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ITINERARI - L'OCCIDENTE - DA UNA GUERRA ALL'ALTRA

L'EUROPA IN TRINCEA

Tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo la gara per l'accaparramento delle colonie in cui si erano lanciati i governi europei, aveva finito per creare fra di loro forti rivalità: in Africa si fronteggiavano Inghilterra, Francia e Germania; in Asia queste stesse potenze entravano in concorrenza con la Russia e il Giappone. Al dominio europeo sul mondo si opponevano inoltre due grandi potenze che, uscite dal tradizionale isolamento, avevano acquistato un'importanza mondiale: gli Stati Uniti d'America e il Giappone. Anche in Europa le relazioni internazionali presentavano numerosi e preoccupanti punti d'attrito: l'Alsazia e la Lorena erano rivendicate dalla Francia a cui la Germania le aveva tolte dalla guerra del 1870-71, mentre nei Balcani al ribollire delle nazionalità oppresse (croati, sloveni, ecc.) e di quelle emergenti (serbi, bulgari, romeni, ecc.) si sovrapponevano gli opposti giochi di dominio dell'Austria e della Russia. Nel Mediterraneo orientale, poi, la crisi permanente dell'Impero ottomano, mentre suscitava tra Arabi e Turchi aspirazioni di rinnovamento, attirava la bramosia delle maggiori potenze europee.
Nel decennio 1904-1914, una serie di crisi politiche internazionali talvolta degenerate in guerre locali aveva messo a dura prova il fragile equilibrio su cui si reggeva la pace in Europa. L'Inghilterra, che era stata fino ad allora la garante di questo equilibrio, si sentiva ora minacciata nella sua supremazia marittima dal crescente sviluppo della flotta tedesca. Si erano perciò formati in Europa due schieramenti contrapposti: da una parte la vecchia Triplice Alleanza, che comprendeva gli Imperi Centrali (Germania e Austria-Ungheria) e l'Italia e che era stata più volte rinnovata; dall'altra parte la Triplice Intesa, costituita in tempi più recenti da Francia, Russia e Gran Bretagna.
La scintilla che fece scoppiare il conflitto fu l'attentato all'arciduca d'Austria Francesco Ferdinando compiuto a Sarajevo il 28 giugno 1914 da un terrorista serbo. Come riparazione il Governo austriaco avanzò alla Serbia delle richieste inaccettabili e quando il suo ultimatum fu respinto le dichiarò guerra (28 luglio 1914). Immediatamente si mise in moto il meccanismo delle alleanze: la Russia si schierò con la Serbia e proclamò la mobilitazione generale; a ciò rispose la Germania alleata dell'Austria dichiarando guerra prima alla Russia, poi alla Francia; l'Inghilterra di fronte all'invasione del Belgio da parte dell'esercito tedesco, che cercava con questa mossa di aggirare l'esercito francese, dichiarò guerra alla Germania. l'Italia proclamò, per il momento, la sua neutralità, mentre al di fuori dell'Europa, il Giappone entrò in guerra contro la Germania, occupandone i possedimenti in Cina. Al fianco degli Imperi Centrali si schierò invece la Turchia.
La Germania, forte della sua potenza militare, attaccò subito la Francia, contando di liquidarne la resistenza in poco tempo per poi rivolgere l'azione verso il fronte russo. Ma i Francesi bloccarono l'avanzata tedesca sulla Marna, e fecero fallire il sogno della Germania di una guerra breve e vittoriosa. Iniziò allora la guerra detta di «posizione» o «di logoramento», che, almeno sul fronte occidentale (e poi su quello italiano) caratterizzò tutto il resto del conflitto e che fu combattuta da milioni di uomini pigiati nelle trincee difese dalle mitragliatrici e dai reticolati.
Intanto la guerra si estendeva ad altri Paesi come un'epidemia: nel maggio 1915 l'Italia abbandonava i suoi antichi alleati, gli Imperi Centrali, e si schierava a fianco dell'Intesa; nell'autunno dello stesso anno la Bulgaria si alleava con l'Austria e la Germania, consentendo l'invasione della Serbia che fu costretta a capitolare. Gli Imperi Centrali avevano intanto concentrato i loro sforzi sul fronte orientale e scatenato contro la Russia una serie di offensive, ottenendo qualche vittoria, anche di grande rilievo, almeno in rapporto all'enorme massa di uomini e ai vasti territori che vi erano coinvolti, ma nessun successo definitivo.
La guerra proseguì nel 1916 senza mutamenti decisivi: sul fronte occidentale all'offensiva tedesca di Verdun rispose l'attacco anglo-francese della Somme, in cui comparvero per la prima volta i carri armati. Nel Trentino falliva, intanto, un'offensiva austriaca. Sul fronte orientale una controffensiva russa veniva arrestata e senza effetti di rilievo si rivelava l'intervento in guerra della Romania contro l'Austria. Neppure l'unica vera battaglia navale della guerra, che si svolse in quell'anno, quella dello Jutland tra flotta germanica e britannica, produsse conseguenze importanti nei rispettivi rapporti di forza.
Nel 1917, due avvenimenti modificarono l'andamento del conflitto: l'intervento in guerra degli Stati Uniti d'America e la rivoluzione russa. Negli Stati Uniti erano ancora forti le correnti «isolazioniste», che volevano, cioè, mantenere il Paese estraneo ai conflitti tra potenze europee. Ma le tradizioni comuni e i forti legami economici con i Paesi dell'occidente europeo facevano pendere le simpatie dell'opinione pubblica americana verso gli Alleati (Francia, Inghilterra, Italia ecc.), tanto più che la richiesta proveniente da questi Paesi di ogni sorta di materie prime e di manufatti rappresentava per gli Americani un'eccezionale occasione di buoni affari. La Germania, convinta di non poter ottenere una vittoria decisiva sui fronti terrestri finché fosse durato l'incessante flusso di rifornimenti che alimentava lo sforzo bellico degli Alleati, e incapace di sottrarre alla flotta inglese il controllo del mare, ricorse alla guerra sottomarina indiscriminata, rivolta cioè contro tutte le navi mercantili, anche quelle neutrali, che fossero presumibilmente dirette verso porti nemici. La decisione tedesca determinò nell'opinione pubblica americana, che vi vide una violazione della libertà di navigazione, le condizioni per un superamento delle ultime reticenze che ancora si opponevano a un intervento diretto nel conflitto.
Quando gli Stati Uniti entrarono in guerra, la posizione militare degli Alleati sembrava gravemente compromessa. Il loro intervento fu dunque risolutivo per l'esito della guerra, non solo per l'apporto di milioni di nuovi combattenti (dei quattro milioni di mobilitati, due milioni sbarcarono in Francia, ed oltre un milione fu impiegato al fronte), ma anche per l'impiego di un crescente numero di navi, con cui fu possibile neutralizzare l'offensiva sottomarina tedesca e assicurare i rifornimenti all'Europa.
Mentre le truppe americane si apprestavano a rafforzare il fronte degli Alleati, la rivoluzione in Russia provocava prima (nel marzo) il crollo del regime zarista e poi (nel novembre), quando il potere fu conquistato dai seguaci di Lenin, i bolscevichi (che poi si sarebbero chiamati comunisti), l'uscita definitiva di quel Paese dal conflitto. Nel frattempo, alla fine di ottobre, gli Austrotedeschi riuscivano a sfondare il fronte italiano a Caporetto e a travolgere tutte le linee di difesa. Se anche l'Italia avesse ceduto, le sorti della guerra sarebbero tornate di nuovo decisamente favorevoli agli Imperi Centrali. Ma la rotta dell'esercito italiano (che perse oltre quattrocentomila uomini tra morti, feriti e prigionieri) fu arrestata bene o male al Piave.
L'ultimo anno di guerra, il 1918, vide ovunque la ripresa degli Alleati, che riuscirono a respingere gli ultimi sforzi offensivi dell'esercito tedesco sul fronte occidentale e di quello austriaco sul fronte italiano. Nel settore sud-orientale, frattanto, sotto l'attacco combinato di Francesi, Inglesi, Serbi e Greci, cadeva la Bulgaria; poco dopo si arrendeva anche la Turchia. L'Austria-Ungheria e la Germania, rimaste isolate, caddero subito dopo: l'esercito austriaco si sfasciava di fronte all'offensiva italiana di Vittorio Veneto e quello tedesco ripiegava sotto l'attacco di Americani, Francesi e Belgi. Nella prima metà di novembre venivano firmati gli armistizi. La «Grande Guerra», come fu chiamata, era finita. In quattro anni e quattro mesi aveva provocato quasi nove milioni di morti. uno ogni quindici secondi.
Prima guerra mondiale: una trincea sulla Somma


I QUATTORDICI PUNTI DI WILSON

L'intervento degli Stati Uniti nel conflitto mondiale, di cui la guerra sottomarina indiscriminata scatenata dalla Germania non fu che un pretesto, aveva le sue più solide motivazioni nella crescente presenza americana in tutte le aree oggetto di contesa, dall'Europa all'Estremo Oriente, e nella necessità di salvaguardare gli ingenti prestiti accordati alle potenze dell'Intesa. Ma, rispettando un tratto caratteristico della politica estera americana (che abbiamo avuto occasione di richiamare in particolare a proposito della guerra di Cuba), il presidente degli Stati Uniti, il democratico Woodrow Wilson (1856-1924), volle dare all'intervento un preminente significato ideale: si trattava, dopo i ripetuti, vani tentativi di mediazione tra le potenze belligeranti, di schierarsi con quelle che sembravano offrire le migliori garanzie di voler costruire, dopo la vittoria, un nuovo ordine internazionale, fondato sulla pace, sulla giustizia, sull'autodeterminazione, sulla collaborazione dei popoli. Wilson cercò di delineare i principi di questo nuovo ordine internazionale nei suoi famosi Quattordici Punti, un documento straordinario che rinverdì negli esausti popoli dell'Intesa l'illusione che la guerra in corso potesse davvero essere l'ultima delle guerre:

1) Convenzioni di pace palesi, apertamente concluse e in base alle quali non vi saranno accordi internazionali segreti di alcuna specie, ma la diplomazia agirà sempre palesemente e in vista di tutti.
2) Libertà assoluta della navigazione sui mari all'infuori delle acque territoriali, tanto in tempo di pace quanto in tempo di guerra, salvo per i mari che potessero essere chiusi in tutto o in parte mediante un'azione internazionale in vista dell'esecuzione di accordi internazionali.
3) Soppressione, per quanto sarà possibile, di tutte le barriere economiche e creazione di condizioni commerciali eguali fra tutte le Nazioni che consentiranno alla pace, e si assoceranno per mantenerla.
4) Garanzie convenienti date e prese che gli armamenti nazionali saranno ridotti all'estremo limite compatibile con la sicurezza del Paese.
5) Libera sistemazione, con spirito largo e assolutamente imparziale, di tutte le rivendicazioni coloniali basate sulla stretta osservanza del principio che, nel determinare tutte le questioni di sovranità, gli interessi delle popolazioni interessate dovranno avere un peso eguale a quello delle domande eque del Governo il cui titolo dovrà essere conosciuto.
6) Sgombero di tutti i territori russi e soluzione di tutte le questioni concernenti la Russia che assicuri la migliore e più libera cooperazione delle altre Nazioni per dare alla Russia il modo di determinare, senza essere ostacolata né turbata, l'indipendenza del proprio sviluppo politico e della propria politica nazionale, per assicurarle una sincera accoglienza nella Società delle Libere Nazioni con istituzioni di sua scelta, e più che una accoglienza, ogni aiuto di cui abbia bisogno e che desideri. Il trattamento fatto alla Russia dalle Nazioni sue sorelle durante i mesi avvenire, sarà la pietra di paragone della loro buona volontà e della loro comprensione dei suoi bisogni, astrazion fatta dai loro interessi e dalla loro intelligenza e simpatia disinteressata.
7) Quanto al Belgio, il mondo intero sarà d'accordo che esso dev'essere sgombrato e restaurato senza alcun tentativo di limitare la sovranità di cui gode nel concerto delle altre Nazioni libere. Nessun altro atto servirà quanto questo a ristabilire la fiducia tra le Nazioni nelle leggi che esse stesse hanno stabilito e fissato per regolare le loro reciproche relazioni. Senza questo atto salutare, tutta la struttura e la validità di tutte le leggi internazionali sarebbero per sempre indebolite.
8) Tutto il territorio francese dovrà essere liberato e le regioni invase dovranno essere restaurate. Il torto fatto alla Francia dalla Prussia nel 1871 per quanto riguarda l'Alsazia-Lorena e che ha turbato la pace del mondo per quasi cinquant'anni, dovrà essere riparato affinché la pace possa ancora una volta essere garantita nell'interesse di tutti.
9) La sistemazione delle frontiere dell'Italia dovrà essere effettuata secondo le linee di nazionalità chiaramente riconoscibili.
10) Ai popoli dell'Austria-Ungheria il cui posto desideriamo vedere tutelato e garantito fra le Nazioni, si dovrà dare più largamente occasione per uno sviluppo autonomo.
11) La Romania, la Serbia, il Montenegro dovranno essere restituiti. Alla Serbia dovrà accordarsi un libero e sicuro accesso al mare. Le relazioni tra i vari Stati balcanici dovranno essere fissate amichevolmente secondo i consigli delle Potenze e in base a linee di nazionalità stabilite storicamente. Saranno fornite a questi Stati balcanici garanzie di indipendenza politica ed economica e per l'integrità dei loro territori.
12) Una sicura sovranità sarà garantita alle parti turche dell'Impero ottomano attuale; ma le altre nazionalità che si trovano in questo momento sotto la dominazione turca, dovranno aver garantita una indubbia sicurezza di esistenza ed il modo di svilupparsi senza ostacoli autonomamente. I Dardanelli dovranno essere aperti permanentemente e costituire un passaggio libero per le navi e per il commercio di tutti sulla base di garanzie internazionali.
13) Dovrà essere stabilito uno Stato polacco indipendente che dovrà comprendere i territori abitati da popolazioni incontestabilmente polacche, alle quali si dovrà assicurare un libero e sicuro accesso al mare e la cui indipendenza politica ed economica, al pari dell'integrità territoriale, dovrà essere garantita mediante accordi internazionali.
14) Un'associazione generale delle Nazioni dovrà essere formata in base a convenzioni speciali, allo scopo di fornire mutue garanzie di indipendenza politica e di integrità territoriale ai grandi come ai piccoli Stati.

