popolo, in cui si
chiedeva l'estensione del diritto di voto a tutte le persone adulte. Il 28
maggio la Carta era presentata in una riunione pubblica a Glasgow: al comizio
erano presenti duecentomila lavoratori con centinaia di bandiere e quaranta
bande musicali. Nasceva così il movimento cartista che per dieci anni
raccolse la forze operaie della Gran Bretagna. Nell'intenzione dei suoi
promotori il movimento cartista avrebbe dovuto indirizzare al Parlamento
ripetute petizioni per sollecitare l'accoglimento della Carta. Qualora il
Parlamento fosse rimasto sordo alla volontà popolare, in tutto il Paese e
in tutti i settori produttivi gli operai avrebbero dovuto proclamare uno
sciopero e sostenerlo indefinitivamente, sino alla vittoria. In questo modo lo
sciopero, da arma puramente economica veniva trasformata dai cartisti in
strumento di trasformazione anche politica della società, che si
affiancava al più antico metodo dell'insurrezione armata.
La
richiesta del suffragio universale dava al movimento cartista un carattere
genericamente democratico che poteva raccogliere molti consensi anche fuori
degli ambienti operai. I borghesi democratici, infatti, erano anch'essi
favorevoli al suffragio universale e, almeno all'inizio, furono alleati del
cartismo. Si trattava però di un equivoco. Il Cartismo era nato come
movimento schiettamente operaio e per i capi della Working Men's Association il
diritto di voto era proprio uno strumento di lotta anticapitalistica e di
riforma sociale. Un sacerdote metodista, Joseph Rayno Stephens, che prese parte
attivamente all'agitazione cartista, in un comizio a Manchester
sottolineò con semplicità ed efficacia il carattere sociale del
movimento:
... Il Cartismo, amici miei, non è una questione
politica; qui non si tratta solo di conquistare il diritto di voto. Il Cartismo
è innanzi tutto una questione di forchetta e di coltello. La Carta per
noi significa buone abitazioni, buoni cibi, buone condizioni di vita, più
brevi orari di lavoro...
Nel Cartismo, insomma, le richieste di
democrazia politica, avevano una connotazione nettamente socialista.
All'internodi questa comune ispirazione socialista si incontravano naturalmente
le tendenze più diverse. C'erano i riformisti (come i membri della
Working Men's Association) che contrari alle insurrezioni ed ai colpi di mano,
credevano nell'efficacia della persuasione, dell'educazione e vedevano nella
democrazia politica l'unica strada possibile verso la realizzazione di una
società più umana. E c'erano i rivoluzionari che chiamavano gli
operai alla lotta armata e alla distruzione violenta dell'ordine sociale
esistente. Tra i rivoluzionari c'era anche un predicatore, un certo Stephen che
dava un'intonazione religiosa ai suoi appelli alla rivoluzione
sociale:
... Se, contro il comandamento di Dio, voi che producete
ogni ricchezza non avete il diritto di godere il frutto delle vostre fatiche,
ebbene allora combattete pure a coltello i vostri nemici, perché i vostri
nemici sono i nemici di Dio. Se il fucile e la pistola, se la spada e la picca
non bastano, le donne impugnino le loro forbici e i ragazzi gli aghi e gli
spilloni. E se ogni arma mancasse, il fuoco, sì, il fuoco, il fuoco
ripeto, appiccate il fuoco ai palazzi...
Il Cartismo fu in Europa il
primo grande movimento di massa volto ad una trasformazione socialista della
società. Per la prima volta dovette affrontare, nel Paese capitalistico
più avanzato del mondo, difficili problemi di organizzazione e di
strategia rivoluzionaria: riforme o rivoluzione? sciopero generale
rivoluzionario o insurrezione armata? alleanza con i borghesi democratici, che
tentavano di utilizzare ai propri fini le agitazioni operaie, o coerente lotta
di classe fondata esclusivamente sulla forza proletaria e diretta contro tutti i
padroni, democratici o no? Il Cartismo mise alla prova dottrine e metodi
diversi. Commise errori e subì sconfitte.
Incertezze e contrasti
interni ne indebolirono l'azione. Ma il Cartismo seppe trasformare la rivolta
delle folle operaie in uno sforzo ordinato e coerente di opposizione al sistema
capitalistico. In questo senso esso rappresentò un'esperienza decisiva
nella storia del movimento operaio dell'Occidente.
GLI OPERAI E LA POLITICA
Una sera di gennaio del 1792 nove uomini si
erano dati appuntamento nella taverna «La Campana» di Exeter Street a
Londra. Mentre cenavano con pane e formaggio innaffiati da qualche boccale di
birra, avevano parlato delle solite cose: le difficoltà della loro umile
esistenza, il rincaro insopportabile di tutti i generi di prima
necessità. Solo alla fine del pasto, accese le pipe, affrontarono
l'argomento per il quale si erano incontrati. Erano persone per bene, sobrie,
abili e attive nel loro lavoro. Come gli altri avventori della taverna,
appartenevano al popolo minuto degli artigiani, dei bottegai, degli operai. Ma
la questione che avevano preso a discutere era un argomento insolito per gente
della loro condizione: la riforma del Parlamento. In Inghilterra esisteva
già da molto tempo un Parlamento che condivideva con il re il potere di
fare le leggi e di governare il Paese. Ma il sistema elettorale faceva in modo
che solo gli aristocratici e i borghesi potessero contare in Parlamento. In
generale occuparsi di politica era un privilegio riservato a poche
persone.
Quella sera quei nove uomini si trovarono d'accordo nel giudicare
ingiusto tale privilegio e nel ritenere necessaria una riforma che estendesse il
diritto di voto ad ogni persona adulta senza esclusione di classe. Essi
perciò decisero di fondare un'associazione che riunisse tutti quelli che
condividevano questa convinzione. Nacque così la London Corresponding
Society, che ebbe come scopo immediato di entrare in corrispondenza con i gruppi
analoghi che erano già sorti o che andavano sorgendo in altre
città, in modo da allargare in tutto il Paese e in tutte le categorie
sociali l'interesse e le discussioni intorno ai problemi della riforma
parlamentare. In quindici giorni la Società raccolse diverse adesioni e
la sua attività si sviluppò rapidamente, suscitando le paure delle
autorità: cominciarono le persecuzioni, gli arresti, i processi, le
condanne.
La London Corresponding Society è considerata da molti la
prima organizzazione politica della classe operaia inglese. In realtà,
come abbiamo visto, i fondatori e i membri della Società non erano tutti
appartenenti a quella nuova classe operaia che era nata in Inghilterra da pochi
decenni con il sorgere della grande industria meccanizzata: c'erano con loro
artigiani, negozianti e perfino piccoli imprenditori e intellettuali poveri.
Anche l'obiettivo che si prefiggeva la Società, cioè la riforma
del Parlamento e l'estensione del diritto di voto, non era un obiettivo
specificatamente operaio, giacché non interessava direttamente la vita
degli operai e l'organizzazione del lavoro e della produzione nella
società industriale. La Società insomma si rivolgeva tanto agli
operai quanto ai lavoratori di altre categorie in quanto ciascuno di loro era
anche un cittadino inglese e come tale avrebbe dovuto avere il diritto di
scegliere i propri rappresentanti al Parlamento.
Anche se non era
un'organizzazione prettamente operaia, la Società rappresentava qualcosa
che avrebbe avuto grande importanza per il futuro sviluppo del movimento
operaio. Essa rifiutava l'idea (che a quei tempi era comunemente accettata) che
solo i ricchi potessero e dovessero provvedere alle necessità e agli
interessi dei lavoratori. Essa per la prima volta chiamava i lavoratori a fare
da sé, ad organizzarsi in modo autonomo e ad occuparsi direttamente di
politica.
SOCIALISMO E COMUNISMO
Le parole socialismo e comunismo non hanno
avuto sempre lo stesso significato ed anche oggi sono usate in modi diversi,
sicché qualche volta le vediamo adoperare come sinonimi, altre volte
addirittura come contrari. Il termine «comunismo» è più
antico di «socialismo». Per molto tempo ha indicato quelle dottrine
che auspicavano che tutti i beni fossero messi in comune, in modo da realizzare
l'eguaglianza delle fortune tra i membri di una stessa comunità. Questo
tipo di dottrine era frutto della fantasia di filosofi e di poeti che
progettavano società perfette, senza però preoccuparsi di
stabilire in che misura esse fossero realizzabili. In verità quasi
nessuno pensava che questi progetti dovessero o potessero essere realizzati.
L'immagine di una perfetta società comunistica in cui tutti gli uomini
fossero uguali aveva innanzi tutto un valore morale, nel senso che il confronto
tra questo modello ideale e la realtà serviva a mettere in evidenza i
mali della diseguaglianza e dell'ingiustizia sociale e a sollecitare nella
coscienza di ogni uomo sentimenti di fratellanza, di solidarietà e di
benevolenza nei confronti del prossimo.
Il comunismo moderno, nato tra la
fine del XVIII secolo e i primi decenni del secolo XIX, quando cioè in
Europa era ormai avviata la rivoluzione industriale che metteva di fronte
capitalisti e proletari è molto diverso. In primo luogo il comunismo
moderno non è più una dottrina elaborata a tavolino da qualche
intellettuale, ma è un ideale che sorge dalle condizioni di vita e dalle
lotte della classe operaia. In secondo luogo il comunismo non è
più soltanto un appello morale rivolto genericamente ad ogni uomo
affinché si adoperi a mitigare e a correggere i mali della
società: il comunismo è un concreto programma politico volto a
cambiare dalle fondamenta la struttura della società capitalistica
mediante l'organizzazione delle forze lavoratrici.
In terzo luogo nel
comunismo moderno cambia il modo stesso di intendere la comunanza dei beni. Il
comunismo antico l'aveva per lo più interpretata come uguale
distribuzione delle ricchezze, ossia beni di consumo (cibo, vestiario ecc.)
senza proporsi (almeno nella maggioranza dei casi) una riforma del modo di
produzione di tali beni. Perciò nel comunismo antico la proprietà
privata dei mezzi di produzione (terra, macchine e strumenti di lavoro, materie
prime ecc.) non era necessariamente condannata, anche se era prevista qualche
forma di limitazione e di controllo della proprietà stessa. Al contrario,
il comunismo moderno in quanto nasce come critica della società
capitalistica, sa bene che l'ineguale distribuzione delle ricchezze e ogni altra
ingiustizia sociale sono solo una conseguenza del monopolio dei mezzi di
produzione detenuto dalla classe dei capitalisti. La diseguaglianza va dunque
debellata abolendo la proprietà privata dei mezzi di produzione e
sostituendola con forme di gestione collettiva da parte di tutti i lavoratori
(«socializzazione» dei mezzi di produzione).
La parola
«socialismo» è entrata nell'uso comune da non più di un
secolo e mezzo. Socialisti furono chiamati all'inizio quei pensatori che
criticavano il sistema capitalistico mettendone in rilievo i difetti e le
ingiustizie. Furono questi primi socialisti che, partendo dal presupposto che
ogni ricchezza è prodotta dal lavoro, denunciarono il profitto dei
capitalisti come un'odiosa appropriazione del frutto del lavoro altrui. Essi non
si limitarono perciò a chiedere per gli operai più umane
condizioni di vita, come facevano molti altri studiosi e uomini politici spinti
da preoccupazioni puramente umanitarie: essi rivendicarono il diritto di ogni
lavoratore ad ottenere l'intero prodotto del proprio lavoro. Ciò
però significava l'eliminazione del sistema capitalistico o almeno una
sua radicale riforma nel senso di una società fondata sulla
collaborazione, nella quale la classe lavoratrice nel suo complesso potesse
avere il controllo dei mezzi di produzione. Anche il socialismo, come il
comunismo, aveva perciò come obiettivo fondamentale la socializzazione
dei mezzi di produzione.
In che cosa si differenziano dunque il socialismo
e il comunismo? Si può dire innanzi tutto che mentre le teorie
comunistiche richiedevano la socializzazione integrale dei mezzi di produzione,
molte teorie socialistiche si accontentavano di una socializzazione solo
parziale, limitata per esempio al settore delle banche o a quello della terra
ecc. In secondo luogo il socialismo, a differenza del comunismo, non è
rigidamente egualitario. Secondo la distinzione fatta da Karl Marx, la
società socialista è quel tipo di organizzazione sociale in cui a
ciascuno è richiesto un lavoro adeguato alle sue capacità e
ciascuno viene compensato in proporzione al lavoro fatto; la società
comunista, invece, è quella in cui ciascuno contribuisce come può
alla produzione della ricchezza comune ed è compensato in rapporto ai
suoi bisogni, non alle sue capacità produttive.
In terzo luogo (ed
è forse la differenza più importante) il comunismo rappresenta la
scomparsa completa delle classi e di ogni altra divisione sociale, compresa
quella tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra funzioni direttive e
funzioni subalterne; perciò nel comunismo scompare la distinzione tra
governanti e governati, scompaiono gli strumenti di coercizione (polizia,
tribunali ecc.) volti ad imporre l'osservanza delle leggi e delle disposizioni
emanate dalle autorità, scompare lo Stato e ad esso si sostituisce
l'autogestione della società. Nel socialismo, invece continua ad esistere
uno Stato, con la sua burocrazia, con un suo apparato di repressione, con un suo
sistema di leggi, di norme, di regolamenti.
È necessario aggiungere
un'ultima osservazione. Da oltre settant'anni, e cioè a partire dalla
rivoluzione russa del 1917, la parola «comunismo» viene di solito
usata per indicare i partiti e i regimi nati da quell'avvenimento o che comunque
si richiamano ad esso. Veninano così chiamati «comunisti» i
regimi esistenti nell'ex URSS, in Cina, in molti Paesi dell'Europa
orientale e i partiti che, nel resto del mondo, erano – e in alcuni casi
sono - in qualche modo collegati ad essi. Questi regimi e questi partiti hanno
sempre proclamato di voler realizzare il comunismo e in questo senso non
è sbagliato chiamarli comunisti.
