L'EUROPA IN TRINCEA
Tra la fine del XIX
e l'inizio del XX secolo la gara per l'accaparramento delle colonie in cui si
erano lanciati i governi europei, aveva finito per creare fra di loro forti
rivalità: in Africa si fronteggiavano Inghilterra, Francia e Germania; in
Asia queste stesse potenze entravano in concorrenza con la Russia e il Giappone.
Al dominio europeo sul mondo si opponevano inoltre due grandi potenze che,
uscite dal tradizionale isolamento, avevano acquistato un'importanza mondiale:
gli Stati Uniti d'America e il Giappone. Anche in Europa le relazioni
internazionali presentavano numerosi e preoccupanti punti d'attrito: l'Alsazia e
la Lorena erano rivendicate dalla Francia a cui la Germania le aveva tolte dalla
guerra del 1870-71, mentre nei Balcani al ribollire delle nazionalità
oppresse (croati, sloveni, ecc.) e di quelle emergenti (serbi, bulgari, romeni,
ecc.) si sovrapponevano gli opposti giochi di dominio dell'Austria e della
Russia. Nel Mediterraneo orientale, poi, la crisi permanente dell'Impero
ottomano, mentre suscitava tra Arabi e Turchi aspirazioni di rinnovamento,
attirava la bramosia delle maggiori potenze europee.
Nel decennio
1904-1914, una serie di crisi politiche internazionali talvolta degenerate in
guerre locali aveva messo a dura prova il fragile equilibrio su cui si reggeva
la pace in Europa. L'Inghilterra, che era stata fino ad allora la garante di
questo equilibrio, si sentiva ora minacciata nella sua supremazia marittima dal
crescente sviluppo della flotta tedesca. Si erano perciò formati in
Europa due schieramenti contrapposti: da una parte la vecchia Triplice Alleanza,
che comprendeva gli Imperi Centrali (Germania e Austria-Ungheria) e l'Italia e
che era stata più volte rinnovata; dall'altra parte la Triplice Intesa,
costituita in tempi più recenti da Francia, Russia e Gran
Bretagna.
La scintilla che fece scoppiare il conflitto fu l'attentato
all'arciduca d'Austria Francesco Ferdinando compiuto a Sarajevo il 28 giugno
1914 da un terrorista serbo. Come riparazione il Governo austriaco avanzò
alla Serbia delle richieste inaccettabili e quando il suo ultimatum fu respinto
le dichiarò guerra (28 luglio 1914). Immediatamente si mise in moto il
meccanismo delle alleanze: la Russia si schierò con la Serbia e
proclamò la mobilitazione generale; a ciò rispose la Germania
alleata dell'Austria dichiarando guerra prima alla Russia, poi alla Francia;
l'Inghilterra di fronte all'invasione del Belgio da parte dell'esercito tedesco,
che cercava con questa mossa di aggirare l'esercito francese, dichiarò
guerra alla Germania. l'Italia proclamò, per il momento, la sua
neutralità, mentre al di fuori dell'Europa, il Giappone entrò in
guerra contro la Germania, occupandone i possedimenti in Cina. Al fianco degli
Imperi Centrali si schierò invece la Turchia.
La Germania, forte
della sua potenza militare, attaccò subito la Francia, contando di
liquidarne la resistenza in poco tempo per poi rivolgere l'azione verso il
fronte russo. Ma i Francesi bloccarono l'avanzata tedesca sulla Marna, e fecero
fallire il sogno della Germania di una guerra breve e vittoriosa. Iniziò
allora la guerra detta di «posizione» o «di logoramento»,
che, almeno sul fronte occidentale (e poi su quello italiano)
caratterizzò tutto il resto del conflitto e che fu combattuta da milioni
di uomini pigiati nelle trincee difese dalle mitragliatrici e dai
reticolati.
Intanto la guerra si estendeva ad altri Paesi come un'epidemia:
nel maggio 1915 l'Italia abbandonava i suoi antichi alleati, gli Imperi
Centrali, e si schierava a fianco dell'Intesa; nell'autunno dello stesso anno la
Bulgaria si alleava con l'Austria e la Germania, consentendo l'invasione della
Serbia che fu costretta a capitolare. Gli Imperi Centrali avevano intanto
concentrato i loro sforzi sul fronte orientale e scatenato contro la Russia una
serie di offensive, ottenendo qualche vittoria, anche di grande rilievo, almeno
in rapporto all'enorme massa di uomini e ai vasti territori che vi erano
coinvolti, ma nessun successo definitivo.
La guerra proseguì nel
1916 senza mutamenti decisivi: sul fronte occidentale all'offensiva tedesca di
Verdun rispose l'attacco anglo-francese della Somme, in cui comparvero per la
prima volta i carri armati. Nel Trentino falliva, intanto, un'offensiva
austriaca. Sul fronte orientale una controffensiva russa veniva arrestata e
senza effetti di rilievo si rivelava l'intervento in guerra della Romania contro
l'Austria. Neppure l'unica vera battaglia navale della guerra, che si svolse in
quell'anno, quella dello Jutland tra flotta germanica e britannica, produsse
conseguenze importanti nei rispettivi rapporti di forza.
Nel 1917, due
avvenimenti modificarono l'andamento del conflitto: l'intervento in guerra degli
Stati Uniti d'America e la rivoluzione russa. Negli Stati Uniti erano ancora
forti le correnti «isolazioniste», che volevano, cioè,
mantenere il Paese estraneo ai conflitti tra potenze europee. Ma le tradizioni
comuni e i forti legami economici con i Paesi dell'occidente europeo facevano
pendere le simpatie dell'opinione pubblica americana verso gli Alleati (Francia,
Inghilterra, Italia ecc.), tanto più che la richiesta proveniente da
questi Paesi di ogni sorta di materie prime e di manufatti rappresentava per gli
Americani un'eccezionale occasione di buoni affari. La Germania, convinta di non
poter ottenere una vittoria decisiva sui fronti terrestri finché fosse
durato l'incessante flusso di rifornimenti che alimentava lo sforzo bellico
degli Alleati, e incapace di sottrarre alla flotta inglese il controllo del
mare, ricorse alla guerra sottomarina indiscriminata, rivolta cioè contro
tutte le navi mercantili, anche quelle neutrali, che fossero presumibilmente
dirette verso porti nemici. La decisione tedesca determinò nell'opinione
pubblica americana, che vi vide una violazione della libertà di
navigazione, le condizioni per un superamento delle ultime reticenze che ancora
si opponevano a un intervento diretto nel conflitto.
Quando gli Stati Uniti
entrarono in guerra, la posizione militare degli Alleati sembrava gravemente
compromessa. Il loro intervento fu dunque risolutivo per l'esito della guerra,
non solo per l'apporto di milioni di nuovi combattenti (dei quattro milioni di
mobilitati, due milioni sbarcarono in Francia, ed oltre un milione fu impiegato
al fronte), ma anche per l'impiego di un crescente numero di navi, con cui fu
possibile neutralizzare l'offensiva sottomarina tedesca e assicurare i
rifornimenti all'Europa.
Mentre le truppe americane si apprestavano a
rafforzare il fronte degli Alleati, la rivoluzione in Russia provocava prima
(nel marzo) il crollo del regime zarista e poi (nel novembre), quando il potere
fu conquistato dai seguaci di Lenin, i bolscevichi (che poi si sarebbero
chiamati comunisti), l'uscita definitiva di quel Paese dal conflitto. Nel
frattempo, alla fine di ottobre, gli Austrotedeschi riuscivano a sfondare il
fronte italiano a Caporetto e a travolgere tutte le linee di difesa. Se anche
l'Italia avesse ceduto, le sorti della guerra sarebbero tornate di nuovo
decisamente favorevoli agli Imperi Centrali. Ma la rotta dell'esercito italiano
(che perse oltre quattrocentomila uomini tra morti, feriti e prigionieri) fu
arrestata bene o male al Piave.
L'ultimo anno di guerra, il 1918, vide
ovunque la ripresa degli Alleati, che riuscirono a respingere gli ultimi sforzi
offensivi dell'esercito tedesco sul fronte occidentale e di quello austriaco sul
fronte italiano. Nel settore sud-orientale, frattanto, sotto l'attacco combinato
di Francesi, Inglesi, Serbi e Greci, cadeva la Bulgaria; poco dopo si arrendeva
anche la Turchia. L'Austria-Ungheria e la Germania, rimaste isolate, caddero
subito dopo: l'esercito austriaco si sfasciava di fronte all'offensiva italiana
di Vittorio Veneto e quello tedesco ripiegava sotto l'attacco di Americani,
Francesi e Belgi. Nella prima metà di novembre venivano firmati gli
armistizi. La «Grande Guerra», come fu chiamata, era finita. In
quattro anni e quattro mesi aveva provocato quasi nove milioni di morti. uno
ogni quindici secondi.
Prima guerra mondiale: una trincea sulla Somma
I QUATTORDICI PUNTI DI WILSON
L'intervento degli Stati Uniti nel conflitto
mondiale, di cui la guerra sottomarina indiscriminata scatenata dalla Germania
non fu che un pretesto, aveva le sue più solide motivazioni nella
crescente presenza americana in tutte le aree oggetto di contesa, dall'Europa
all'Estremo Oriente, e nella necessità di salvaguardare gli ingenti
prestiti accordati alle potenze dell'Intesa. Ma, rispettando un tratto
caratteristico della politica estera americana (che abbiamo avuto occasione di
richiamare in particolare a proposito della guerra di Cuba), il presidente degli
Stati Uniti, il democratico Woodrow Wilson (1856-1924), volle dare
all'intervento un preminente significato ideale: si trattava, dopo i ripetuti,
vani tentativi di mediazione tra le potenze belligeranti, di schierarsi con
quelle che sembravano offrire le migliori garanzie di voler costruire, dopo la
vittoria, un nuovo ordine internazionale, fondato sulla pace, sulla giustizia,
sull'autodeterminazione, sulla collaborazione dei popoli. Wilson cercò di
delineare i principi di questo nuovo ordine internazionale nei suoi famosi
Quattordici Punti, un documento straordinario che rinverdì negli esausti
popoli dell'Intesa l'illusione che la guerra in corso potesse davvero essere
l'ultima delle guerre:
1) Convenzioni di pace palesi, apertamente
concluse e in base alle quali non vi saranno accordi internazionali segreti di
alcuna specie, ma la diplomazia agirà sempre palesemente e in vista di
tutti.
2) Libertà assoluta della navigazione sui mari all'infuori
delle acque territoriali, tanto in tempo di pace quanto in tempo di guerra,
salvo per i mari che potessero essere chiusi in tutto o in parte mediante
un'azione internazionale in vista dell'esecuzione di accordi
internazionali.
3) Soppressione, per quanto sarà possibile, di tutte
le barriere economiche e creazione di condizioni commerciali eguali fra tutte le
Nazioni che consentiranno alla pace, e si assoceranno per mantenerla.
4)
Garanzie convenienti date e prese che gli armamenti nazionali saranno ridotti
all'estremo limite compatibile con la sicurezza del Paese.
5) Libera
sistemazione, con spirito largo e assolutamente imparziale, di tutte le
rivendicazioni coloniali basate sulla stretta osservanza del principio che, nel
determinare tutte le questioni di sovranità, gli interessi delle
popolazioni interessate dovranno avere un peso eguale a quello delle domande
eque del Governo il cui titolo dovrà essere conosciuto.
6) Sgombero
di tutti i territori russi e soluzione di tutte le questioni concernenti la
Russia che assicuri la migliore e più libera cooperazione delle altre
Nazioni per dare alla Russia il modo di determinare, senza essere ostacolata
né turbata, l'indipendenza del proprio sviluppo politico e della propria
politica nazionale, per assicurarle una sincera accoglienza nella Società
delle Libere Nazioni con istituzioni di sua scelta, e più che una
accoglienza, ogni aiuto di cui abbia bisogno e che desideri. Il trattamento
fatto alla Russia dalle Nazioni sue sorelle durante i mesi avvenire, sarà
la pietra di paragone della loro buona volontà e della loro comprensione
dei suoi bisogni, astrazion fatta dai loro interessi e dalla loro intelligenza e
simpatia disinteressata.
7) Quanto al Belgio, il mondo intero sarà
d'accordo che esso dev'essere sgombrato e restaurato senza alcun tentativo di
limitare la sovranità di cui gode nel concerto delle altre Nazioni
libere. Nessun altro atto servirà quanto questo a ristabilire la fiducia
tra le Nazioni nelle leggi che esse stesse hanno stabilito e fissato per
regolare le loro reciproche relazioni. Senza questo atto salutare, tutta la
struttura e la validità di tutte le leggi internazionali sarebbero per
sempre indebolite.
8) Tutto il territorio francese dovrà essere
liberato e le regioni invase dovranno essere restaurate. Il torto fatto alla
Francia dalla Prussia nel 1871 per quanto riguarda l'Alsazia-Lorena e che ha
turbato la pace del mondo per quasi cinquant'anni, dovrà essere riparato
affinché la pace possa ancora una volta essere garantita nell'interesse
di tutti.
9) La sistemazione delle frontiere dell'Italia dovrà
essere effettuata secondo le linee di nazionalità chiaramente
riconoscibili.
10) Ai popoli dell'Austria-Ungheria il cui posto desideriamo
vedere tutelato e garantito fra le Nazioni, si dovrà dare più
largamente occasione per uno sviluppo autonomo.
11) La Romania, la Serbia,
il Montenegro dovranno essere restituiti. Alla Serbia dovrà accordarsi un
libero e sicuro accesso al mare. Le relazioni tra i vari Stati balcanici
dovranno essere fissate amichevolmente secondo i consigli delle Potenze e in
base a linee di nazionalità stabilite storicamente. Saranno fornite a
questi Stati balcanici garanzie di indipendenza politica ed economica e per
l'integrità dei loro territori.
12) Una sicura sovranità
sarà garantita alle parti turche dell'Impero ottomano attuale; ma le
altre nazionalità che si trovano in questo momento sotto la dominazione
turca, dovranno aver garantita una indubbia sicurezza di esistenza ed il modo di
svilupparsi senza ostacoli autonomamente. I Dardanelli dovranno essere aperti
permanentemente e costituire un passaggio libero per le navi e per il commercio
di tutti sulla base di garanzie internazionali.