DALLA GUERRA ALLA RIVOLUZIONE

Alla vigilia della Prima guerra mondiale, la Russia era ancora uno dei Paesi europei economicamente e socialmente più arretrati. La grande maggioranza della popolazione (quasi 170 milioni di abitanti) era costituita da contadini (il 67 per cento circa). La popolazione operaia costituiva appena il 14 per cento. Il resto comprendeva nobili, proprietari terrieri, funzionari statali e borghesi di varia condizione. I contadini venivano comunemente classificati in tre categorie: contadini ricchi (kulaki), che producevano per il mercato e impiegavano manodopera salariata; contadini medi, che pur avendo terra sufficiente al proprio sostentamento, la lavoravano direttamente, senza ricorrere a manodopera salariata e, di norma, senza produrre eccedenze vendibili sul mercato; contadini poveri (batraki), che avevano poca terra o non ne avevano affatto ed erano quindi costretti a lavorare come salariati presso altri proprietari. Si calcola che alla vigilia della rivoluzione i primi costituissero il 10 per cento circa della popolazione contadina e i secondi il 50 per cento. Ma il confine tra contadini medi e contadini poveri era sempre assai labile.
Le industrie, d'impianto recente, erano concentrate in poche città, la più importante delle quali era la capitale, Pietroburgo. Gli operai, che erano passati dal milione e mezzo circa del 1890 ai tre milioni del 1914, anche se relativamente poco numerosi erano però notevolmente concentrati in imprese di grandi proporzioni. Vi era poi un vasto proletariato instabile, fluttuante tra città e campagna. La borghesia capitalistica vera e propria era poco consistente, e molto modesto era il ceto medio, formato da piccoli imprenditori e piccoli commercianti. Pochi grandi capitalisti, spesso stranieri, controllavano il mercato, mentre quelli medi scomparvero via via per la concorrenza della grande industria. Importante era sempre la presenza dei nobili e dei funzionari statali (in tutto meno di mezzo milione), due gruppi che, nella tradizione della nobiltà di servizio, per lungo tempo e almeno nei gradi superiori della burocrazia, si erano di fatto identificati.
I ceti medi erano molto più deboli che nel resto d'Europa e il contrasto tra ricchezza e povertà era drammatico, senza mediazioni. Nel 1906 soltanto centomila persone avevano un reddito superiore ai 1000 rubli, mentre altre ottocentomila avevano più di 800 rubli. Se si considera che per mantenere una famiglia con un tenore di vita «borghese» occorrevano mediamente dai sei ai settecento rubli di reddito, risulta chiaro che la stragrande maggioranza della popolazione russa viveva in condizioni modeste o di vera e propria povertà. La popolazione urbana non rappresentava, nel 1913, che il 15,5 per cento della popolazione totale. La Russia era insomma un Paese prevalentemente contadino e povero, anche se dotato di un nucleo di capitalismo industriale in fase di espansione.
Lo zar, con la sua famiglia, i ministri, i funzionari di grado più elevato e i pochi consiglieri fidati, esercitava ancora un potere praticamente assoluto, e in questo mondo chiuso la grande politica si confondeva spesso con l'intrigo cortigiano. L'ottusità e l'inefficienza della burocrazia russa erano proverbiali e poiché non esisteva alcuna vera forma di decentramento o di rappresentanza elettiva, i canali di comunicazione tra l'apparato statale e la società erano assai fragili, quasi inesistenti.
Il disagio della popolazione era già esploso nel 1905, in coincidenza con la sfortunata guerra con il Giappone. Lo zar era stato costretto a concedere, ultimo sovrano in Europa. un Parlamento (Duma) e a impostare una riforma agraria. Ma la Duma, eletta a suffragio ristretto, aveva poteri assai limitati. Quanto alla riforma agraria, concepita per sviluppare la proprietà contadina attraverso la distruzione della proprietà collettiva di villaggio, finì per favorire il gruppo dei kulaki, tra i quali il Governo sperava di trovare una base di massa, e per peggiorare le condizioni degli altri contadini. Importante fu però la ripresa d'iniziativa delle forze politiche, sia di orientamento liberale sia di ispirazione socialista e rivoluzionaria (le frazioni menscevica e bolscevica del partito socialdemocratico, e il partito socialista rivoluzionario); nella rivoluzione del 1905 avevano fatto la loro comparsa i soviet ossia i consigli operai.
Quando scoppiò la Grande Guerra parve che attorno allo zar Nicola II si realizzasse una nuova unità patriottica capace di far dimenticare i mali della società russa, ma il rovinoso andamento del conflitto, come già era accaduto nel corso della guerra russo-giapponese, servì semmai a metterli ancor di più in luce. La mobilitazione sotto le armi di milioni di contadini, fece bruscamente diminuire la mano d'opera disponibile per l'agricoltura, provocando la rarefazione dei generi alimentari. Le privazioni e l'alto numero di vittime suscitarono ondate di malcontento che investirono tanto le truppe quanto la popolazione civile, e si fecero particolarmente acute nel corso del 1916. Finalmente nel marzo (nel febbraio, secondo l'antico calendario russo) del 1917 un'insurrezione popolare rovesciò il regime zarista.
I soldati rifiutarono di obbedire oltre ai propri ufficiali. Ricomparvero i soviet operai e quello di Pietrogrado (come era stata ribattezzata Pietroburgo) assunse le funzioni di un organo di direzione e di controllo alternativo alla Duma.
L'abdicazione dello zar Nicola II (2 marzo 1917), la caduta dello zarismo e la formazione di un Governo provvisorio di ispirazione liberal-democratica furono accolti con favore nei Paesi dell'Intesa, dove si sperava che potessero significare un più efficiente impegno della Russia nel conflitto. Il nuovo regime, poi, a differenza di quello zarista, aveva un volto politicamente rispettabile e rendeva un po' più credibile l'immagine che della guerra aveva offerto la propaganda dell'Intesa: uno scontro all'ultimo sangue tra la civiltà liberale e democratica dell'Occidente (con la quale lo zarismo aveva ben poco a che fare) e la tradizione autoritaria e militaristica degli Imperi Centrali.
Il Governo provvisorio, rinviando al termine del conflitto le più gravi questioni sociali, si concentrò per il momento sui provvedimenti di emergenza in vista di un rinnovato sforzo bellico. Ma la rivoluzione si era espressa essenzialmente nel rifiuto della guerra da parte dei soldati e dei contadini, e doveva continuare a svilupparsi come un gigantesco e spontaneo movimento di renitenza. A partire dal luglio 1917 vi fu un'ondata di sanguinose proteste contro il Governo provvisorio colpevole di insistere nella prosecuzione di una guerra che nessuno, ormai, voleva più combattere. Lenin, leader della frazione bolscevica, diede ai suoi l'indicazione di mettersi alla testa del movimento per l'immediata fine della guerra e tra l'ottobre e il novembre i bolscevichi, dopo una serie di errori e di tentativi falliti, mossero decisamente alla conquista del potere spingendo i soviet degli operai e dei soldati all'attacco del Governo provvisorio per l'instaurazione di un regime socialista. Una rivoluzione socialista sarebbe stata impossibile senza l'appoggio dei contadini, che costituivano la grande maggioranza del popolo russo. I contadini non avevano obiettivi propriamente socialisti. Essi volevano principalmente due cose, e le volevano subito: la fine della guerra e la distribuzione delle terre. I bolscevichi accettarono le rivendicazioni dei contadini e nel novembre (ottobre, secondo il vecchio calendario russo) con un'insurrezione quasi incruenta costrinsero il capo del Governo provvisorio, Kerenski, ad abbandonare la capitale, Pietrogrado. Si formò un nuovo Governo, il Consiglio dei commissari del popolo, che decretò la cessazione delle ostilità, l'esproprio dei grandi proprietari terrieri, la concessione ai popoli dell'antico Impero russo del diritto di autodeterminazione, la nazionalizzazione delle banche e delle industrie, ecc.
Si aprì a questo punto un periodo tormentatissimo per la Russia. La pace fu ottenuta dalla Germania solo a condizioni molto pesanti. Gli antichi alleati (Inghilterra, Francia, Italia, Giappone, Stati Uniti) inviarono corpi di spedizione in appoggio alle forze controrivoluzionarie che, raccogliendo soprattutto gli ufficiali del vecchio esercito zarista, avevano risposto con la guerra civile alla presa del potere da parte dei bolscevichi. L'economia e l'amministrazione dello Stato erano in preda al caos. Gli operai avevano assunto il controllo delle fabbriche, ma senza l'aiuto del vecchio personale tecnico e direttivo la produzione industriale si disorganizzò. I contadini si appropriarono delle terre dei latifondisti, ma, com'è naturale, vollero utilizzare i vantaggi conseguiti con la rivoluzione per migliorare le proprie condizioni di vita, sicché le risorse disponibili per alimentare le città, far fronte alla guerra civile e procedere alla costruzione di un'economia socialista invece di aumentare diminuirono. I funzionari dei ministeri, delle banche, degli uffici pubblici e privati sabotarono sistematicamente le direttive del Governo bolscevico.
I dirigenti bolscevichi, in tale situazione, potevano seguire due vie: attendere che gli operai e i contadini acquistassero tutta l'esperienza necessaria per far funzionare l'economia e la macchina statale nelle nuove forme della democrazia sovietica; oppure ridare immediatamente all'economia e all'amministrazione la necessaria efficienza, sacrificando però le conquiste democratiche e i principi libertari della rivoluzione. I bolscevichi scelsero la seconda strada. La gestione delle fabbriche, sottratta ai consigli operai, fu affidata a tecnici e amministratori di provata esperienza; al fine di stimolare i lavoratori ad un più intenso lavoro fu ripristinata la differenziazione dei salari non solo tra operai e tecnici, ma anche tra gli operai stessi, eliminando così quei principi egualitari che si erano spontaneamente affermati con la rivoluzione; infine, tutta la vita economica del Paese fu riorganizzata sotto lo stretto controllo del Governo centrale.
Alla fine del 1922, superato il momento più difficile della guerra civile, il nuovo Stato assunse il nome di Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, che ne ribadiva il carattere socialista e riaffermava il ruolo dei soviet, gli organi di autogoverno che il popolo russo si era dato nel corso della rivoluzione. Senonché, la centralizzazione e il dirigismo reintrodotti nel sistema produttivo sotto la spinta della guerra civile erano stati accompagnati da un'analoga evoluzione in senso autoritario della vita politica: sin dalla presa del potere i bolscevichi trattarono i loro oppositori, menscevichi, socialisti rivoluzionari, anarchici, alla stregua di pericolosi controrivoluzionari. La scomparsa della libertà di lotta politica svuotò i soviet di ogni significato e trasformò la «dittatura del proletariato», che teoricamente avrebbe dovuto rappresentare la forma più ampia di democrazia, prima in una severa dittatura di partito e poi, dopo la morte di Lenin (1924) e la liquidazione da parte di Stalin di tutti i possibili concorrenti, in una feroce dittatura personale.

LENIN

Lenin, il cui vero nome era Vladimir Ilich Ulianov (1870-1924), aveva svolto fin da giovane attività rivoluzionaria per diffondere tra le masse russe le idee socialiste e aveva subito il carcere e la deportazione. Costretto all'esilio, aveva vissuto lungamente all'estero, non rinunciando però a dirigere il partito bolscevico e a scrivere varie opere di carattere teorico sul socialismo o di polemica contro altri esponenti del socialismo. Scoppiata la rivoluzione nel febbraio 1917, poté rientrare in patria e si mise alla testa del movimento popolare con un programma sintetizzato dalle parole: «pace, pane, terra», che esprimevano le essenziali richieste del popolo russo e in primo luogo delle grandi masse contadine.

LA TERZA INTERNAZIONALE

Prima della guerra la Seconda Internazionale aveva più volte ribadito l'impegno di tutti i partiti aderenti a combattere contro la politica bellicista dei rispettivi governi e, in caso di conflitto, a chiamare i popoli alla sollevazione generale. Ma quando la guerra scoppiò davvero, non solo i socialisti non scatenarono la rivoluzione che avevano minacciato, ma, almeno in maggioranza, si schierarono, da una parte e dall'altra, con i rispettivi governi, portando così un fattivo contributo al grande massacro (tra le poche eccezioni merita di essere ricordato il comportamento del Partito Socialista Italiano, che, se non seppe opporsi efficacemente alla guerra, per lo meno non volle mai aderirvi).
Nel corso del conflitto e soprattutto dopo la rivoluzione d'ottobre si delineò il progetto, sostenuto in modo particolare dai bolscevichi russi, di dar vita a una nuova organizzazione che, puntando alla rivoluzione mondiale, si contrapponesse alla Seconda Internazionale e ai suoi indirizzi riformistici. Tale organizzazione si chiamò Terza Internazionale o Internazionale Comunista (Comintern) e fu fondata nel corso di una conferenza internazionale (in verità scarsamente rappresentativa: i cinquanta delegati rappresentavano in tutto una ventina di gruppi o partiti, tra i quali solo quello tedesco e quello russo avevano un peso reale) che si tenne a Mosca nel marzo del 1919. Nel secondo congresso (luglio-agosto 1920) furono fissate in 21 punti le condizioni per l'appartenenza all'Internazionale. In questo modo veniva definito per tutti i partiti aderenti un unico modello ideologico e organizzativo, che naturalmente era ricalcato su quello bolscevico.
Il Comintern ebbe come teatro d'azione specialmente l'Europa, ma fu attivo anche nel resto del mondo, dove stavano sviluppandosi movimenti anticoloniali e antimperialisti. Tra i personaggi di primo piano dell'Internazionale comunista vi furono, per la prima volta nella storia del movimento operaio, militanti di colore: ad esempio l'indiano Roy, e il viet-namita Nguyen Ai-quoc. Quest'ultimo doveva diventare più tardi famoso, col nome di Ho-chi-minh, come capo della vittoriosa rivoluzione vietnamita contro l'imperialismo francese e statunitense.
Dal punto di vista organizzativo, a differenza della Seconda Internazionale, dove ogni partito nazionale godeva di larga autonomia, il Comintern presentava una struttura fortemente centralizzata e una rigida disciplina, conformemente al principio leninista già sperimentato, nel bene e nel male, in Russia: la concentrazione del potere nelle mani di un'élite rivoluzionaria altamente selezionata. In parte questa scelta fu la conseguenza dell'eccezionale durezza dello scontro sociale e politico nel periodo tra le due guerre mondiali e in parte il prodotto di difficoltà organizzative legate anche alla fragilità di molti partiti affiliati. In ogni caso essa corrispondeva alla volontà del partito bolscevico e del Governo sovietico di controllare strettamente il movimento comunista in tutto il mondo.
Il rigido modello organizzativo adottato dalla Terza Internazionale contribuì a dare una particolare impronta al costume dei dirigenti e militanti comunisti del tempo: un costume fatto di rigore, di abnegazione, di rinuncia alle proprie personali esigenze e alle proprie ragioni, sacrificate ad una presunta volontà collettiva incarnata dal partito. Il senso della fratellanza tra militanti di una stessa causa si accompagnava a un'abitudine di obbedienza cieca verso la direzione del partito, che nell'epoca staliniana si tradusse in un vero e proprio culto del capo. Centinaia di migliaia di militanti comunisti sparsi in tutto il mondo erano legati insieme dalla più incontrollabile delle convinzioni: che si fosse entrati nell'epoca della rivoluzione mondiale e che fosse impossibile ormai spostare all'indietro l'orologio della storia.
Fede e disciplina fecero del movimento comunista internazionale dell'età staliniana una vera e propria Chiesa e lo tennero in vita nelle condizioni più difficili e dopo le più tremende delusioni.
A mano a mano che il movimento rivoluzionario sorto nell'Europa del dopoguerra si avviava alla sconfitta in tutti i Paesi, la fede nella rivoluzione mondiale si identificò sempre di più con la fiducia nel trionfo finale dell'Unione Sovietica. Per i militanti comunisti di tutto il mondo, nel corso di decenni, la lotta per il socialismo si identificò con la difesa dell'Unione Sovietica, e ogni passo sulla strada della rivoluzione venne misurato col metro della potenza dello Stato sovietico. Le esigenze dello Stato sovietico divennero allora il criterio guida nelle scelte della Terza Internazionale.
La Russia era il baluardo incrollabile della rivoluzione mondiale. Questa identificazione è rimasta profondamente impressa nella coscienza dei comunisti che hanno vissuto l'esperienza del Comintern e ha continuato a ispirarne l'azione ben oltre lo scioglimento dell'organizzazione, che avvenne, per ordine di Stalin e in funzione di particolari obiettivi della politica estera sovietica, nel 1943.
Una riunione della Terza Internazionale