Solo in questo senso, però,
giacché in senso proprio, essendo il comunismo la negazione di qualsiasi
potere statale, espressioni come «regime comunista» o «Stato
comunista», sono pure e semplici contraddizioni in termini. In ogni caso i
regimi detti «comunisti» non hanno né realizzato il comunismo
né avvicinato in qualche misura la sua realizzazione. Si può anzi
dubitare che abbiano messo in atto anche soltanto una qualche forma di
socialismo: l'espressione «socialismo reale», che è usata per
indicare quel che i regimi comunisti sono stati capaci di fare, vuole appunto
sottolineare che esso non ha niente a che fare con i princìpi e gli
ideali del socialismo.
UNA DEMOCRAZIA PISTOLERA
Dall'altra parte dell'Atlantico la
Rivoluzione industriale aveva investito abbastanza presto gli Stati Uniti, che
rappresentavano la prima e la più grande democrazia dell'Occidente e che
erano destinati a diventare nel corso di un secolo o poco più la guida
indiscussa dell'Occidente. Lo sviluppo economico degli Stati Uniti, però,
avrebbe avuto caratteristiche assai diverse da quelle dell'Europa. Uno dei
principali fattori di crescita degli Stati Uniti fu infatti la
disponibilità pressoché illimitata di terre, che permise di
assorbire senza traumi lo sviluppo della popolazione e l'instaurazione di
rapporti capitalistici di produzione: la violenza che in Europa esplodeva nei
conflitti sociali, negli Stati Uniti veniva dirottata almeno in parte verso la
frontiera, contro Indiani e Messicani. Un altro essenziale fattore di sviluppo
fu l'incessante flusso di emigranti dall'Europa, che, in una situazione in cui
la terra era sovrabbondante, i capitali non mancavano e il punto debole era
costituito appunto dalla manodopera (la risorsa tendenzialmente più
scarsa), consentì sempre di evitare strozzature drammatiche. Gli Stati
Uniti, un grande Paese libero, ricco, lontano ma pure inconfondibilmente
europeo, esercitavano una straordinaria attrattiva su quegli Europei che in
patria erano alle prese con l'oppressione politica o con la miseria (la miseria
tradizionale o quella tutta nuova prodotta dall'industrializzazione). Allo
stesso modo, nonostante i pericoli e i disagi a cui andavano incontro i
pionieri, l'Ovest esercitava una straordinaria attrattiva sugli Americani. Le
terre vergini sembravano offrire illimitate possibilità di arricchimento
e di affermazione a chiunque avesse coraggio e Spirito d'intraprendenza. La
frontiera doveva diventare un po' il simbolo del modo di vita americano:
libertà, competizione, successo.
Molti, in Europa e negli Stati
Uniti, erano convinti che l'abbondanza di terre e lo sfruttamento delle
incalcolabili risorse dell'Ovest avrebbero assicurato alla società
americana, nel rispetto di forme di convivenza libere e democratiche, un
pacifico e ininterrotto sviluppo verso un sempre maggiore benessere. Gli
avvenimenti successivi avrebbero dimostrato che queste speranze erano
scarsamente fondate. Per assicurarsi il controllo dei territori dell'Ovest gli
Stati Uniti dovettero aggredire e spogliare a più riprese il Messico e
poi impostare una politica di deportazione e di sterminio delle popolazioni
indiane. La frontiera era il simbolo dell'America anche negli aspetti più
inquietanti della sua esperienza quotidiana: l'assuefazione alla
brutalità, alla violenza, alla sopraffazione dei più deboli. Forse
gli Stati Uniti erano il Paese più democratico dell'Occidente, ma si
trattava di una democrazia assai poco pacifica e che mostrava un disprezzo per i
valori dell'umanità e per il diritto delle genti che non era certo
inferiore (e spesso risultava nettamente superiore) a quello delle peggiori
monarchie assolute del vecchio continente.
Era vero, invece, che
l'utilizzazione delle risorse dei territori dell'Ovest avrebbe contribuito in
modo decisivo alla crescita economica degli Stati Uniti. Il Governo degli Stati
Uniti possedeva ufficialmente tutte le terre delle regioni non ancora
colonizzate. Per favorire e insieme per controllare l'imponente fenomeno della
colonizzazione, il Governo metteva in vendita le terre da dissodare fissandone
l'estensione e il prezzo. Ancora nel 1800 non era possibile acquistare lotti
inferiori a 320 acri (130 ettari circa), sicché per entrarne in possesso
era necessario sborsare una notevole somma di denaro. Ma nel 1804 la quota
minima fu portata a 160 acri e nel 1820 ad appena 80; contemporaneamente il
prezzo venne ridotto da due dollari a poco più di un dollaro per
acro.
Questi provvedimenti favorirono l'afflusso nell'Ovest di gente di
modeste condizioni economiche e consentirono la formazione in quelle regioni di
una classe di piccoli e medi proprietari terrieri. Con questi caratteri la
colonizzazione avanzò celermente sino al Mississippi. Qui giunta,
però, si arrestò per lunghi anni. I coloni non si allontanavano
volentieri dalle terre umide e grasse che erano a oriente del gran fiume.
Dall'altra parte del Mississippi le condizioni ambientali erano poco
incoraggianti: sino alle Montagne Rocciose si estendevano le grandi pianure,
calde in estate e gelide in inverno e soggette a lunghi periodi di
siccità. Pochi gli alberi, scarsi i corsi d'acqua. Vi regnavano i
bisonti, i coyote, i serpenti e, soprattutto, le fiere tribù di Indiani
cacciatori a cui si erano aggiunti di recente circa centomila Pellirosse
costretti dall'avanzata dei bianchi ad abbandonare i loro antichi territori tra
gli Appalachi e il Mississippi. In parte a causa delle difficoltà del
clima e del suolo, in parte per timore degli Indiani, i coloni rinunciarono per
il momento ad occupare stabilmente la regione delle grandi pianure. Non
rinunciarono però ad attraversarla per dirigersi verso regioni più
ricche ed ospitali situate al di là delle Montagne Rocciose: la
California e l'Oregon.
La Gran Bretagna e gli Stati Uniti rivendicavano
entrambi la sovranità sul territorio dell'Oregon dove mercanti dei due
Paesi si erano spinti fin dalla fine del Settecento per acquistare pellicce
dagli Indiani. Per parecchi anni gli Americani mostrarono solo un modesto
interesse per questa regione e i mercanti inglesi, che avevano il loro centro a
Fort Vancouver, poterono operarvi liberamente e proficuamente. Intorno al 1833,
però, con il pretesto che gli Indiani erano ormai pronti a convertirsi al
cristianesimo, gli Americani mandarono nell'Oregon diversi missionari, che
fondarono degli stabilimenti a Walla Walla e nella fertile vallata del
Willamette. Gli Indiani non mostrarono affatto di interessarsi alla religione
dei bianchi, ma l'insediamento dei missionari servì a far conoscere agli
americani dell'Est le grandi attrattive del Paese (la fertilità del
terreno, la salubrità dell'aria, la ricchezza di boschi, di fiumi, di
pascoli) e aprì la strada all'afflusso di nuovi coloni. In capo ad un
decennio una forte corrente d'emigrazione aveva preso a dirigersi verso
l'Oregon, e nel 1846 gli Stati Uniti poterono trattare da una posizione di forza
la spartizione del territorio con la Gran Bretagna.
La California è
uno dei territori che gli Stati Uniti strapparono al Messico negli anni
Quaranta. Gli Americani che vi si erano stabiliti prima di quella data erano
poche centinaia, ma proprio nel gennaio del 1848, qualche settimana prima
dell'annessione, venne scoperto nella regione l'oro. In tutta l'America si
diffuse allora la febbre dell'oro e turbe di cercatori si spinsero con tutti i
mezzi verso la California. Nelle località dove era segnalata la presenza
dell'oro intere cittadine sorgevano da un giorno all'altro; esse però
venivano abbandonate altrettanto rapidamente quando i giacimenti si esaurivano o
quando la notizia di nuovi più ricchi ritrovamenti spingeva altrove la
folla dei cercatori. Nonostante il suo carattere tumultuoso, lo sviluppo della
California proseguì e si consolidò. L'oro non era la sola
ricchezza della regione. Le sue terre erano tra le più fertili d'America
e nel suo sottosuolo un altro prodotto attendeva di essere scoperto e di
soppiantare l'oro come causa di una nuova «febbre»: il
petrolio.
L'OREGON E LA CALIFORNIA
Nella prima metà dell'Ottocento
l'avanzata dei coloni americani raggiunse la vallata del Mississippi. Di qui,
attraverso le grandi pianure a oriente delle Montagne Rocciose, i pionieri si
spinsero verso le regioni dove era nata una nuova frontiera: l'Oregon e la
California. I coloni partivano dalla città di Indipendence, sul Missouri,
che era chiamata «la porta della prateria» perché ad essa
facevano capo le principali piste del Far West. Le carovane che comprendevano
decine di carri coperti percorrevano in un giorno 30 o 35 chilometri con il bel
tempo, 10 o 15 se il tempo era brutto; la sera si faceva tappa e i carri
venivano disposti in quadrato per difendersi dalle belve e dagli eventuali
attacchi di Indiani ostili. La pista dell'Oregon era lunga più di tremila
chilometri e occorrevano da quattro a cinque mesi per percorrerla. Nel 1841
partì il primo grande convoglio; nel 1845 almeno cinquemila americani
avevano compiuto lo stesso percorso. La pista della California si staccava da
quella dell'Oregon poco prima del fiume Snake, attraversava il deserto del
Nevada e la Sierra Nevada e terminava a Sutter's Fort, nella valle del
Sacramento. Complessivamente il viaggio per la California era ancora più
lungo e massacrante di quello per l'Oregon. La terza pista che partiva da
Indipendence era diretta a Santa Fé, una città in territorio
messicano fondata nel Seicento dagli Spagnoli. La pista era stata aperta tra il
1820 e il 1830 dai mercanti americani che commerciavano con il Messico. Furono
proprio questi mercanti che attraversarono per primi le pianure con i pesanti
carri coperti carichi di merci, sperimentando quel sistema di carovane
organizzate che avrebbe più tardi permesso la colonizzazione dell'Oregon
e della California. Anche Santa Fé, con tutto il territorio nel Nuovo
Messico, passò nel 1848 agli Stati Uniti.
L'annessione dell'Oregon e della California
IL QUARANTOTTO
«Fare un quarantotto» vuol dire
fare confusione, baccano, mandare ogni cosa all'aria. Questo modo di dire
così frequente nel linguaggio familiare è legato all'impressione
che l'anno 1848 ha lasciato nella memoria degli Europei.
Di
«confusione» in quell'anno ce ne fu davvero molta: guerre,
insurrezioni, rivolte scossero da un capo all'altro il continente europeo. A
Berlino il re Federico Guglielmo IV fu costretto a permettere la convocazione di
un'Assemblea Costituente, Budapest e Praga insorsero contro l'esercito
austriaco; a Vienna le folle manifestarono chiedendo la Costituzione. Molti
governi caddero, molti sovrani nel tentativo di conservare il trono approvarono
in fretta e furia quelle riforme alle quali per decenni si erano tenacemente
opposti; perfino il papa, Pio IX, nel clima acceso di quei giorni, sembrò
diventare un riformatore. Parigi, che nel febbraio aveva dato il via all'ondata
rivoluzionaria, ebbe l'impressione di rivivere i momenti più
entusiasmanti della sua prima grande rivoluzione: il re Luigi Filippo era
fuggito, si tornava al suffragio universale e alla repubblica.
L'area
più violentemente scossa dall'ondata rivoluzionaria fu l'Impero
asburgico, dove in modo più evidente che altrove si incontrarono (e in
parte si scontrarono) la componente liberale e quella nazionale del movimento.
Mentre in Austria borghesia e mondo contadino si mobilitavano contro l'ordine
feudale e contro il governo autoritario, le nazionalità soggette
(Ungheresi, Italiani, Boemi, Slavi del sud) rivendicavano la propria autonomia.
Sotto queste spinte convergenti l'imperatore, costretto dovunque alla difensiva
sul terreno militare, dopo aver licenziato il vecchio Metternich, simbolo
dell'Europa della Restaurazione e della Santa Alleanza, dovette piegarsi a
concessioni di ogni tipo, nazionali e costituzionali.
L'Italia rientrava
per intero, direttamente o indirettamente, nell'area asburgica. La rivoluzione
ebbe il suo epicentro a Milano e Venezia, dove assunse caratteristiche
nettamente democratiche. Quasi subito però il movimento prese la forma di
una guerra di liberazione nazionale sotto la guida dei moderati: Carlo Alberto,
re di Sardegna, sostenuto dagli altri sovrani italiani (compreso il papa), era
infatti intervenuto contro l'Austria entrando in Lombardia con il suo esercito.
La coalizione antiaustriaca ebbe breve durata: i vari principi italiani (a
cominciare dal papa) ritirarono quasi subito i loro contingenti, un po' per
paura che le forze eversive prendessero il sopravvento su quelle moderate e un
po' per il fondato sospetto che la «guerra nazionale» servisse in
definitiva solo all'espansionismo sabaudo. Quanto a Carlo Alberto, dopo una
campagna condotta in modo stanco e incerto, tale da suscitare le legittime
diffidenze degli ambienti democratici piemontesi e lombardi, il 24 luglio 1848
fu sconfitto a Custoza dal maresciallo Radetzky (fin dal 1831 governatore
militare della Lombardia e dal 1849 al 1857 governatore generale) e costretto
all'armistizio.
Nel frattempo in Francia la Seconda Repubblica (come viene
chiamata), che era nata per l'azione concorde di borghesi e operai, aveva
sperimentato quanto fosse difficile mettere d'accordo le due componenti su una
piattaforma di democrazia politica e di riforme sociali. Il Governo provvisorio
nato in febbraio e a cui avevano partecipato esponenti operai e socialisti,
aveva proclamato il diritto al lavoro e per renderlo effettivo aveva istituito i
cosiddetti «Opifici Nazionali» (Ateliers Nationaux) destinati ad
assorbire manodopera disoccupata. Nell'aprile, però, le elezioni per
l'Assemblea Nazionale incaricata di elaborare la costituzione della nuova
repubblica francese avevano segnato la sconfitta dei gruppi radicali e
socialisti.