13) Dovrà essere
stabilito uno Stato polacco indipendente che dovrà comprendere i
territori abitati da popolazioni incontestabilmente polacche, alle quali si
dovrà assicurare un libero e sicuro accesso al mare e la cui indipendenza
politica ed economica, al pari dell'integrità territoriale, dovrà
essere garantita mediante accordi internazionali.
14) Un'associazione
generale delle Nazioni dovrà essere formata in base a convenzioni
speciali, allo scopo di fornire mutue garanzie di indipendenza politica e di
integrità territoriale ai grandi come ai piccoli Stati.
DALLA GUERRA ALLA RIVOLUZIONE
Alla vigilia della Prima guerra mondiale, la
Russia era ancora uno dei Paesi europei economicamente e socialmente più
arretrati. La grande maggioranza della popolazione (quasi 170 milioni di
abitanti) era costituita da contadini (il 67 per cento circa). La popolazione
operaia costituiva appena il 14 per cento. Il resto comprendeva nobili,
proprietari terrieri, funzionari statali e borghesi di varia condizione. I
contadini venivano comunemente classificati in tre categorie: contadini ricchi
(kulaki), che producevano per il mercato e impiegavano manodopera salariata;
contadini medi, che pur avendo terra sufficiente al proprio sostentamento, la
lavoravano direttamente, senza ricorrere a manodopera salariata e, di norma,
senza produrre eccedenze vendibili sul mercato; contadini poveri (batraki), che
avevano poca terra o non ne avevano affatto ed erano quindi costretti a lavorare
come salariati presso altri proprietari. Si calcola che alla vigilia della
rivoluzione i primi costituissero il 10 per cento circa della popolazione
contadina e i secondi il 50 per cento. Ma il confine tra contadini medi e
contadini poveri era sempre assai labile.
Le industrie, d'impianto recente,
erano concentrate in poche città, la più importante delle quali
era la capitale, Pietroburgo. Gli operai, che erano passati dal milione e mezzo
circa del 1890 ai tre milioni del 1914, anche se relativamente poco numerosi
erano però notevolmente concentrati in imprese di grandi proporzioni. Vi
era poi un vasto proletariato instabile, fluttuante tra città e campagna.
La borghesia capitalistica vera e propria era poco consistente, e molto modesto
era il ceto medio, formato da piccoli imprenditori e piccoli commercianti. Pochi
grandi capitalisti, spesso stranieri, controllavano il mercato, mentre quelli
medi scomparvero via via per la concorrenza della grande industria. Importante
era sempre la presenza dei nobili e dei funzionari statali (in tutto meno di
mezzo milione), due gruppi che, nella tradizione della nobiltà di
servizio, per lungo tempo e almeno nei gradi superiori della burocrazia, si
erano di fatto identificati.
I ceti medi erano molto più deboli che
nel resto d'Europa e il contrasto tra ricchezza e povertà era drammatico,
senza mediazioni. Nel 1906 soltanto centomila persone avevano un reddito
superiore ai 1000 rubli, mentre altre ottocentomila avevano più di 800
rubli. Se si considera che per mantenere una famiglia con un tenore di vita
«borghese» occorrevano mediamente dai sei ai settecento rubli di
reddito, risulta chiaro che la stragrande maggioranza della popolazione russa
viveva in condizioni modeste o di vera e propria povertà. La popolazione
urbana non rappresentava, nel 1913, che il 15,5 per cento della popolazione
totale. La Russia era insomma un Paese prevalentemente contadino e povero, anche
se dotato di un nucleo di capitalismo industriale in fase di espansione.
Lo
zar, con la sua famiglia, i ministri, i funzionari di grado più elevato e
i pochi consiglieri fidati, esercitava ancora un potere praticamente assoluto, e
in questo mondo chiuso la grande politica si confondeva spesso con l'intrigo
cortigiano. L'ottusità e l'inefficienza della burocrazia russa erano
proverbiali e poiché non esisteva alcuna vera forma di decentramento o di
rappresentanza elettiva, i canali di comunicazione tra l'apparato statale e la
società erano assai fragili, quasi inesistenti.
Il disagio della
popolazione era già esploso nel 1905, in coincidenza con la sfortunata
guerra con il Giappone. Lo zar era stato costretto a concedere, ultimo sovrano
in Europa. un Parlamento (Duma) e a impostare una riforma agraria. Ma la Duma,
eletta a suffragio ristretto, aveva poteri assai limitati. Quanto alla riforma
agraria, concepita per sviluppare la proprietà contadina attraverso la
distruzione della proprietà collettiva di villaggio, finì per
favorire il gruppo dei kulaki, tra i quali il Governo sperava di trovare una
base di massa, e per peggiorare le condizioni degli altri contadini. Importante
fu però la ripresa d'iniziativa delle forze politiche, sia di
orientamento liberale sia di ispirazione socialista e rivoluzionaria (le
frazioni menscevica e bolscevica del partito socialdemocratico, e il partito
socialista rivoluzionario); nella rivoluzione del 1905 avevano fatto la loro
comparsa i soviet ossia i consigli operai.
Quando scoppiò la Grande
Guerra parve che attorno allo zar Nicola II si realizzasse una nuova
unità patriottica capace di far dimenticare i mali della società
russa, ma il rovinoso andamento del conflitto, come già era accaduto nel
corso della guerra russo-giapponese, servì semmai a metterli ancor di
più in luce. La mobilitazione sotto le armi di milioni di contadini, fece
bruscamente diminuire la mano d'opera disponibile per l'agricoltura, provocando
la rarefazione dei generi alimentari. Le privazioni e l'alto numero di vittime
suscitarono ondate di malcontento che investirono tanto le truppe quanto la
popolazione civile, e si fecero particolarmente acute nel corso del 1916.
Finalmente nel marzo (nel febbraio, secondo l'antico calendario russo) del 1917
un'insurrezione popolare rovesciò il regime zarista.
I soldati
rifiutarono di obbedire oltre ai propri ufficiali. Ricomparvero i soviet operai
e quello di Pietrogrado (come era stata ribattezzata Pietroburgo) assunse le
funzioni di un organo di direzione e di controllo alternativo alla
Duma.
L'abdicazione dello zar Nicola II (2 marzo 1917), la caduta dello
zarismo e la formazione di un Governo provvisorio di ispirazione
liberal-democratica furono accolti con favore nei Paesi dell'Intesa, dove si
sperava che potessero significare un più efficiente impegno della Russia
nel conflitto. Il nuovo regime, poi, a differenza di quello zarista, aveva un
volto politicamente rispettabile e rendeva un po' più credibile
l'immagine che della guerra aveva offerto la propaganda dell'Intesa: uno scontro
all'ultimo sangue tra la civiltà liberale e democratica dell'Occidente
(con la quale lo zarismo aveva ben poco a che fare) e la tradizione autoritaria
e militaristica degli Imperi Centrali.
Il Governo provvisorio, rinviando al
termine del conflitto le più gravi questioni sociali, si concentrò
per il momento sui provvedimenti di emergenza in vista di un rinnovato sforzo
bellico. Ma la rivoluzione si era espressa essenzialmente nel rifiuto della
guerra da parte dei soldati e dei contadini, e doveva continuare a svilupparsi
come un gigantesco e spontaneo movimento di renitenza. A partire dal luglio 1917
vi fu un'ondata di sanguinose proteste contro il Governo provvisorio colpevole
di insistere nella prosecuzione di una guerra che nessuno, ormai, voleva
più combattere. Lenin, leader della frazione bolscevica, diede ai suoi
l'indicazione di mettersi alla testa del movimento per l'immediata fine della
guerra e tra l'ottobre e il novembre i bolscevichi, dopo una serie di errori e
di tentativi falliti, mossero decisamente alla conquista del potere spingendo i
soviet degli operai e dei soldati all'attacco del Governo provvisorio per
l'instaurazione di un regime socialista. Una rivoluzione socialista sarebbe
stata impossibile senza l'appoggio dei contadini, che costituivano la grande
maggioranza del popolo russo. I contadini non avevano obiettivi propriamente
socialisti. Essi volevano principalmente due cose, e le volevano subito: la fine
della guerra e la distribuzione delle terre. I bolscevichi accettarono le
rivendicazioni dei contadini e nel novembre (ottobre, secondo il vecchio
calendario russo) con un'insurrezione quasi incruenta costrinsero il capo del
Governo provvisorio, Kerenski, ad abbandonare la capitale, Pietrogrado. Si
formò un nuovo Governo, il Consiglio dei commissari del popolo, che
decretò la cessazione delle ostilità, l'esproprio dei grandi
proprietari terrieri, la concessione ai popoli dell'antico Impero russo del
diritto di autodeterminazione, la nazionalizzazione delle banche e delle
industrie, ecc.
Si aprì a questo punto un periodo tormentatissimo
per la Russia. La pace fu ottenuta dalla Germania solo a condizioni molto
pesanti. Gli antichi alleati (Inghilterra, Francia, Italia, Giappone, Stati
Uniti) inviarono corpi di spedizione in appoggio alle forze controrivoluzionarie
che, raccogliendo soprattutto gli ufficiali del vecchio esercito zarista,
avevano risposto con la guerra civile alla presa del potere da parte dei
bolscevichi. L'economia e l'amministrazione dello Stato erano in preda al caos.
Gli operai avevano assunto il controllo delle fabbriche, ma senza l'aiuto del
vecchio personale tecnico e direttivo la produzione industriale si
disorganizzò. I contadini si appropriarono delle terre dei latifondisti,
ma, com'è naturale, vollero utilizzare i vantaggi conseguiti con la
rivoluzione per migliorare le proprie condizioni di vita, sicché le
risorse disponibili per alimentare le città, far fronte alla guerra
civile e procedere alla costruzione di un'economia socialista invece di
aumentare diminuirono. I funzionari dei ministeri, delle banche, degli uffici
pubblici e privati sabotarono sistematicamente le direttive del Governo
bolscevico.
I dirigenti bolscevichi, in tale situazione, potevano seguire
due vie: attendere che gli operai e i contadini acquistassero tutta l'esperienza
necessaria per far funzionare l'economia e la macchina statale nelle nuove forme
della democrazia sovietica; oppure ridare immediatamente all'economia e
all'amministrazione la necessaria efficienza, sacrificando però le
conquiste democratiche e i principi libertari della rivoluzione. I bolscevichi
scelsero la seconda strada. La gestione delle fabbriche, sottratta ai consigli
operai, fu affidata a tecnici e amministratori di provata esperienza; al fine di
stimolare i lavoratori ad un più intenso lavoro fu ripristinata la
differenziazione dei salari non solo tra operai e tecnici, ma anche tra gli
operai stessi, eliminando così quei principi egualitari che si erano
spontaneamente affermati con la rivoluzione; infine, tutta la vita economica del
Paese fu riorganizzata sotto lo stretto controllo del Governo
centrale.
Alla fine del 1922, superato il momento più difficile
della guerra civile, il nuovo Stato assunse il nome di Unione delle Repubbliche
Socialiste Sovietiche, che ne ribadiva il carattere socialista e riaffermava il
ruolo dei soviet, gli organi di autogoverno che il popolo russo si era dato nel
corso della rivoluzione. Senonché, la centralizzazione e il dirigismo
reintrodotti nel sistema produttivo sotto la spinta della guerra civile erano
stati accompagnati da un'analoga evoluzione in senso autoritario della vita
politica: sin dalla presa del potere i bolscevichi trattarono i loro oppositori,
menscevichi, socialisti rivoluzionari, anarchici, alla stregua di pericolosi
controrivoluzionari. La scomparsa della libertà di lotta politica
svuotò i soviet di ogni significato e trasformò la «dittatura
del proletariato», che teoricamente avrebbe dovuto rappresentare la forma
più ampia di democrazia, prima in una severa dittatura di partito e poi,
dopo la morte di Lenin (1924) e la liquidazione da parte di Stalin di tutti i
possibili concorrenti, in una feroce dittatura personale.
LENIN
Lenin, il cui vero nome era Vladimir Ilich
Ulianov (1870-1924), aveva svolto fin da giovane attività rivoluzionaria
per diffondere tra le masse russe le idee socialiste e aveva subito il carcere e
la deportazione. Costretto all'esilio, aveva vissuto lungamente all'estero, non
rinunciando però a dirigere il partito bolscevico e a scrivere varie
opere di carattere teorico sul socialismo o di polemica contro altri esponenti
del socialismo. Scoppiata la rivoluzione nel febbraio 1917, poté
rientrare in patria e si mise alla testa del movimento popolare con un programma
sintetizzato dalle parole: «pace, pane, terra», che esprimevano le
essenziali richieste del popolo russo e in primo luogo delle grandi masse
contadine.
LA TERZA INTERNAZIONALE
Prima della guerra la Seconda Internazionale
aveva più volte ribadito l'impegno di tutti i partiti aderenti a
combattere contro la politica bellicista dei rispettivi governi e, in caso di
conflitto, a chiamare i popoli alla sollevazione generale. Ma quando la guerra
scoppiò davvero, non solo i socialisti non scatenarono la rivoluzione che
avevano minacciato, ma, almeno in maggioranza, si schierarono, da una parte e
dall'altra, con i rispettivi governi, portando così un fattivo contributo
al grande massacro (tra le poche eccezioni merita di essere ricordato il
comportamento del Partito Socialista Italiano, che, se non seppe opporsi
efficacemente alla guerra, per lo meno non volle mai aderirvi).
Nel corso
del conflitto e soprattutto dopo la rivoluzione d'ottobre si delineò il
progetto, sostenuto in modo particolare dai bolscevichi russi, di dar vita a una
nuova organizzazione che, puntando alla rivoluzione mondiale, si contrapponesse
alla Seconda Internazionale e ai suoi indirizzi riformistici. Tale
organizzazione si chiamò Terza Internazionale o Internazionale Comunista
(Comintern) e fu fondata nel corso di una conferenza internazionale (in
verità scarsamente rappresentativa: i cinquanta delegati rappresentavano
in tutto una ventina di gruppi o partiti, tra i quali solo quello tedesco e
quello russo avevano un peso reale) che si tenne a Mosca nel marzo del 1919. Nel
secondo congresso (luglio-agosto 1920) furono fissate in 21 punti le condizioni
per l'appartenenza all'Internazionale. In questo modo veniva definito per tutti
i partiti aderenti un unico modello ideologico e organizzativo, che naturalmente
era ricalcato su quello bolscevico.