GUERRA E DOPOGUERRA

La guerra aveva determinato una notevole accelerazione della mobilità sociale: molti si erano arricchiti più o meno lecitamente; altri, invece, erano diventati poveri; alcuni gruppi erano stati promossi nella considerazione e nella stima sociale; altri invece erano stati retrocessi. Questo genere di processi induce sempre aggressivi sentimenti di orgoglio o di presunzione nei gruppi emergenti e, viceversa, reazioni astiose, atteggiamenti polemici, desideri di rivincita in quelli che avvertono di aver perso terreno rispetto agli altri. Tutti (o quasi) i gruppi sociali avevano delle rivendicazioni o delle recriminazioni da fare. Tutti (o quasi) accampavano nel passato conflitto qualche primato misconosciuto o qualche merito non abbastanza ricompensato: di aver pagato il più alto tributo di sangue (i contadini), di aver patito le maggiori sofferenze e le più odiose limitazioni (gli operai), di aver offerto i suoi uomini migliori alle forze armate o all'economia di guerra (la piccola e media borghesia), di aver mantenuto alto l'onore della Patria (i militari) e così via.
Le richieste di maggior partecipazione politica e di maggiore democrazia che provenivano dalle masse popolari e le pressioni da queste esercitate per una radicale trasformazione dei meccanismi economici e del sistema sociale, allarmavano non solo le classi dominanti, ma anche (e forse soprattutto) quelle altre classi, come la piccola borghesia delle professioni e degli impieghi, che pur non avendo mai propriamente dominato su nessuno, si sentivano però scavalcate o temevano di esserlo da classi tradizionalmente considerate inferiori. Operai e contadini, con la violenza delle loro lotte e con la solidità delle loro organizzazioni politiche e sociali, dimostravano se non altro di voler difendere i propri interessi assai più energicamente di quanto non sapessero o potessero fare impiegati, funzionari, insegnanti, bottegai o piccoli professionisti, il che risultava per costoro terribilmente irritante. La nostalgia per le antiche gerarchie e l'aspirazione a restaurare gli antichi criteri di distinzione sociale («ciascuno al suo posto») era largamente diffusa nei ceti intermedi e finì col preparare una base culturale di massa alla reazione politica, ossia alla tendenza dei governi e dei padroni a risolvere con la violenza le tensioni e i conflitti sociali.
Le tentazioni reazionarie della piccola e grande borghesia si saldavano con un'altra eredità della guerra: l'autoritarismo. La guerra aveva accelerato potentemente in tutti i Paesi belligeranti le tendenze verso una gestione autoritaria dello Stato. La mobilitazione di tutte le energie nazionali in uno sforzo disperato e prolungato aveva messo dovunque in crisi il modello liberale di governo e favorito l'affermazione di un sistema di potere basato più sull'autorità che sul consenso. Il potere esecutivo si era notevolmente rafforzato a spese di quello legislativo. Il sistema delle decisioni assunte in ambiti ristretti e col vincolo del segreto si era imposto su quello tradizionale delle discussioni parlamentari e del pubblico dibattito tra i partiti. Il principio dell'obbedienza cieca e assoluta, caratteristico dell'istituzione militare, aveva trovato estesa applicazione nella vita civile e nell'organizzazione dell'economia. Il bisogno di disciplinare tutte le forze attive nella società aveva spinto i governi a imporre il rispetto di particolari regole di comportamento individuale o collettivo. Una serie di atti perfettamente leciti in tempo di pace (in particolare le espressioni di critica, di protesta o di dissenso) non lo erano più e potevano costare molto cari a chi si fosse ostinato a compierli. Peggio ancora, comportamenti giudicati criminali prima della guerra erano diventati leciti o addirittura meritori, come quelle manifestazioni di teppismo patriottico che nei primi giorni del conflitto avevano portato all'aggressione di cittadini inermi di Paesi dichiarati nemici o al saccheggio delle loro proprietà. Infine era diventato obbligatorio dare pubblica dimostrazione di conformismo: l'amor di patria, l'odio per il nemico, la fiducia nella vittoria erano sentimenti dovuti e opinioni comandate.
Pur non annullandosi del tutto, lo spazio per la lotta politica si era notevolmente ridotto. C'era ancora una pluralità di partiti, ma nelle cose importanti non potevano non essere tutti d'accordo. L'identificazione tra dissenso e tradimento era stata spinta al massimo. Al fine di convogliare tutte le energie verso un unico obiettivo (la prosecuzione dello sforzo bellico e la vittoria) e di unire tutte le voci in un solo coro (quello patriottico) si erano sperimentati con successo l'uso sfrenato della propaganda e la manipolazione spregiudicata delle informazioni (mediante la censura sulla stampa o mediante le veline passate ai giornali). Se per totalitarismo si intende un regime che impone l'uniformità dei comportamenti in ogni settore della vita sociale (politica, economia, cultura) senza lasciare margini alla diversità, al dissenso, all'opposizione, bisogna riconoscere che già durante la guerra un modello del genere aveva cominciato a funzionare in tutti i Paesi belligeranti, nonostante che le rispettive costituzioni fossero rimaste formalmente inalterate.
Le tendenze autoritarie e totalitarie emerse con la guerra sopravvissero in gran parte alla fine del conflitto. Nel periodo tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, anzi, il modello di gestione del potere fondato sull'emergenza bellica fu continuato e perfezionato da quei regimi dittatoriali di destra e di sinistra che si dissero, appunto, «totalitari», e che furono caratterizzati dal divieto assoluto di lotta politica e quindi dall'esistenza di un solo partito legale. Nel quadro dei nuovi regimi totalitari trovò piena attuazione, in particolare, il Führerprinzip, (come si chiamò in Germania dal titolo di Führer assunto da Adolf Hitler, del tutto analogo a quello di «Duce» assunto da Mussolini in Italia), ossia il principio del comando unico incarnato agli occhi delle grandi masse da una figura carismatica di capo che già aveva fatto la sua comparsa, ma sporadicamente, nel corso della guerra con l'esaltazione delle presunte, magiche doti di condottiero di questo o quel generale.
Un'altra importante caratteristica dei regimi totalitari tratta dall'esperienza di guerra fu la capacità di mobilitare le masse e di controllare i comportamenti collettivi. In questo senso il totalitarismo è una forma di potere tipica della moderna società di massa, nella quale i tradizionali vincoli associativi e i legami personali risultano fortemente allentati rispetto alla coesione e all'uniformità indotte dalle «organizzazioni di massa» (partiti, sindacati, associazioni culturali e ricreative, ecc.) e dai «mezzi di comunicazione di massa» (in primo luogo la stampa periodica, ma anche, a partire proprio dal periodo tra le due guerre mondiali, la radio, il cinema, ecc.).
Nella società di massa, di cui proprio la guerra aveva evidenziato alcuni caratteri fondamentali, l'individuo si offre praticamente indifeso all'azione della propaganda, subisce il fascino di slogans grossolani e spesso incoerenti tra loro, accetta volentieri il controllo che i partiti al potere e le organizzazioni fiancheggiatrici pretendono di esercitare sulla sua vita privata, trova conforto nell'inquadrarsi nelle istituzioni educative, assistenziali, culturali e ricreative che un regime totalitario non manca mai di offrirgli come rimedio alla solitudine.
Qui emerge una importante differenza tra l'autoritarismo, che è una tendenza (o una tentazione) sempre presente nell'esercizio del potere, e il totalitarismo, che è invece un fenomeno caratteristico delle società contemporanee. Un regime autoritario vuole soltanto, in fondo, essere obbedito. Un regime totalitario vuole l'adesione entusiastica e la partecipazione convinta dei cittadini.

TOTALITARISMO E SOCIETÀ DI MASSA

Il termine «totalitario» è stato coniato in Italia negli anni Venti ed è stato usato, con valore positivo, per qualificare il regime fascista. L'uso del termine si è diffuso in altri Paesi europei a partire dal 1930 circa ed è entrato nell'uso comune, ma questa volta con valore di condanna, dopo la Seconda guerra mondiale, in riferimento ai regimi dittatoriali e monopartitici (nei quali, cioè, è ammessa l'esistenza di un solo partito). In questo significato negativo è stato applicato all'Italia fascista, alla Germania nazista e alla Russia staliniana. Qualcuno però ha fatto notare che il termine «totalitario» non è del tutto applicabile all'Italia fascista, perché qui, a dispetto delle vanterie del regime, il partito fascista non era affatto l'unico centro di potere ed anzi non era forse neppure il più importante: accanto a lui continuò ad operare la Chiesa cattolica con le sue potentissime organizzazioni di massa mentre la monarchia, l'esercito, la magistratura, la burocrazia dei ministeri e delle prefetture continuarono a seguire nell'esercizio dei rispettivi poteri logiche almeno in parte autonome dal fascismo.
«Società di massa» è un'espressione ormai ricorrente anche nel linguaggio comune. Con essa si sono volute indicare le società industriali avanzate nelle quali la popolazione partecipa in alta percentuale alla produzione e alla distribuzione della ricchezza, ed è anche, in qualche misura, politicamente e culturalmente attiva. Sul terreno della politica, però, e indipendentemente dal regime, totalitario o democratico, la presenza «attiva» delle masse tende nella società di massa a rovesciarsi nel suo opposto: l'apatia. È proprio l'apatia delle masse che permette alle élite dominanti di «attivizzarle», ossia di mobilitarle e manovrarle ai propri fini facendo leva sui loro sentimenti più negativi. Sul terreno della cultura, poi, le masse compaiono soprattutto come consumatrici di valori e di informazioni, ossia come destinatarie di quella «cultura di massa» che esse non contribuiscono in alcun modo a produrre e che ricevono per il tramite dei «mezzi di comunicazione di massa» (in inglese: mass media) sul cui funzionamento non hanno alcuna effettiva possibilità di controllo. Naturalmente se il totalitarismo è un fenomeno tipico della società di massa, non tutte le società di massa hanno regimi totalitari.
Al contrario, le società industrialmente più sviluppate del mondo hanno oggi un sistema politico di tipo democratico, caratterizzato dall'esistenza di più partiti, e da una più o meno estesa libertà di lotta politica. Dopo la Seconda guerra mondiale il totalitarismo si è dimostrato un metodo di governo decisamente meno efficiente della democrazia ed è rimasto prerogativa di Paesi relativamente arretrati sul piano economico, sociale e culturale. Anche a proposito del Führerprinzip, che è senza dubbio una caratteristica ricorrente dei regimi totalitari, occorre fare una precisazione: non sempre in questo tipo di regimi sono emersi capi dotati di un potere personale e di un ascendente pari a quello di Mussolini in Italia, di Hitler in Germania o di Stalin in Russia; viceversa, l'idea di un rapporto diretto e immediato tra masse e capi (che è assai più antica dei moderni regimi totalitari) ha avuto larghe applicazioni anche nei Paesi democratici.