L'affermazione non solo dei repubblicani moderati, ma dei
monarchici dichiarati, legittimisti (ossia sostenitori dei Borboni) oppure
orleanisti (i nostalgici di Luigi Filippo) costituiva una palese sconfessione da
parte dell'elettorato, soprattutto di quello rurale, della politica sociale del
Governo provvisorio e stava a dimostrare quanto fosse isolata in Francia la
classe operaia. Si giunse di lì a poco allo scioglimento degli Opifici
Nazionali e questo provvedimento provocò, nel giugno, l'insurrezione
degli operai parigini. Soffocata nel sangue la rivolta operaia, la Costituente
concluse in pochi mesi i suoi lavori. Nel dicembre furono indette le elezioni
per il Presidente della Repubblica: sull'onda reazionaria e moderata che era
seguita alle sanguinose giornate di giugno e che si era espressa nella richiesta
di un «uomo forte» alla guida del Paese, vinse con larghissima
maggioranza il principe Luigi Napoleone, nipote del grande Napoleone e
pretendente alla sua successione. La Seconda Repubblica somigliava sempre di
più a una monarchia e presto lo sarebbe diventata.
Nonostante le
sconfitte e i ripiegamenti del movimento rivoluzionario europeo (ma in parte
proprio come reazione a questi), vi fu in diversi Stati italiani tra la fine del
1848 e l'inizio del 1849 una ripresa di iniziativa delle forze radicali. Centro
ideale della resistenza democratica fu Roma, dove nel febbraio del 1849,
cacciato il papa, fu proclamata la Repubblica, a capo della quale venne nominato
Giuseppe Mazzini. Nello stesso tempo il Governo piemontese, premuto dalle forze
radicali, ritentò la carta della guerra denunciando l'armistizio con
l'Austria; il suo esercito, male organizzato e peggio guidato fu nuovamente e
sonoramente sconfitto a Novara (2 marzo 1849) da Radetzky. Carlo Alberto,
contestatissimo da tutte le parti politiche, abdicò lasciando al figlio,
Vittorio Emanuele II, l'ingrato compito di concludere la pace.
L'Austria,
dopo aver ristabilito nell'estate del 1848 la situazione militare in Lombardia e
in Boemia (dove nel giugno il comandante della guarnigione imperiale aveva
schiacciato il movimento rivoluzionario bombardando Praga e istituendo una sorta
di dittatura militare) rivolse i suoi sforzi contro l'Ungheria che sotto la
guida di Kossuth (1802-1894) riuscì a resistere fino all'agosto del 1849.
Anche in Germania in un complicato gioco di finte e inganni tra governi (in
primo luogo quello della Prussia) e Parlamenti la controrivoluzione ebbe alla
fine il sopravvento e i programmi di unificazione della Germania furono lasciati
cadere insieme agli ideali democratici che sulle prime avevano ispirato il
movimento.
La bufera rivoluzionaria era passata dovunque venivano
ristabilite le forze conservatrici. In Italia la Repubblica romana fu assalita
da un corpo di spedizione francese che Luigi Napoleone (prossimo imperatore dei
Francesi col nome di Napoleone III) aveva pensato bene di organizzare per
conciliarsi i favori dei cattolici che lo sostenevano e della Chiesa; difesa da
Garibaldi, la Repubblica su sopraffatta ai primi di luglio. La resistenza di
Venezia, assediata dagli Austriaci e colpita da un'epidemia di colera, fu
piegata solo nell'agosto. A quel punto in Europa i giochi erano fatti: salvo il
caso della Francia, dove la Seconda Repubblica avrebbe presto lasciato il posto
al Secondo Impero, tornavano ovunque sovrani e governi temporaneamente
spodestati.
Il moto del Quarantotto aveva acceso un incendio generale e
improvviso, ma di corta durata. Gli erano mancati omogeneità di intenti e
coordinamento di iniziative. Gli obiettivi sembravano simili in tutti i Paesi:
libertà politica (e quindi nascita di regimi costituzionali, che
ponessero definitivamente termine all'assolutismo), indipendenza e unità
nazionale (e quindi ricomposizione dell'assetto europeo uscito dal Congresso di
Vienna sulla base del principio di nazionalità): il movimento però
era cresciuto senza riuscire mai a darsi un'effettiva unità. Vi erano
stati coinvolti gruppi sociali diversi (grande e piccola borghesia, classe
operaia, contadini) tutti con proprie aspirazioni e con interessi spesso in
contrasto. Ancora una volta, poi, come già era accaduto nelle precedenti
ondate rivoluzionarie, mentre erano stati soprattutto i gruppi sociali marginali
o le classi lavoratrici urbane (studenti, operai, piccoli borghesi, disoccupati)
a battersi nelle strade e ad assumere le iniziative più audaci, era
toccato ai membri dei gruppi sociali più influenti (professionisti,
intellettuali, proprietari, imprenditori capitalisti) assumere la guida del
movimento e interpretarne lo spirito.
Al di là delle comuni ma
generiche aspirazioni liberali, anche gli ideali più propriamente
politici del movimento erano risultati assai eterogenei: si andava dai liberali
moderati non contrari a compromessi con il vecchio regime e con i vecchi gruppi
dirigenti ai democratici e repubblicani estremi (Mazzini in Italia), o ai
socialisti (Louis Blanc in Francia). A frantumare il movimento in tante vicende
slegate c'erano stati infine i particolarismi e le rivalità nazionali (si
pensi soltanto, nell'ambito dell'Impero asburgico, ai contrasti che
tradizionalmente opponevano Tedeschi a Ungheresi, Slavi a Italiani, Ungheresi a
Slavi, Italiani a Tedeschi ecc.). Su tutto ciò potevano facilmente
innestarsi ambizioni dinastiche e giochi di potenza: la scelta
«nazionale» di Carlo Alberto e di Casa Savoia, ad esempio, era per
intero riconducibile a un disegno di ingrandimento del Regno di Sardegna a spese
del Lombardo-Veneto.
Di fronte alla divisione delle forze rivoluzionarie,
quelle della conservazione avevano mantenuto solidi strumenti di potere (a
cominciare dall'organizzazione delle forze armate) e vaste capacità di
intervento. Così, quando era parso che il vecchio equilibrio europeo
fosse definitivamente alterato e che uno dei suoi pilastri, l'Impero
multinazionale asburgico, fosse sul punto di crollare, quelle forze erano
riuscite a riprendere in mano la situazione.
Non si trattava però di
una seconda Restaurazione. Lo schieramento delle forze nazionaliste,
democratiche e liberali era stato indubbiamente sconfitto, ma i veri vincitori
non erano stati i reazionari, buoni al più a guidare la repressione, ma i
moderati, i sostenitori, cioè, del cambiamento nella continuità,
della necessità di cambiare qualcosa perché tutto più o
meno restasse come prima. In Italia il Piemonte, dopo la breve prevalenza di un
orientamento quasi democratico, tornò in mano ai moderati (di cui sarebbe
diventato geniale guida negli anni Cinquanta Camillo Benso conte di Cavour): a
Genova i bersaglieri piemontesi si rifecero delle sconfitte subite dagli
Austriaci soffocando nel sangue una rivolta democratica e popolare che chiedeva
la prosecuzione della guerra rivoluzionaria contro l'Austria. Nonostante tutto
però il nuovo re, Vittorio Emanuele II, confermò la scelta
nazionalista e liberale e dodici anni più tardi sarebbe stato premiato
diventando il primo re d'Italia.
In Francia Napoleone III, diventato
imperatore con un colpo di Stato sostenuto da tutti i conservatori e i
reazionari del Paese, fu costretto a dare al suo Impero da operetta un'impronta
semiliberale e per esempio, sul piano internazionale, ad appoggia re in funzione
antiaustriaca il Piemonte di Cavour. Anche nell'Impero asburgico, dove era
salito al trono il giovane Francesco Giuseppe, destinato a regnare per quasi
settant'anni, dopo una lunga parentesi di governo autoritario, centralista e
burocratico, si sarebbe cercato un compromesso con alcuni settori del movimento
nazionale e liberale associando gli Ungheresi ai Tedeschi nella direzione
dell'Impero (che fu detto, appunto, austro-ungarico).
Quanto alla Germania,
disperse le forze liberali e democratiche, la causa nazionale non fu lasciata
cadere: semplicemente, furono le forze conservatrici, le dinastie e i governi
dei diversi Stati tedeschi a raccoglierla e a farla trionfare. Spettò
alla maggiore potenza tedesca, la Prussia, guidata dal primo ministro Otto von
Bismarck, portare a compimento il processo di unificazione nazionale. Dopo una
vittoriosa guerra contro l'Impero asburgico, che servì a escludere ogni
possibile interferenza austriaca nella questione tedesca, e dopo aver
clamorosamente battuto la Francia di Napoleone III, che presumeva di poter
condizionare l'assetto politico della Germania, la Prussia fu in grado di
imporre la propria volontà agli altri Stati tedeschi: il 18 gennaio 1871
i principi tedeschi proclamarono il re di Prussia imperatore di
Germania.
Le "cinque giornate" di Milano
OPERAI SOCIALISTI E BORGHESI DEMOCRATICI
L'esperienza forse più significativa
delle difficoltà di collaborazione tra il movimento operaio e le correnti
democratiche della borghesia fu quella che si svolse in Francia tra il febbraio
e il giugno del 1848. Come sappiamo, a Luigi Filippo erano bastati pochi anni
per farsi odiare dagli operai francesi che all'inizio del suo regno avevano
riposto in lui speranze e fiducia. In breve però, i suoi atteggiamenti
autoritari, la ristrettezza della base politica della sua monarchia
costituzionale, la corruzione dei suoi ministri e dei suoi funzionari lo avevano
reso insopportabile anche ad una larga parte della borghesia.
La comune
opposizione alla monarchia avvicinò operai e borghesi democratici: gli
uni e gli altri lavorarono intensamente, in organizzazioni clandestine comuni, a
rovesciare il Governo. Nel febbraio del 1848, finalmente, in coincidenza di una
grave crisi economica che aveva fatto esplodere il malcontento generale, un
vigoroso movimento insurrezionale cacciò Luigi Filippo dalla Francia. Gli
insorti proclamarono la repubblica. Come già nel luglio del 1830, erano
stati soprattutto gli operai a combattere sulle barricate. Nel 1830 gli operai
francesi non avevano posto alcuna rivendicazione di potere, fidando
esclusivamente, per un miglioramento delle proprie condizioni, nella buona
volontà dei nuovi governanti. Nel febbraio del 1848, resi diffidenti
dall'esperienza passata, non si accontentarono più di promesse, ma
vollero che alcuni loro rappresentanti entrassero nel Governo.
Uno dei due
rappresentanti operai era un noto esponente socialista, Louis Blanc; l'altro un
semplice meccanico, conosciuto col nome di Albert. Tutti gli altri membri del
Governo erano borghesi. Albert non contò mai nulla; Louis Blanc fu subito
isolato e poté fare assai poco; tuttavia fu più tardi indicato
come il responsabile di tutti gli errori del Governo. L'esperienza del 1848 in
Francia indicò come la partecipazione isolata di alcuni esponenti operai
ad un Governo borghese, anche se democratico non sia assolutamente sufficiente a
garantire un indirizzo stabile di riforme sociali.
Una delle prime
dichiarazioni del Governo nato dalla rivoluzione diceva:
... Il
Governo provvisorio della Repubblica francese s'impegna a garantire l'esistenza
degli operai attraverso il lavoro.
S'impegna a garantire il lavoro a tutti
i cittadini.
Riconosce che gli operai devono associarsi tra loro per godere
del frutto del loro lavoro...
Intanto però il Paese era in
piena crisi economica e il numero dei disoccupati era in continuo aumento. Gli
operai, che non riuscivano ad avere delle riforme, chiedevano almeno che non li
si lasciasse morire di fame. Il Governo ricorse ad un fortunato espediente:
arruolò, con la paga di un franco e mezzo al giorno, tutti i disoccupati
in una specie di grande esercito del lavoro, organizzato in brigate e plotoni,
sul modello dell'esercito vero. A capo di questo esercito di lavoratori mise
uomini fidati, cioè avversari decisi dei socialisti. Diede poi a questo
esercito il nome di «Opifici Nazionali», tanto da far credere che la
sua funzione fosse quella di produrre beni e di fornire servizi nell'interesse
della comunità. Il suo vero scopo però era quello di dividere i
lavoratori e di assoldarne una parte a sostegno del Governo. Lo spiegò
molto bene all'Assemblea Costituente il ministro che aveva ideato e organizzato
gli Opifici Nazionali:
... Non sono fabbriche; non dovete cadere in
equivoco: si tratta di un esercito di lavoratori. Questo esercito vive intorno a
Parigi e dentro Parigi e finora in ogni posto si è sempre dimostrato
pacifico, amico dell'ordine, paziente, rassegnato. Questo solo risultato
compensa largamente le grandi spese sostenute...
Quando la borghesia
francese si sentì abbastanza forte per affrontare uno scontro aperto con
la classe operaia, gli Opifici Nazionali vennero liquidati e i centomila operai
in essi impiegati furono gettati sul lastrico. Il Governo e la maggioranza
dell'Assemblea Costituente adottarono i provvedimenti necessari il 21 e il 22
giugno. La mattina del 23 giugno Parigi fu attraversata dai primi cortei operai
di protesta: vennero erette le prime barricate. Qualche democratico,
sinceramente addolorato della tragedia che si avvicinava, tentò di
convincere il Governo e l'Assemblea Costituente a fare un gesto di comprensione
e di simpatia per gli operai, che avrebbe potuto ancora arrestare la crescita
della collera popolare. Ma il ministro della guerra, il generale Cavaignac, un
repubblicano di destra che aveva l'appoggio dell'Assemblea Costituente,
dichiarò che non c'era nulla da fare che bisognava solo aspettare. Egli
voleva che l'insurrezione operaia crescesse ancora, sicuro di poterla poi
schiacciare, spezzando una volta per tutte la resistenza del proletariato
parigino.