Il Comintern ebbe come teatro d'azione
specialmente l'Europa, ma fu attivo anche nel resto del mondo, dove stavano
sviluppandosi movimenti anticoloniali e antimperialisti. Tra i personaggi di
primo piano dell'Internazionale comunista vi furono, per la prima volta nella
storia del movimento operaio, militanti di colore: ad esempio l'indiano Roy, e
il viet-namita Nguyen Ai-quoc. Quest'ultimo doveva diventare più tardi
famoso, col nome di Ho-chi-minh, come capo della vittoriosa rivoluzione
vietnamita contro l'imperialismo francese e statunitense.
Dal punto di
vista organizzativo, a differenza della Seconda Internazionale, dove ogni
partito nazionale godeva di larga autonomia, il Comintern presentava una
struttura fortemente centralizzata e una rigida disciplina, conformemente al
principio leninista già sperimentato, nel bene e nel male, in Russia: la
concentrazione del potere nelle mani di un'élite rivoluzionaria altamente
selezionata. In parte questa scelta fu la conseguenza dell'eccezionale durezza
dello scontro sociale e politico nel periodo tra le due guerre mondiali e in
parte il prodotto di difficoltà organizzative legate anche alla
fragilità di molti partiti affiliati. In ogni caso essa corrispondeva
alla volontà del partito bolscevico e del Governo sovietico di
controllare strettamente il movimento comunista in tutto il mondo.
Il
rigido modello organizzativo adottato dalla Terza Internazionale
contribuì a dare una particolare impronta al costume dei dirigenti e
militanti comunisti del tempo: un costume fatto di rigore, di abnegazione, di
rinuncia alle proprie personali esigenze e alle proprie ragioni, sacrificate ad
una presunta volontà collettiva incarnata dal partito. Il senso della
fratellanza tra militanti di una stessa causa si accompagnava a un'abitudine di
obbedienza cieca verso la direzione del partito, che nell'epoca staliniana si
tradusse in un vero e proprio culto del capo. Centinaia di migliaia di militanti
comunisti sparsi in tutto il mondo erano legati insieme dalla più
incontrollabile delle convinzioni: che si fosse entrati nell'epoca della
rivoluzione mondiale e che fosse impossibile ormai spostare all'indietro
l'orologio della storia.
Fede e disciplina fecero del movimento comunista
internazionale dell'età staliniana una vera e propria Chiesa e lo tennero
in vita nelle condizioni più difficili e dopo le più tremende
delusioni.
A mano a mano che il movimento rivoluzionario sorto nell'Europa
del dopoguerra si avviava alla sconfitta in tutti i Paesi, la fede nella
rivoluzione mondiale si identificò sempre di più con la fiducia
nel trionfo finale dell'Unione Sovietica. Per i militanti comunisti di tutto il
mondo, nel corso di decenni, la lotta per il socialismo si identificò con
la difesa dell'Unione Sovietica, e ogni passo sulla strada della rivoluzione
venne misurato col metro della potenza dello Stato sovietico. Le esigenze dello
Stato sovietico divennero allora il criterio guida nelle scelte della Terza
Internazionale.
La Russia era il baluardo incrollabile della rivoluzione
mondiale. Questa identificazione è rimasta profondamente impressa nella
coscienza dei comunisti che hanno vissuto l'esperienza del Comintern e ha
continuato a ispirarne l'azione ben oltre lo scioglimento dell'organizzazione,
che avvenne, per ordine di Stalin e in funzione di particolari obiettivi della
politica estera sovietica, nel 1943.
Una riunione della Terza Internazionale
GUERRA E DOPOGUERRA
La guerra aveva determinato una notevole
accelerazione della mobilità sociale: molti si erano arricchiti
più o meno lecitamente; altri, invece, erano diventati poveri; alcuni
gruppi erano stati promossi nella considerazione e nella stima sociale; altri
invece erano stati retrocessi. Questo genere di processi induce sempre
aggressivi sentimenti di orgoglio o di presunzione nei gruppi emergenti e,
viceversa, reazioni astiose, atteggiamenti polemici, desideri di rivincita in
quelli che avvertono di aver perso terreno rispetto agli altri. Tutti (o quasi)
i gruppi sociali avevano delle rivendicazioni o delle recriminazioni da fare.
Tutti (o quasi) accampavano nel passato conflitto qualche primato misconosciuto
o qualche merito non abbastanza ricompensato: di aver pagato il più alto
tributo di sangue (i contadini), di aver patito le maggiori sofferenze e le
più odiose limitazioni (gli operai), di aver offerto i suoi uomini
migliori alle forze armate o all'economia di guerra (la piccola e media
borghesia), di aver mantenuto alto l'onore della Patria (i militari) e
così via.
Le richieste di maggior partecipazione politica e di
maggiore democrazia che provenivano dalle masse popolari e le pressioni da
queste esercitate per una radicale trasformazione dei meccanismi economici e del
sistema sociale, allarmavano non solo le classi dominanti, ma anche (e forse
soprattutto) quelle altre classi, come la piccola borghesia delle professioni e
degli impieghi, che pur non avendo mai propriamente dominato su nessuno, si
sentivano però scavalcate o temevano di esserlo da classi
tradizionalmente considerate inferiori. Operai e contadini, con la violenza
delle loro lotte e con la solidità delle loro organizzazioni politiche e
sociali, dimostravano se non altro di voler difendere i propri interessi assai
più energicamente di quanto non sapessero o potessero fare impiegati,
funzionari, insegnanti, bottegai o piccoli professionisti, il che risultava per
costoro terribilmente irritante. La nostalgia per le antiche gerarchie e
l'aspirazione a restaurare gli antichi criteri di distinzione sociale
(«ciascuno al suo posto») era largamente diffusa nei ceti intermedi e
finì col preparare una base culturale di massa alla reazione politica,
ossia alla tendenza dei governi e dei padroni a risolvere con la violenza le
tensioni e i conflitti sociali.
Le tentazioni reazionarie della piccola e
grande borghesia si saldavano con un'altra eredità della guerra:
l'autoritarismo. La guerra aveva accelerato potentemente in tutti i Paesi
belligeranti le tendenze verso una gestione autoritaria dello Stato. La
mobilitazione di tutte le energie nazionali in uno sforzo disperato e prolungato
aveva messo dovunque in crisi il modello liberale di governo e favorito
l'affermazione di un sistema di potere basato più sull'autorità
che sul consenso. Il potere esecutivo si era notevolmente rafforzato a spese di
quello legislativo. Il sistema delle decisioni assunte in ambiti ristretti e col
vincolo del segreto si era imposto su quello tradizionale delle discussioni
parlamentari e del pubblico dibattito tra i partiti. Il principio
dell'obbedienza cieca e assoluta, caratteristico dell'istituzione militare,
aveva trovato estesa applicazione nella vita civile e nell'organizzazione
dell'economia. Il bisogno di disciplinare tutte le forze attive nella
società aveva spinto i governi a imporre il rispetto di particolari
regole di comportamento individuale o collettivo. Una serie di atti
perfettamente leciti in tempo di pace (in particolare le espressioni di critica,
di protesta o di dissenso) non lo erano più e potevano costare molto cari
a chi si fosse ostinato a compierli. Peggio ancora, comportamenti giudicati
criminali prima della guerra erano diventati leciti o addirittura meritori, come
quelle manifestazioni di teppismo patriottico che nei primi giorni del conflitto
avevano portato all'aggressione di cittadini inermi di Paesi dichiarati nemici o
al saccheggio delle loro proprietà. Infine era diventato obbligatorio
dare pubblica dimostrazione di conformismo: l'amor di patria, l'odio per il
nemico, la fiducia nella vittoria erano sentimenti dovuti e opinioni
comandate.
Pur non annullandosi del tutto, lo spazio per la lotta politica
si era notevolmente ridotto. C'era ancora una pluralità di partiti, ma
nelle cose importanti non potevano non essere tutti d'accordo. L'identificazione
tra dissenso e tradimento era stata spinta al massimo. Al fine di convogliare
tutte le energie verso un unico obiettivo (la prosecuzione dello sforzo bellico
e la vittoria) e di unire tutte le voci in un solo coro (quello patriottico) si
erano sperimentati con successo l'uso sfrenato della propaganda e la
manipolazione spregiudicata delle informazioni (mediante la censura sulla stampa
o mediante le veline passate ai giornali). Se per totalitarismo si intende un
regime che impone l'uniformità dei comportamenti in ogni settore della
vita sociale (politica, economia, cultura) senza lasciare margini alla
diversità, al dissenso, all'opposizione, bisogna riconoscere che
già durante la guerra un modello del genere aveva cominciato a funzionare
in tutti i Paesi belligeranti, nonostante che le rispettive costituzioni fossero
rimaste formalmente inalterate.
Le tendenze autoritarie e totalitarie
emerse con la guerra sopravvissero in gran parte alla fine del conflitto. Nel
periodo tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, anzi, il modello di gestione
del potere fondato sull'emergenza bellica fu continuato e perfezionato da quei
regimi dittatoriali di destra e di sinistra che si dissero, appunto,
«totalitari», e che furono caratterizzati dal divieto assoluto di
lotta politica e quindi dall'esistenza di un solo partito legale. Nel quadro dei
nuovi regimi totalitari trovò piena attuazione, in particolare, il
Führerprinzip, (come si chiamò in Germania dal titolo di Führer
assunto da Adolf Hitler, del tutto analogo a quello di «Duce» assunto
da Mussolini in Italia), ossia il principio del comando unico incarnato agli
occhi delle grandi masse da una figura carismatica di capo che già aveva
fatto la sua comparsa, ma sporadicamente, nel corso della guerra con
l'esaltazione delle presunte, magiche doti di condottiero di questo o quel
generale.
Un'altra importante caratteristica dei regimi totalitari tratta
dall'esperienza di guerra fu la capacità di mobilitare le masse e di
controllare i comportamenti collettivi. In questo senso il totalitarismo
è una forma di potere tipica della moderna società di massa, nella
quale i tradizionali vincoli associativi e i legami personali risultano
fortemente allentati rispetto alla coesione e all'uniformità indotte
dalle «organizzazioni di massa» (partiti, sindacati, associazioni
culturali e ricreative, ecc.) e dai «mezzi di comunicazione di massa»
(in primo luogo la stampa periodica, ma anche, a partire proprio dal periodo tra
le due guerre mondiali, la radio, il cinema, ecc.).
Nella società di
massa, di cui proprio la guerra aveva evidenziato alcuni caratteri fondamentali,
l'individuo si offre praticamente indifeso all'azione della propaganda, subisce
il fascino di slogans grossolani e spesso incoerenti tra loro, accetta
volentieri il controllo che i partiti al potere e le organizzazioni
fiancheggiatrici pretendono di esercitare sulla sua vita privata, trova conforto
nell'inquadrarsi nelle istituzioni educative, assistenziali, culturali e
ricreative che un regime totalitario non manca mai di offrirgli come rimedio
alla solitudine.
Qui emerge una importante differenza tra l'autoritarismo,
che è una tendenza (o una tentazione) sempre presente nell'esercizio del
potere, e il totalitarismo, che è invece un fenomeno caratteristico delle
società contemporanee. Un regime autoritario vuole soltanto, in fondo,
essere obbedito. Un regime totalitario vuole l'adesione entusiastica e la
partecipazione convinta dei cittadini.
TOTALITARISMO E SOCIETÀ DI MASSA
Il termine «totalitario» è
stato coniato in Italia negli anni Venti ed è stato usato, con valore
positivo, per qualificare il regime fascista. L'uso del termine si è
diffuso in altri Paesi europei a partire dal 1930 circa ed è entrato
nell'uso comune, ma questa volta con valore di condanna, dopo la Seconda guerra
mondiale, in riferimento ai regimi dittatoriali e monopartitici (nei quali,
cioè, è ammessa l'esistenza di un solo partito). In questo
significato negativo è stato applicato all'Italia fascista, alla Germania
nazista e alla Russia staliniana. Qualcuno però ha fatto notare che il
termine «totalitario» non è del tutto applicabile all'Italia
fascista, perché qui, a dispetto delle vanterie del regime, il partito
fascista non era affatto l'unico centro di potere ed anzi non era forse neppure
il più importante: accanto a lui continuò ad operare la Chiesa
cattolica con le sue potentissime organizzazioni di massa mentre la monarchia,
l'esercito, la magistratura, la burocrazia dei ministeri e delle prefetture
continuarono a seguire nell'esercizio dei rispettivi poteri logiche almeno in
parte autonome dal fascismo.
«Società di massa» è
un'espressione ormai ricorrente anche nel linguaggio comune. Con essa si sono
volute indicare le società industriali avanzate nelle quali la
popolazione partecipa in alta percentuale alla produzione e alla distribuzione
della ricchezza, ed è anche, in qualche misura, politicamente e
culturalmente attiva. Sul terreno della politica, però, e
indipendentemente dal regime, totalitario o democratico, la presenza
«attiva» delle masse tende nella società di massa a rovesciarsi
nel suo opposto: l'apatia. È proprio l'apatia delle masse che permette
alle élite dominanti di «attivizzarle», ossia di mobilitarle e
manovrarle ai propri fini facendo leva sui loro sentimenti più negativi.
Sul terreno della cultura, poi, le masse compaiono soprattutto come consumatrici
di valori e di informazioni, ossia come destinatarie di quella «cultura di
massa» che esse non contribuiscono in alcun modo a produrre e che ricevono
per il tramite dei «mezzi di comunicazione di massa» (in inglese: mass
media) sul cui funzionamento non hanno alcuna effettiva possibilità di
controllo. Naturalmente se il totalitarismo è un fenomeno tipico della
società di massa, non tutte le società di massa hanno regimi
totalitari.
Al contrario, le società industrialmente più
sviluppate del mondo hanno oggi un sistema politico di tipo democratico,
caratterizzato dall'esistenza di più partiti, e da una più o meno
estesa libertà di lotta politica. Dopo la Seconda guerra mondiale il
totalitarismo si è dimostrato un metodo di governo decisamente meno
efficiente della democrazia ed è rimasto prerogativa di Paesi
relativamente arretrati sul piano economico, sociale e culturale. Anche a
proposito del Führerprinzip, che è senza dubbio una caratteristica
ricorrente dei regimi totalitari, occorre fare una precisazione: non sempre in
questo tipo di regimi sono emersi capi dotati di un potere personale e di un
ascendente pari a quello di Mussolini in Italia, di Hitler in Germania o di
Stalin in Russia; viceversa, l'idea di un rapporto diretto e immediato tra masse
e capi (che è assai più antica dei moderni regimi totalitari) ha
avuto larghe applicazioni anche nei Paesi democratici.