LE DELUSIONI DELLA PACE

Con il ritorno della pace la gente si aspettava di veder mantenute le promesse che i governi avevano elargito con grande liberalità in tempo di guerra. Ma invece della libertà, del benessere, delle riforme sociali si trovò di fronte alla disoccupazione e alla miseria che derivavano dallo smantellamento dell'industria bellica e dall'inflazione. La rabbia per le speranze deluse si sommava con il risentimento verso gli speculatori e con il disprezzo verso gli «imboscati» (come erano chiamati quanti erano riusciti a sottrarsi con la frode o con la corruzione ai pericoli della guerra). «Pescecani» venivano definiti quanti si erano arricchiti con i sovrapprofitti di guerra; ma speculatori potevano essere legittimamente considerati tutti coloro che nella guerra avevano trovato un'occasione per fare affari, e cioè, in pratica, tutti i padroni, l'intera classe imprenditoriale.
Il proletariato europeo era stimolato dall'esempio della rivoluzione russa ad affrontare una dura fase di agitazioni sociali in vista di una possibile presa del potere. Nei Paesi sconfitti il dissesto degli organismi statali e lo sbandamento delle forze armate facevano apparire a portata di mano questa presa del potere. L'immediato dopoguerra vide una serie di episodi di rivolta o di esperienze di governo popolare finite per lo più nel sangue, come la rivolta spartachista di Berlino nel gennaio del 1919 o, nella primavera successiva, l'effimera affermazione di un potere di tipo sovietico in Ungheria.
Non erano solo le classi popolari ad agitarsi. Una quantità di giovani, magari di modeste condizioni economiche, ma dotati di qualche istruzione, soprattutto studenti e impiegati, erano stati chiamati durante la guerra a funzioni di comando in qualità di ufficiali o di sottufficiali e si erano abituati a prendere decisioni che riguardavano la vita o la morte di altri uomini. Nel dopoguerra si attendevano di vedersi valorizzati, di sentirsi circondati dall'affetto e dalla riconoscenza dei compatrioti, di veder riconosciuti da tutti i meriti accumulati in anni di sofferenze. E invece avevano dovuto, per così dire, «rientrare nei ranghi», mettersi alla ricerca di un posto di lavoro (dove spesso si trovavano scavalcati da imboscati e furbacchioni d'ogni genere), adattarsi a prender ordini e a ricevere rimbrotti da borghesi che non sapevano neppure (e non volevano saperlo) che effetto facesse su un uomo una raffica di mitragliatrice o l'esplosione d'una granata.
Non era facile per questi giovani, che avevano combattuto nella convinzione che il loro sacrificio potesse servire a qualche cosa, ammettere che le spaventose esperienze e le tremende responsabilità sopportate durante la guerra, non erano altro (come scrisse uno di loro) che un'eroica ma inutile introduzione alla vita mediocre del dopoguerra. Molti di questi reduci aderirono a quei gruppi rivoluzionari della sinistra, che ancora offrivano delle speranze e dei valori per cui battersi; ma molti altri si schierarono con le forze controrivoluzionarie, come le formazioni paramilitari che nel 1919 soffocarono a Berlino la rivolta spartachista, o come le squadracce fasciste che cominciarono a imperversare in Italia nel 1920.
Prima e durante il conflitto la speranza più grande, per la quale Péguy era andato in guerra (e vi aveva trovato la morte) e che Wilson aveva rinverdito nel 1917 con i suoi quattordici punti, era stata che la guerra in corso fosse davvero «l'ultima delle guerre». Ma i governi dei Paesi vincitori non seppero assicurare un assetto stabile e pacifico delle relazioni internazionali. Si può anzi dire che la cosiddetta pace non sia stata in realtà niente di più di una tregua e che la Grande Guerra iniziata nel 1914 sia davvero finita soltanto trent'anni più tardi, nel 1945, con la seconda sconfitta della Germania.
La conferenza di pace si era aperta a Parigi nel gennaio del 1919. I Paesi vinti non erano stati neppure ammessi e i vincitori erano divisi. I quattordici punti di Wilson, che erano stati universalmente lodati quando servivano alla propaganda di guerra, furono messi da parte. Wilson stesso accettò di sacrificarli in cambio dell'adesione degli alleati al progetto a cui teneva di più: la Società delle Nazioni, l'organismo internazionale incaricato di dirimere pacificamente eventuali futuri contrasti tra potenze. A questo punto, però, fu proprio il Senato degli Stati Uniti a sconfessare Wilson rifiutando di aderirvi. L'assenza degli Stati Uniti privò sin dall'inizio la Società delle Nazioni di gran parte del suo prestigio.
Dallo smembramento degli antichi Imperi (germanico, russo e soprattutto austro-ungarico) era nata una serie di nuovi Stati nazionali (Polonia, Cecoslovacchia, Iugoslavia, ecc.) che avrebbero dovuto soddisfare le aspirazioni dei popoli un tempo soggetti. Ma l'operazione presentò inconvenienti più gravi del previsto. L'improvviso sorgere di una quantità di barriere doganali in territori che prima della guerra avevano costituito vaste aree di libero scambio, costituì a lunga scadenza un ostacolo allo sviluppo e rese ancor più drammatiche nell'immediato le difficoltà inerenti alla riconversione dell'apparato produttivo da un'economia di guerra a una di pace. Quanto alle antiche rivalità nazionali, anziché placarsi, vennero esasperate dalle difficoltà che sorsero quando si trattò di tracciare linee di frontiera attraverso le numerose regioni in cui convivevano da sempre, in modo più o meno pacifico, gruppi etnici diversi. Né alla riconciliazione dei popoli poteva giovare il carattere punitivo che i vincitori vollero dare ai trattati di pace.
Tra i trattati di pace, quello di Versailles con la Germania, di Saint-Germain con l'Austria, del Trianon con l'Ungheria, di Neuilly con la Bulgaria, di Sévres con la Turchia, particolarmente contestato fu il primo, che oltre a prevedere (ragionevolmente) la restituzione dell'Alsazia e della Lorena alla Francia e la cessione al nuovo Stato di Polonia dei territori tedeschi con popolazione in prevalenza polacca, impose alla Germania il pagamento di esorbitanti riparazioni di guerra e un disarmo pressoché totale (la Germania doveva rinunciare all'aviazione e contenere gli effettivi dell'esercito entro i centomila uomini). I Tedeschi, che non erano affatto convinti di avere tutte le responsabilità del conflitto, consideravano le condizioni dettate dai vincitori come un sopruso intollerabile e un attentato alla sopravvivenza stessa del loro Paese come Stato sovrano.
D'altra parte la Francia, che era uscita stremata dal conflitto e che aveva subìto distruzioni di gran lunga superiori a quelle della Germania (il cui territorio non era mai stato toccato dalla guerra), non si sentiva affatto sicura. Fallito, per l'opposizione della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, il folle tentativo di spostare le sue frontiere sino al Reno e quello successivo di costituire in Renania un territorio libero sotto il suo controllo, la Francia intendeva almeno far rispettare alla lettera gli accordi di Versailles.
L'intransigenza francese, per quanto controproducente ai fini della pace, era comprensibile: il disarmo della Germania doveva garantire la sua sicurezza, mentre le riparazioni tedesche dovevano permetterle di liberarsi dei debiti contratti con gli Stati Uniti durante la guerra. Per cominciare a sciogliere quel groviglio di sospetti e di paure reciproche che paralizzava la diplomazia europea Wilson aveva progettato un sistema di sicurezza collettiva del quale avrebbe dovuto far parte, appunto, una speciale garanzia americana contro eventuali aggressioni alla Francia. Ma negli Stati Uniti, dopo la sconfessione della politica di Wilson da parte del Senato americano, la vittoria dei repubblicani nelle elezioni presidenziali del 1920 segnò il definitivo trionfo delle posizioni isolazioniste, secondo le quali (come ha scritto, sintetizzandole, Winston Churchill) «l'Europa doveva cuocere nel suo brodo e pagare i debiti legalmente contratti».

EPISODI DELL'INSURREZIONE SPARTACHISTA DI BERLINO DEL GENNAIO 1919

La Lega di Spartaco era l'ala più radicale del movimento operaio tedesco, da cui sarebbe nato il Partito Comunista di Germania. Guidato da leader di grande prestigio ed esperienza come Karl Liebnecht e Rosa Luxemburg, il movimento spartachista rappresentò un punto di riferimento per i soggetti sociali più disponibili all'avventura rivoluzionaria perché costituzionalmente più inquieti o instabili: giovani operai, disoccupati, soldati smobilitati, artisti d'avanguardia, «arrabbiati» d'ogni tipo. Questi giovani avevano poca o nessuna esperienza politica ed erano lontani per formazione e vocazione politica dai prestigiosi dirigenti del movimento. Pronti a scendere in strada ad ogni loro appello e a prestare orecchio alle parole d'ordine più violente, si rifiutavano però di seguire Rosa Luxemburg o Karl Liebnecht quando chiedevano di partecipare alle elezioni. Quel che volevano, e volevano subito, era il potere, il lavoro, il socialismo. - Voi, compagni, fate del vostro radicalismo qualcosa di molto facile - aveva ammonito Rosa Luxemburg, ben consapevole della complessità dei processi di trasformazione rivoluzionaria della società. Proprio questa facilità all'azione, che era caratteristica della maggioranza dei militanti spartachisti, produsse, in risposta a una grave provocazione dei socialdemocratici al potere, la sanguinosa insurrezione del gennaio 1919. La rivolta fu repressa nel giro di pochi giorni dai Freikorps, formazioni paramilitari inquadrate dai vecchi ufficiali dell'esercito e ingaggiate dai socialdemocratici al potere per liquidare l'opposizione comunista. Karl Liebnecht e Rosa Luxemburg furono catturati e poi massacrati da un reparto dei Freikorps, senza che i loro assassini, perfettamente individuati, venissero mai disturbati dalle autorità. Dopo la fallita insurrezione di Berlino il movimento comunista tedesco si scisse in due tronconi, e quanto rimaneva dell'anima spartachista andò a formare una piccola formazione, il Partito Comunista Operaio di Germania, sempre a carattere insurrezionalista, ma più marcatamente antiautoritario e libertario. Dopo un ultimo fallito tentativo insurrezionale nel marzo del 1921 lo spartachismo perse ogni ragion d'essere.

L'IPERINFLAZIONE TEDESCA

I ritmi sostenuti mantenuti dalla produzione industriale tedesca nel dopoguerra avevano fatto pensare ad alcuni che dopo tutto, la Germania fosse in grado di pagare i suoi debiti con l'estero e in particolare le riparazioni di guerra alla Francia. Ogni illusione in merito cadde nel 1922 quando l'inflazione prese a galoppare in Germania del tutto fuori controllo. L'inflazione era una conseguenza della guerra e tutti i Paesi belligeranti ne erano stati colpiti. Il fenomeno però aveva assunto proporzioni spaventose nell'area dei vecchi Imperi, austriaco, tedesco e russo: nel decennio 1914-1923 i prezzi erano saliti in Austria di 14.000 volte, in Polonia di 2.500.000, in Russia di 4 miliardi. In Germania l'aumento fu di mille miliardi. L'«iperinflazione» tedesca (come venne chiamata) era stata in una certa misura provocata dallo stesso Governo come mezzo estremo per liberare la Germania dal peso delle riparazioni e, insieme, per rovesciare sui Paesi vincitori, in particolare sulla Francia, la responsabilità delle disastrose condizioni di vita del popolo tedesco. L'iperinflazione ebbe effetti sconvolgenti: azzerò i debiti delle imprese e dello Stato, ma finì per polverizzare salari, stipendi e risparmi delle classi lavoratrici; distruggendo le basi stesse della circolazione monetaria, provocò l'estendersi degli scambi in natura e stimolò la corsa all'accaparramento di qualsiasi merce; il generale clima di speculazione e di avventura favorì l'emergere di tutta una losca galleria di figure e di figuri, che sottolineava l'indurimento generale dei rapporti interpersonali e il fallimento di antiche regole di convivenza. Recriminazioni, risentimenti, assuefazione alla violenza e alla sopraffazione prepararono di lunga mano l'avvento del nazismo.

IL FASCISMO

In Italia, come in tutti gli altri Paesi ex-belligeranti, nei primi anni del dopoguerra l'inquietudine serpeggiava tra gli operai e i contadini, sia per le attese diffuse di trasformazione sociale, sia per l'effettivo peggioramento delle condizioni economiche prodotto dalla smobilitazione dell'esercito e dallo smantellamento dell'industria di guerra. Ma neanche la borghesia, grande e piccola, era tranquilla: irritata o spaventata dalle agitazioni operaie e contadine, era delusa nelle sue ambizioni nazionaliste per l'esito che giudicava insoddisfacente della guerra. La vittoria, si diceva, era stata «mutilata» a causa dell'atteggiamento ostile degli alleati (Francia, Inghilterra e Stati Uniti) nei confronti delle giuste rivendicazioni dell'Italia sull'Adriatico.
Portavoce dei sentimenti e soprattutto dei risentimenti della piccola borghesia italiana si fece Benito Mussolini (1883-1945). Mussolini era un ex-dirigente del Partito Socialista che nell'autunno del 1914 aveva fondato con i soldi del Governo francese il quotidiano «Il Popolo d'Italia» passando dal neutralismo più acceso all'interventismo più sbracato. Terminata la guerra, nel marzo del 1919, Mussolini aveva fondato i Fasci Italiani di Combattimento, un'associazione di ex combattenti senza alcuna importanza. Alla fine del 1920, però, con la formazione delle squadre d'azione e con le ripetute aggressioni ai danni dei militanti del movimento operaio e delle loro organizzazioni, il fascismo diventò improvvisamente un fenomeno di rilievo, il fatto nuovo della scena politica italiana e, presto, anche di quella europea.
Lo squadrismo, che reclutava i suoi adepti tra reduci e sbandati di ogni genere, era finanziato da industriali e agrari, armato dai militari, aiutato dalla polizia, coccolato dai prefetti, protetto dai magistrati. Era una sorta di organizzazione della violenza parallela a quella dello Stato (e perciò non soggetta alle formalità di legge), alla quale i rispettabili personaggi che lo avevano allevato e che lo tenevano sotto tutela riservavano quei lavori sporchi, violenze, intimidazioni, omicidi, di cui, per un residuo scrupolo legalitario, preferivano non assumere direttamente la responsabilità.
Gli squadristi, però, non erano semplicemente dei sicari prezzolati; avevano delle idee e queste idee corrispondevano alle convinzioni di una larga parte dell'opinione pubblica, specialmente piccolo borghese. Lo squadrismo, perciò, non era un docile strumento nelle mani dei capitalisti e dei settori reazionari dell'apparato statale, ma un movimento politico, che in ultima analisi obbediva soltanto a Mussolini. Se vi fu qualcuno che si era fatto delle illusioni in proposito dovette presto accorgersi dell'errore: Mussolini voleva il potere e lo voleva per sé, non per conto d'altri. È vero che per conquistare il potere era disposto a qualsiasi alleanza e soprattutto era disposto a cederne grosse fette a chi lo avesse aiutato, ma sulla scena politica voleva restare solo.
Come uomo di Stato Mussolini si rivelò men che mediocre, ma nelle condizioni di una moderna società di massa, in cui la politica è essenzialmente spettacolo, emozione, propaganda, è stato un capopopolo impareggiabile, un precursore e un maestro nel suo genere. Buon polemista, era un abile produttore di slogan (ossia sapeva sintetizzare i princìpi e gli obiettivi della sua politica in poche, efficaci espressioni, molte delle quali sono poi diventate proverbiali, sia pure in chiave umoristica e caricaturale), aveva il gusto della coreografia, delle sfilate e delle scene di massa, sapeva appropriarsi delle parole, dei simboli, dei miti e dei frammenti di idee di cui era fatta la cultura del pubblico piccolo borghese a cui si rivolgeva, e sapeva mettere insieme con questi poveri rottami ideologici un simulacro di dottrina.
Il fascismo riuscì a conquistare il potere in breve tempo e senza dover affrontare, se non in casi sporadici, un'efficace resistenza armata (che là dove cercava di organizzarsi veniva prontamente e preventivamente liquidata dalle forze dell'ordine). La «marcia su Roma», che il 28 ottobre 1922 portò le bande fasciste di tutta Italia a concentrarsi nella capitale, fu la spettacolare conclusione dell'ascesa di Mussolini al potere, indicata più tardi dalla propaganda del regime come il momento culminante della cosiddetta «rivoluzione fascista».
Di rivoluzionario, in verità, non ci fu nulla. Non si trattò di una insurrezione armata, ma solo di una sorta di imitazione paesana di un'insurrezione. Sul piano militare la forza dello squadrismo era pressoché nulla e la marcia su Roma non si trasformò in una grande fuga da Roma solo perché il re, Vittorio Emanuele III, non volle mettere in campo alle porte della capitale quei pochi reparti di truppa che sarebbero stati necessari. Quanto a Mussolini, l'incarico di formare il Governo gli fu conferito dal re in modo del tutto legale e Mussolini guidò un Governo di coalizione a cui partecipavano, del tutto liberamente, oltre ai fascisti, democristiani (allora si chiamavano «popolari») e liberali. La cosa merita di essere sottolineata: per quanto il fascismo fosse diventato una forza politica importante in Italia in virtù proprio della pratica sistematica (e sistematicamente impunita) della violenza, la sua ascesa al potere avvenne nella piena legalità costituzionale. Esattamente la stessa cosa sarebbe avvenuta una decina di anni più tardi in Germania con la «rivoluzione» nazionalsocialista di Hitler.
Il regime fascista fu una costruzione progressiva, e prese corpo soprattutto a partire dal 1925, dopo l'assassinio, ad opera dei fascisti, del deputato socialista Giacomo Matteotti (giugno 1924). La Chiesa cattolica non negò il suo apporto alla costruzione: l'11 febbraio 1929 il papa Pio XI e Mussolini conclusero i Patti Lateranensi, con i quali la Chiesa cattolica beneficiava di larghi privilegi in cambio della non opposizione dei cattolici al fascismo.
Tra le istituzioni del regime va ricordato il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, composto di ufficiali della milizia fascista, che aveva il compito di perseguire gli oppositori del regime. Con l'ordinamento corporativo, che affidava allo Stato l'organizzazione del lavoro, furono soppresse le organizzazioni autonome dei lavoratori e vennero riconosciuti solo due sindacati, quello dei padroni e quello dei lavoratori, affidati entrambi a dirigenti di sicura fede fascista. Con la soppressione della Camera dei deputati, sostituita dalla Camera dei Fasci e delle Corporazioni si completò nel 1939 la fascistizzazione del Paese: ogni settore della vita pubblica era sottoposto al controllo del partito fascista e del Duce.