Sino al 25 giugno si combatté per le strade di Parigi. Gli
operai erano disorganizzati, senza capi, senza alcuna possibilità di
prevalere sulle ingenti forze messe in campo dal generale Cavaignac. Si
batterono ugualmente con valore e furono massacrati. Un grande pensatore
socialista, Pierre-Joseph Proudhon, lasciò nel suo diario
un'agghiacciante testimonianza degli avvenimenti del giugno:
...
Questa insurrezione è la più terribile di quelle che si sono avute
negli ultimi sessant'anni. Sono stati commessi enormi massacri da parte della
guardia mobile dell'esercito. [...] Gli insorti hanno dato prova di un coraggio
indomito. [...] Il terrore regna a Parigi...
Il 28 giugno
scriveva:
... Si fucila alla Conciergérie, al Municipio; da
quarantotto ore non si combatte più, ma si continua con le fucilazioni;
si fucilano i prigionieri feriti, disarmati. [...] Si diffondono atroci calunnie
sugli insorti allo scopo di eccitare contro di loro la vendetta. [...] Che
orrore!...
IL RISORGIMENTO ITALIANO
Con «Risorgimento» viene indicato
il processo che nel corso del secolo XIX ha condotto alla formazione di uno
Stato nazionale italiano a regime liberale. Il nome stesso fa riferimento a una
delle leggende fabbricate dal pensiero risorgimentale: quella di un'antichissima
Nazione italiana, i cui diritti e i cui valori sarebbero stati conculcati nel
periodo delle cosiddette «dominazioni straniere» prima dalla Spagna
(dagli inizi del Cinquecento agli inizi del Settecento), poi dall'Austria.
Naturalmente una tale Nazione, almeno nel senso di una comune, generale
volontà degli Italiani di essere un solo popolo e di avere un solo
Governo, non è mai esistita sino al 1861, quando è stato
proclamato il Regno d'Italia, come conseguenza dell'annessione al Piemonte delle
altre regioni italiane precedentemente soggette a governi diversi. Gli stessi
protagonisti del Risorgimento italiano erano perfettamente consapevoli che la
coscienza nazionale era patrimonio di una parte esigua del popolo italiano e si
dice che, compiuta unità della patria, uno di loro abbia commentato con
una punta di preoccupazione: - L'Italia è fatta: ora bisogna fare gli
Italiani -.
Nel 1815, ossia alla conclusione del Congresso di Vienna,
esistevano in Italia ben nove Stati (senza contare San Marino). Benché
non mancassero tra gli abitanti delle diverse regioni tradizioni e legami
comuni, in pratica essi si consideravano vicendevolmente stranieri. Viceversa la
presenza austriaca in gran parte dell'Italia non era sentita come un dominio
straniero, in quanto l'esistenza di nazionalità diverse sotto un unico
Impero era un fatto tutt'altro che raro.
Anche le comunicazioni erano nei
primi decenni dell'Ottocento ancora assai lente e difficili. Andare da Milano a
Roma o da Genova a Napoli non era una cosa da nulla come oggi. La prima linea
ferroviaria fu inaugurata nel 1839, da Napoli a Portici (8 km), ma le ferrovie
non cominciarono a svilupparsi su larga scala che assai più tardi. Il
telegrafo ebbe un'applicazione molto lenta, e se il primo battello a vapore fece
la sua comparsa a Napoli già nel 1818, dopo pochi viaggi era ridotto
fuori uso. A ostacolare gli scambi commerciali tra le varie regioni c'erano le
numerosissime barriere doganali: tra Milano e Bologna se ne incontravano sei.
Per andare da Firenze a Milano (350 km) le merci impiegavano ancora, nel 1839,
dai 40 ai 50 giorni.
È naturale che in queste condizioni le idee di
patria e di unità nazionale stentassero a farsi strada. Dapprima
trovarono terreno favorevole solo nelle classi colte e specialmente in quegli
intellettuali di condizione borghese o aristocratica che si erano formati alla
cultura illuministica o erano rimasti legati in qualche modo all'esperienza
napoleonica. Furono questi gli animatori di moti e cospirazioni che si
svilupparono dapprima nel 1820-21 a Napoli e a Torino, poi nel 1830 a Modena e
in altre parti d'Italia, e che furono duramente repressi dai vari governi
talvolta con la partecipazione diretta di truppe austriache. Tali moti si
basavano ancora su programmi nei quali era nettamente prevalente su quello
dell'indipendenza nazionale, l'obiettivo di ottenere riforme politiche in senso
moderatamente liberale. Questi movimenti, ristretti a pochi seguaci, erano
ulteriormente indeboliti dall'illusione di una possibile alleanza con qualcuno
almeno dei sovrani dell'antico regime.
Il primo che formulò
chiaramente un programma di indipendenza nazionale fu, dopo il 1830, Giuseppe
Mazzini, il quale dedicò l'intera vita (trascorsa in gran parte in
esilio), a propagandare l'idea che la rinascita italiana doveva essere il frutto
dell'iniziativa dello stesso popolo italiano, senza l'aiuto o la partecipazione
né di sovrani italiani, che si erano dimostrati in più occasioni
totalmente inaffidabili (fidare nelle parole di un re, diceva, è come
riposare sulle pale di un mulino), né di potenze straniere. Per dar forza
a questa sua idea, Mazzini fondò l'organizzazione clandestina della
Giovane Italia mediante la quale organizzò insurrezioni e colpi di mano,
che non ebbero alcun successo immediato, ma servirono egregiamente a fare
«propaganda con i fatti» (per adoperare un'espressione che sarebbe
stata più tardi usata dagli anarchici).
Queste azioni, che oggi si
direbbero «terroristiche», da un lato avevano valore di esempio,
abituando gli Italiani all'idea che non fosse possibile alcun riscatto nazionale
senza «martiri» e senza un adeguato sacrificio di sangue. Da un altro
lato, proprio il sangue versato in queste imprese suicide e quello che
inevitabilmente vi si aggiungeva per effetto delle rappresaglie poliziesche
serviva a scavare un solco di odio e di diffidenza tra il popolo e i governi,
scongiurando l'eventualità che Mazzini temeva di più: il trionfo
di una linea di compromesso, che, attraverso un rinnovamento di facciata dei
vecchi regimi, avrebbe ridato a questi il fiato per durare e allontanato
indefinitamente una prospettiva rivoluzionaria. Il riscatto nazionale italiano,
infatti, non tollerava, secondo Mazzini, mezze misure: doveva coincidere con un
totale e radicale rinnovamento non solo delle istituzioni politiche, ma
dell'animo e della cultura degli Italiani.
Nonostante l'efficacia di questa
azione di propaganda, gli ideali di patriottismo e di libertà coltivati
da Mazzini continuarono ad essere patrimonio di pochi, poiché gli strati
sociali inferiori e le grandi masse contadine non videro mai in essi validi
motivi di mobilitazione. Come avrebbe osservato Garibaldi nelle sue memorie a
proposito della campagna del 1848-49, «la bella gioventù» che
lo seguiva era quasi tutta formata da «elemento cittadino e culto,
poiché ben si conosce che tra i corpi volontari che ebbi l'onore di
comandare in Italia, l'elemento contadino è mancato sempre».
In
generale patriottismo e rivoluzione erano la stessa cosa agli occhi dei moderati
e dei conservatori. Basti pensare che ancora dopo il 1845 «patria» era
parola sospetta in Piemonte e che persino i partecipanti ai congressi degli
scienziati italiani venivano schedati dalla polizia di Carlo Alberto. I
programmi nazionali e patriottici poterono esprimersi in modi più
espliciti quando, dopo il 1840, una nuova corrente politica (che aveva il suo
maggiore esponente nell'abate piemontese Vincenzo Gioberti), sviluppò un
progetto di emancipazione italiana basato sull'idea che la rivoluzione nazionale
non dovesse significare senz'altro abbattimento del vecchio ordine e sovversione
sociale. Gioberti sostenne anzi che il papa e il clero cattolico avrebbero
potuto trovare nuova forza e nuovo prestigio mettendosi alla testa di questo
processo e facendosi promotori di una federazione degli Stati
italiani.
Neppure i programmi di Gioberti erano destinati a essere
realizzati, anche se per un momento parve che un papa (Pio IX) cominciasse a
metterli in pratica. Il loro effetto fu però di rendere i programmi
nazionali più «rispettabili» e meno temuti, suscitando vaste
adesioni all'idea dell'indipendenza italiana anche tra i
«benpensanti».
Ma il fatto che assicurò il successo del
movimento nazionale, fu l'adesione ad esso della monarchia dei Savoia. Carlo
Alberto, dopo che i moti scoppiati nel 1848 a Milano e a Venezia avevano messo
in difficoltà gli Austriaci, scese in campo penetrando con il suo
esercito in Lombardia. La guerra contro l'Austria finì in un disastro. Ma
nonostante la sconfitta, in Piemonte il regime costituzionale fu mantenuto e,
specialmente sotto il governo del conte di Cavour (1851-1861), vennero avviate
importanti riforme economiche e politiche. Egli riuscì inoltre a
guadagnare l'appoggio della Francia (interessata a diminuire la potenza
austriaca) e a convincere molti governi europei che porre il re di Sardegna alla
guida del movimento nazionale italiano era l'unico modo per evitare che tale
movimento assumesse caratteristiche rivoluzionarie pericolose per tutti.
Così dopo una nuova guerra contro l'Austria vinta con l'aiuto della
Francia (1859), il Piemonte poté annettersi la Lombardia e insieme la
Toscana, Modena e Parma, le cui popolazioni erano nel frattempo insorte contro i
rispettivi governi.
L'annessione dell'Italia meridionale al Piemonte fu
invece opera di Giuseppe Garibaldi, un abile e coraggioso capo militare, esperto
nella tattica della guerriglia e convinto democratico. Sbarcato in Sicilia nel
1860 con un numero esiguo di volontari (la sua spedizione è detta
«dei Mille»), riuscì a sollevare la popolazione contro la
vecchia dinastia borbonica e ad aumentare rapidamente gli effettivi del suo
esercito. Conquistata l'isola, risalì l'Italia meridionale fino a Napoli.
Fu questo l'unico esempio di guerra di popolo combattuta con successo nel corso
del Risorgimento. Il Governo piemontese, soddisfatto delle conquiste di
Garibaldi, che operava in nome del re Vittorio Emanuele II, ma preoccupato di
non lasciare l'iniziativa nelle sue mani, organizzò una spedizione
militare che strappò allo Stato Pontificio l'Umbria e le Marche, ma che
soprattutto aveva lo scopo di tagliare la strada a Garibaldi, che, senza tener
conto della possibile reazione dell'Austria e della stessa Francia (dove
Napoleone III aveva bisogno dell'appoggio dei clericali), meditava di proseguire
l'avanzata su Roma.
In questo modo tutte le regioni italiane (salvo il
Veneto e il Lazio) furono unite nel Regno d'Italia (1861). Il Risorgimento
poteva dirsi concluso, come i moderati volevano, senza gravi rivolgimenti
sociali, sotto il controllo e l'iniziativa della dinastia dei Savoia e della
classe dirigente piemontese. Le classi popolari erano rimaste in gran parte
estranee al movimento, oppure se vi avevano partecipato (come nel caso dei
contadini meridionali) furono ben presto respinte ai margini del nuovo Stato
nazionale e le loro speranze di rinnovamento sociale andarono interamente
deluse. Il nuovo Stato italiano nasceva come espressione di una minoranza: la
borghesia.
Giuseppe Mazzini (1805-1872)
CAPITALISMO E SCHIAVITŮ
Gli Stati Uniti, che nel nostro secolo
sarebbero diventati il più grande Paese capitalistico del mondo, a
metà del secolo scorso conservavano ancora un'istituzione che in Europa
era scomparsa da mille e cinquecento anni: la schiavitù come forma di
sfruttamento della manodopera agricola. Da secoli contro la schiavitù si
erano venuti accumulando argomenti di ogni sorta: morali, religiosi, umanitari
ecc. Alla fine la schiavitù era stata formalmente condannata dalle
potenze europee, i mercanti di schiavi venivano perseguiti penalmente e la
tratta dei neri, se non era stata stroncata, veniva quanto meno combattuta.
Anche negli Stati Uniti, naturalmente, la discussione sulla legittimità e
sulla opportunità di una simile istituzione era molto accesa e lo era
tanto più in quanto essa coinvolgeva interessi economici molto
consistenti.
In linea di principio non c'era nessuna incompatibilità
tra capitalismo e schiavitù, ma in concreto gli interessi delle regioni
capitalisticamente più avanzate degli Stati Uniti e quelli delle regioni
a economia schiavistica erano da tempo entrati in rotta di collisione. L'oggetto
del conflitto erano i territori dell'Ovest. Non si trattava solo di decidere chi
alla fine si sarebbe impadronito di quelle terre: il problema riguardava
piuttosto il modello di sviluppo che gli Stati Uniti avrebbero dovuto seguire.
Per certi aspetti era un problema antico. Tra il Nord e il Sud degli Stati Uniti
esistevano infatti fin dall'epoca coloniale profonde differenze economiche,
sociali e culturali che il processo di industrializzazione aveva reso
esplosive.
L'economia del Sud era fondata sulle grandi piantagioni di
tabacco e di cotone affidate al lavoro degli schiavi; nel Nord invece le terre
erano coltivate da agricoltori liberi e nelle città prosperava ogni sorta
di attività commerciali, industriali e marittime. La società del
Sud era caratterizzata dal contrasto tra la ristretta classe dei grandi
proprietari terrieri e la massa degli schiavi africani, allevati in greggi come
il bestiame. La società del Nord era invece più varia e dinamica,
le diseguaglianze erano meno appariscenti, la schiavitù pressoché
inesistente e in alcuni Stati formalmente proibita.
Nei primi decenni
dell'Ottocento il Nord entrò in una fase di rapido sviluppo industriale.
Questo aveva favorito, tra l'altro, l'immigrazione di migliaia di operai
europei, desiderosi di trovare un lavoro e disposti ad accettare un salario che,
per quanto generalmente superiore a quello che avrebbero ricevuto in patria, era
pur sempre misero: molti piantatori del Sud erano convinti che i propri schiavi
vivessero in condizioni migliori di quelle riservate agli operai del Nord. Come
era successo in Inghilterra e come stava succedendo in altri Paesi europei,
l'industrializzazione modificò sensibilmente la società del Nord.