LE DELUSIONI DELLA PACE
Con il ritorno della pace la gente si
aspettava di veder mantenute le promesse che i governi avevano elargito con
grande liberalità in tempo di guerra. Ma invece della libertà, del
benessere, delle riforme sociali si trovò di fronte alla disoccupazione e
alla miseria che derivavano dallo smantellamento dell'industria bellica e
dall'inflazione. La rabbia per le speranze deluse si sommava con il risentimento
verso gli speculatori e con il disprezzo verso gli «imboscati» (come
erano chiamati quanti erano riusciti a sottrarsi con la frode o con la
corruzione ai pericoli della guerra). «Pescecani» venivano definiti
quanti si erano arricchiti con i sovrapprofitti di guerra; ma speculatori
potevano essere legittimamente considerati tutti coloro che nella guerra avevano
trovato un'occasione per fare affari, e cioè, in pratica, tutti i
padroni, l'intera classe imprenditoriale.
Il proletariato europeo era
stimolato dall'esempio della rivoluzione russa ad affrontare una dura fase di
agitazioni sociali in vista di una possibile presa del potere. Nei Paesi
sconfitti il dissesto degli organismi statali e lo sbandamento delle forze
armate facevano apparire a portata di mano questa presa del potere. L'immediato
dopoguerra vide una serie di episodi di rivolta o di esperienze di governo
popolare finite per lo più nel sangue, come la rivolta spartachista di
Berlino nel gennaio del 1919 o, nella primavera successiva, l'effimera
affermazione di un potere di tipo sovietico in Ungheria.
Non erano solo le
classi popolari ad agitarsi. Una quantità di giovani, magari di modeste
condizioni economiche, ma dotati di qualche istruzione, soprattutto studenti e
impiegati, erano stati chiamati durante la guerra a funzioni di comando in
qualità di ufficiali o di sottufficiali e si erano abituati a prendere
decisioni che riguardavano la vita o la morte di altri uomini. Nel dopoguerra si
attendevano di vedersi valorizzati, di sentirsi circondati dall'affetto e dalla
riconoscenza dei compatrioti, di veder riconosciuti da tutti i meriti accumulati
in anni di sofferenze. E invece avevano dovuto, per così dire,
«rientrare nei ranghi», mettersi alla ricerca di un posto di lavoro
(dove spesso si trovavano scavalcati da imboscati e furbacchioni d'ogni genere),
adattarsi a prender ordini e a ricevere rimbrotti da borghesi che non sapevano
neppure (e non volevano saperlo) che effetto facesse su un uomo una raffica di
mitragliatrice o l'esplosione d'una granata.
Non era facile per questi
giovani, che avevano combattuto nella convinzione che il loro sacrificio potesse
servire a qualche cosa, ammettere che le spaventose esperienze e le tremende
responsabilità sopportate durante la guerra, non erano altro (come
scrisse uno di loro) che un'eroica ma inutile introduzione alla vita mediocre
del dopoguerra. Molti di questi reduci aderirono a quei gruppi rivoluzionari
della sinistra, che ancora offrivano delle speranze e dei valori per cui
battersi; ma molti altri si schierarono con le forze controrivoluzionarie, come
le formazioni paramilitari che nel 1919 soffocarono a Berlino la rivolta
spartachista, o come le squadracce fasciste che cominciarono a imperversare in
Italia nel 1920.
Prima e durante il conflitto la speranza più
grande, per la quale Péguy era andato in guerra (e vi aveva trovato la
morte) e che Wilson aveva rinverdito nel 1917 con i suoi quattordici punti, era
stata che la guerra in corso fosse davvero «l'ultima delle guerre». Ma
i governi dei Paesi vincitori non seppero assicurare un assetto stabile e
pacifico delle relazioni internazionali. Si può anzi dire che la
cosiddetta pace non sia stata in realtà niente di più di una
tregua e che la Grande Guerra iniziata nel 1914 sia davvero finita soltanto
trent'anni più tardi, nel 1945, con la seconda sconfitta della
Germania.
La conferenza di pace si era aperta a Parigi nel gennaio del
1919. I Paesi vinti non erano stati neppure ammessi e i vincitori erano divisi.
I quattordici punti di Wilson, che erano stati universalmente lodati quando
servivano alla propaganda di guerra, furono messi da parte. Wilson stesso
accettò di sacrificarli in cambio dell'adesione degli alleati al progetto
a cui teneva di più: la Società delle Nazioni, l'organismo
internazionale incaricato di dirimere pacificamente eventuali futuri contrasti
tra potenze. A questo punto, però, fu proprio il Senato degli Stati Uniti
a sconfessare Wilson rifiutando di aderirvi. L'assenza degli Stati Uniti
privò sin dall'inizio la Società delle Nazioni di gran parte del
suo prestigio.
Dallo smembramento degli antichi Imperi (germanico, russo e
soprattutto austro-ungarico) era nata una serie di nuovi Stati nazionali
(Polonia, Cecoslovacchia, Iugoslavia, ecc.) che avrebbero dovuto soddisfare le
aspirazioni dei popoli un tempo soggetti. Ma l'operazione presentò
inconvenienti più gravi del previsto. L'improvviso sorgere di una
quantità di barriere doganali in territori che prima della guerra avevano
costituito vaste aree di libero scambio, costituì a lunga scadenza un
ostacolo allo sviluppo e rese ancor più drammatiche nell'immediato le
difficoltà inerenti alla riconversione dell'apparato produttivo da
un'economia di guerra a una di pace. Quanto alle antiche rivalità
nazionali, anziché placarsi, vennero esasperate dalle difficoltà
che sorsero quando si trattò di tracciare linee di frontiera attraverso
le numerose regioni in cui convivevano da sempre, in modo più o meno
pacifico, gruppi etnici diversi. Né alla riconciliazione dei popoli
poteva giovare il carattere punitivo che i vincitori vollero dare ai trattati di
pace.
Tra i trattati di pace, quello di Versailles con la Germania, di
Saint-Germain con l'Austria, del Trianon con l'Ungheria, di Neuilly con la
Bulgaria, di Sévres con la Turchia, particolarmente contestato fu il
primo, che oltre a prevedere (ragionevolmente) la restituzione dell'Alsazia e
della Lorena alla Francia e la cessione al nuovo Stato di Polonia dei territori
tedeschi con popolazione in prevalenza polacca, impose alla Germania il
pagamento di esorbitanti riparazioni di guerra e un disarmo pressoché
totale (la Germania doveva rinunciare all'aviazione e contenere gli effettivi
dell'esercito entro i centomila uomini). I Tedeschi, che non erano affatto
convinti di avere tutte le responsabilità del conflitto, consideravano le
condizioni dettate dai vincitori come un sopruso intollerabile e un attentato
alla sopravvivenza stessa del loro Paese come Stato sovrano.
D'altra parte
la Francia, che era uscita stremata dal conflitto e che aveva subìto
distruzioni di gran lunga superiori a quelle della Germania (il cui territorio
non era mai stato toccato dalla guerra), non si sentiva affatto sicura. Fallito,
per l'opposizione della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, il folle tentativo di
spostare le sue frontiere sino al Reno e quello successivo di costituire in
Renania un territorio libero sotto il suo controllo, la Francia intendeva almeno
far rispettare alla lettera gli accordi di Versailles.
L'intransigenza
francese, per quanto controproducente ai fini della pace, era comprensibile: il
disarmo della Germania doveva garantire la sua sicurezza, mentre le riparazioni
tedesche dovevano permetterle di liberarsi dei debiti contratti con gli Stati
Uniti durante la guerra. Per cominciare a sciogliere quel groviglio di sospetti
e di paure reciproche che paralizzava la diplomazia europea Wilson aveva
progettato un sistema di sicurezza collettiva del quale avrebbe dovuto far
parte, appunto, una speciale garanzia americana contro eventuali aggressioni
alla Francia. Ma negli Stati Uniti, dopo la sconfessione della politica di
Wilson da parte del Senato americano, la vittoria dei repubblicani nelle
elezioni presidenziali del 1920 segnò il definitivo trionfo delle
posizioni isolazioniste, secondo le quali (come ha scritto, sintetizzandole,
Winston Churchill) «l'Europa doveva cuocere nel suo brodo e pagare i debiti
legalmente contratti».
EPISODI DELL'INSURREZIONE SPARTACHISTA DI BERLINO DEL GENNAIO 1919
La Lega di Spartaco era l'ala più
radicale del movimento operaio tedesco, da cui sarebbe nato il Partito Comunista
di Germania. Guidato da leader di grande prestigio ed esperienza come Karl
Liebnecht e Rosa Luxemburg, il movimento spartachista rappresentò un
punto di riferimento per i soggetti sociali più disponibili all'avventura
rivoluzionaria perché costituzionalmente più inquieti o instabili:
giovani operai, disoccupati, soldati smobilitati, artisti d'avanguardia,
«arrabbiati» d'ogni tipo. Questi giovani avevano poca o nessuna
esperienza politica ed erano lontani per formazione e vocazione politica dai
prestigiosi dirigenti del movimento. Pronti a scendere in strada ad ogni loro
appello e a prestare orecchio alle parole d'ordine più violente, si
rifiutavano però di seguire Rosa Luxemburg o Karl Liebnecht quando
chiedevano di partecipare alle elezioni. Quel che volevano, e volevano subito,
era il potere, il lavoro, il socialismo. - Voi, compagni, fate del vostro
radicalismo qualcosa di molto facile - aveva ammonito Rosa Luxemburg, ben
consapevole della complessità dei processi di trasformazione
rivoluzionaria della società. Proprio questa facilità all'azione,
che era caratteristica della maggioranza dei militanti spartachisti, produsse,
in risposta a una grave provocazione dei socialdemocratici al potere, la
sanguinosa insurrezione del gennaio 1919. La rivolta fu repressa nel giro di
pochi giorni dai Freikorps, formazioni paramilitari inquadrate dai vecchi
ufficiali dell'esercito e ingaggiate dai socialdemocratici al potere per
liquidare l'opposizione comunista. Karl Liebnecht e Rosa Luxemburg furono
catturati e poi massacrati da un reparto dei Freikorps, senza che i loro
assassini, perfettamente individuati, venissero mai disturbati dalle
autorità. Dopo la fallita insurrezione di Berlino il movimento comunista
tedesco si scisse in due tronconi, e quanto rimaneva dell'anima spartachista
andò a formare una piccola formazione, il Partito Comunista Operaio di
Germania, sempre a carattere insurrezionalista, ma più marcatamente
antiautoritario e libertario. Dopo un ultimo fallito tentativo insurrezionale
nel marzo del 1921 lo spartachismo perse ogni ragion d'essere.
L'IPERINFLAZIONE TEDESCA
I ritmi sostenuti mantenuti dalla produzione
industriale tedesca nel dopoguerra avevano fatto pensare ad alcuni che dopo
tutto, la Germania fosse in grado di pagare i suoi debiti con l'estero e in
particolare le riparazioni di guerra alla Francia. Ogni illusione in merito
cadde nel 1922 quando l'inflazione prese a galoppare in Germania del tutto fuori
controllo. L'inflazione era una conseguenza della guerra e tutti i Paesi
belligeranti ne erano stati colpiti. Il fenomeno però aveva assunto
proporzioni spaventose nell'area dei vecchi Imperi, austriaco, tedesco e russo:
nel decennio 1914-1923 i prezzi erano saliti in Austria di 14.000 volte, in
Polonia di 2.500.000, in Russia di 4 miliardi. In Germania l'aumento fu di mille
miliardi. L'«iperinflazione» tedesca (come venne chiamata) era stata
in una certa misura provocata dallo stesso Governo come mezzo estremo per
liberare la Germania dal peso delle riparazioni e, insieme, per rovesciare sui
Paesi vincitori, in particolare sulla Francia, la responsabilità delle
disastrose condizioni di vita del popolo tedesco. L'iperinflazione ebbe effetti
sconvolgenti: azzerò i debiti delle imprese e dello Stato, ma finì
per polverizzare salari, stipendi e risparmi delle classi lavoratrici;
distruggendo le basi stesse della circolazione monetaria, provocò
l'estendersi degli scambi in natura e stimolò la corsa all'accaparramento
di qualsiasi merce; il generale clima di speculazione e di avventura
favorì l'emergere di tutta una losca galleria di figure e di figuri, che
sottolineava l'indurimento generale dei rapporti interpersonali e il fallimento
di antiche regole di convivenza. Recriminazioni, risentimenti, assuefazione alla
violenza e alla sopraffazione prepararono di lunga mano l'avvento del
nazismo.
IL FASCISMO
In Italia, come in tutti gli altri Paesi
ex-belligeranti, nei primi anni del dopoguerra l'inquietudine serpeggiava tra
gli operai e i contadini, sia per le attese diffuse di trasformazione sociale,
sia per l'effettivo peggioramento delle condizioni economiche prodotto dalla
smobilitazione dell'esercito e dallo smantellamento dell'industria di guerra. Ma
neanche la borghesia, grande e piccola, era tranquilla: irritata o spaventata
dalle agitazioni operaie e contadine, era delusa nelle sue ambizioni
nazionaliste per l'esito che giudicava insoddisfacente della guerra. La
vittoria, si diceva, era stata «mutilata» a causa dell'atteggiamento
ostile degli alleati (Francia, Inghilterra e Stati Uniti) nei confronti delle
giuste rivendicazioni dell'Italia sull'Adriatico.
Portavoce dei sentimenti
e soprattutto dei risentimenti della piccola borghesia italiana si fece Benito
Mussolini (1883-1945). Mussolini era un ex-dirigente del Partito Socialista che
nell'autunno del 1914 aveva fondato con i soldi del Governo francese il
quotidiano «Il Popolo d'Italia» passando dal neutralismo più
acceso all'interventismo più sbracato. Terminata la guerra, nel marzo del
1919, Mussolini aveva fondato i Fasci Italiani di Combattimento, un'associazione
di ex combattenti senza alcuna importanza. Alla fine del 1920, però, con
la formazione delle squadre d'azione e con le ripetute aggressioni ai danni dei
militanti del movimento operaio e delle loro organizzazioni, il fascismo
diventò improvvisamente un fenomeno di rilievo, il fatto nuovo della
scena politica italiana e, presto, anche di quella europea.