GLI STATI UNITI TRA EUFORIA E CRISI

Grande protagonista della vita politica americana e della scena internazionale nell'ultimo scorcio della guerra, il presidente Wilson fu anche il grande sconfitto del dopoguerra. Come si è visto, le sue iniziative per fare degli Stati Uniti il perno di una politica internazionale di pace basata sulla Società delle Nazioni furono sconfessate dal Senato americano. Le elezioni del 1920 diedero la vittoria al candidato repubblicano Warren G. Harding, e dopo di lui altri repubblicani furono eletti presidenti: Calvin Coolidge nel 1923 ed Herbert Hoover nel 1928.
Il predominio dei repubblicani fu espressione degli orientamenti prevalenti nella società americana degli anni Venti: isolazionismo e orgogliosa esaltazione dei valori nazionali da un lato, e dall'altro strepitoso rilancio della vita economica dopo la pausa dell'immediato dopoguerra. Lo sviluppo del capitalismo statunitense conobbe ritmi febbrili, all'insegna di un pieno ritorno all'iniziativa privata dopo i timidi tentativi di intervento statale nell'economia degli anni di guerra. La produzione di massa di beni di consumo durevoli, dall'automobile ai primi elettrodomestici, si affermò modificando profondamente il sistema di vita della gente. Il «consumismo», che in Europa si è imposto non prima degli anni Sessanta, negli Stati Uniti dilagava negli anni Venti. La ricchezza nazionale aumentò enormemente in conseguenza di un'espansione economica senza precedenti e nel mondo degli affari si determinò uno stabile clima di euforia.
Questa immagine trionfale del capitalismo americano nascondeva però inquietudini, ingiustizie, contrasti. L'orgoglioso e arrogante senso di superiorità del borghese americano, di cui l'isolazionismo era l'espressione in politica estera, si manifestava all'interno nel diffuso disprezzo e nell'aperta persecuzione di quanti restavano estranei al «modo di vita americano»: i neri, gli immigrati, i sovversivi. In questi anni gli Stati Uniti si chiusero all'immigrazione, specialmente a quella asiatica, ma anche, in parte, a quella europea (Italiani e Slavi). Queste restrizioni non dipendevano tanto dal fatto che il mercato del lavoro negli Stati Uniti era ormai saturo, quanto dal proposito di salvaguardare la presunta «purezza americana» (un valore davvero singolare nel popolo più incrociato del mondo) dall'inquinamento di razze inferiori e di ideologie rivoluzionarie provenienti dal vecchio mondo.
Se opportune restrizioni all'immigrazione potevano bloccare l'ingresso a sovversivi, «fannulloni» e disperati, gente di questa sorta ce ne era già in abbondanza negli Stati Uniti. Occorreva dunque far pulizia anche in casa. È così che cominciò in America la caccia ai «rossi» e ai neri, due generi di persone che per motivi diversi risvegliavano la cattiva coscienza del borghese americano. Vittime di questo clima di fanatismo furono tra gli altri due anarchici italiani, Bartolomeo Vanzetti e Nicola Sacco, accusati nel 1921 di aver ucciso due persone nel corso di una rapina, giustiziati con la sedia elettrica nel 1927 malgrado la palese falsità delle accuse e a dispetto delle proteste che si levarono in tutto il mondo. L'organizzazione razzista del Ku Klux Klan, che combatteva con metodi terroristici gli elementi non assimilabili al modello americano (neri, cattolici, ebrei, comunisti, sindacalisti non legati al potere ecc.) raggiunse e superò i quattro milioni di aderenti.
Anche le leggi «proibizioniste», che proibivano cioè la fabbricazione e lo smercio di alcoolici, furono varate con la giustificazione di difendere la morale e l'integrità nazionale americana. In realtà, come tutte le leggi del genere, furono solo uno sfacciato regalo alla criminalità organizzata, facendo prosperare un gigantesco commercio di contrabbando: l'epoca del proibizionismo fu anche l'epoca in cui il gangsterismo si impadronì di intere città mettendo profonde e ramificate radici nella società americana. Il gangsterismo, del resto, condivideva a suo modo, ossia perseguendoli con l'illegalità e la violenza, i valori e i princìpi comunemente accettati nel mondo degli affari e negli ambienti della buona società: ricchezza, successo, competitività, esclusivismo, intolleranza. Il gangsterismo era il fratello gemello del perbenismo, l'altra faccia dell'americanismo.
L'euforia americana terminò all'improvviso nell'ottobre del 1929 con il crollo di Wall Street. Wall Street è la strada dove sta la Borsa più importante del mondo, quella di New York. A crollare non fu la strada, naturalmente, ma il valore dei titoli quotati alla Borsa di New York: da un momento all'altro (ma più precisamente tra il 24 e il 29 ottobre) un'enorme ricchezza si volatilizzò, scomparve, cancellata dalla caduta delle quotazioni. Una quantità di persone ricche e ricchissime si scoprirono povere in canna; una quantità di speculatori «saltarono», una quantità di risparmiatori si ritrovarono tra le mani, invece dei quattrini che avevano investito in borsa, titoli e cedole che non avevano ormai che il valore della carta su cui erano stampati.
Non era la prima volta che una borsa crollava. Questa volta però era diverso. Il crollo di Wall Street era solo il segnale di una crisi più profonda, che riguardava lo stesso sistema produttivo. La speculazione borsistica aveva certamente avuto un ruolo nel crollo drammatico di Wall Street, che a sua volta, generando un panico inarrestabile, rese tutto più difficile. Ma il fatto era che l'espansione produttiva degli anni Venti era andata troppo oltre le capacità di assorbimento dei mercati e ora si imponeva un brusco raffreddamento dell'economia non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo occidentale. Ciò significava chiudere le fabbriche, licenziare gli operai, rinunciare a rinnovare i macchinari o a impiantare nuove attività produttive, cercare di disfarsi delle merci che si erano accumulate nei magazzini riducendone i prezzi.
Nel 1932 l'area del capitalismo sviluppato contava circa 40 milioni di disoccupati, di cui 13 milioni in USA, circa 3 in Gran Bretagna, 700 000 in Italia. Un numero più modesto si registrò in Francia, ma solo perché moltissimi lavoratori stranieri che vi erano immigrati dovettero rimpatriare. In Gran Bretagna comunque il volume della disoccupazione, era rimasto su valori molto alti per l'intero periodo post-bellico (tra il 10 e il 20 per cento, con una punta del 23 per cento nel 1932), il che confermava il carattere strutturale della crisi, ossia il fatto che essa era conseguenza non tanto del crollo di Wall Street, quanto delle forme «selvagge» che aveva assunto lo sviluppo capitalistico. Non è un caso che proprio dalla Gran Bretagna, patria del liberismo classico, sia venuto quello che è considerato il maggior contributo alla svolta del pensiero economico contemporaneo. John Maynard Keynes (1883-1946) pubblicò nel 1936 un'opera dal titolo Teoria generale dell'impiego, dell'interesse e della moneta, in cui sosteneva la possibilità da parte dello Stato di regolare i meccanismi dell'economia capitalista, in modo da renderli compatibili con alcuni obiettivi socialmente rilevanti come la piena occupazione, un'equa redistribuzione del reddito, ecc. e da evitare crisi catastrofiche come quella del 1929.
In America una politica volta a interrompere la spirale perversa della crisi fu approntata soltanto con il New Deal (= «Nuovo Corso») del presidente democratico Franklin Delano Roosevelt (1882-1945), eletto per la prima volta nel 1932 e rieletto poi ininterrottamente sino alla morte. L'espressione New Deal suggeriva la necessità di imprimere una coraggiosa svolta non solo alla politica economica del Governo, ma anche al modo di vita americano come era comunemente inteso. Si trattava, dopo lo sfrenato sviluppo e l'insensata ebbrezza consumistica degli anni Venti, di voltare pagina e di indirizzare tutte le energie a una stabile ripresa dell'economia, ma con un occhio molto attento ai doveri di solidarietà, in modo che lo spettro della crisi non dovesse più riaffacciarsi. I principi di questa politica erano semplici, espressi da Roosevelt nella forma di postulati elementari:

... La prima preoccupazione di un Governo retto dagli ideali umani della democrazia è il semplice principio che in una terra di vaste risorse non si deve permettere che nessuno patisca la fame...

... Non voglio pensare che un solo americano sia destinato a rimanere permanentemente sulle liste della pubblica assistenza...

Fu l'insistenza su questi temi a dare l'intonazione prevalente alla politica del New Deal, a plasmarne l'immagine e il mito. E furono anche questi aspetti a garantire a Roosevelt, nel 1936, la sua rielezione a presidente, con 11 milioni di voti, corrispondenti al 60,2 per cento dei votanti: la maggioranza più grande che si fosse mai vista nella storia delle elezioni presidenziali americane.

SACCO E VANZETTI

Il 24 dicembre 1919 a Bridgewater alcuni banditi assaltarono un furgone che trasportava le paghe degli operai di una fabbrica. Lo stesso giorno alla stessa ora a Plymouth, a 60 chilometri di distanza, un anarchico italiano di nome Bartolomeo Vanzetti girava per le strade della città con il suo carrettino vendendo anguille. Il 15 aprile 1920 a South Braintree due banditi rapinarono le paghe dei dipendenti di un calzaturificio e uccisero il cassiere e un poliziotto. Il 5 maggio Vanzetti venne arrestato su un tram insieme con un compagno anarchico Nicola Sacco, pure lui italiano, operaio in un calzaturificio. Addosso ai due vennero trovati alcuni manifestini anarchici e una pistola. Era quanto bastava perché il ministro della giustizia e il capo della polizia decidessero che era arrivato il momento di dare una lezione, insieme, ai «rossi» e agli Italiani.
Prima si fece il processo a Vanzetti accusandolo della rapina di Bridgewater. Come giudice fu scelto un certo Trayer, il quale dichiarò pubblicamente che gli Italiani erano dei bastardi e i «rossi» delle carogne. Pubblico accusatore fu un certo Katzmann il quale desiderava farsi perdonare le recenti origini tedesche manifestando il suo odio per gli immigrati. La giuria accettò persino la testimonianza di un giornalaio il quale affermò di aver capito che il rapinatore era uno straniero «dal modo di correre». Più di venti testimoni italiani giurarono che all'ora della rapina Vanzetti stava vendendo anguille, ma non furono creduti. Fu invece creduto un testimone che affermò di aver riconosciuto Vanzetti al volante di un'automobile. Ma Vanzetti non sapeva guidare. Vanzetti fu condannato al massimo della pena, 15 anni.
Poi Sacco e Vanzetti furono accusati insieme della rapina di South Braintree. Questo processo fu nuovamente presieduto da Trayer. Prima ancora che iniziasse il processo il presidente della giuria aveva dichiarato: - Quei maledetti dovrebbero esser impiccati -. L'interprete, che era amico del giudice, falsò regolarmente le dichiarazioni degli imputati e dei testimoni Italiani traducendo a casaccio o inventando di sana pianta. Venne ignorata la testimonianza di una persona che aveva visto in faccia gli assassini e che escluse che si trattasse dei due Italiani. Pure ignorata fu la dichiarazione di un impiegato del consolato italiano di Boston il quale testimoniò che al momento del delitto Sacco si trovava nel suo ufficio. All'inizio delle indagini il perito balistico aveva dichiarato che le pallottole non potevano essere state sparate dalla pistola di Sacco. Più tardi però armi e pallottole vennero sostituite con altre in maniera da suffragare l'accusa. Sacco e Vanzetti furono condannati a morte. Trayer dichiarò: - Se anche non sono colpevoli, vanno condannati lo stesso perché sono nemici delle istituzioni americane -.
In America e in tutto il mondo vi furono manifestazioni di protesta, scioperi, attentati, incidenti. Ma gli Stati Uniti, sventuratamente, non conobbero nulla di simile al caso Dreyfus in Francia, dove l'indignazione dell'opinione pubblica era servita a salvare un innocente e a ripulire, almeno per un po', l'apparato statale dalle presenze infette del fanatismo e del razzismo. Le supreme autorità del Massachusetts rifiutarono di rifare il processo persino quando un portoghese di nome Celestino Madeiros confessò di aver partecipato alla rapina di South Braintree scagionando i due Italiani. Inutilmente la moglie e la sorella di Sacco vennero dall'Italia per chiedere la grazia. La notte fra il 22 e il 23 agosto 1927 Sacco e Vanzetti salirono sulla sedia elettrica insieme con Madeiros. Un anno dopo un altro delinquente confessò di aver partecipato alla rapina di Bridgewater e confermò che Vanzetti non c'era.