Il nuovo ceto dei capitalisti industriali e degli uomini d'affari
spodestò le vecchie classi dirigenti dell'età coloniale e impose a
tutti la propria supremazia, che era poi la supremazia del denaro. Il vecchio
artigianato fu a poco a poco sostituito dal più rigido sistema di
fabbrica e le condizioni di vita delle classi lavoratrici peggiorarono.
Ma
il mutamento più vistoso che seguì l'industrializzazione fu un
eccezionale sviluppo urbano. Pur avendo, a differenza di quelli del Sud, una
vivace vita cittadina, gli Stati del Nord avevano conservato fino ai primi
dell'Ottocento una caratteristica impronta agricola. Con l'industrializzazione
molte aziende agricole incapaci di rinnovarsi tecnicamente furono messe in
difficoltà, le comunità di villaggio cominciarono a disgregarsi e
i contadini presero ad affluire nelle città attirati dalle nuove
possibilità di sistemazione. Anche i nuovi immigrati, pur partecipando
numerosi alla colonizzazione dell'Ovest, si fermavano di preferenza nelle grandi
città della costa atlantica, dove trovavano un ambiente meno
insolito.
Mentre nel Nord si sviluppava una grande società
industriale urbana, il Sud si evolveva in senso opposto. Il cotone era diventato
il prodotto più importante delle piantagioni e alla sua coltivazione
erano impiegati, verso la metà dell'Ottocento, circa il sessanta per
cento degli schiavi esistenti negli Stati Uniti. La coltura del cotone, come
quella del tabacco, impoveriva rapidamente il terreno: per questo i piantatori
si spingevano senza sosta verso Ovest, occupando tutti i terreni migliori dai
quali cacciavano gli Indiani o i pionieri che vi si erano stabiliti per primi.
Al «regno del cotone», come venne chiamata questa grande area che si
estendeva dalla Carolina del Sud al Texas facevano corona le altre regioni del
Sud, dove erano coltivati di preferenza riso, zucchero e tabacco. Se i prodotti
erano diversi, identico era il sistema della piantagione e identici gli
interessi dei piantatori.
Il cotone e gli altri prodotti assicuravano ai
piantatori enormi guadagni, ma l'economia del Sud non ne traeva beneficio. Tutte
le ricchezze accumulate sfruttando il lavoro degli schiavi venivano infatti
impiegate ad estendere ulteriormente le piantagioni, trascurando ogni altra
attività. Così, mentre gli Stati settentrionali si costruivano una
potente industria, il Sud restava una regione esclusivamente agricola e nei
confronti del Nord scivolò a poco a poco verso una posizione di
dipendenza quasi coloniale. Il cotone del Sud, infatti, serviva ad alimentare le
industrie tessili del Nord. Se era esportato in Europa, erano le navi del Nord
che lo trasportavano oltre oceano ed erano i commercianti del Nord che
concludevano l'affare con i loro corrispondenti europei. D'altra parte, essendo
privo di fabbriche, il Sud era costretto a rivolgersi al Nord per ottenere tutti
i prodotti industriali di cui aveva bisogno.
Il malcontento per questa
situazione era molto diffuso negli Stati del Sud, che si consideravano vittime
dei volgari affaristi del Nord. Era prevedibile che si sarebbe giunti ad una
rottura qualora al predominio economico degli Stati settentrionali si fosse
aggiunto il predominio politico. In questo senso la questione più
scottante era proprio quella dei territori da colonizzare, nei quali sarebbero
nati nuovi Stati, la cui influenza sul Governo centrale avrebbe potuto
modificare l'antico equilibrio tra Sud e Nord. Per i piantatori del Sud
estendere il sistema della piantagione e la schiavitù in queste regioni
significava non solo conquistare altre terre, ma anche garantirsi il controllo
politico dei nuovi Stati. Per la stessa ragione gli industriali e gli uomini
d'affari del Nord erano decisamente contrari a che la schiavitù prendesse
piede nell'Ovest. Essi si preoccupavano pochissimo della sorte dei neri e non
parlarono mai di abolire la schiavitù negli Stati in cui già
esisteva: volevano semplicemente impedire che sorgessero nuovi Stati a base
schiavistica, in modo da conquistare un pieno ed efficace controllo della vita
economica e politica del Paese.
NAT TURNER E JOHN BROWN
Le capacità di resistenza o di
rivolta degli schiavi neri erano molto prossime allo zero: avviliti,
disorientati, trapiantati brutalmente in un mondo ostile e violento, con nessun
altro conforto all'infuori di un po' di religione, i neri non disponevano
neppure degli elementari strumenti culturali necessari a prendere coscienza
della propria condizione. Ciò non significa che non ci fossero esplosioni
di protesta. Ma la protesta dei neri d'America si esprimeva soprattutto in forme
individuali: la fuga, il furto, l'omicidio; la resistenza collettiva e la
ribellione armata erano fenomeni rari, fatalmente destinati a una rapida
sconfitta.
Uno dei più importanti e sanguinosi tentativi di rivolta
armata fu quello guidato nel 1831 da Nat Turner, uno schiavo della contea di
Southampton in Virginia. Mentre si trovava in prigione in attesa di essere
giustiziato lo stesso Nat Turner raccontò la storia della sua vita e del
suo tentativo di insurrezione a un avvocato che l'anno successivo la
pubblicò in un opuscolo.
La nonna di Nat Turner era originaria della
Costa d'oro e, subito dopo lo sbarco in America, all'età di appena
tredici anni, aveva dato alla luce una bambina, la madre di Nat. La madre di Nat
era morta quando il figlio aveva quindici anni; il padre era scappato tempo
prima abbandonando la famiglia. Fin da piccolo Nat era parso troppo intelligente
per essere allevato come uno schiavo qualunque e il suo padrone volle
insegnargli a leggere e a scrivere. Così la sua vita fu diversa da quella
degli altri ragazzi di colore: niente fatiche pesanti, solo lavori nei quali
poteva mettere a frutto l'intelligenza naturale e l'istruzione ricevuta. Faceva
il falegname, costruiva macchine, sperimentava trappole e altri congegni. Ma
soprattutto leggeva e meditava la Bibbia tanto da diventare il miglior
conoscitore della Sacra Scrittura di tutta la contea e da meritarsi il nomignolo
di «il Predicatore».
Pieno di fervore religioso, nei lunghi
digiuni di penitenza e di preghiera immaginava di avere delle visioni e si
convinse da certi segni di essere destinato dalla volontà divina a una
grande impresa. Ripeteva continuamente quei brani della Bibbia nei quali credeva
di trovare conferma della missione assegnatagli: «Cristo ci ha liberati
perché fossimo liberi; state dunque saldi e non vi lasciate di nuovo
porre sotto il peso della schiavitù»; «si spezzino le catene
della malvagità, si sciolgano i legami del giogo, si lascino liberi gli
oppressi, s'infranga ogni sorta di catene»; «presto sarà il
momento in cui gli ultimi saranno i primi e i primi saranno gli ultimi».
Nella sua esaltazione religiosa, Nat finì per vedere se stesso come un
implacabile strumento di punizione. Sognava che, a un suo cenno, tutti gli
schiavi si sarebbero sollevati per formare un nero, maestoso esercito del
Signore.
Quando credette di aver ricevuto l'ultimo e definitivo segno della
volontà di Dio, Nat decise di passare all'azione. Aveva trentun anni.
Insieme con alcuni compagni studiò accuratamente il piano servendosi di
una carta topografica che aveva ricopiato nella biblioteca del padrone. Nat
intendeva marciare su Jerusalem, capitale della contea, e conquistare l'armeria.
Quindi gli insorti si sarebbero rifugiati nelle Paludi della Morte, a cinquanta
chilometri dalla città, dove la difficoltà del terreno e
l'abbondanza di selvaggina e di pesce avrebbero permesso loro di resistere agli
attacchi dei bianchi.
La rivolta scoppiò il 21 agosto 1831. Gli
insorti massacrarono senza pietà tutti i bianchi che incontravano per
impedire che fosse dato l'allarme. Vennero uccisi 55 bianchi e altri 20 furono
feriti. Ma una ragazzetta sfuggì al massacro e avvertì le
autorità. Gli insorti furono fermati a un chilometro da Jerusalem dalle
truppe a cavallo di tre contee, a cui si erano uniti i proprietari bianchi della
zona. Il gruppo dei ribelli, che inizialmente contava 25 persone, era aumentato
fino a 75. Molti di loro, però, che si erano ubriacati nonostante il
severo divieto di Nat, invece di battersi si diedero alla fuga. Nat aveva
sperato che i diecimila neri della contea si sarebbero ribellati e uniti a lui.
Non fu così. Parecchi neri, anzi, si armarono per schierarsi con i
padroni.
Nat fu catturato il 30 ottobre. Durante il processo
dichiarò di non sentirsi colpevole e di non provare rimorso,
perché sterminare i bianchi per liberare i neri era un'opera santa. Fu
impiccato l'11 novembre. Dei suoi compagni 16 vennero impiccati, 15 deportati e
25 prosciolti da ogni accusa per evitare che i loro proprietari dovessero pagare
i danni causati dalla rivolta. I bianchi si vendicarono per proprio conto
uccidendo un centinaio di negri che avevano solidarizzato con i ribelli. I corpi
degli impiccati furono sepolti secondo le regole. Ma quello di Nat Turner fu
consegnato ai medici i quali lo scuoiarono e della carne fecero grasso. Dalla
sua pelle fu ricavato un portamonete. Subito dopo il processo fu vietato ai
padroni di liberare i propri schiavi e di insegnare ai bambini neri a leggere e
scrivere.
Un altro importante episodio di rivolta si deve invece a un
bianco, John Brown. John Brown, come Nat Turner, era uno spirito profondamente
religioso, ed era convinto che la schiavitù fosse un orribile peccato.
Riteneva che ogni buon cristiano dovesse combatterla con tutti i mezzi a sua
disposizione e anche con le armi, se necessario. Odiava i proprietari di
schiavi, i preti che promettendo la libertà in paradiso esortavano i neri
ad accettare la schiavitù in terra, e gli uomini politici che in teoria
si dichiaravano contrari alla schiavitù, ma in pratica non facevano nulla
per abolirla.
John Brown, invece, voleva fare tutto il possibile. Aveva
messo insieme un'organizzazione segreta chiamata «ferrovia
sotterranea» che aiutava i neri a fuggire dalle piantagioni e a rifugiarsi
negli Stati del Nord. Una volta, nel Missouri, liberò con la forza undici
schiavi e li trasportò in Canada. Fu inseguito dai poliziotti e da un
gruppo di schiavisti per ben ottantadue giorni su oltre 1600 chilometri di
strade e sentieri gelati, ma riuscì a sfuggire alla caccia nonostante che
il presidente degli Stati Uniti avesse messo sulla sua testa una taglia di 3000
dollari. Tutto questo però non gli sembrava sufficiente. Studiò
allora le tecniche della guerriglia e passò ad organizzare la lotta
armata. Nell'ottobre del 1859 con i tre figli e altri compagni bianchi e neri,
ventidue uomini in tutto, occupò la città di Harper's Ferry in
Virginia e si impadronì dell'arsenale dove erano custodite le armi.
L'intenzione era di rifornirsi di armi, convincere altri schiavi neri ad unirsi
a lui e ritirarsi sui monti Allegheny che si estendevano dai confini dello Stato
di New York fin nel cuore degli Stati schiavisti del sud. Qui sarebbe sorto a
poco a poco un esercito guerrigliero che con improvvisi attacchi alle fattorie
avrebbe liberato altri schiavi che a loro volta si sarebbero uniti alla
lotta.
Senonché, come già era successo con Nat Turner,
invitati a ribellarsi, i neri non si mossero. Nella speranza di rincuorarli e di
convincerli a combattere, invece di ritirasi subito sulle montagne, John Brown
volle dimostrare che la sua banda era abbastanza forte da tenere un'intera
città e perse del tempo; ne perse dell'altro con i prigionieri (una
trentina in tutto), per rassicurarli che non sarebbero stati uccisi; infine
lasciò passare un treno per dimostrare che la sua guerra era diretta solo
contro lo schiavismo e che per il resto le sue intenzioni erano pacifiche.
Così però diede modo a un reparto dell'esercito di raggiungere e
circondare la banda. Dieci uomini, tra cui due figli di John Brown, caddero
combattendo. John Brown con cinque compagni, tutti feriti, resistettero per
coprire la fuga degli altri, poi si arresero. In tribunale John Brown non si
limitò a difendere se stesso e i compagni, ma accusò i giudici di
essere i veri delinquenti:
... Sono intervenuto in difesa dei poveri
disprezzati. Se ritenete necessario che io debba sacrificare la mia vita in nome
della giustizia e mescolare il mio sangue e quello dei miei figli con il sangue
di milioni di esseri, in questa terra di schiavi, che vedono i loro diritti
calpestati da leggi malvagie, crudeli e ingiuste, ebbene, così
sia...
Fu condannato all'impiccagione. Dal carcere scrisse ad un
amico:
...Quando sarò pubblicamente assassinato non voglio che
si dicano per me preghiere ipocrite. Voglio che ad assistermi non ci siano dei
preti, ma dei piccoli ragazzi e ragazze schiavi, trasandati, cenciosi, a testa e
a piedi nudi, guidati da qualche vecchia schiava dai capelli
grigi...
La mattina dell'esecuzione consegnò un biglietto ad
una guardia. Vi era scritto:
Charleston, Virginia, 2 dicembre
1859.
Io, John Brown, sono ora certissimo che i delitti di questo
colpevole Paese non saranno mai lavati che dal sangue. Solamente ora capisco che
mi illudevo che la liberazione degli schiavi potesse essere fatta senza spargere
molto, molto sangue.
Non passò neppure un anno e mezzo dalla
sua esecuzione, che gli eserciti del Nord marciarono contro il Sud cantando La
canzone di John Brown:
John Brown's body lies a mould'ring in the
grave
John Brown's body lies a mould'ring in the grave
John Brown's
body lies a mould'ring in the grave
his soul goes marching
on!