Lo squadrismo,
che reclutava i suoi adepti tra reduci e sbandati di ogni genere, era finanziato
da industriali e agrari, armato dai militari, aiutato dalla polizia, coccolato
dai prefetti, protetto dai magistrati. Era una sorta di organizzazione della
violenza parallela a quella dello Stato (e perciò non soggetta alle
formalità di legge), alla quale i rispettabili personaggi che lo avevano
allevato e che lo tenevano sotto tutela riservavano quei lavori sporchi,
violenze, intimidazioni, omicidi, di cui, per un residuo scrupolo legalitario,
preferivano non assumere direttamente la responsabilità.
Gli
squadristi, però, non erano semplicemente dei sicari prezzolati; avevano
delle idee e queste idee corrispondevano alle convinzioni di una larga parte
dell'opinione pubblica, specialmente piccolo borghese. Lo squadrismo,
perciò, non era un docile strumento nelle mani dei capitalisti e dei
settori reazionari dell'apparato statale, ma un movimento politico, che in
ultima analisi obbediva soltanto a Mussolini. Se vi fu qualcuno che si era fatto
delle illusioni in proposito dovette presto accorgersi dell'errore: Mussolini
voleva il potere e lo voleva per sé, non per conto d'altri. È vero
che per conquistare il potere era disposto a qualsiasi alleanza e soprattutto
era disposto a cederne grosse fette a chi lo avesse aiutato, ma sulla scena
politica voleva restare solo.
Come uomo di Stato Mussolini si rivelò
men che mediocre, ma nelle condizioni di una moderna società di massa, in
cui la politica è essenzialmente spettacolo, emozione, propaganda,
è stato un capopopolo impareggiabile, un precursore e un maestro nel suo
genere. Buon polemista, era un abile produttore di slogan (ossia sapeva
sintetizzare i princìpi e gli obiettivi della sua politica in poche,
efficaci espressioni, molte delle quali sono poi diventate proverbiali, sia pure
in chiave umoristica e caricaturale), aveva il gusto della coreografia, delle
sfilate e delle scene di massa, sapeva appropriarsi delle parole, dei simboli,
dei miti e dei frammenti di idee di cui era fatta la cultura del pubblico
piccolo borghese a cui si rivolgeva, e sapeva mettere insieme con questi poveri
rottami ideologici un simulacro di dottrina.
Il fascismo riuscì a
conquistare il potere in breve tempo e senza dover affrontare, se non in casi
sporadici, un'efficace resistenza armata (che là dove cercava di
organizzarsi veniva prontamente e preventivamente liquidata dalle forze
dell'ordine). La «marcia su Roma», che il 28 ottobre 1922 portò
le bande fasciste di tutta Italia a concentrarsi nella capitale, fu la
spettacolare conclusione dell'ascesa di Mussolini al potere, indicata più
tardi dalla propaganda del regime come il momento culminante della cosiddetta
«rivoluzione fascista».
Di rivoluzionario, in verità, non ci fu nulla. Non si
trattò di una insurrezione armata, ma solo di una sorta di imitazione
paesana di un'insurrezione. Sul piano militare la forza dello squadrismo era
pressoché nulla e la marcia su Roma non si trasformò in una grande
fuga da Roma solo perché il re, Vittorio Emanuele III, non volle mettere
in campo alle porte della capitale quei pochi reparti di truppa che sarebbero
stati necessari. Quanto a Mussolini, l'incarico di formare il Governo gli fu
conferito dal re in modo del tutto legale e Mussolini guidò un Governo di
coalizione a cui partecipavano, del tutto liberamente, oltre ai fascisti,
democristiani (allora si chiamavano «popolari») e liberali. La cosa
merita di essere sottolineata: per quanto il fascismo fosse diventato una forza
politica importante in Italia in virtù proprio della pratica sistematica
(e sistematicamente impunita) della violenza, la sua ascesa al potere avvenne
nella piena legalità costituzionale. Esattamente la stessa cosa sarebbe
avvenuta una decina di anni più tardi in Germania con la
«rivoluzione» nazionalsocialista di Hitler.
Il regime fascista fu
una costruzione progressiva, e prese corpo soprattutto a partire dal 1925, dopo
l'assassinio, ad opera dei fascisti, del deputato socialista Giacomo Matteotti
(giugno 1924). La Chiesa cattolica non negò il suo apporto alla
costruzione: l'11 febbraio 1929 il papa Pio XI e Mussolini conclusero i Patti
Lateranensi, con i quali la Chiesa cattolica beneficiava di larghi privilegi in
cambio della non opposizione dei cattolici al fascismo.
Tra le istituzioni
del regime va ricordato il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato,
composto di ufficiali della milizia fascista, che aveva il compito di perseguire
gli oppositori del regime. Con l'ordinamento corporativo, che affidava allo
Stato l'organizzazione del lavoro, furono soppresse le organizzazioni autonome
dei lavoratori e vennero riconosciuti solo due sindacati, quello dei padroni e
quello dei lavoratori, affidati entrambi a dirigenti di sicura fede fascista.
Con la soppressione della Camera dei deputati, sostituita dalla Camera dei Fasci
e delle Corporazioni si completò nel 1939 la fascistizzazione del Paese:
ogni settore della vita pubblica era sottoposto al controllo del partito
fascista e del Duce.
GLI STATI UNITI TRA EUFORIA E CRISI
Grande protagonista della vita politica
americana e della scena internazionale nell'ultimo scorcio della guerra, il
presidente Wilson fu anche il grande sconfitto del dopoguerra. Come si è
visto, le sue iniziative per fare degli Stati Uniti il perno di una politica
internazionale di pace basata sulla Società delle Nazioni furono
sconfessate dal Senato americano. Le elezioni del 1920 diedero la vittoria al
candidato repubblicano Warren G. Harding, e dopo di lui altri repubblicani
furono eletti presidenti: Calvin Coolidge nel 1923 ed Herbert Hoover nel
1928.
Il predominio dei repubblicani fu espressione degli orientamenti
prevalenti nella società americana degli anni Venti: isolazionismo e
orgogliosa esaltazione dei valori nazionali da un lato, e dall'altro strepitoso
rilancio della vita economica dopo la pausa dell'immediato dopoguerra. Lo
sviluppo del capitalismo statunitense conobbe ritmi febbrili, all'insegna di un
pieno ritorno all'iniziativa privata dopo i timidi tentativi di intervento
statale nell'economia degli anni di guerra. La produzione di massa di beni di
consumo durevoli, dall'automobile ai primi elettrodomestici, si affermò
modificando profondamente il sistema di vita della gente. Il
«consumismo», che in Europa si è imposto non prima degli anni
Sessanta, negli Stati Uniti dilagava negli anni Venti. La ricchezza nazionale
aumentò enormemente in conseguenza di un'espansione economica senza
precedenti e nel mondo degli affari si determinò uno stabile clima di
euforia.
Questa immagine trionfale del capitalismo americano nascondeva
però inquietudini, ingiustizie, contrasti. L'orgoglioso e arrogante senso
di superiorità del borghese americano, di cui l'isolazionismo era
l'espressione in politica estera, si manifestava all'interno nel diffuso
disprezzo e nell'aperta persecuzione di quanti restavano estranei al «modo
di vita americano»: i neri, gli immigrati, i sovversivi. In questi anni gli
Stati Uniti si chiusero all'immigrazione, specialmente a quella asiatica, ma
anche, in parte, a quella europea (Italiani e Slavi). Queste restrizioni non
dipendevano tanto dal fatto che il mercato del lavoro negli Stati Uniti era
ormai saturo, quanto dal proposito di salvaguardare la presunta «purezza
americana» (un valore davvero singolare nel popolo più incrociato
del mondo) dall'inquinamento di razze inferiori e di ideologie rivoluzionarie
provenienti dal vecchio mondo.
Se opportune restrizioni all'immigrazione
potevano bloccare l'ingresso a sovversivi, «fannulloni» e disperati,
gente di questa sorta ce ne era già in abbondanza negli Stati Uniti.
Occorreva dunque far pulizia anche in casa. È così che
cominciò in America la caccia ai «rossi» e ai neri, due generi
di persone che per motivi diversi risvegliavano la cattiva coscienza del
borghese americano. Vittime di questo clima di fanatismo furono tra gli altri
due anarchici italiani, Bartolomeo Vanzetti e Nicola Sacco, accusati nel 1921 di
aver ucciso due persone nel corso di una rapina, giustiziati con la sedia
elettrica nel 1927 malgrado la palese falsità delle accuse e a dispetto
delle proteste che si levarono in tutto il mondo. L'organizzazione razzista del
Ku Klux Klan, che combatteva con metodi terroristici gli elementi non
assimilabili al modello americano (neri, cattolici, ebrei, comunisti,
sindacalisti non legati al potere ecc.) raggiunse e superò i quattro
milioni di aderenti.
Anche le leggi «proibizioniste», che
proibivano cioè la fabbricazione e lo smercio di alcoolici, furono varate
con la giustificazione di difendere la morale e l'integrità nazionale
americana. In realtà, come tutte le leggi del genere, furono solo uno
sfacciato regalo alla criminalità organizzata, facendo prosperare un
gigantesco commercio di contrabbando: l'epoca del proibizionismo fu anche
l'epoca in cui il gangsterismo si impadronì di intere città
mettendo profonde e ramificate radici nella società americana. Il
gangsterismo, del resto, condivideva a suo modo, ossia perseguendoli con
l'illegalità e la violenza, i valori e i princìpi comunemente
accettati nel mondo degli affari e negli ambienti della buona società:
ricchezza, successo, competitività, esclusivismo, intolleranza. Il
gangsterismo era il fratello gemello del perbenismo, l'altra faccia
dell'americanismo.
L'euforia americana terminò all'improvviso
nell'ottobre del 1929 con il crollo di Wall Street. Wall Street è la
strada dove sta la Borsa più importante del mondo, quella di New York. A
crollare non fu la strada, naturalmente, ma il valore dei titoli quotati alla
Borsa di New York: da un momento all'altro (ma più precisamente tra il 24
e il 29 ottobre) un'enorme ricchezza si volatilizzò, scomparve,
cancellata dalla caduta delle quotazioni. Una quantità di persone ricche
e ricchissime si scoprirono povere in canna; una quantità di speculatori
«saltarono», una quantità di risparmiatori si ritrovarono tra
le mani, invece dei quattrini che avevano investito in borsa, titoli e cedole
che non avevano ormai che il valore della carta su cui erano stampati.
Non
era la prima volta che una borsa crollava. Questa volta però era diverso.
Il crollo di Wall Street era solo il segnale di una crisi più profonda,
che riguardava lo stesso sistema produttivo. La speculazione borsistica aveva
certamente avuto un ruolo nel crollo drammatico di Wall Street, che a sua volta,
generando un panico inarrestabile, rese tutto più difficile. Ma il fatto
era che l'espansione produttiva degli anni Venti era andata troppo oltre le
capacità di assorbimento dei mercati e ora si imponeva un brusco
raffreddamento dell'economia non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo
occidentale. Ciò significava chiudere le fabbriche, licenziare gli
operai, rinunciare a rinnovare i macchinari o a impiantare nuove attività
produttive, cercare di disfarsi delle merci che si erano accumulate nei
magazzini riducendone i prezzi.
Nel 1932 l'area del capitalismo sviluppato
contava circa 40 milioni di disoccupati, di cui 13 milioni in USA, circa 3 in
Gran Bretagna, 700 000 in Italia. Un numero più modesto si
registrò in Francia, ma solo perché moltissimi lavoratori
stranieri che vi erano immigrati dovettero rimpatriare. In Gran Bretagna
comunque il volume della disoccupazione, era rimasto su valori molto alti per
l'intero periodo post-bellico (tra il 10 e il 20 per cento, con una punta del 23
per cento nel 1932), il che confermava il carattere strutturale della crisi,
ossia il fatto che essa era conseguenza non tanto del crollo di Wall Street,
quanto delle forme «selvagge» che aveva assunto lo sviluppo
capitalistico. Non è un caso che proprio dalla Gran Bretagna, patria del
liberismo classico, sia venuto quello che è considerato il maggior
contributo alla svolta del pensiero economico contemporaneo. John Maynard Keynes
(1883-1946) pubblicò nel 1936 un'opera dal titolo Teoria generale
dell'impiego, dell'interesse e della moneta, in cui sosteneva la
possibilità da parte dello Stato di regolare i meccanismi dell'economia
capitalista, in modo da renderli compatibili con alcuni obiettivi socialmente
rilevanti come la piena occupazione, un'equa redistribuzione del reddito, ecc. e
da evitare crisi catastrofiche come quella del 1929.
In America una
politica volta a interrompere la spirale perversa della crisi fu approntata
soltanto con il New Deal (= «Nuovo Corso») del presidente democratico
Franklin Delano Roosevelt (1882-1945), eletto per la prima volta nel 1932 e
rieletto poi ininterrottamente sino alla morte. L'espressione New Deal suggeriva
la necessità di imprimere una coraggiosa svolta non solo alla politica
economica del Governo, ma anche al modo di vita americano come era comunemente
inteso. Si trattava, dopo lo sfrenato sviluppo e l'insensata ebbrezza
consumistica degli anni Venti, di voltare pagina e di indirizzare tutte le
energie a una stabile ripresa dell'economia, ma con un occhio molto attento ai
doveri di solidarietà, in modo che lo spettro della crisi non dovesse
più riaffacciarsi. I principi di questa politica erano semplici, espressi
da Roosevelt nella forma di postulati elementari:
... La prima
preoccupazione di un Governo retto dagli ideali umani della democrazia è
il semplice principio che in una terra di vaste risorse non si deve permettere
che nessuno patisca la fame...
... Non voglio pensare che un solo
americano sia destinato a rimanere permanentemente sulle liste della pubblica
assistenza...
Fu l'insistenza su questi temi a dare l'intonazione
prevalente alla politica del New Deal, a plasmarne l'immagine e il mito. E
furono anche questi aspetti a garantire a Roosevelt, nel 1936, la sua rielezione
a presidente, con 11 milioni di voti, corrispondenti al 60,2 per cento dei
votanti: la maggioranza più grande che si fosse mai vista nella storia
delle elezioni presidenziali americane.