LA RUSSIA DI STALIN

Morto Lenin e conclusa la guerra civile, la società sovietica cominciò lentamente a riprendersi: dovunque si diffondeva il desiderio di tranquillità e di pace e tornava in molti il gusto del guadagno. La stanchezza prevaleva e lo spirito dell'ottobre si stava allontanando. Fuori della Russia, le speranze di un successo della rivoluzione in Europa stavano decisamente tramontando. Semmai, si facevano più insistenti i segni di risveglio dei popoli coloniali, e molti guardavano ormai all'Asia (Cina e India, in primo luogo) come all'area decisiva per la rivoluzione. Di fronte a questa situazione erano possibili due scelte, che sono state riassunte e semplificate in due formule coniate rispettivamente da Trotskij e da Stalin: quella della «rivoluzione permanente» e quella del «socialismo in un Paese solo».
Secondo Trotskij occorreva, con un forte richiamo ai princìpi della rivoluzione e puntando sulle forze vive ancora presenti in Russia, soprattutto nel proletariato industriale, combattere da un lato la rinascita dello spirito borghese e reagire dall'altro alla burocratizzazione del partito e dello Stato. La prospettiva della rivoluzione mondiale era ancora aperta e in quella prospettiva bisognava lavorare. Questo è, in poche parole, il senso dello slogan della «rivoluzione permanente». L'intransigenza rivoluzionaria di Trotskij e la radicalità delle sue critiche alle degenerazioni burocratiche del regime sovietico sembravano fatte apposta per attirargli una quantità di inimicizie. Egli rimase infatti piuttosto isolato in Russia e fu il primo ad essere sconfitto da Stalin.
La formula «socialismo in un solo Paese», proposta da Stalin nel 1924, fu portata al successo soprattutto da Bucharin, che come teorico godeva allora di un prestigio assai maggiore a quello di Stalin. In sostanza significava che poiché la rivoluzione aveva subito un arretramento in Europa, bisognava puntare sul consolidamento del socialismo là dove era riuscito ad affermarsi, ossia nell'URSS, e prepararsi a una lunga resistenza che tenesse conto dell'isolamento della Russia e dell'arretratezza della sua economia. Bucharin dava però alla formula un accento particolare: poiché l'obiettivo fondamentale era il consolidamento dell'economia sovietica, occorreva procedere «con passi di tartaruga» sulla strada del socialismo incoraggiando la gente a produrre e ad arricchirsi. La parola d'ordine da lui lanciata ai contadini: «Arricchitevi!» suscitò scalpore e polemiche.
Stalin non arrivava a tanto e tenne nella polemica una posizione intermedia. Continuò, per esempio, a sostenere la necessità di combattere i contadini ricchi e di evitare che la loro influenza sociale crescesse ancora. Al di là delle formule e dei programmi, si trattava di una lotta di potere. Collocandosi al centro e predicando sempre come principio supremo l'unità del partito, Stalin riuscì a screditare i suoi avversari di destra e di sinistra mettendoli gli uni contro gli altri: dopo Trotskij, eliminò via via tutti gli altri, compreso Bucharin. Una volta occupato il potere, poi, Stalin cambiò radicalmente politica: fece in sostanza la scelta di industrializzare il Paese a tappe forzate in modo da portarlo in breve tempo al livello dei Paesi capitalistici più avanzati.
La discussione sull'opportunità di questa scelta è aperta: in generale si riconosce che i risultati economici furono eccezionali, ma che furono accompagnati da gravi distorsioni e sprechi, e ottenuti a costi sociali elevatissimi. Per compiere questa marcia forzata verso l'industrializzazione fu usato ogni genere di coercizione. I sindacati furono trasformati da organi di difesa dei lavoratori in strumenti di pressione e di controllo sulla classe operaia, volti a imporre, in collaborazione con le direzioni aziendali, una rigida disciplina agli operai negligenti e agli ex-contadini che entravano nell'industria. Vennero poi stabiliti incentivi e ricompense speciali per l'abilità e la solerzia dimostrate, legando le retribuzioni alla quantità del lavoro compiuto, e ripristinando forti differenze salariali tra le categorie. Si puntò infine sulla propaganda per suscitare nella popolazione entusiasmi produttivistici e per riattizzare un orgoglio nazionale del tutto estraneo alla tradizione rivoluzionaria. Bisognava consumare di meno e produrre di più, in nome della patria russa e della difesa del socialismo.
Le risorse necessarie a questo tipo di sviluppo furono prelevate in gran parte dall'agricoltura e per far questo si dovette ricorrere a una gigantesca operazione di collettivizzazione forzata delle campagne. A partire dal 1929-1930 si costrinsero i contadini a raggrupparsi in aziende cooperative e vennero fondate aziende agricole di Stato dove venivano concentrati in gran parte i macchinari agricoli. Infine si procedette alla liquidazione dei contadini ricchi, i kulaki. Ad essi si impedì l'ingresso nelle cooperative, molti vennero deportati, i contadini poveri furono incoraggiati a togliere loro con la forza bestiame, macchinari, attrezzi agricoli, a beneficio delle fattorie collettive. A loro volta i contadini ricchi reagirono uccidendo il bestiame, bruciando le messi, distruggendo le fattorie pur di non cederle. Nelle campagne si scatenò una specie di nuova guerra civile. Il numero delle vite umane che costò questo processo non è stato ancora calcolato, e forse non si potrà mai farlo. Certamente si trattò di milioni di uomini: una vera e propria strage.
L'industrializzazione a tappe forzate e la collettivizzazione violenta delle campagne, produssero una rottura senza ritorno col passato. Le strutture del partito, dello Stato e della società sovietica ne rimasero profondamente permeate. Prevalse l'idea che il socialismo si costruiva dall'alto, doveva anzi essere imposto. Buon comunista fu considerato in quegli anni il funzionario obbediente, l'efficiente organizzatore, il tecnico preparato, o più semplicemente il burocrate ligio all'autorità superiore.

LA MORTE DI TROTSKIJ

Sconfitto da Stalin, Lev Davidovic Trotskij fu espulso dal partito comunista nel 1928 e dall'Unione Sovietica nel 1929.
Anche in esilio Trotskij continuò a lottare contro lo stalinismo e a rappresentare una fonte di gravi preoccupazioni per Stalin. Stalin cercò di screditare il suo avversario e di dipingerlo addirittura come un agente del nazismo e del fascismo. Ma poiché l'accusa era talmente incredibile da non incrinare minimamente il prestigio internazionale di Trotskij, i servizi segreti sovietici preparano il suo assassinio. Trotskij viveva in Messico, circondato da amici fidati. Dopo un primo tentativo, sventato, di irruzione a mano armata nell'abitazione di Trotskij, entrò in azione un agente provocatore sovietico, che riuscì a farsi ammettere nella ristretta cerchia dei visitatori della casa; il 20 agosto del 1940, con la scusa di fargli leggere un suo articolo, si avvicinò a Trotskij e lo colpì violentemente con una picozza che teneva nascosta sotto l'impermeabile e gli sfondò il cranio. Trotskij morì il giorno dopo. Arrestato e condannato, dopo venti anni di carcere, l'assassino rientrò in Unione Sovietica.

IL NAZISMO E LA GUERRA

La Germania era uscita dal conflitto in preda ad una grave crisi morale. Le difficoltà economiche del dopoguerra avevano acuito il senso di frustrazione nato dalla sconfitta. Il trattato di Versailles era generalmente indicato come causa della desolazione presente, e il desiderio di rivincita trovò fertile terreno nelle grandi masse rovinate dall'inflazione e dalla disoccupazione. La Repubblica di Weimar (come viene chiamato, dal nome della nuova capitale dello Stato, il regime succeduto in Germania all'Impero) aveva cercato bene o male (più male che bene: basta pensare al modo in cui il Governo socialdemocratico aveva prima provocato e poi represso l'insurrezione di Berlino del gennaio del 1919) di costruire una sorta di democrazia su modello occidentale. Così facendo, però, si era attirata il disprezzo di tutti i nostalgici dell'Impero e della tradizione prussiana. In questa atmosfera di recriminazioni e risentimenti riemersero antichi pregiudizi razzistici, che spingevano a ricercare l'origine di ogni male nell'attività degli ebrei, razza perfida e rapace annidata nel cuore della Nazione tedesca. Il trattato di Versailles, la democrazia e la cospirazione ebraica: per quanto possa apparire incredibile, per un gran numero di Tedeschi erano queste le cause dei guai della Germania.
Di queste losche scempiaggini si nutrì il nazismo. Sorto nel 1919 come Partito tedesco dei lavoratori (più tardi Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori) divenne in pochi anni lo strumento più efficace della reazione in Germania. Il suo capo era Adolf Hitler, le cui posizioni politiche si esprimevano in un solo sentimento: l'odio nel quale accomunava, senza perdersi in troppe distinzioni, ebrei, comunisti e democratici. La loro eliminazione era secondo Hitler la condizione per la rinascita della grande Germania. Questo genere di idee non era nella sostanza diverso da quello di altri partiti di destra: la forza dei nazisti stava però nella criminale coerenza con cui sapevano mettere in atto i princìpi e i programmi che proclamavano (e che incontravano l'approvazione di un numero crescente di Tedeschi).
Anche Hitler, come già Mussolini in Italia, ebbe l'appoggio dei capitalisti, dei banchieri, dei grandi industriali, che riponevano nell'affermazione del nazismo la speranza di una definitiva restaurazione dell'ordine. Ma anche le grandi masse popolari, soprattutto dopo la grande crisi del 1929 vennero attratte nell'orbita del nazismo, in parte per la suggestione delle rozze spiegazioni che il nazismo offriva delle loro disgrazie e in parte per la sfiducia che i partiti operai, socialdemocratico e comunista, tutti occupati a farsi la guerra tra di loro, si erano meritati. Il partito nazionalsocialista, che nelle elezioni del 1928 aveva avuto solo 810.000 voti, nel 1930 raggiunse i sei milioni e mezzo e nel 1932 superò i 14 milioni (oltre il 37 per cento del totale). Nel 1933, seguendo l'indicazione degli elettori, il presidente della repubblica nominò Hitler cancelliere (ossia capo del Governo).
Nel giro di un paio di anni Hitler accentrò nelle sue mani tutto il potere. Servendosi, contro gli avversari, delle SS («squadre di protezione», formazioni armate del partito nazista), della Gestapo (la polizia politica), dei Tribunali del Popolo e dei campi di concentramento (Lager), eliminò ogni opposizione e cominciò a tradurre nei fatti (sulle prime tra l'incredulità generale) i suoi progetti: l'annientamento degli ebrei e dei comunisti, il riarmo della Germania in violazione del trattato di Versailles, l'affermazione intransigente della superiorità della razza germanica.
In politica estera gli obiettivi apertamente proclamati dal Governo nazista erano la revisione delle frontiere fissate dal trattato di pace, la riunificazione di tutte le genti di stirpe tedesca, la ricerca di uno «spazio vitale» per la Grande Germania. La carica aggressiva del nazismo si manifestò prima col ritiro della Germania dalla Società delle Nazioni (ottobre 1933), poi con la denuncia delle clausole del trattato di Versailles concernenti il disarmo tedesco e con l'avvio di un programma di riarmo accelerato (1935), infine con l'intervento in Spagna in appoggio del generale Francisco Franco che si era sollevato contro il Governo repubblicano (1936). Fu appunto la guerra civile spagnola, nella quale anche Mussolini era intervenuto a favore di Franco, a rendere evidente la minaccia costituita per la pace e la libertà dell'Europa dalla saldatura tra i movimenti di ispirazione fascista presenti nei diversi Paesi che avevano i loro principali poli di attrazione in Italia e in Germania.
Ancor prima di intervenire in Spagna, Mussolini aveva contribuito validamente a destabilizzare il sistema delle relazioni internazionali aggredendo l'Etiopia e riducendola a colonia del neonato (ed effimero) Impero italiano. L'iniziativa era valsa all'Italia da parte della Società delle Nazioni, di cui l'Etiopia era membro, una solenne ma platonica condanna, che indusse Mussolini a fare ancor di più la voce grossa e ad avvicinarsi alle posizioni tedesche. Uniti da un analogo progetto di destabilizzazione, Hitler e Mussolini diedero vita nell'ottobre dello stesso 1936 al cosiddetto «asse Roma-Berlino», con l'obiettivo di sovvertire l'assetto internazionale definito dai trattati di sicurezza ed espresso da quel fragile organismo di collaborazione internazionale che era la Società delle Nazioni.
Da quel momento le aggressioni fasciste si susseguirono a valanga nell'inerzia perfetta delle potenze democratiche, paralizzate dallo sbalordimento e dalla paura. Tra il 1938 e il 1939, mentre in Spagna le truppe di Franco riuscivano ad avere faticosamente e sanguinosamente ragione della resistenza repubblicana, la Germania si annetteva l'Austria e smembrava la Cecoslovacchia e l'Italia occupava l'Albania. Nel settembre del 1939 l'invasione della Polonia da parte della Germania, che Hitler sperava di condurre a termine senza troppe complicazioni, come gli era sempre riuscito fino a quel momento, provocò invece, e finalmente, una reazione da parte della Francia e dell'Inghilterra garanti della sicurezza polacca: cominciava la Seconda guerra mondiale.
Benito Mussolini e Adolf Hitler


MANIFESTAZIONE A VIENNA ALL'INDOMANI DEL ANSCHLUSS

I piani nazisti prevedevano sin dall'inizio la riunione in un solo grande Stato di tutti i territori abitati da popolazioni di stirpe germanica. L'Austria, che era la patria di Hitler, era naturalmente al primo posto. Gli austriaci erano però tutt'altro che unanimi sull'opportunità dell'annessione (Anschluss) alla Germania e il Governo austriaco, che era di orientamento clerico-fascista, poteva contare sulla protezione dell'Italia, che nel 1934 si era opposta a un colpo di mano dei filonazisti. Quando però Mussolini si legò a Hitler l'Austria restò sola. Il cancelliere Schuschnigg nel tentativo di porre fine alle manovre naziste indisse un referendum sulla questione dell'Anschluss, ma la Germania minacciò l'immediata invasione del Paese. Le potenze occidentali, Francia e Inghilterra, non mossero un dito e l'Italia fece finta di niente. Schuschnigg si dimise, i nazisti austriaci presero il potere, l'esercito tedesco entrò in Austria accolto da folle plaudenti e un plebiscito sancì a cose fatte l'Anschluss (marzo 1938).