Glory! glory! hallelujah!
Glory! glory!
hallelujah!
Glory! glory! hallelujah!
His soul is marching
on!
LA CAPANNA DELLO ZIO TOM
La capanna dello zio Tom, (Uncle Tom's
Cabin) è il più noto romanzo di Harriet Beecher Stowe (1811-1896)
una scrittrice di discreto talento, capace di unire alla sua prevalente tendenza
al patetico tocchi realistici e quasi umoristici. Harriet Beecher Stowe
apparteneva ad una famiglia di ministri e predicatori presbiteriani della Nuova
Inghilterra. A sua volta profondamente religiosa era una fervente antischiavista
e al tema della schiavitù dedicò numerosi racconti e un secondo
romanzo, Dred, Racconto della grande palude desolata (1856). Pubblicato a
puntate tra il 1851 e il 1852, La capanna dello zio Tom narra le vicende di un
coraggioso schiavo nero di nobile animo, che il padrone è costretto a
vendere a causa di improvvise difficoltà economiche. Vittima delle
persecuzioni del suo nuovo padrone, un individuo gretto e crudele, Tom si impone
all'ammirazione degli altri schiavi per la rassegnazione, la forza morale e la
fede con cui sopporta umiliazioni e angherie.
Il libro ottenne un immediato
successo tanto che fu tradotto in moltissime lingue e nel giro di pochi anni
vendette centinaia di migliaia di copie. È stato considerato ai suoi
tempi una vigorosa denuncia dello schiavismo e ha dato un formidabile contributo
alla propaganda abolizionistica. Oggi conserva un valore, per così dire,
«storico», di documento, giacché letterariamente è molto
debole: abbondano, secondo il gusto del tempo, le scene strappalacrime come
quelle della morte della padroncina e quella dello stesso Tom.
Dal punto di
vista politico il romanzo della Stowe è stato giudicato molto severamente
soprattutto dai critici di indirizzo radicale per il fastidioso paternalismo con
cui viene affrontato il problema della schiavitù. In effetti l'immagine
dello schiavo buono che sopporta con rassegnazione i maltrattamenti del padrone
risulta alla coscienza contemporanea oltre modo irritante: è anche per
questo che l'espressione «zio Tom» è considerata molto
offensiva dai neri americani, che giustamente non considerano la rassegnazione
una virtù.
LA GUERRA DI SECESSIONE
Fino alla metà dell'Ottocento
l'equilibrio politico tra Sud e Nord fu mantenuto, ricorrendo all'espediente di
ammettere di volta in volta nell'Unione uno Stato schiavista ed uno libero. A
quel punto però si formò negli Stati del Nord un nuovo partito, il
partito repubblicano, che aveva come programma di vietare ogni ulteriore
espansione della schiavitù nei territori ancora in via di organizzazione.
Capo del nuovo partito era Abraham Lincoln un uomo di notevoli capacità
che aveva la fiducia tanto degli uomini d'affari della costa atlantica quanto
dei liberi agricoltori dell'Ovest. Quando nel 1860 Abraham Lincoln fu eletto
presidente degli Stati Uniti con il voto quasi unanime degli Stati del Nord,
undici Stati del Sud decisero la «secessione»: decisero cioè di
abbandonare l'Unione e di costituire un nuovo organismo indipendente, la
Confederazione degli Stati d'America, con capitale Richmond, in Virginia. La
guerra cominciò l'11 aprile 1861.
Un vantaggio per l'esercito
sudista era rappresentato dal fatto di avere compiti eminentemente difensivi.
L'obiettivo di guerra dei confederati era infatti il riconoscimento della
secessione, mentre i nordisti per riportare nell'Unione gli Stati del Sud
dovevano occuparne il territorio. L'esercito sudista aveva poi i più
forti reparti di cavalleria e disponeva di migliori ufficiali: la maggioranza
degli ufficiali di carriera dell'esercito americano proveniva infatti dal Sud e
allo scoppio della guerra si schierò con la Confederazione. Ma l'esercito
dell'Unione era più numeroso e meglio armato: le industrie del Nord lo
rifornivano con regolarità ed abbondanza. La Confederazione invece, che
aveva pochissime industrie, doveva rivolgersi all'estero per ottenere le armi,
le munizioni e gli altri prodotti necessari alla condotta di una guerra che si
rivelò subito terribilmente distruttiva. La marina del Nord, nettamente
superiore a quella del Sud, pose un blocco strettissimo alle coste della
Confederazione e rese estremamente difficili i rifornimenti. La resistenza dei
sudisti fu lunga e accanita, ma alla fine la potenza industriale del Nord ebbe
la meglio.
La Guerra di secessione fu una delle più sanguinose
guerre di tutti i tempi. Il Nord mise in campo circa due milioni di uomini e il
Sud più di un milione. I morti furono 360.000 per il Nord e più di
250.000 per il Sud. Centinaia di migliaia furono i feriti e gli invalidi. La
devastazione e il saccheggio erano un normale sistema di guerra delle truppe
nordiste; il generale Sherman ridusse in cenere intere città, Columbia,
Richmond, Atlanta, producendo danni per molte centinaia di milioni di
dollari.
Durante la guerra e di fronte alla imprevista resistenza dei
Sudisti il presidente Lincoln si era deciso a proclamare l'emancipazione degli
schiavi del Sud, nella speranza che i neri si ribellassero contro i loro
padroni. In effetti il contributo dei neri era stato importante: 186 mila neri
avevano combattuto nell'esercito dell'Unione e ben 60 mila erano morti. Numerosi
furono quelli che pur rimanendo nel Sud avevano aiutato i Nordisti fornendo loro
informazioni e compiendo sabotaggi ai danni dei propri padroni. Al termine della
guerra quattro milioni di neri americani ottennero la libertà. Ma il
problema nero era ben lontano dall'aver trovato una soluzione.
Nella mente
dei bianchi la liberazione dei neri non doveva significare il riconoscimento
della loro uguaglianza con gli altri cittadini, e presto i neri si accorsero che
le cose non erano cambiate gran che e che i diritti conquistati servivano a
poco. I neri erano poveri, privi di denaro, di terra, d'istruzione: chiesero che
venissero distribuiti a ciascuno di loro quaranta acri (poco più di
sedici ettari) di terra e un mulo per poterla lavorare. Invece le piantagioni
rimasero in possesso dei vecchi proprietari che ripresero a comandare come
prima. Nel 1900 su un totale di otto milioni di neri solamente 700 mila
possedevano un pezzo di terra e tra questi più di mezzo milione erano
carichi di debiti. L'economia del Sud era uscita sconvolta dalla guerra, la
povertà era spaventosa, ma i vecchi padroni erano tornati in breve tempo
a comandare.
Quanto al Nord, la guerra segnò l'inizio di una fase di
grande sviluppo economico: le industrie e gli affari prosperarono come mai era
accaduto prima di allora. Lo constatava tra gli altri John Sherman, il fratello
del terribile generale nordista:
... La verità è che la
fine vittoriosa della guerra dà ai progetti dei grandi capitalisti un
tono più elevato e una portata molto più ampia di qualsiasi altro
progetto precedente. Oggi essi parlano di milioni di dollari con la stessa
disinvoltura con cui prima della guerra parlavano di migliaia...
Il
Nord aveva davvero raggiunto i suoi obiettivi di guerra.
Le principali battaglie della Guerra di Secessione americana
ABRAHAM LINCOLN
Abraham Lincoln (1809-1865), capo del
partito repubblicano ed esponente degli Stati del Nord, era contrario, in linea
di principio, alla schiavitù: «La schiavitù»
affermò in un famoso discorso tenuto a Peoria nell'Illinois il 6 ottobre
1854 «si fonda sulla natura egoista dell'uomo, mentre la condanna della
schiavitù nasce dall'amore per la giustizia». L'amore di Lincoln per
la giustizia non arrivava però sino al punto di reclamare l'abolizione
della schiavitù. Il suo programma, prevedeva soltanto che la
schiavitù fosse proibita nei nuovi territori dell'Ovest. Quanto agli
Stati del Sud, Lincoln si limitava ad auspicare che anche in essi, con l'andare
del tempo, la schiavitù finisse per scomparire.
L'elezione di
Lincoln alla presidenza degli Stati Uniti provocò la secessione degli
Stati del Sud e l'inizio della guerra civile. Ma neppure quando la guerra era
aperta, Lincoln volle porre tra i suoi obiettivi l'abolizione della
schiavitù: «il mio scopo in questa lotta» dichiarò
«è di salvare l'unità del Paese, non di distruggere la
schiavitù». Solo alla fine del 1862 Lincoln si decise per ragioni di
opportunità a proclamare l'emancipazione degli schiavi. Anche la fine
della schiavitù tuttavia non avrebbe dovuto significare secondo il
pensiero di Lincoln, la conquista da parte dei neri di una condizione di
eguaglianza sociale e politica con i bianchi. Antischiavista convinto, Lincoln
era un altrettanto convinto razzista. Nel 1858 si era espresso in proposito
molto chiaramente:
... Io non sono mai stato favorevole
all'uguaglianza sociale o politica fra la razza bianca e la razza nera. Non sono
né sono mai stato favorevole a far votare i neri o a permettere che
occupino uffici pubblici o che sposino persone bianche. Sono convinto che fra la
razza bianca e quella nera c'è una differenza fisica che vieterà
per sempre che le due razze possano vivere insieme su un piano di eguaglianza
sociale e politica. E visto che non possono essere uguali, una deve essere
superiore all'altra. Io sostengo che la razza bianca deve comandare sulla razza
nera...
Lincoln fu assassinato cinque giorni dopo la fine della
guerra di secessione. L'assassino era un uomo del Sud che aveva voluto vendicare
in questo modo la sconfitta del proprio Paese. Si dice spesso che Lincoln
morì per la causa della liberazione; in realtà egli fu
semplicemente una delle tante vittime del grande conflitto scoppiato tra il Nord
industriale e il Sud agrario per il controllo dei nuovi territori
dell'Ovest.
DALLA SCHIAVITŮ ALLA SEGREGAZIONE
A poco a poco gli antichi padroni tornarono
al potere nel Sud e approvarono leggi che toglievano ai neri quei pochi diritti
che avevano conquistato al termine della Guerra di secessione. Queste leggi
furono chiamate «Leggi di Jim Crow», dal nome dispregiativo che i
bianchi davano ai neri. In sostanza le Jim Crow Laws sostituirono la
schiavitù con la segregazione, cioè con la separazione assoluta
fra bianchi e neri, naturalmente a tutto vantaggio dei primi. I neri furono
segregati sui mezzi di trasporto, nei luoghi pubblici, compresi ospedali, chiese
e cimiteri, nelle scuole, nei quartieri di abitazione, nelle fabbriche e in
tutti i luoghi di lavoro. In tribunale essi giuravano su Bibbie separate.
Perfino i gabinetti erano separati. Alla fine della guerra civile i neri avevano
ottenuto il diritto di voto e infatti nelle prime elezioni furono eletti
numerosi rappresentanti di colore. Vi furono 14 deputati e 2 senatori neri. 140
neri furono eletti nel Parlamento della Louisiana; 40 in quello del Mississippi;
39 in quello della Carolina del Sud; 27 in quello della Georgia; in tre Stati il
vicegovernatore fu un nero. Ma presto anche il diritto al voto fu tolto ai neri.
Dapprima furono usati imbrogli e violenze. I neri che votavano o che ricoprivano
una carica o che in qualche modo dimostravano di non volersi rassegnare ad
essere trattati come cittadini di rango inferiore non trovavano lavoro oppure
venivano minacciati, picchiati, spesso uccisi. Tra il 1880 e il 1910 si
verificarono ogni anno circa cento linciaggi di neri. A parte le violenze e le
intimidazioni, il diritto di voto fu negato ai neri anche con mezzi legali.
Furono approvate leggi che escludevano dall'elettorato chi non sapeva leggere e
chi non poteva pagare una determinata tassa, vale a dire gli analfabeti e i
poveri. La grande maggioranza dei neri era composta appunto di analfabeti
(solamente un nero su dieci sapeva leggere e scrivere, ma i maestri venuti dal
Nord per istruirli furono attaccati con violenza dai bianchi) e di poveri. Per
quelli che sapevano leggere o che riuscivano a pagare qualche tassa fu
escogitato il trucco di permettere il voto solo ai discendenti di quelli che
avevano votato nelle elezioni del 1° gennaio 1860; ma in quell'anno,
naturalmente, nessun nero aveva potuto votare. Nel 1900 fu eletto l'ultimo
deputato nero. Per ventotto anni nel Parlamento americano non entrò alcun
uomo di colore. I neri non sapevano fare altro lavoro che quello del contadino
ed erano troppo ignoranti per dedicarsi ad altri mestieri. Molti di loro
cominciarono ad abbandonare il Sud per recarsi al Nord dove speravano di trovare
migliori condizioni di vita e di lavoro. A New York tra il 1890 e il 1910 la
popolazione di colore aumentò di quattro volte e lo stesso fenomeno
avvenne in altre grandi città. Ma anche al Nord si trovarono alle prese
con le difficoltà di sempre: erano poveri e avevano la pelle
nera.
LA PRIMA INTERNAZIONALE
Nella prima metà dell'Ottocento i
movimenti operai dei diversi Paesi si erano sviluppati indipendentemente l'uno
dall'altro, mantenendo solo scarsi contatti reciproci. Eppure i problemi della
classe operaia erano simili in tutti i Paesi a economia industriale e il nemico
era ovunque lo stesso: la borghesia capitalistica. Nel Quarantotto si era avuta
una riprova del fatto che la sorte di ciascun movimento operaio era legata a
quella di tutti gli altri: la sconfitta della classe operaia parigina nel giugno
di quell'anno aveva segnato una battuta d'arresto per il movimento operaio in
tutto il continente europeo. Per alcuni anni le associazioni dei lavoratori e i
gruppi socialisti, duramente colpiti dalla reazione delle classi dominanti,
avevano perso in Europa qualsiasi capacità di iniziativa. Quando
finalmente rinacque un'organizzazione operaia, un'idea si era fatta strada in
ogni Paese: quella della solidarietà internazionale dei
lavoratori.