SACCO E VANZETTI
Il 24 dicembre 1919 a Bridgewater alcuni
banditi assaltarono un furgone che trasportava le paghe degli operai di una
fabbrica. Lo stesso giorno alla stessa ora a Plymouth, a 60 chilometri di
distanza, un anarchico italiano di nome Bartolomeo Vanzetti girava per le strade
della città con il suo carrettino vendendo anguille. Il 15 aprile 1920 a
South Braintree due banditi rapinarono le paghe dei dipendenti di un
calzaturificio e uccisero il cassiere e un poliziotto. Il 5 maggio Vanzetti
venne arrestato su un tram insieme con un compagno anarchico Nicola Sacco, pure
lui italiano, operaio in un calzaturificio. Addosso ai due vennero trovati
alcuni manifestini anarchici e una pistola. Era quanto bastava perché il
ministro della giustizia e il capo della polizia decidessero che era arrivato il
momento di dare una lezione, insieme, ai «rossi» e agli
Italiani.
Prima si fece il processo a Vanzetti accusandolo della rapina di
Bridgewater. Come giudice fu scelto un certo Trayer, il quale dichiarò
pubblicamente che gli Italiani erano dei bastardi e i «rossi» delle
carogne. Pubblico accusatore fu un certo Katzmann il quale desiderava farsi
perdonare le recenti origini tedesche manifestando il suo odio per gli
immigrati. La giuria accettò persino la testimonianza di un giornalaio il
quale affermò di aver capito che il rapinatore era uno straniero
«dal modo di correre». Più di venti testimoni italiani
giurarono che all'ora della rapina Vanzetti stava vendendo anguille, ma non
furono creduti. Fu invece creduto un testimone che affermò di aver
riconosciuto Vanzetti al volante di un'automobile. Ma Vanzetti non sapeva
guidare. Vanzetti fu condannato al massimo della pena, 15 anni.
Poi Sacco e
Vanzetti furono accusati insieme della rapina di South Braintree. Questo
processo fu nuovamente presieduto da Trayer. Prima ancora che iniziasse il
processo il presidente della giuria aveva dichiarato: - Quei maledetti
dovrebbero esser impiccati -. L'interprete, che era amico del giudice,
falsò regolarmente le dichiarazioni degli imputati e dei testimoni
Italiani traducendo a casaccio o inventando di sana pianta. Venne ignorata la
testimonianza di una persona che aveva visto in faccia gli assassini e che
escluse che si trattasse dei due Italiani. Pure ignorata fu la dichiarazione di
un impiegato del consolato italiano di Boston il quale testimoniò che al
momento del delitto Sacco si trovava nel suo ufficio. All'inizio delle indagini
il perito balistico aveva dichiarato che le pallottole non potevano essere state
sparate dalla pistola di Sacco. Più tardi però armi e pallottole
vennero sostituite con altre in maniera da suffragare l'accusa. Sacco e Vanzetti
furono condannati a morte. Trayer dichiarò: - Se anche non sono
colpevoli, vanno condannati lo stesso perché sono nemici delle
istituzioni americane -.
In America e in tutto il mondo vi furono
manifestazioni di protesta, scioperi, attentati, incidenti. Ma gli Stati Uniti,
sventuratamente, non conobbero nulla di simile al caso Dreyfus in Francia, dove
l'indignazione dell'opinione pubblica era servita a salvare un innocente e a
ripulire, almeno per un po', l'apparato statale dalle presenze infette del
fanatismo e del razzismo. Le supreme autorità del Massachusetts
rifiutarono di rifare il processo persino quando un portoghese di nome Celestino
Madeiros confessò di aver partecipato alla rapina di South Braintree
scagionando i due Italiani. Inutilmente la moglie e la sorella di Sacco vennero
dall'Italia per chiedere la grazia. La notte fra il 22 e il 23 agosto 1927 Sacco
e Vanzetti salirono sulla sedia elettrica insieme con Madeiros. Un anno dopo un
altro delinquente confessò di aver partecipato alla rapina di Bridgewater
e confermò che Vanzetti non c'era.
LA RUSSIA DI STALIN
Morto Lenin e conclusa la guerra civile, la
società sovietica cominciò lentamente a riprendersi: dovunque si
diffondeva il desiderio di tranquillità e di pace e tornava in molti il
gusto del guadagno. La stanchezza prevaleva e lo spirito dell'ottobre si stava
allontanando. Fuori della Russia, le speranze di un successo della rivoluzione
in Europa stavano decisamente tramontando. Semmai, si facevano più
insistenti i segni di risveglio dei popoli coloniali, e molti guardavano ormai
all'Asia (Cina e India, in primo luogo) come all'area decisiva per la
rivoluzione. Di fronte a questa situazione erano possibili due scelte, che sono
state riassunte e semplificate in due formule coniate rispettivamente da
Trotskij e da Stalin: quella della «rivoluzione permanente» e quella
del «socialismo in un Paese solo».
Secondo Trotskij occorreva,
con un forte richiamo ai princìpi della rivoluzione e puntando sulle
forze vive ancora presenti in Russia, soprattutto nel proletariato industriale,
combattere da un lato la rinascita dello spirito borghese e reagire dall'altro
alla burocratizzazione del partito e dello Stato. La prospettiva della
rivoluzione mondiale era ancora aperta e in quella prospettiva bisognava
lavorare. Questo è, in poche parole, il senso dello slogan della
«rivoluzione permanente». L'intransigenza rivoluzionaria di Trotskij e
la radicalità delle sue critiche alle degenerazioni burocratiche del
regime sovietico sembravano fatte apposta per attirargli una quantità di
inimicizie. Egli rimase infatti piuttosto isolato in Russia e fu il primo ad
essere sconfitto da Stalin.
La formula «socialismo in un solo
Paese», proposta da Stalin nel 1924, fu portata al successo soprattutto da
Bucharin, che come teorico godeva allora di un prestigio assai maggiore a quello
di Stalin. In sostanza significava che poiché la rivoluzione aveva subito
un arretramento in Europa, bisognava puntare sul consolidamento del socialismo
là dove era riuscito ad affermarsi, ossia nell'URSS, e prepararsi a una
lunga resistenza che tenesse conto dell'isolamento della Russia e
dell'arretratezza della sua economia. Bucharin dava però alla formula un
accento particolare: poiché l'obiettivo fondamentale era il
consolidamento dell'economia sovietica, occorreva procedere «con passi di
tartaruga» sulla strada del socialismo incoraggiando la gente a produrre e
ad arricchirsi. La parola d'ordine da lui lanciata ai contadini:
«Arricchitevi!» suscitò scalpore e polemiche.
Stalin non
arrivava a tanto e tenne nella polemica una posizione intermedia.
Continuò, per esempio, a sostenere la necessità di combattere i
contadini ricchi e di evitare che la loro influenza sociale crescesse ancora. Al
di là delle formule e dei programmi, si trattava di una lotta di potere.
Collocandosi al centro e predicando sempre come principio supremo l'unità
del partito, Stalin riuscì a screditare i suoi avversari di destra e di
sinistra mettendoli gli uni contro gli altri: dopo Trotskij, eliminò via
via tutti gli altri, compreso Bucharin. Una volta occupato il potere, poi,
Stalin cambiò radicalmente politica: fece in sostanza la scelta di
industrializzare il Paese a tappe forzate in modo da portarlo in breve tempo al
livello dei Paesi capitalistici più avanzati.
La discussione
sull'opportunità di questa scelta è aperta: in generale si
riconosce che i risultati economici furono eccezionali, ma che furono
accompagnati da gravi distorsioni e sprechi, e ottenuti a costi sociali
elevatissimi. Per compiere questa marcia forzata verso l'industrializzazione fu
usato ogni genere di coercizione. I sindacati furono trasformati da organi di
difesa dei lavoratori in strumenti di pressione e di controllo sulla classe
operaia, volti a imporre, in collaborazione con le direzioni aziendali, una
rigida disciplina agli operai negligenti e agli ex-contadini che entravano
nell'industria. Vennero poi stabiliti incentivi e ricompense speciali per
l'abilità e la solerzia dimostrate, legando le retribuzioni alla
quantità del lavoro compiuto, e ripristinando forti differenze salariali
tra le categorie. Si puntò infine sulla propaganda per suscitare nella
popolazione entusiasmi produttivistici e per riattizzare un orgoglio nazionale
del tutto estraneo alla tradizione rivoluzionaria. Bisognava consumare di meno e
produrre di più, in nome della patria russa e della difesa del
socialismo.
Le risorse necessarie a questo tipo di sviluppo furono
prelevate in gran parte dall'agricoltura e per far questo si dovette ricorrere a
una gigantesca operazione di collettivizzazione forzata delle campagne. A
partire dal 1929-1930 si costrinsero i contadini a raggrupparsi in aziende
cooperative e vennero fondate aziende agricole di Stato dove venivano
concentrati in gran parte i macchinari agricoli. Infine si procedette alla
liquidazione dei contadini ricchi, i kulaki. Ad essi si impedì l'ingresso
nelle cooperative, molti vennero deportati, i contadini poveri furono
incoraggiati a togliere loro con la forza bestiame, macchinari, attrezzi
agricoli, a beneficio delle fattorie collettive. A loro volta i contadini ricchi
reagirono uccidendo il bestiame, bruciando le messi, distruggendo le fattorie
pur di non cederle. Nelle campagne si scatenò una specie di nuova guerra
civile. Il numero delle vite umane che costò questo processo non è
stato ancora calcolato, e forse non si potrà mai farlo. Certamente si
trattò di milioni di uomini: una vera e propria
strage.
L'industrializzazione a tappe forzate e la collettivizzazione
violenta delle campagne, produssero una rottura senza ritorno col passato. Le
strutture del partito, dello Stato e della società sovietica ne rimasero
profondamente permeate. Prevalse l'idea che il socialismo si costruiva
dall'alto, doveva anzi essere imposto. Buon comunista fu considerato in quegli
anni il funzionario obbediente, l'efficiente organizzatore, il tecnico
preparato, o più semplicemente il burocrate ligio all'autorità
superiore.
LA MORTE DI TROTSKIJ
Sconfitto da Stalin, Lev Davidovic Trotskij
fu espulso dal partito comunista nel 1928 e dall'Unione Sovietica nel
1929.
Anche in esilio Trotskij continuò a lottare contro lo
stalinismo e a rappresentare una fonte di gravi preoccupazioni per Stalin.
Stalin cercò di screditare il suo avversario e di dipingerlo addirittura
come un agente del nazismo e del fascismo. Ma poiché l'accusa era
talmente incredibile da non incrinare minimamente il prestigio internazionale di
Trotskij, i servizi segreti sovietici preparano il suo assassinio. Trotskij
viveva in Messico, circondato da amici fidati. Dopo un primo tentativo,
sventato, di irruzione a mano armata nell'abitazione di Trotskij, entrò
in azione un agente provocatore sovietico, che riuscì a farsi ammettere
nella ristretta cerchia dei visitatori della casa; il 20 agosto del 1940, con la
scusa di fargli leggere un suo articolo, si avvicinò a Trotskij e lo
colpì violentemente con una picozza che teneva nascosta sotto
l'impermeabile e gli sfondò il cranio. Trotskij morì il giorno
dopo. Arrestato e condannato, dopo venti anni di carcere, l'assassino
rientrò in Unione Sovietica.
IL NAZISMO E LA GUERRA
La Germania era uscita dal conflitto in
preda ad una grave crisi morale. Le difficoltà economiche del dopoguerra
avevano acuito il senso di frustrazione nato dalla sconfitta. Il trattato di
Versailles era generalmente indicato come causa della desolazione presente, e il
desiderio di rivincita trovò fertile terreno nelle grandi masse rovinate
dall'inflazione e dalla disoccupazione. La Repubblica di Weimar (come viene
chiamato, dal nome della nuova capitale dello Stato, il regime succeduto in
Germania all'Impero) aveva cercato bene o male (più male che bene: basta
pensare al modo in cui il Governo socialdemocratico aveva prima provocato e poi
represso l'insurrezione di Berlino del gennaio del 1919) di costruire una sorta
di democrazia su modello occidentale. Così facendo, però, si era
attirata il disprezzo di tutti i nostalgici dell'Impero e della tradizione
prussiana. In questa atmosfera di recriminazioni e risentimenti riemersero
antichi pregiudizi razzistici, che spingevano a ricercare l'origine di ogni male
nell'attività degli ebrei, razza perfida e rapace annidata nel cuore
della Nazione tedesca. Il trattato di Versailles, la democrazia e la
cospirazione ebraica: per quanto possa apparire incredibile, per un gran numero
di Tedeschi erano queste le cause dei guai della Germania.
Di queste losche
scempiaggini si nutrì il nazismo. Sorto nel 1919 come Partito tedesco dei
lavoratori (più tardi Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori)
divenne in pochi anni lo strumento più efficace della reazione in
Germania. Il suo capo era Adolf Hitler, le cui posizioni politiche si
esprimevano in un solo sentimento: l'odio nel quale accomunava, senza perdersi
in troppe distinzioni, ebrei, comunisti e democratici. La loro eliminazione era
secondo Hitler la condizione per la rinascita della grande Germania. Questo
genere di idee non era nella sostanza diverso da quello di altri partiti di
destra: la forza dei nazisti stava però nella criminale coerenza con cui
sapevano mettere in atto i princìpi e i programmi che proclamavano (e che
incontravano l'approvazione di un numero crescente di Tedeschi).
Anche
Hitler, come già Mussolini in Italia, ebbe l'appoggio dei capitalisti,
dei banchieri, dei grandi industriali, che riponevano nell'affermazione del
nazismo la speranza di una definitiva restaurazione dell'ordine. Ma anche le
grandi masse popolari, soprattutto dopo la grande crisi del 1929 vennero
attratte nell'orbita del nazismo, in parte per la suggestione delle rozze
spiegazioni che il nazismo offriva delle loro disgrazie e in parte per la
sfiducia che i partiti operai, socialdemocratico e comunista, tutti occupati a
farsi la guerra tra di loro, si erano meritati. Il partito nazionalsocialista,
che nelle elezioni del 1928 aveva avuto solo 810.000 voti, nel 1930 raggiunse i
sei milioni e mezzo e nel 1932 superò i 14 milioni (oltre il 37 per cento
del totale). Nel 1933, seguendo l'indicazione degli elettori, il presidente
della repubblica nominò Hitler cancelliere (ossia capo del
Governo).
Nel giro di un paio di anni Hitler accentrò nelle sue mani
tutto il potere. Servendosi, contro gli avversari, delle SS («squadre di
protezione», formazioni armate del partito nazista), della Gestapo (la
polizia politica), dei Tribunali del Popolo e dei campi di concentramento
(Lager), eliminò ogni opposizione e cominciò a tradurre nei fatti
(sulle prime tra l'incredulità generale) i suoi progetti: l'annientamento
degli ebrei e dei comunisti, il riarmo della Germania in violazione del trattato
di Versailles, l'affermazione intransigente della superiorità della razza
germanica.