LO STERMINIO DEGLI EBREI

La politica razzista e antisemita del Governo nazista cominciò immediatamente nel 1933 con l'organizzazione del boicottaggio dei negozi ebraici e con l'espulsione dalla burocrazia statale di quanti non erano di pura razza «ariana». Nello stesso anno fu approvata una legge che sanciva il principio della sterilizzazione per gli individui «tarati», portatori cioè di malattie ereditarie. Nel 1935, con le famose leggi di Norimberga, fu stabilita la distinzione tra cittadino tedesco vero e proprio ed ebreo, il divieto di matrimonio tra ebrei e persone di sangue ariano, il divieto per gli ebrei di esporre la bandiera del Reich. Da quel momento molti ebrei abbandonarono la Germania. Furono i più fortunati: se infatti fino al 1938 prevalse l'idea che il miglior modo per difendere la razza fosse di isolare gli ebrei e di indurli ad andarsene, più tardi presero il via i programmi di annientamento. Prendendo a pretesto l'uccisione di un diplomatico nazista a Parigi da parte di un giovane ebreo, nei novembre del 1938 cominciò la «caccia all'ebreo» per le strade con pestaggi e omicidi, la distruzione dei negozi e delle case di proprietà di ebrei, l'incendio delle sinagoghe. Di lì a poco ebbero luogo le prime deportazioni di massa, che lo scatenamento della guerra mondiale doveva paurosamente accelerare.
Che fare dei milioni di ebrei che erano ancora in Germania, e soprattutto dei milioni e milioni che si trovavano nei Paesi occupati dai tedeschi dopo le prime vittorie militari? I campi di concentramento, i lager, per quanto crescessero continuamente di numero e dimensioni, non bastavano a contenerli. I lavori forzati, le privazioni, gli esperimenti su cavie umane che vi si praticavano non ne uccidevano a sufficienza. Nella diabolica logica dei nazisti non rimaneva che una scelta: ucciderli tutti con i mezzi più efficaci e meno costosi. Il «fungo velenoso», com'era definito l'ebreo in un libro di lettura diffuso nelle scuole tedesche, doveva essere sradicato una volta per tutte. I campi di concentramento divennero da quel momento campi di sterminio.

LA GUERRA DI SPAGNA

Nel 1936 in Spagna, dove nel 1931 la repubblica era subentrata alla monarchia, il Governo era stato assunto dai partiti di sinistra, che erano tradizionalmente assai divisi, ma che, unendosi in un Fronte Popolare, avevano ottenuto una forte affermazione elettorale. Questo evento scatenò le forze reazionarie interne e internazionali che si coalizzarono contro la repubblica spagnola vedendo in essa la minaccia di un possibile trionfo del «bolscevismo» in Europa. Mussolini e Hitler fornirono aiuti in uomini e armi al generale Francisco Franco, che era insorto alla testa di un gruppo di militari traditori contro il Governo legittimo. Francia e Inghilterra, le due grandi democrazie occidentali, non vollero invece schierarsi a fianco della repubblica spagnola e si attennero rigorosamente al principio del «non intervento» un po' per diffidenza nei confronti dei comunisti, il cui peso all'interno del Fronte Popolare spagnolo era destinato a crescere, e un po' per paura di un allargamento del conflitto. L'Unione Sovietica mandò aiuti alla repubblica ma non sufficienti a bilanciare il diretto e massiccio intervento di reparti armati tedeschi e italiani.
In difesa della repubblica accorsero a combattere in Spagna una quantità di volontari di ogni Paese, e in particolare molti antifascisti italiani che si trovarono ad affrontare sul campo quegli altri italiani che si erano arruolati nel corpo di spedizione mandato da Mussolini in aiuto a Franco: fu un fatto emblematico del carattere di grande guerra civile europea che avrebbe assunto di lì a poco la seconda guerra mondiale, di cui la guerra di Spagna si può considerare, almeno per questo verso, più che un'anticipazione, un vero e proprio prologo.
Isolata sul piano internazionale (almeno tra i governi, se non tra i popoli), divisa sul piano interno, la repubblica fu sconfitta. Colonne di combattenti e di profughi nel 1939 fuggirono dal Paese attraversando le frontiere con la Francia. Gli antifascisti che non riuscirono a mettersi in salvo oltre frontiera furono sterminati da una repressione feroce, che aveva lo scopo di seminare il terrore nel popolo spagnolo e di cancellare per sempre la sua volontà di lotta.

DUE PATTI SCELLERATI

La Cecoslovacchia era il solo fra gli Stati sorti dalla dissoluzione dell'Impero austro-ungarico ad avere un ordinamento democratico. Era anche il Paese più industrializzato dell'Europa centro-orientale e il più forte militarmente: un vicino scomodo per la Germania. La debolezza della Cecoslovacchia stava nell'essere un mosaico di nazionalità (Cechi, Slovacchi, Tedeschi, Magiari, Polacchi); in particolare essa ospitava nel territorio dei Sudeti una consistente minoranza tedesca. Sostenuti dalla Germania i Tedeschi dei Sudeti avanzarono al Governo di Praga richieste di autonomia che in realtà, se accolte, avrebbero significato la disgregazione della Cecoslovacchia. Il presidente Benes invocò le garanzie promesse da Francia e Gran Bretagna alla Cecoslovacchia, ma su suggerimento di Mussolini le due potenze occidentali preferirono tentare la via dell'accordo con Hitler.
Con Mussolini in qualità di mediatore, nel settembre del 1938, il premier inglese Neville Chamberlain e il presidente del consiglio francese Édouard Daladier incontrarono Hitler a Monaco di Baviera e convennero sull'opportunità che i Cecoslovacchi cedessero il territorio dei Sudeti alla Germania. I risultati della conferenza di Monaco incoraggiarono i Polacchi a pretendere a loro volta dalla Cecoslovacchia la regione di Teschen, a maggioranza polacca, e gli Ungheresi ad avanzare analoghe rivendicazioni su altri territori. Pochi mesi dopo, nel marzo 1939, i Tedeschi occuparono la Boemia e la Moravia, facendone un «protettorato» tedesco; con quello che restava costruirono lo Stato-fantoccio della Slovacchia.
Al vergognoso accordo di Monaco sottoscritto dalle democrazie occidentali, Francia e Inghilterra, fece pendant un anno più tardi, da parte sovietica, lo scellerato patto Molotov-Ribbentrop, così chiamato dai nomi dei ministri degli esteri russo e germanico che lo negoziarono. Il patto fu concluso all'improvviso il 24 agosto 1939 e diede il via all'invasione tedesca della Polonia, che ebbe luogo infatti un settimana più tardi. L'accordo russo-tedesco prevedeva lo smembramento della Polonia tra le due potenze, e il diritto della Russia a impadronirsi delle tre repubbliche baltiche Lettonia, Estonia, Lituania, e delle due province rumene della Bessarabia e della Bucovina. Mentre la Germania invadeva la Polonia, l'Unione Sovietica provvide a impadronirsi delle regioni che le erano state riconosciute dal trattato e che entrarono da quel momento a far parte integrante del suo territorio.
La Russia ha sempre giustificato il patto con la Germania con ragioni di sicurezza nazionale: respinte dalle potenze occidentali tutte le offerte sovietiche di alleanza contro la Germania di Hitler, dimostrata dalla vicenda cecoslovacca e dall'accordo di Monaco l'assoluta inaffidabilità delle garanzie franco-inglesi, nel fondato sospetto che i governi occidentali intendessero distogliere da sé l'aggressività nazista spingendola proprio contro la Russia, il Governo sovietico aveva cercato soltanto, con il patto Molotov-Ribbentrop, di guadagnare tempo in modo da organizzare una più efficace difesa: ragioni strategiche avrebbero poi imposto l'annessione delle regioni orientali della Romania e della Polonia e delle repubbliche baltiche.
Resta il fatto che il tempo così guadagnato non fu affatto utilizzato da Stalin per rafforzare le difese della Russia contro un'eventuale invasione tedesca e che quando questa avvenne, nel giugno del 1941, colse totalmente alla sprovvista l'esercito russo. Quanto ai territori annessi nel 1939 con il permesso di Hitler, a guerra finita l'Unione Sovietica si rifiutò di prendere in considerazione persino la possibilità di restituirli. Infine, è difficile sostenere che il patto russo-tedesco avesse un semplice significato difensivo. Si trattava di una vera e propria collaborazione: fino al momento dell'invasione l'Unione Sovietica rifornì la Germania di prodotti e materiali di importante valore economico e militare; ma soprattutto, attraverso la ferrea organizzazione del Comintern, Stalin impose ai comunisti europei, che erano stati e continuavano ad essere oggetto della più spietata caccia da parte dei nazisti, di rompere l'unità dei Fronti Popolari e in genere dello schieramento antifascista e di sospendere qualsiasi atto ostile nei confronti della Germania.

LA SECONDA GUERRA MONDIALE

I primi anni di guerra videro lo straripamento delle truppe tedesche in Europa. Dopo avere annientato in breve tempo l'esercito polacco, e dopo essersi impadroniti con fulminei colpi di mano della Danimarca e della Norvegia, nella primavera del 1940 i tedeschi concentrarono i propri sforzi sul fronte occidentale dove Francesi e Inglesi, forse nella speranza di un nuovo accordo, in sei mesi di finta guerra (drôle de guerre, come fu chiamata) non avevano fatto assolutamente nulla per impegnare le forze avversarie. Penetrate in Olanda e in Belgio, le armate germaniche avevano invaso la Francia e l'avevano costretta alla resa (22 giugno).
Il compito di chiedere l'armistizio alla Germania toccò al nuovo presidente del consiglio, un vecchio eroe delle Prima guerra mondiale, il maresciallo Henry-Philippe Pétain (1856-1951). L'armistizio prevedeva l'occupazione tedesca di gran parte del territorio francese, Parigi compresa. Pétain trasferì la sede del Governo a Vichy, dove si pose a capo di un regime dichiaratamente filofascista. Pur senza entrare in guerra con l'antica alleata, la Francia di Vichy ruppe quasi subito le relazioni diplomatiche con l'Inghilterra, che a sua volta riconobbe il Governo della Francia libera, formato in esilio dal generale De Gaulle. La maggioranza delle colonie francesi nel mondo riconobbe l'autorità del Governo di Vichy, ma De Gaulle riuscì ugualmente a costruire un nucleo di forze armate che continuò a combattere contro la Germania: a lui avrebbe fatto capo, negli ultimi anni della guerra, il movimento di resistenza.
Approfittando del momento favorevole e convinto che la guerra fosse ormai finita, Mussolini con una vile «pugnalata alla schiena» (come fu definita la sua iniziativa) il 10 giugno del 1940 aveva dichiarato guerra alla Francia, ormai prossima alla resa, e alla Gran Bretagna, a cui si illudeva di poter sottrarre il controllo del Mediterraneo. La flotta inglese, invece, per quanto duramente impegnata nei compiti prioritari di assicurare i rifornimenti all'Inghilterra e di difendere l'isola dal previsto attacco tedesco, continuò dalle sue basi a Malta, a Gibilterra e in Egitto a infliggere umilianti sconfitte alla brillante ma inefficiente marina italiana.
Caduta la Francia, l'Inghilterra rimase sola a combattere contro il nazismo. Il corpo di spedizione inglese in Francia, accerchiato dai Tedeschi nella sacca di Dunkerque, era stato portato in salvo dalla marina, con una operazione diventata leggendaria. Le perdite erano state tuttavia gravissime e l'Inghilterra doveva di fatto ricostruire il suo potenziale bellico. Tra l'agosto e il novembre le aviazioni tedesca e inglese si affrontarono nella battaglia d'Inghilterra, una delle più importanti della guerra, il cui obiettivo era per i Tedeschi di distruggere l'apparato industriale inglese e per gli Inglesi (oltre a quello di difendere il Paese dagli attacchi aerei nemici) di stroncare i preparativi tedeschi per l'invasione dell'isola.
Nel maggio del 1940 Winston Churchill, che prima della guerra era stato convinto sostenitore di un atteggiamento di intransigente resistenza alle pretese di Hitler, ave va sostituito alla testa del Governo inglese Neville Chamberlain, responsabile di Monaco e massimo esponente della politica di appeasement (= «accomodamento») con la Germania. L'intento di Churchill, che si rendeva perfettamente conto che senza l'intervento americano le speranze di capovolgere le sorti della guerra erano pressoché inesistenti, fu sin dall'inizio di coinvolgere nel conflitto gli Stati Uniti. Il presidente americano Franklin Delano Roosevelt, era personalmente propenso a intervenire a fianco della Gran Bretagna. Doveva però vincere l'opposizione di una larga parte dell'opinione pubblica, rappresentata dai suoi avversari repubblicani, tradizionalmente isolazionisti. Contrari alla guerra contro la Germania erano anche quegli ambienti diplomatici e militari, che consideravano gli interessi americani in Asia e nel Pacifico più importanti di quelli in Europa e che quindi temevano l'espansionismo giapponese più di quello hitleriano.
In ogni modo gli Stati Uniti sostennero in modo massiccio lo sforzo bellico inglese: pur dichiarandosi neutrali nel conflitto in corso, vendettero materiale bellico solo a loro e quando i sommergibili tedeschi scatenarono i loro micidiali attacchi contro i convogli diretti in Inghilterra, la marina americana partecipò attivamente alla protezione delle rotte mercantili e alla perlustrazione dell'Atlantico. L'aiuto americano all'Inghilterra non era però gratuito. Almeno in un primo tempo i rifornimenti dovevano essere pagati dagli Inglesi in contanti e il Governo della Gran Bretagna fu costretto a caricarsi di un'enorme massa di debiti. Quando gli Stati Uniti cedettero all'Inghilterra una cinquantina di cacciatorpediniere per supplire alle gravi perdite subite dalla marina britannica nei primi mesi del conflitto, vollero in cambio un certo numero di basi navali, prima manifestazione di un indirizzo che sarebbe stato perseguito dal Governo americano durante tutta la guerra e oltre: subentrare alla Gran Bretagna e alle altre potenze coloniali nel controllo dei rispettivi imperi, sostituendo al dominio diretto la penetrazione economica sorretta dalla creazione di un'opportuna serie di basi militari. Gli Inglesi dovettero inoltre cedere agli Americani, senza nulla in cambio, il loro bagaglio di conoscenze nel campo della ricerca scientifica d'interesse militare (in particolare negli studi sulla bomba atomica). Per l'Inghilterra era il prezzo della sopravvivenza.
Tra il 1940 e il 1941 le forze dell'Asse e quelle inglesi si affrontarono nell'Africa settentrionale, dove fallì il tentativo italiano, più tardi appoggiato da un corpo di spedizione tedesco, di impadronirsi dell'Egitto, e in Grecia che il 28 ottobre del 1940 (nell'anniversario della marcia su Roma) era stata aggredita dall'Italia. «Spezzeremo le reni alla Grecia» aveva detto nel suo truculento linguaggio Mussolini. In realtà l'esercito greco, dopo un primo momento di sorpresa, ricacciò gli invasori inseguendoli in Albania da dove erano partiti e dove furono sottratti a una punizione ancor peggiore dall'intervento tedesco che in pochi giorni ebbe ragione della resistenza greca. Proprio negli stessi giorni i Tedeschi si erano impadroniti anche della Iugoslavia: tutta la penisola balcanica passava così sotto il controllo dell'Asse e dei suoi alleati, Ungheria, Bulgaria e Romania.
Due mesi più tardi aveva inizio, nonostante il patto Molotov-Ribbentrop, l'«operazione Barbarossa», come fu chiamata da Hitler l'invasione dell'Unione Sovietica. Entro l'autunno le armate germaniche arrivarono ad assediare Leningrado, Mosca e Sebastopoli, ma il previsto crollo dell'Unione Sovietica non si verificò. L'inverno favorì l'assestamento delle linee di difesa sovietiche e nell'estate del 1942 la nuova offensiva tedesca pur ottenendo strepitosi successi un po' dovunque non riuscì a superare Stalingrado (oggi Volgograd), dove una grande armata tedesca avrebbe finito per lasciarsi intrappolare.
Con l'aggressione nazista dell'Unione Sovietica, che costrinse quest'ultima a cercare l'alleanza dell'Inghilterra e poi, nel dicembre dello stesso 1941, con l'attacco aereo giapponese alla flotta americana ancorata nel porto di Pearl Harbor nel Pacifico, che costrinse gli Stati Uniti a entrare in guerra, il conflitto assunse veramente dimensioni mondiali. L'intervento americano in effetti si considerava imminente fin da quando, nell'agosto del 1941, era stata pubblicata la «Carta Atlantica», una solenne dichiarazione di princìpi analoga ai «Quattordici punti» di Wilson, formulata congiuntamente da Roosevelt e da Churchill. La «Carta Atlantica» fu la piattaforma ideale della coalizione dei Paesi in guerra con la Germania, il Giappone e l'Italia, che il 2 gennaio 1942 prese la denominazione di Nazioni Unite: ne facevano parte ventisei Stati, alcuni dei quali, per la verità, scarsamente interessanti al conflitto, come quei Paesi latino-americani entrati in guerra solo per le pressioni degli Stati Uniti. Altri Paesi si aggiunsero via via, come ad esempio il Brasile; un contingente di truppe di questo Paese partecipò alla campagna d'Italia.
La supremazia militare dell'Asse cominciò a declinare tra l'estate del 1942, quando l'offensiva italo-tedesca in Africa Settentrionale fu stroncata ad El Alamein, e gli inizi del 1943, quando nel corso della seconda offensiva invernale russa, Leningrado venne liberata dall'assedio tedesco e a Stalingrado un'armata tedesca forte di ventidue divisioni fu costretta ad arrendersi ai sovietici. Nel novembre del 1942 gli anglo-americani erano sbarcati nell'Africa settentrionale francese, che era ancora alle dipendenze del Governo di Vichy, ma che si schierò con gli Alleati. Come risposta i Tedeschi completarono l'occupazione del territorio francese e cercarono di impadronirsi della flotta francese che era concentrata nel porto di Tolone e che, anziché arrendersi, si autoaffondò.
Nel gennaio 1943, Churchill e Roosevelt avevano annunciato ufficialmente nella Conferenza di Casablanca di voler imporre alla Germania la resa incondizionata: era una formula che sottintendeva l'annientamento della Germania, ma che voleva anche dissipare il sospetto nutrito dai sovietici che gli occidentali volessero concludere una pace separata con la Germania. I rapporti tra gli occidentali e i sovietici erano tutt'altro che facili. I Russi che dovevano sostenere da soli tutto il peso della potenza militare tedesca, avevano chiesto ripetutamente ma inutilmente agli angloamericani l'apertura di un secondo fronte in Occidente. Lo sbarco in Nord Africa e poi, nel luglio del 1943, quello in Italia (che indusse il re, Vittorio Emanuele III, il 25 dello stesso mese, a ordinare l'arresto di Mussolini e a provocare la caduta del regime fascista) erano azioni di disturbo, che rispondevano più alla preoccupazione di Churchill di tagliare la strada all'avanzata russa in Occidente, che non all'obiettivo di impegnare seriamente le forze tedesche e di alleggerire in questo modo la loro pressione sui sovietici. In effetti gli anglo-americani non furono in grado di approntare un'impresa di grandi dimensioni, quale era l'apertura di un secondo fronte, prima del giugno 1944, quando finalmente riuscirono con lo sbarco in Normandia a portare un attacco decisivo alla fortezza europea. Entro l'autunno di quell'anno la Francia era liberata. Negli stessi mesi l'Armata Rossa aveva buttato fuori dal territorio sovietico le truppe tedesche.
Bombardieri della RAF in missione sulla Germania