Le prime manifestazioni di questa solidarietà avevano
assunto il carattere di una ferma opposizione agli indirizzi egoistici ed allo
spirito guerrafondaio cui si ispirava la politica estera dei governi. Durante la
guerra di secessione americana, per esempio, si era profilato ad un certo punto
il pericolo che il Governo britannico intervenisse nel conflitto a fianco del
Sud schiavista. In quella occasione le organizzazioni operaie inglesi avevano
scatenato una vasta agitazione nel Paese, aiutando così concretamente la
causa della liberazione dei neri. Più tardi fu la questione polacca a
mobilitare le energie dei militanti operai: i primi contatti operativi tra le
associazioni operaie francesi, inglesi, tedesche e italiane si ebbero appunto in
vista di un'azione internazionale di protesta contro l'oppressione del popolo
polacco da parte della Russia zarista.
Da questi contatti nacque l'idea di
un'Associazione Internazionale dei Lavoratori (più tardi detta Prima
Internazionale) che fu fondata il 28 settembre 1864 nel corso di un'affollata
assemblea tenuta in St. Martin's Hall a Londra. Lo scopo della nuova
Associazione era di creare una centrale di collegamento tra le organizzazioni
che nei diversi Paesi lottavano per l'emancipazione della classe operaia. Ogni
anno si doveva riunire un congresso per definire gli obiettivi comuni della
classe operaia e per prendere tutte le iniziative necessarie allo sviluppo del
movimento. Tra un congresso e l'altro il compito di mantenere i collegamenti tra
le organizzazioni operaie nei diversi Paesi e di coordinarne le attività
era affidato al Consiglio generale dell'Associazione.
Fin dall'inizio Karl
Marx e Friedrich Engels, che nel 1848 erano stati gli autori del Manifesto del
Partito Comunista, ebbero una parte importante nel Consiglio generale
dell'Internazionale. Appunto a Karl Marx fu affidata la stesura degli Statuti
che dovevano reggere l'Associazione e dell'Indirizzo inaugurale che
l'Internazionale rivolse agli operai di tutto il mondo. La Prima Internazionale
non fu però un'organizzazione marxista: al contrario coesistevano in essa
correnti diverse. Le società operaie italiane, per esempio, restarono per
qualche tempo sotto l'influsso di Giuseppe Mazzini, che aveva partecipato alla
costituzione dell'Associazione, ma che ruppe quasi subito con essa in nome della
religione, della patria e del principio della collaborazione tra le classi. In
un indirizzo rivolto ai lavoratori italiani nel giugno del 1871 Mazzini
scriveva:
... Io da lungo non vi scrivo direttamente, ma scrivendo
intorno alle cose del Paese, non ho mai taciuto dell'elemento vostro né
del mutamento delle vostre condizioni come di cosa inseparabile da ogni
possibile progresso italiano. Di voi non temeva e sapeva che per apprestarvi a
quel progresso, non avevate bisogno di sprone. E s'oggi m'indirizzo a voi, lo fo
per avvertirvi d'un pericolo che vi minaccia e che sta in voi soli
d'allontanare. Di mezzo al moto normale degli uomini del lavoro è sorta
un'Associazione che minaccia falsarlo nel fine, nei mezzi e nello spirito al
quale v'ispiraste finora e dal quale soltanto otterrete vittoria. Parlo
dell'Internazionale.
Quest'associazione, fondata anni addietro in Londra e
alla quale io ricusai fin da principio la mia cooperazione, è diretta da
un Consiglio, anima del quale è Karl Marx, tedesco, uomo d'ingegno acuto
ma, come quello di Proudhon, dissolvente, di tempra dominatrice, geloso
dell'altrui influenza, senza forti credenze filosofiche o religiose, e temo, con
più elemento d'ira, s'anche giusta, che non d'amore nel cuore. Il
Consiglio, composto d'uomini appartenenti a Paesi diversi e nei quali sono
diverse le condizioni del popolo, non può avere unità di concetto
positivo sui mali esistenti e sui rimedi possibili, ma deve inevitabilmente
conchiudere più che ad altro a semplici negazioni. [...]
I principi
promossi dai Capi e dagli influenti dell'Internazionale sono:
Negazione di
Dio, cioè dell'unica ferma, eterna incrollabile base dei doveri altrui
verso la vostra classe, della certezza che siete chiamati a vincere e che
vincerete. Cancellata l'esistenza d'una prima causa intelligente, è
cancellata l'esistenza d'una legge morale suprema su tutti gli uomini e
costituente per tutti un obbligo: è cancellata la possibilità
d'una legge di Progresso, d'un disegno intelligente regolatore della vita
dell'Umanità. [...]
Negazione della Patria, della Nazione: -
cioè del punto d'appoggio alla leva colla quale potete operare a pro di
voi medesimi e dell'Umanità. [...] La patria vi fu data da Dio,
perché in un gruppo di venticinque milioni di fratelli affini più
strettamente a voi per nome, lingua, fede, aspirazioni comuni e lungo glorioso
sviluppo di tradizioni e culto di sepolture di cari spariti e ricordi solenni di
Martiri caduti per affermar la Nazione, trovaste più facile e valido
aiuto al compimento d'una missione, alla parte di lavoro che la posizione
geografica e le attitudini speciali v'assegnano. [...]
Negazione d'ogni
proprietà individuale, cioè d'ogni stimolo alla produzione da
quello della necessità di vivere infuori. La proprietà, quando
è conseguenza del Lavoro, rappresenta l'attività del corpo,
dell'organismo, come il pensiero rappresenta quella dell'anima: è il
segno visibile della nostra parte nella trasformazione del mondo materiale, come
le nostre idee, i nostri diritti di libertà e d'inviolabilità
della coscienza sono il segno della nostra parte nella trasformazione del mondo
morale. [...] Bisogna tendere all'impianto d'un ordine di cose nel quale la
proprietà non possa diventar monopolio e non scenda in futuro se non dal
lavoro, nel quale, quanto al presente, le leggi tendano a scemare gradatamente
il suo permanente concentramento in poche mani e si giovino d'ogni giusto mezzo
ad agevolarne la trasmissione e il riparto. Ma l'abolizione della
proprietà individuale e la sostituzione della proprietà collettiva
sopprimerebbero ogni sprone al lavoro [...] sopprimerebbero la libertà
del lavoro negli individui e attribuendo all'autorità di pochi
rappresentanti lo Stato o il Comune accessibili all'egoismo, alla seduzione, a
tendenze arbitrarie, l'amministrazione d'ogni proprietà, ricondurrebbe
sott'altro nome tutti i cittadini al sistema del salario al quale vorremmo a
poco a poco sottentrasse l'associazione...
Contro Mazzini,
l'Internazionale ribadì il principio della lotta di classe come strumento
per giungere all'abolizione di tutte le classi, ossia come strumento per
ottenere l'emancipazione completa, economica oltre che politica, del
proletariato. Ma anche tra i diversi gruppi socialisti esistevano profonde
divisioni. I socialisti libertari o anarchici, che si rifacevano al pensiero di
Proudhon e di Bakunin, indicavano l'origine e il puntello di ogni diseguaglianza
sociale nello Stato, considerato come l'organizzazione legale della violenza
contro la libertà e la felicità degli uomini. Anche lo Stato
«democratico», che vorrebbe presentarsi come lo Stato di tutti,
esercita di fatto, secondo gli anarchici, un'autorità tirannica sui
cittadini, perpetuando la divisione tra sfruttatori e sfruttati e tra oppressori
ed oppressi. Per i socialisti libertari o anarchici l'emancipazione della classe
operaia doveva significare insieme abolizione delle classi e distruzione dello
Stato.
Anche i marxisti ritenevano che ogni Stato (e perciò anche lo
Stato democratico) non fosse altro che l'espressione violenta della
diseguaglianza e della divisione della società in classi. Esprimevano
questa idea in forma un po' paradossale dicendo che ogni Stato è la
«dittatura» di una classe sulle altre. Anche per i marxisti, dunque,
l'abolizione delle classi avrebbe dovuto coincidere con l'estinzione di ogni
forma di autorità statale. Ma per costruire una società senza
classi (una società comunista) essi ritenevano necessario innanzi tutto
impadronirsi dell'apparato dello Stato: se l'abolizione di ogni diseguaglianza
sociale e di ogni autorità restava il fine ultimo del movimento
socialista, il suo obiettivo immediato e irrinunciabile era la conquista del
potere politico da parte del proletariato, e cioè la costruzione (come
dicevano) di una «dittatura» del proletariato.
Tra queste due
posizioni non era possibile alcuna conciliazione e la Prima Internazionale si
divise nel 1872 in due tronconi, quello socialista e quello anarchico, ciascuno
dei quali sopravvisse per pochi anni. Nonostante le divisioni ideologiche la
Prima Internazionale rappresentò un momento fondamentale della storia del
movimento operaio, dando attuazione ed evidenza al principio dell'unità
di interessi e di aspirazioni che al di sopra di tutte le barriere di
nazionalità o di razza dovrebbe accomunare gli sfruttati di tutto il
mondo.
Karl Marx e Friedrich Engels in una foto di famiglia
PREAMBOLO DEGLI STATUTI GENERALI DELL'ASSOCIAZIONE INTERNAZIONALE DEI
LAVORATORI
Considerando che l'emancipazione della
classe operaia deve essere opera della classe operaia stessa, che la lotta per
l'emancipazione della classe operaia non è una lotta per privilegi di
classe e monopoli, ma per stabilire eguali diritti e doveri e per abolire ogni
dominio dl classe; che la soggezione economica del lavoratore a colui che gode
del monopolio dei mezzi di lavoro, cioè delle fonti della vita, forma la
base della servitù in tutte le sue forme, la base di ogni miseria
sociale, di ogni degradazione spirituale e di ogni dipendenza politica; che di
conseguenza l'emancipazione economica della classe operaia e il grande fine cui
deve essere subordinato, come mezzo, ogni movimento politico; che tutti gli
sforzi per raggiungere questo grande fine sono falliti per la mancanza di
solidarietà le molteplici categorie di operai in ogni Paese e l'assenza
di una unione fraterna tra le classi operaie dei diversi Paesi; che
l'emancipazione degli operai non e un problema locale né nazionale, ma un
problema sociale che abbraccia tutti i Paesi in cui esiste la società
moderna, e la cui soluzione dipende dalla collaborazione pratica e teorica dei
Paesi più progrediti; che il presente risveglio della classe operaia
nei Paesi industrialmente più progrediti d'Europa, mentre ridesta nuove
speranze ed in pari tempo un serio ammonimento a non ricadere nei vecchi errori,
esige l'unione immediata dei movimenti ancora disuniti; per queste
considerazioni è stata fondata l'Associazione Internazionale degli
Operai.
SOCIETŔ SENZA CAPI
Nel grande filone delle dottrine socialiste
e comuniste se ne distinguono alcune, che chiamiamo anarchiche o libertarie, per
le quali la trasformazione della società richiede in primo luogo la
distruzione d'ogni forma di autorità statale. Anche nel marxismo, come
abbiamo visto, il fine ultimo della rivoluzione è l'eliminazione dello
Stato; il marxismo però prevede un periodo più o meno lungo di
transizione in cui l'organizzazione statale con tutti i suoi strumenti di
coercizione continua ad esistere, sia pure sotto il controllo della classe
operaia (dittatura del proletariato). L'anarchismo nega che sia necessario un
tale periodo di transizione e nega soprattutto che una rivoluzione
antiautoritaria possa essere compiuta con metodi autoritari.
Di per
sé la parola anarchia significa semplicemente assenza di un padrone,
mancanza di ogni autorità superiore. Perciò essa può
indicare tanto lo stato di disordine e di confusione derivante dalla mancanza (o
dall'inefficienza) di un Governo, quanto la felice condizione di una
società che non ha bisogno di alcuna autorità governativa,
perché la pace e l'ordine regnano spontaneamente tra i suoi membri. Il
termine anarchia ha dunque un doppio significato, l'uno negativo, l'altro
positivo.
Per molto tempo il significato negativo fu il solo ad essere
usato. Il primo che adoperò il termine anarchia in senso positivo e che
definì se stesso anarchico fu il pensatore francese Pierre-Joseph
Proudhon nel 1840. La premessa del pensiero anarchico è che l'uomo
è per natura portato a vivere in società e che ha in sé
tutti gli attributi necessari per conciliare la libertà con l'ordine
sociale: «La giustizia» scriveva Proudhon «esiste in noi come
l'amore, come le idee di bellezza, di utilità, di verità, come
tutte le nostre capacità e facoltà». Poiché l'uomo
è per natura capace di vivere in una società libera, coloro che
tentano di imporre alla società delle leggi che sono espressione soltanto
della loro particolare volontà sono i veri nemici dell'umanità.
Ribellandosi ad ogni autorità costituita gli anarchici compiono dunque
innanzi tutto un elementare gesto di difesa: «Chiunque metta le mani su di
me per governarmi - ebbe a dire Proudhon - è un usurpatore e un tiranno:
lo dichiaro mio nemico». Ma difendendo se stessi e la società
dall'usurpazione dei governi, gli anarchici lavorano già alla costruzione
di un'organizzazione sociale sulla spontanea cooperazione di uomini liberi ed
uguali: in essa gli individui dovrebbero unirsi, ma su base esclusivamente
volontaria, formando comuni o associazioni di lavoratori che, a loro volta,
potrebbero federarsi in organizzazioni più vaste e capaci di dare il
necessario coordinamento all'attività produttività delle diverse
comunità. In questa rete di libere associazioni e di comunità
spontanee i vari interessi troverebbero un equilibrio ed una conciliazione sulla
base della naturale tendenza degli uomini ad aiutarsi reciprocamente. Certo la
società vagheggiata dagli anarchici ha una struttura troppo semplice per
essere una società più efficiente e più ricca dell'attuale.
Ma l'abbondanza dei beni materiali non ha di per sé valore. Una volta
soddisfatti i bisogni elementari di ogni uomo, il solo progresso auspicabile
è quello della cultura, dell'arte, della scienza.