In politica estera gli obiettivi apertamente proclamati dal
Governo nazista erano la revisione delle frontiere fissate dal trattato di pace,
la riunificazione di tutte le genti di stirpe tedesca, la ricerca di uno
«spazio vitale» per la Grande Germania. La carica aggressiva del
nazismo si manifestò prima col ritiro della Germania dalla Società
delle Nazioni (ottobre 1933), poi con la denuncia delle clausole del trattato di
Versailles concernenti il disarmo tedesco e con l'avvio di un programma di
riarmo accelerato (1935), infine con l'intervento in Spagna in appoggio del
generale Francisco Franco che si era sollevato contro il Governo repubblicano
(1936). Fu appunto la guerra civile spagnola, nella quale anche Mussolini era
intervenuto a favore di Franco, a rendere evidente la minaccia costituita per la
pace e la libertà dell'Europa dalla saldatura tra i movimenti di
ispirazione fascista presenti nei diversi Paesi che avevano i loro principali
poli di attrazione in Italia e in Germania.
Ancor prima di intervenire in
Spagna, Mussolini aveva contribuito validamente a destabilizzare il sistema
delle relazioni internazionali aggredendo l'Etiopia e riducendola a colonia del
neonato (ed effimero) Impero italiano. L'iniziativa era valsa all'Italia da
parte della Società delle Nazioni, di cui l'Etiopia era membro, una
solenne ma platonica condanna, che indusse Mussolini a fare ancor di più
la voce grossa e ad avvicinarsi alle posizioni tedesche. Uniti da un analogo
progetto di destabilizzazione, Hitler e Mussolini diedero vita nell'ottobre
dello stesso 1936 al cosiddetto «asse Roma-Berlino», con l'obiettivo
di sovvertire l'assetto internazionale definito dai trattati di sicurezza ed
espresso da quel fragile organismo di collaborazione internazionale che era la
Società delle Nazioni.
Da quel momento le aggressioni fasciste si
susseguirono a valanga nell'inerzia perfetta delle potenze democratiche,
paralizzate dallo sbalordimento e dalla paura. Tra il 1938 e il 1939, mentre in
Spagna le truppe di Franco riuscivano ad avere faticosamente e sanguinosamente
ragione della resistenza repubblicana, la Germania si annetteva l'Austria e
smembrava la Cecoslovacchia e l'Italia occupava l'Albania. Nel settembre del
1939 l'invasione della Polonia da parte della Germania, che Hitler sperava di
condurre a termine senza troppe complicazioni, come gli era sempre riuscito fino
a quel momento, provocò invece, e finalmente, una reazione da parte della
Francia e dell'Inghilterra garanti della sicurezza polacca: cominciava la
Seconda guerra mondiale.
Benito Mussolini e Adolf Hitler
MANIFESTAZIONE A VIENNA ALL'INDOMANI DEL ANSCHLUSS
I piani nazisti prevedevano sin dall'inizio
la riunione in un solo grande Stato di tutti i territori abitati da popolazioni
di stirpe germanica. L'Austria, che era la patria di Hitler, era naturalmente al
primo posto. Gli austriaci erano però tutt'altro che unanimi
sull'opportunità dell'annessione (Anschluss) alla Germania e il Governo
austriaco, che era di orientamento clerico-fascista, poteva contare sulla
protezione dell'Italia, che nel 1934 si era opposta a un colpo di mano dei
filonazisti. Quando però Mussolini si legò a Hitler l'Austria
restò sola. Il cancelliere Schuschnigg nel tentativo di porre fine alle
manovre naziste indisse un referendum sulla questione dell'Anschluss, ma la
Germania minacciò l'immediata invasione del Paese. Le potenze
occidentali, Francia e Inghilterra, non mossero un dito e l'Italia fece finta di
niente. Schuschnigg si dimise, i nazisti austriaci presero il potere, l'esercito
tedesco entrò in Austria accolto da folle plaudenti e un plebiscito
sancì a cose fatte l'Anschluss (marzo 1938).
LO STERMINIO DEGLI EBREI
La politica razzista e antisemita del
Governo nazista cominciò immediatamente nel 1933 con l'organizzazione del
boicottaggio dei negozi ebraici e con l'espulsione dalla burocrazia statale di
quanti non erano di pura razza «ariana». Nello stesso anno fu
approvata una legge che sanciva il principio della sterilizzazione per gli
individui «tarati», portatori cioè di malattie ereditarie. Nel
1935, con le famose leggi di Norimberga, fu stabilita la distinzione tra
cittadino tedesco vero e proprio ed ebreo, il divieto di matrimonio tra ebrei e
persone di sangue ariano, il divieto per gli ebrei di esporre la bandiera del
Reich. Da quel momento molti ebrei abbandonarono la Germania. Furono i
più fortunati: se infatti fino al 1938 prevalse l'idea che il miglior
modo per difendere la razza fosse di isolare gli ebrei e di indurli ad
andarsene, più tardi presero il via i programmi di annientamento.
Prendendo a pretesto l'uccisione di un diplomatico nazista a Parigi da parte di
un giovane ebreo, nei novembre del 1938 cominciò la «caccia
all'ebreo» per le strade con pestaggi e omicidi, la distruzione dei negozi
e delle case di proprietà di ebrei, l'incendio delle sinagoghe. Di
lì a poco ebbero luogo le prime deportazioni di massa, che lo
scatenamento della guerra mondiale doveva paurosamente accelerare.
Che fare
dei milioni di ebrei che erano ancora in Germania, e soprattutto dei milioni e
milioni che si trovavano nei Paesi occupati dai tedeschi dopo le prime vittorie
militari? I campi di concentramento, i lager, per quanto crescessero
continuamente di numero e dimensioni, non bastavano a contenerli. I lavori
forzati, le privazioni, gli esperimenti su cavie umane che vi si praticavano non
ne uccidevano a sufficienza. Nella diabolica logica dei nazisti non rimaneva che
una scelta: ucciderli tutti con i mezzi più efficaci e meno costosi. Il
«fungo velenoso», com'era definito l'ebreo in un libro di lettura
diffuso nelle scuole tedesche, doveva essere sradicato una volta per tutte. I
campi di concentramento divennero da quel momento campi di
sterminio.
LA GUERRA DI SPAGNA
Nel 1936 in Spagna, dove nel 1931 la
repubblica era subentrata alla monarchia, il Governo era stato assunto dai
partiti di sinistra, che erano tradizionalmente assai divisi, ma che, unendosi
in un Fronte Popolare, avevano ottenuto una forte affermazione elettorale.
Questo evento scatenò le forze reazionarie interne e internazionali che
si coalizzarono contro la repubblica spagnola vedendo in essa la minaccia di un
possibile trionfo del «bolscevismo» in Europa. Mussolini e Hitler
fornirono aiuti in uomini e armi al generale Francisco Franco, che era insorto
alla testa di un gruppo di militari traditori contro il Governo legittimo.
Francia e Inghilterra, le due grandi democrazie occidentali, non vollero invece
schierarsi a fianco della repubblica spagnola e si attennero rigorosamente al
principio del «non intervento» un po' per diffidenza nei confronti dei
comunisti, il cui peso all'interno del Fronte Popolare spagnolo era destinato a
crescere, e un po' per paura di un allargamento del conflitto. L'Unione
Sovietica mandò aiuti alla repubblica ma non sufficienti a bilanciare il
diretto e massiccio intervento di reparti armati tedeschi e italiani.
In
difesa della repubblica accorsero a combattere in Spagna una quantità di
volontari di ogni Paese, e in particolare molti antifascisti italiani che si
trovarono ad affrontare sul campo quegli altri italiani che si erano arruolati
nel corpo di spedizione mandato da Mussolini in aiuto a Franco: fu un fatto
emblematico del carattere di grande guerra civile europea che avrebbe assunto di
lì a poco la seconda guerra mondiale, di cui la guerra di Spagna si
può considerare, almeno per questo verso, più che
un'anticipazione, un vero e proprio prologo.
Isolata sul piano
internazionale (almeno tra i governi, se non tra i popoli), divisa sul piano
interno, la repubblica fu sconfitta. Colonne di combattenti e di profughi nel
1939 fuggirono dal Paese attraversando le frontiere con la Francia. Gli
antifascisti che non riuscirono a mettersi in salvo oltre frontiera furono
sterminati da una repressione feroce, che aveva lo scopo di seminare il terrore
nel popolo spagnolo e di cancellare per sempre la sua volontà di
lotta.
DUE PATTI SCELLERATI
La Cecoslovacchia era il solo fra gli Stati
sorti dalla dissoluzione dell'Impero austro-ungarico ad avere un ordinamento
democratico. Era anche il Paese più industrializzato dell'Europa
centro-orientale e il più forte militarmente: un vicino scomodo per la
Germania. La debolezza della Cecoslovacchia stava nell'essere un mosaico di
nazionalità (Cechi, Slovacchi, Tedeschi, Magiari, Polacchi); in
particolare essa ospitava nel territorio dei Sudeti una consistente minoranza
tedesca. Sostenuti dalla Germania i Tedeschi dei Sudeti avanzarono al Governo di
Praga richieste di autonomia che in realtà, se accolte, avrebbero
significato la disgregazione della Cecoslovacchia. Il presidente Benes
invocò le garanzie promesse da Francia e Gran Bretagna alla
Cecoslovacchia, ma su suggerimento di Mussolini le due potenze occidentali
preferirono tentare la via dell'accordo con Hitler.
Con Mussolini in
qualità di mediatore, nel settembre del 1938, il premier inglese Neville
Chamberlain e il presidente del consiglio francese Édouard Daladier
incontrarono Hitler a Monaco di Baviera e convennero sull'opportunità che
i Cecoslovacchi cedessero il territorio dei Sudeti alla Germania. I risultati
della conferenza di Monaco incoraggiarono i Polacchi a pretendere a loro volta
dalla Cecoslovacchia la regione di Teschen, a maggioranza polacca, e gli
Ungheresi ad avanzare analoghe rivendicazioni su altri territori. Pochi mesi
dopo, nel marzo 1939, i Tedeschi occuparono la Boemia e la Moravia, facendone un
«protettorato» tedesco; con quello che restava costruirono lo
Stato-fantoccio della Slovacchia.
Al vergognoso accordo di Monaco
sottoscritto dalle democrazie occidentali, Francia e Inghilterra, fece pendant
un anno più tardi, da parte sovietica, lo scellerato patto
Molotov-Ribbentrop, così chiamato dai nomi dei ministri degli esteri
russo e germanico che lo negoziarono. Il patto fu concluso all'improvviso il 24
agosto 1939 e diede il via all'invasione tedesca della Polonia, che ebbe luogo
infatti un settimana più tardi. L'accordo russo-tedesco prevedeva lo
smembramento della Polonia tra le due potenze, e il diritto della Russia a
impadronirsi delle tre repubbliche baltiche Lettonia, Estonia, Lituania, e delle
due province rumene della Bessarabia e della Bucovina. Mentre la Germania
invadeva la Polonia, l'Unione Sovietica provvide a impadronirsi delle regioni
che le erano state riconosciute dal trattato e che entrarono da quel momento a
far parte integrante del suo territorio.
La Russia ha sempre giustificato
il patto con la Germania con ragioni di sicurezza nazionale: respinte dalle
potenze occidentali tutte le offerte sovietiche di alleanza contro la Germania
di Hitler, dimostrata dalla vicenda cecoslovacca e dall'accordo di Monaco
l'assoluta inaffidabilità delle garanzie franco-inglesi, nel fondato
sospetto che i governi occidentali intendessero distogliere da sé
l'aggressività nazista spingendola proprio contro la Russia, il Governo
sovietico aveva cercato soltanto, con il patto Molotov-Ribbentrop, di guadagnare
tempo in modo da organizzare una più efficace difesa: ragioni strategiche
avrebbero poi imposto l'annessione delle regioni orientali della Romania e della
Polonia e delle repubbliche baltiche.
Resta il fatto che il tempo
così guadagnato non fu affatto utilizzato da Stalin per rafforzare le
difese della Russia contro un'eventuale invasione tedesca e che quando questa
avvenne, nel giugno del 1941, colse totalmente alla sprovvista l'esercito russo.
Quanto ai territori annessi nel 1939 con il permesso di Hitler, a guerra finita
l'Unione Sovietica si rifiutò di prendere in considerazione persino la
possibilità di restituirli. Infine, è difficile sostenere che il
patto russo-tedesco avesse un semplice significato difensivo. Si trattava di una
vera e propria collaborazione: fino al momento dell'invasione l'Unione Sovietica
rifornì la Germania di prodotti e materiali di importante valore
economico e militare; ma soprattutto, attraverso la ferrea organizzazione del
Comintern, Stalin impose ai comunisti europei, che erano stati e continuavano ad
essere oggetto della più spietata caccia da parte dei nazisti, di rompere
l'unità dei Fronti Popolari e in genere dello schieramento antifascista e
di sospendere qualsiasi atto ostile nei confronti della
Germania.
LA SECONDA GUERRA MONDIALE
I primi anni di guerra videro lo
straripamento delle truppe tedesche in Europa. Dopo avere annientato in breve
tempo l'esercito polacco, e dopo essersi impadroniti con fulminei colpi di mano
della Danimarca e della Norvegia, nella primavera del 1940 i tedeschi
concentrarono i propri sforzi sul fronte occidentale dove Francesi e Inglesi,
forse nella speranza di un nuovo accordo, in sei mesi di finta guerra
(drôle de guerre, come fu chiamata) non avevano fatto assolutamente nulla
per impegnare le forze avversarie. Penetrate in Olanda e in Belgio, le armate
germaniche avevano invaso la Francia e l'avevano costretta alla resa (22
giugno).
Il compito di chiedere l'armistizio alla Germania toccò al
nuovo presidente del consiglio, un vecchio eroe delle Prima guerra mondiale, il
maresciallo Henry-Philippe Pétain (1856-1951). L'armistizio prevedeva
l'occupazione tedesca di gran parte del territorio francese, Parigi compresa.