Rappresentazione grafica dell'andamento della seconda guerra mondiale

LA CARTA ATLANTICA

A metà dell'agosto 1941, quando gli USA erano ancora fuori della guerra ma si preparavano ad entrarvi, Churchill e Roosevelt, al termine di un incontro al largo dell'isola di Terranova approvarono una solenne dichiarazione di principio in otto punti, la cosiddetta «Carta Atlantica», che fissava gli obiettivi di guerra delle potenze occidentali:

Il Presidente degli Stati Uniti d'America e il Primo Ministro, sig. Churchill, in rappresentanza del Governo di Sua Maestà britannica del Regno Unito, essendosi riuniti a convegno, ritengono opportuno render noti taluni principi comuni nella politica nazionale dei rispettivi Paesi, sui quali essi fondano le loro speranze per un più felice avvenire del mondo.
I) I loro Paesi non aspirano a ingrandimenti territoriali o d'altro genere;
II) essi non desiderano mutamenti territoriali che non siano conformi al desiderio, liberamente espresso, dei popoli interessati;
III) essi rispettano l'autodecisione dei popoli e vogliono ridare l'autonomia a coloro fra questi che ne siano stati privati;
IV) fermo restando il principio dovuto ai loro attuali impegni, essi cercheranno di far sì che tutti i Paesi, grandi e piccoli, vincitori e vinti, abbiano accesso, in condizioni di parità, ai commerci e alle materie prime mondiali necessarie alla loro prosperità economica;
V) essi desiderano attuare fra tutti i popoli la più piena collaborazione nel campo economico, al fine di assicurare a tutti migliori condizioni di lavoro, progresso economico e sicurezza sociale;
VI) dopo la definitiva distruzione della tirannia nazista, essi sperano di veder stabilita una pace che offra a tutti i popoli i mezzi per vivere sicuri entro i loro confini e dia affidamento che tutti gli uomini, in tutti i Paesi, possano vivere la loro vita, liberi dal timore e dal bisogno;
VII) una simile pace dovrebbe permettere a tutti gli uomini di navigare senza impedimenti oceani e mari;
VIII) essi sono convinti che, per ragioni pratiche nonché spirituali, tutte le Nazioni del mondo debbano addivenire all'abbandono dell'impiego della forza. Poiché nessuna pace futura potrebbe essere mantenuta se gli Stati che minacciano, e possono minacciare aggressioni al di fuori dei loro confini, continuassero a impiegare armi terrestri, navali ed aeree, essi ritengono che, in attesa che sia stabilito un sistema permanente di sicurezza generale, sia indispensabile procedere al disarmo di quei Paesi. Analogamente, essi aiuteranno e incoraggeranno tutte le misure praticabili al fine di alleggerire il peso schiacciante degli armamenti per tutti i popoli amanti della pace

La «Carta Atlantica» rappresentava, per dirla con le parole di Churchill, «lo spiegamento delle forze buone del mondo contro le forze malefiche»; un po' come i «Quattordici Punti» del presidente Wilson nel conflitto precedente, faceva della guerra non uno scontro di potenze ma uno scontro ideale e morale tra fascismo e antifascismo, confermandone, al di sopra delle divisioni nazionali, il prevalente carattere di grande guerra civile all'interno del mondo occidentale che era già emerso in quella sorta di anticipazione del conflitto mondiale che era stata la guerra di Spagna.

ATTRITI FRA ALLEATI

Le strepitose vittorie dei Russi e la loro avanzata nell'Europa orientale e nei Balcani allarmarono gli occidentali, rendendo urgente la definizione di un accordo politico sul destino di quelle regioni. Il principale motivo di attrito era costituito dalla Polonia, il Paese per il quale era iniziata la guerra. Esisteva a Londra un Governo polacco in esilio, nettamente anticomunista, ai cui ordini operavano un'organizzazione combattente clandestina nella Polonia occupata e un corpo di truppe polacche che, inquadrato dagli Inglesi, aveva combattuto e stava combattendo in Italia e in Francia. Ma l'URSS nel 1943 disconobbe il Governo di Londra e diede invece il proprio appoggio ad un altro Governo di stretta osservanza sovietica, conosciuto come Comitato di Lublino, composto in prevalenza di comunisti polacchi esuli in Russia. Il contrasto riguardava non solo il futuro assetto politico del Paese, ma anche le sue frontiere. L'Unione Sovietica infatti, non intendeva rinunciare ai territori ottenuti nel 1939 in forza dello scellerato patto Ribbentrop-Molotov, che comprendevano le regioni orientali della Polonia. In cambio la Polonia avrebbe incorporato le regioni orientali della Germania, fino alla linea dei fiumi Oder e Neisse. Gli anglo-americani non avevano modo di contrastare le richieste sovietiche e la Polonia fu abbandonata al suo destino.
Nell'ottobre 1944 Churchill ebbe a Mosca un abboccamento diretto con Stalin, nel corso del quale i due statisti, accomunati da una concezione fortemente «realistica» della politica, definirono le rispettive sfere di influenza degli occidentali e dei Russi nel resto dell'Europa orientale e balcanica. In una pagina spesso citata delle Memorie Churchill ha raccontato così la fase saliente del negoziato:

... Il momento era favorevole per trattare; perciò io dissi: - Sistemiamo le nostre faccende nei Balcani. I vostri eserciti si trovano in Romania e in Bulgaria, dove noi abbiamo interessi missioni e agenti. Non procediamo a offerte e controfferte stiracchiate. Per quanto riguarda la Gran Bretagna e la Russia, che ne direste se aveste una maggioranza del 90 per cento in Romania e noi una percentuale analoga in Grecia e partecipassimo invece su piede di perfetta parità in Jugoslavia? - Mentre si procedeva alla traduzione, trascrissi ciò su mezzo foglio di carta:

Romania

Russia..................................90%
Gli altri...............................10%

Grecia

Gran Bretagna
(d'intesa con gli Stati Uniti)..........90%

Russia..................................10%

Bulgaria

Russia..................................75%

Gli altri...............................25%

Passai il foglietto attraverso il tavolo a Stalin, che nel frattempo aveva udito la traduzione. Ci fu una piccola pausa. Poi prese la sua matita blu e con essa tracciò un grosso segno di «visto» sul foglio, che quindi ci restituì. La faccenda fu così completamente sistemata in men che non si dica...

Nel pieno del conflitto era stata manifestata l'intenzione di eliminare una volta per tutte il pericolo tedesco togliendo alla Germania per molto tempo la possibilità di risorgere come potenza militare e industriale. I progetti andavano dallo spezzettamento della Germania in più Stati, alla riduzione del Paese ad un'economia esclusivamente agricola e pastorale (il cosiddetto «piano Morgenthau», dal nome del ministro americano che lo propose). Per risolvere questo e gli altri problemi dell'assetto internazionale del dopoguerra fu tenuta la conferenza di Yalta, in Crimea.
Yalta è diventata sinonimo di spartizione del mondo in sfere di influenza tra le grandi potenze. A Yalta i dissensi fra i Tre Grandi (come erano chiamati i leader delle tre maggiori potenze alleate, Churchill, Stalin e Roosevelt) emersero chiaramente su quasi tutti i temi in discussione. Stalin mostrò di avere le idee più chiare. Enunciò senza veli e senza scrupoli i princìpi che chi aveva vinto la guerra aveva il diritto di dettare la pace, che le grandi potenze dovevano contare più delle piccole e che ad ognuna di esse doveva essere riconosciuta un'area d'influenza nella quale le altre si sarebbero impegnate a non interferire. Erano princìpi in contrasto con la «Carta Atlantica» (che anche Stalin aveva accettato) e con le norme del diritto internazionale; ma la coerenza non è la virtù precipua degli uomini di Stato.
Gli occidentali ottennero di mitigare il trattamento che Stalin voleva riservare alla Germania, strapparono alcune concessioni formali sulla Polonia e fecero accettare la Francia come un'altra delle grandi potenze vincitrici della guerra. Ma in definitiva la conferenza non poteva modificare i risultati conseguiti sui campi di battaglia e questi risultati erano tutti a favore dell'Unione Sovietica. I sovietici sottolinearono che il loro Paese aveva enormemente sofferto a causa della Germania e che aveva contribuito in maniera determinante alla vittoria finale su di essa: perciò aveva diritto a tutelare in avvenire la propria sicurezza garantendosi il controllo dei Paesi confinanti, a cominciare dalla Polonia.
Per stroncare la forza del Giappone che resisteva ormai da solo, gli Stati Uniti decisero, nell'agosto 1945, di impiegare le prime bombe atomiche costruite dagli scienziati inglesi e americani lanciandole sulle città di Hiroshima e Nagasaki. La guerra terminava così con due spaventosi massacri, del tutto inutili dal punto di vista strategico, ma utilissimi dal punto di vista politico quale indiretta ammonizione al Governo sovietico a moderare le sue ambizioni espansionistiche, e perfettamente conformi al carattere terroristico che aveva assunto il conflitto. A proposito del carattere terroristico del conflitto, basti ricordare che il bilancio di sangue risultò assai più grave di quello, già spaventoso, della Prima guerra mondiale e che delle decine di milioni di vittime la maggioranza fu rappresentata dai civili.

I TRE GRANDI ALLA CONFERENZA DI YALTA

La fitta trama di scambi epistolari e di incontri diretti e indiretti tra Churchill, Roosevelt e Stalin, costituisce forse l'aspetto più interessante del conflitto. I Tre si riunirono solo in due occasioni: a Teheran nel novembre 1943 e a Yalta nel febbraio 1945. Al Cairo, nel novembre 1943, era presenta Jang Gaishek, come «quarto grande», in accordo con la tendenza americana a riconoscere alla Cina il ruolo di grande potenza: un ruolo che Roosevelt negava invece alla Francia, con la conseguenza che De Gaulle fu tenuto fuori del grande giro diplomatico. Negli ultimi mesi di guerra, infine, furono tenute la Conferenza di San Francisco, fra i ministri degli esteri degli Stati coalizzati contro l'Asse (aprile-giugno 1945) e la Conferenza di Postdam, (luglio-agosto) di nuovo fra i Tre Grandi: ma prima di San Francisco era morto Roosevelt e prima che si concludesse quella di Potsdam Churchill, risultato sconfitto alle elezioni, non era più primo ministro, sicché nell'ultima delle conferenze di guerra Stalin si ritrovò con Truman, nuovo presidente americano, e con Attlee, nuovo premier inglese.
Churchill, Roosevelt e Stalin alla conferenza di Yalta