Come disse un
anarchico russo, Pëter Alekseevic Kropotkin, «gli anarchici aspirano
ad una società in cui i rapporti umani siano regolati non da leggi o da
governi, ma da accordi reciproci tra i membri della società stessa che si
adattino alle esigenze sempre crescenti di una vita libera e ricevano stimoli
sempre nuovi dal progresso della scienza e dall'affermazione dei più
nobili ideali». Per raggiungere questo obiettivo è necessario
distruggere tutto ciò che nella società attuale mortifica la
libertà dell'uomo. Questo appello alla rivolta ed alla distruzione ha
fatto spesso confondere l'anarchismo con un atteggiamento di pura e semplice
negazione. Ma gli anarchici vogliono distruggere per ricostruire, e la loro
rivolta è diretta a ristabilire l'equilibrio naturale che
l'autorità ha turbato e corrotto. «La passione per la distruzione -
ha scritto Michail Bakunin - è anche passione
creatrice».
Io non sono veramente libero - ha scritto ancora -
che quando tutti gli esseri umani che mi circondano, uomini e donne, sono
ugualmente liberi. La libertà, lungi dall'essere un limite o la negazione
della mia libertà, ne è al contrario la condizione necessaria e la
conferma. Io non divento libero veramente che per mezzo della libertà
degli altri, di modo che più numerosi sono gli uomini liberi che mi
circondano e più profonda e più ampia diventa la mia
libertà. Al contrario è la schiavitù degli uomini che pone
una barriera alla mia libertà o, ciò che è lo stesso,
è la loro bestialità che è una negazione della mia
umanità; perché ripeto, non posso dirmi libero veramente che
quando la mia libertà o, ciò che significa la stessa cosa, quando
la mia dignità d'uomo, il mio diritto umano (che consiste nel non
obbedire a nessun altro uomo e nel non determinare i miei atti se non
conformemente alle mie proprie convinzioni), riflessi dalla coscienza egualmente
libera di tutti, mi ritornano confermati dall'assenso di tutti. La mia
libertà personale così confermata dalla libertà di tutti si
estende all'infinito.
LA COMUNE DI PARIGI
Il 19 luglio del 1870 scoppiò la
guerra tra la Francia di Napoleone III e la Prussia governata dal primo ministro
Otto di Bismarck. Si è già accennato alle ragioni della guerra.
Bismarck intendeva giungere all'unità della Germania, non però per
iniziativa popolare, ma con il consenso (più o meno spontaneo) degli
altri principi tedeschi e come conseguenza di una clamorosa affermazione della
potenza militare prussiana. Fece perciò in modo che il fatuo Napoleone
III, che credeva davvero di poter fare la voce grossa in Europa come il suo
grande zio, provocasse la guerra a cui l'esercito prussiano si preparava da
tempo e a cui parteciparono tutti gli altri Stati tedeschi. Il 1°
settembre, a Sedan, i prussiani circondarono il grosso dell'armata francese e lo
stesso Napoleone III fu fatto prigioniero. Tre giorni dopo a Parigi veniva
proclamata la Repubblica: era la Terza Repubblica francese. Il Governo
provvisorio, ma soprattutto le forze democratiche, radicali e repubblicane
cercarono di organizzare una disperata resistenza (vi prese parte anche l'ormai
vecchio Garibaldi) con lo scopo, quanto meno, di ottenere meno gravose
condizioni di pace. L'esercito prussiano mise l'assedio a Parigi, che,
sottoposta a bombardamenti e soprattutto stretta dalla fame, il 28 gennaio 1871
dovette capitolare; lo stesso giorno a Versailles veniva firmato l'armistizio.
Dieci giorni prima nella Sala degli Specchi a Versailles il re di Prussia,
Guglielmo era stato proclamato imperatore di Germania e Bismarck era stato
nominato Cancelliere.
Poco dopo fu eletta l'Assemblea Nazionale incaricata
di elaborare la nuova costituzione. Come già era successo nel
Quarantotto, l'assemblea repubblicana era in realtà piena di monarchici.
Il governo venne affidato ad Adolfo Thiers, un antico avversario di Luigi
Napoleone, che però nel 1848, in odio ai socialisti, aveva accettato la
sua candidatura alla presidenza della Seconda Repubblica. Il 28 febbraio 1871
Thiers trasformò l'armistizio in preliminari di pace. La pace imposta da
Bismarck fu durissima: due grandi regioni francesi, l'Alsazia e la Lorena,
passarono al neonato Impero germanico; la Francia dovette impegnarsi a pagare un
enorme indennizzo di guerra, e a tollerare come garanzia del pagamento un
esercito di occupazione tedesco; in più i Tedeschi pretesero di entrare
in Parigi e di sfilare in trionfo. I Parigini, in grande maggioranza radicali e
socialisti, che già diffidavano dei generali francesi per l'inefficienza
con cui avevano difeso la capitale e il Paese, e che diffidavano dell'Assemblea
Nazionale e del Governo per il loro moderatismo e per la decisione di riunirsi a
Versailles anziché a Parigi, videro nell'ingresso dei Tedeschi la
conferma dei loro peggiori sospetti e si ribellarono. Il 18 marzo 1871 le truppe
mandate da Thiers a ristabilire l'ordine fraternizzarono con il popolo di
Parigi; due generali, catturati dai ribelli, vennero fucilati. Era nata la
Comune di Parigi. In assenza del Governo, il potere nella capitale fu assunto
dal Comitato centrale della Guardia Nazionale formato da delegati dei vari
battaglioni. Chi erano costoro? Così sono stati presentati da uno
scrittore «comunardo» (come si chiamano i seguaci della
Comune):
... Non ne conosco alcuno. Mi dicono i loro nomi, non li ho
mai uditi. Sono delegati di battaglioni, conosciuti solamente nei loro
quartieri. Hanno avuto i loro successi di uomini di parola e di uomini d'azione
nelle assemblee [...]. Non sono ancora che sei o sette, in questo momento, nella
grande sala dove l'Impero, or non è molto, danzava in uniforme dorata
[...]. Oggi una mezza dozzina di giovanotti dalle scarpe grosse, con una
berretta di maglia di lana, senza spalline rappresentano il
Governo...
La prima preoccupazione di questi uomini fu di affidare al
popolo l'elezione della Comune, cioè dell'amministrazione comunale
parigina, che avrebbe avuto il compito non solo di reggere le sorti di Parigi,
ma anche di offrire a tutta la Francia un modello di Governo autonomo e
popolare. Il 26 marzo si svolsero le elezioni: la maggioranza dei voti
andò ad esponenti socialisti. Fu questo il fatto nuovo che rese famosa la
Comune: per la prima volta nella storia si ebbe l'avvento di un Governo
socialista. I membri della Comune avevano solo una scarsa esperienza di
amministrazione ed anche il loro livello di istruzione era molto modesto, eppure
affrontarono con successo la situazione di disordine amministrativo e di
disorganizzazione dei servizi pubblici che era stata provocata dalla fuga dei
ministri e dei funzionari del Governo.
Altre città francesi come
Lione, Marsiglia, Tolosa, Narbonne, ebbero, sia pure per brevissimo tempo, la
loro Comune. Quella di Parigi non dimenticò di lanciare il suo appello
anche ai contadini, sul cui spirito conservatore faceva leva Thiers per isolare
il movimento rivoluzionario affermatosi nelle città. In un famoso
manifesto rivolto dai comunardi ai contadini era sottolineata l'identità
di interessi che univa i lavoratori delle città e quelli delle
campagne:
... Fratello, ti ingannano. I nostri interessi sono gli
stessi. Quello che io domando anche tu lo vuoi: l'affrancamento che io reclamo
è il tuo. [...] Da te come da noi la giornata di lavoro è lunga e
dura. [...] A te come a me mancano la libertà, il riposo, la vita dello
spirito e del cuore. [...] Ecco perché Parigi si agita, reclama, si
solleva e vuole cambiare le leggi che danno ogni potere ai ricchi a danno dei
lavoratori. Parigi vuole che il figlio del contadino sia istruito quanto il
figlio del ricco e gratis. [...] Parigi vuole dare la terra al contadino, gli
strumenti all'operaio, il lavoro a tutti...
Ma il programma della
Comune poté essere realizzato solo in minima parte perché essa fu
costretta innanzi tutto a pensare alla propria difesa. Thiers, il 2 aprile,
respingendo ogni tentativo di soluzione pacifica e deciso a stroncare alle
radici il movimento, lanciò contro Parigi un esercito di centomila
uomini. Si ripeteva l'esperienza del giugno 1848. Ma anche il ricordo di quelle
terribili giornate doveva impallidire in confronto alla spietata decisione con
cui venne stroncata la Comune. Dal 21 al 27 maggio 1871 Parigi visse forse le
giornate più tragiche ed eroiche della sua storia. Gli episodi di valore
non si contano: l'intera popolazione si batté con la forza della
disperazione. Le donne non furono da meno degli uomini. Un loro proclama
diceva:
... Bisogna vincere o morire. Voi che vi chiedete che cosa
importi il trionfo della nostra causa se si devono perdere coloro che si amano,
sappiate che il solo mezzo di salvare coloro che vi sono cari è quello di
gettarvi nella lotta...
In questa lotta, i ragazzi rivaleggiarono con
gli adulti. Seguivano i battaglioni nelle trincee, nei forti, si inerpicavano
sui cannoni; taluni degli addetti ai pezzi della porta Maillot, uno dei punti in
cui la difesa fu più accanita, erano dei ragazzi di 13 o 14 anni.
L'esercito del Thiers ne cattura 660, e molti caddero nelle strade.
Alla
fine di questa terribile «settimana di sangue» le esecuzioni sommarie
furono forse ventimila; trentottomila furono gli arresti a cui fecero seguito
condanne e deportazioni. Le vittime della grande carneficina, fra i morti in
battaglia e i fucilati, furono, pare, non meno di centomila. Ma nessuno ha mai
potuto contarli.
LA SETTIMANA DI SANGUE
Jules Vallès (1832-1885) è stato un
grande giornalista radicale, più volte finito in prigione per i suoi
scritti contro il regime di Napoleone III. Come membro dell'assemblea della
Comune e come direttore del «Grido del Popolo», il giornale più
diffuso a Parigi in quel periodo, svolse un'intensa attività ispirata
agli ideali e ai programmi del socialismo libertario. Durante la disperata
resistenza che i comunardi opposero alle truppe versagliesi combatté
eroicamente sulle barricate. Quando anche l'ultima barricata cadde
riuscì, con l'aiuto di coraggiosi cittadini, a sfuggire alla cattura ed
alla fucilazione. A Londra, dove si rifugiò, raccontò la sua vita
nei quattro romanzi del ciclo Jacques Vingtras. Nel terzo di questi romanzi,
L'insorto, Vallès ha rievocato la sua partecipazione alle vicende della
Comune. Ne utilizziamo alcuni brani come flash su quegli ultimi, terribili,
giorni di lotta, «la settimana di sangue».
Lunedì 22
maggio
Credevo che Parigi avesse già l'aria di essere morta prima
ancora di essere uccisa. Ecco invece che donne e bambini si uniscono ai
combattenti! Una bandiera rossa tutta nuova è stata piantata da una bella
ragazza e sopra queste pietre grigie fa l'effetto di un papavero sopra un
vecchio muro.
Martedì 23 maggio
Nella zona del
Panthéon si è scatenata la battaglia. Ah! Come è triste
vedere al sorgere del sole questa distesa di barelle, tutte imbrattate di
porpora umana! Sono i feriti di lassù, della via Vavin e del boulevard
Arago, che vengono portati alle ambulanze. Ho dormito in un punto qualunque del
municipio; vicino ad un morto, come l'altra notte.
Mercoledì
24 maggio
Dall'altra parte della Senna la resistenza sembra solida. Ad ogni
mucchio di pietre è attaccato un pugno di uomini che ci salutano e che
alle cattive notizie che portiamo rispondono:
- Di qui forse i versagliesi
non avranno tanta fortuna... E poi, tanto peggio!... Si farà quel che
c'è da fare, ecco tutto! -.
Le sentinelle si mettono a sedere con
l'aria di contadini che si riposano quando verso mezzogiorno si porta loro la
zuppa sui campi. Accanto alle bluse degli operai ci sono vestiti e camicette
femminili. Le mogli e i figlioletti son venuti qui col brodo e la pietanza, si
stende la tovaglia sulla terra nuda.
Offriamo qualche bicchiere di vino.
Dicono: - Non troppo! -. Fra tutti coloro con i quali abbiamo voluto bere non ne
abbiamo visto neppure uno che fosse anche solo un po'
alticcio.
Domenica 28 maggio
Siamo sulla barricata gigante che
si trova sulla strada di Belleville. Rispondiamo col fucile e col cannone al
fuoco terribile diretto contro di noi. Alle finestre delle case d'angolo i
nostri han messo dei materassi, che fumano sotto i colpi dei proiettili. Di
tanto in tanto una testa si abbatte sul davanzale, come la testa di un
burattino: colpito!
Abbiamo un cannone servito da artiglieri silenziosi e
valenti. Uno di essi non ha più di vent'anni, ha i capelli color del
grano e le pupille color fiordaliso. Arrossisce come una ragazza quando riceve i
nostri complimenti per l'esattezza dei suoi tiri.
Improvvisamente le
finestre si sguarniscono, la diga sprofonda. Il cannoniere biondo ha lanciato un
grido. Una pallottola lo ha colpito in fronte e ha fatto come un occhio nero fra
i suoi due occhi azzurri.
- Siam perduti! Si salvi chi può!
-.
- Chi vuole nascondere due insorti? -.
Abbiamo gridato questo
nei cortili, con lo sguardo fisso sui piani delle case, come dei mendicanti che
aspettano che si butti loro un soldo.
Nessuno ci fa l'elemosina! Questa
elemosina chiesta con le armi in mano!
Dove posso ficcarmi? A dieci passi
di qui c'è un albergo, dove ho abitato un volta. Questo quartiere
è stato conquistato già da cinque giorni e ci sono pochi soldati
in giro.
Salgo le scale.
Busso dolcemente; l'albergatore viene ad
aprire.
- Sono io, non gridate! Se mi cacciate via sono morto...
-
Entrate. Signor Vallès...