Pétain trasferì la sede del Governo a Vichy, dove si pose a capo
di un regime dichiaratamente filofascista. Pur senza entrare in guerra con
l'antica alleata, la Francia di Vichy ruppe quasi subito le relazioni
diplomatiche con l'Inghilterra, che a sua volta riconobbe il Governo della
Francia libera, formato in esilio dal generale De Gaulle. La maggioranza delle
colonie francesi nel mondo riconobbe l'autorità del Governo di Vichy, ma
De Gaulle riuscì ugualmente a costruire un nucleo di forze armate che
continuò a combattere contro la Germania: a lui avrebbe fatto capo, negli
ultimi anni della guerra, il movimento di resistenza.
Approfittando del
momento favorevole e convinto che la guerra fosse ormai finita, Mussolini con
una vile «pugnalata alla schiena» (come fu definita la sua iniziativa)
il 10 giugno del 1940 aveva dichiarato guerra alla Francia, ormai prossima alla
resa, e alla Gran Bretagna, a cui si illudeva di poter sottrarre il controllo
del Mediterraneo. La flotta inglese, invece, per quanto duramente impegnata nei
compiti prioritari di assicurare i rifornimenti all'Inghilterra e di difendere
l'isola dal previsto attacco tedesco, continuò dalle sue basi a Malta, a
Gibilterra e in Egitto a infliggere umilianti sconfitte alla brillante ma
inefficiente marina italiana.
Caduta la Francia, l'Inghilterra rimase sola
a combattere contro il nazismo. Il corpo di spedizione inglese in Francia,
accerchiato dai Tedeschi nella sacca di Dunkerque, era stato portato in salvo
dalla marina, con una operazione diventata leggendaria. Le perdite erano state
tuttavia gravissime e l'Inghilterra doveva di fatto ricostruire il suo
potenziale bellico. Tra l'agosto e il novembre le aviazioni tedesca e inglese si
affrontarono nella battaglia d'Inghilterra, una delle più importanti
della guerra, il cui obiettivo era per i Tedeschi di distruggere l'apparato
industriale inglese e per gli Inglesi (oltre a quello di difendere il Paese
dagli attacchi aerei nemici) di stroncare i preparativi tedeschi per l'invasione
dell'isola.
Nel maggio del 1940 Winston Churchill, che prima della guerra
era stato convinto sostenitore di un atteggiamento di intransigente resistenza
alle pretese di Hitler, ave va sostituito alla testa del Governo inglese Neville
Chamberlain, responsabile di Monaco e massimo esponente della politica di
appeasement (= «accomodamento») con la Germania. L'intento di
Churchill, che si rendeva perfettamente conto che senza l'intervento americano
le speranze di capovolgere le sorti della guerra erano pressoché
inesistenti, fu sin dall'inizio di coinvolgere nel conflitto gli Stati Uniti. Il
presidente americano Franklin Delano Roosevelt, era personalmente propenso a
intervenire a fianco della Gran Bretagna. Doveva però vincere
l'opposizione di una larga parte dell'opinione pubblica, rappresentata dai suoi
avversari repubblicani, tradizionalmente isolazionisti. Contrari alla guerra
contro la Germania erano anche quegli ambienti diplomatici e militari, che
consideravano gli interessi americani in Asia e nel Pacifico più
importanti di quelli in Europa e che quindi temevano l'espansionismo giapponese
più di quello hitleriano.
In ogni modo gli Stati Uniti sostennero in
modo massiccio lo sforzo bellico inglese: pur dichiarandosi neutrali nel
conflitto in corso, vendettero materiale bellico solo a loro e quando i
sommergibili tedeschi scatenarono i loro micidiali attacchi contro i convogli
diretti in Inghilterra, la marina americana partecipò attivamente alla
protezione delle rotte mercantili e alla perlustrazione dell'Atlantico. L'aiuto
americano all'Inghilterra non era però gratuito. Almeno in un primo tempo
i rifornimenti dovevano essere pagati dagli Inglesi in contanti e il Governo
della Gran Bretagna fu costretto a caricarsi di un'enorme massa di debiti.
Quando gli Stati Uniti cedettero all'Inghilterra una cinquantina di
cacciatorpediniere per supplire alle gravi perdite subite dalla marina
britannica nei primi mesi del conflitto, vollero in cambio un certo numero di
basi navali, prima manifestazione di un indirizzo che sarebbe stato perseguito
dal Governo americano durante tutta la guerra e oltre: subentrare alla Gran
Bretagna e alle altre potenze coloniali nel controllo dei rispettivi imperi,
sostituendo al dominio diretto la penetrazione economica sorretta dalla
creazione di un'opportuna serie di basi militari. Gli Inglesi dovettero inoltre
cedere agli Americani, senza nulla in cambio, il loro bagaglio di conoscenze nel
campo della ricerca scientifica d'interesse militare (in particolare negli studi
sulla bomba atomica). Per l'Inghilterra era il prezzo della
sopravvivenza.
Tra il 1940 e il 1941 le forze dell'Asse e quelle inglesi si
affrontarono nell'Africa settentrionale, dove fallì il tentativo
italiano, più tardi appoggiato da un corpo di spedizione tedesco, di
impadronirsi dell'Egitto, e in Grecia che il 28 ottobre del 1940
(nell'anniversario della marcia su Roma) era stata aggredita dall'Italia.
«Spezzeremo le reni alla Grecia» aveva detto nel suo truculento
linguaggio Mussolini. In realtà l'esercito greco, dopo un primo momento
di sorpresa, ricacciò gli invasori inseguendoli in Albania da dove erano
partiti e dove furono sottratti a una punizione ancor peggiore dall'intervento
tedesco che in pochi giorni ebbe ragione della resistenza greca. Proprio negli
stessi giorni i Tedeschi si erano impadroniti anche della Iugoslavia: tutta la
penisola balcanica passava così sotto il controllo dell'Asse e dei suoi
alleati, Ungheria, Bulgaria e Romania.
Due mesi più tardi aveva
inizio, nonostante il patto Molotov-Ribbentrop, l'«operazione
Barbarossa», come fu chiamata da Hitler l'invasione dell'Unione Sovietica.
Entro l'autunno le armate germaniche arrivarono ad assediare Leningrado, Mosca e
Sebastopoli, ma il previsto crollo dell'Unione Sovietica non si verificò.
L'inverno favorì l'assestamento delle linee di difesa sovietiche e
nell'estate del 1942 la nuova offensiva tedesca pur ottenendo strepitosi
successi un po' dovunque non riuscì a superare Stalingrado (oggi
Volgograd), dove una grande armata tedesca avrebbe finito per lasciarsi
intrappolare.
Con l'aggressione nazista dell'Unione Sovietica, che
costrinse quest'ultima a cercare l'alleanza dell'Inghilterra e poi, nel dicembre
dello stesso 1941, con l'attacco aereo giapponese alla flotta americana ancorata
nel porto di Pearl Harbor nel Pacifico, che costrinse gli Stati Uniti a entrare
in guerra, il conflitto assunse veramente dimensioni mondiali. L'intervento
americano in effetti si considerava imminente fin da quando, nell'agosto del
1941, era stata pubblicata la «Carta Atlantica», una solenne
dichiarazione di princìpi analoga ai «Quattordici punti» di
Wilson, formulata congiuntamente da Roosevelt e da Churchill. La «Carta
Atlantica» fu la piattaforma ideale della coalizione dei Paesi in guerra
con la Germania, il Giappone e l'Italia, che il 2 gennaio 1942 prese la
denominazione di Nazioni Unite: ne facevano parte ventisei Stati, alcuni dei
quali, per la verità, scarsamente interessanti al conflitto, come quei
Paesi latino-americani entrati in guerra solo per le pressioni degli Stati
Uniti. Altri Paesi si aggiunsero via via, come ad esempio il Brasile; un
contingente di truppe di questo Paese partecipò alla campagna
d'Italia.
La supremazia militare dell'Asse cominciò a declinare tra
l'estate del 1942, quando l'offensiva italo-tedesca in Africa Settentrionale fu
stroncata ad El Alamein, e gli inizi del 1943, quando nel corso della seconda
offensiva invernale russa, Leningrado venne liberata dall'assedio tedesco e a
Stalingrado un'armata tedesca forte di ventidue divisioni fu costretta ad
arrendersi ai sovietici. Nel novembre del 1942 gli anglo-americani erano
sbarcati nell'Africa settentrionale francese, che era ancora alle dipendenze del
Governo di Vichy, ma che si schierò con gli Alleati. Come risposta i
Tedeschi completarono l'occupazione del territorio francese e cercarono di
impadronirsi della flotta francese che era concentrata nel porto di Tolone e
che, anziché arrendersi, si autoaffondò.
Nel gennaio 1943,
Churchill e Roosevelt avevano annunciato ufficialmente nella Conferenza di
Casablanca di voler imporre alla Germania la resa incondizionata: era una
formula che sottintendeva l'annientamento della Germania, ma che voleva anche
dissipare il sospetto nutrito dai sovietici che gli occidentali volessero
concludere una pace separata con la Germania. I rapporti tra gli occidentali e i
sovietici erano tutt'altro che facili. I Russi che dovevano sostenere da soli
tutto il peso della potenza militare tedesca, avevano chiesto ripetutamente ma
inutilmente agli angloamericani l'apertura di un secondo fronte in Occidente. Lo
sbarco in Nord Africa e poi, nel luglio del 1943, quello in Italia (che indusse
il re, Vittorio Emanuele III, il 25 dello stesso mese, a ordinare l'arresto di
Mussolini e a provocare la caduta del regime fascista) erano azioni di disturbo,
che rispondevano più alla preoccupazione di Churchill di tagliare la
strada all'avanzata russa in Occidente, che non all'obiettivo di impegnare
seriamente le forze tedesche e di alleggerire in questo modo la loro pressione
sui sovietici. In effetti gli anglo-americani non furono in grado di approntare
un'impresa di grandi dimensioni, quale era l'apertura di un secondo fronte,
prima del giugno 1944, quando finalmente riuscirono con lo sbarco in Normandia a
portare un attacco decisivo alla fortezza europea. Entro l'autunno di quell'anno
la Francia era liberata. Negli stessi mesi l'Armata Rossa aveva buttato fuori
dal territorio sovietico le truppe tedesche.
Bombardieri della RAF in missione sulla Germania
Rappresentazione grafica dell'andamento della seconda guerra mondiale
LA CARTA ATLANTICA
A metà dell'agosto 1941, quando gli
USA erano ancora fuori della guerra ma si preparavano ad entrarvi, Churchill e
Roosevelt, al termine di un incontro al largo dell'isola di Terranova
approvarono una solenne dichiarazione di principio in otto punti, la cosiddetta
«Carta Atlantica», che fissava gli obiettivi di guerra delle potenze
occidentali:
Il Presidente degli Stati Uniti d'America e il Primo
Ministro, sig. Churchill, in rappresentanza del Governo di Sua Maestà
britannica del Regno Unito, essendosi riuniti a convegno, ritengono opportuno
render noti taluni principi comuni nella politica nazionale dei rispettivi
Paesi, sui quali essi fondano le loro speranze per un più felice avvenire
del mondo.
I) I loro Paesi non aspirano a ingrandimenti territoriali o
d'altro genere;
II) essi non desiderano mutamenti territoriali che non
siano conformi al desiderio, liberamente espresso, dei popoli
interessati;
III) essi rispettano l'autodecisione dei popoli e vogliono
ridare l'autonomia a coloro fra questi che ne siano stati privati;
IV)
fermo restando il principio dovuto ai loro attuali impegni, essi cercheranno di
far sì che tutti i Paesi, grandi e piccoli, vincitori e vinti, abbiano
accesso, in condizioni di parità, ai commerci e alle materie prime
mondiali necessarie alla loro prosperità economica;
V) essi
desiderano attuare fra tutti i popoli la più piena collaborazione nel
campo economico, al fine di assicurare a tutti migliori condizioni di lavoro,
progresso economico e sicurezza sociale;
VI) dopo la definitiva distruzione
della tirannia nazista, essi sperano di veder stabilita una pace che offra a
tutti i popoli i mezzi per vivere sicuri entro i loro confini e dia affidamento
che tutti gli uomini, in tutti i Paesi, possano vivere la loro vita, liberi dal
timore e dal bisogno;
VII) una simile pace dovrebbe permettere a tutti gli
uomini di navigare senza impedimenti oceani e mari;
VIII) essi sono
convinti che, per ragioni pratiche nonché spirituali, tutte le Nazioni
del mondo debbano addivenire all'abbandono dell'impiego della forza.
Poiché nessuna pace futura potrebbe essere mantenuta se gli Stati che
minacciano, e possono minacciare aggressioni al di fuori dei loro confini,
continuassero a impiegare armi terrestri, navali ed aeree, essi ritengono che,
in attesa che sia stabilito un sistema permanente di sicurezza generale, sia
indispensabile procedere al disarmo di quei Paesi. Analogamente, essi aiuteranno
e incoraggeranno tutte le misure praticabili al fine di alleggerire il peso
schiacciante degli armamenti per tutti i popoli amanti della pace
La
«Carta Atlantica» rappresentava, per dirla con le parole di Churchill,
«lo spiegamento delle forze buone del mondo contro le forze
malefiche»; un po' come i «Quattordici Punti» del presidente
Wilson nel conflitto precedente, faceva della guerra non uno scontro di potenze
ma uno scontro ideale e morale tra fascismo e antifascismo, confermandone, al di
sopra delle divisioni nazionali, il prevalente carattere di grande guerra civile
all'interno del mondo occidentale che era già emerso in quella sorta di
anticipazione del conflitto mondiale che era stata la guerra di
Spagna.
ATTRITI FRA ALLEATI
Le strepitose vittorie dei Russi e la loro
avanzata nell'Europa orientale e nei Balcani allarmarono gli occidentali,
rendendo urgente la definizione di un accordo politico sul destino di quelle
regioni. Il principale motivo di attrito era costituito dalla Polonia, il Paese
per il quale era iniziata la guerra. Esisteva a Londra un Governo polacco in
esilio, nettamente anticomunista, ai cui ordini operavano un'organizzazione
combattente clandestina nella Polonia occupata e un corpo di truppe polacche
che, inquadrato dagli Inglesi, aveva combattuto e stava combattendo in Italia e
in Francia. Ma l'URSS nel 1943 disconobbe il Governo di Londra e diede invece il
proprio appoggio ad un altro Governo di stretta osservanza sovietica, conosciuto
come Comitato di Lublino, composto in prevalenza di comunisti polacchi esuli in
Russia. Il contrasto riguardava non solo il futuro assetto politico del Paese,
ma anche le sue frontiere. L'Unione Sovietica infatti, non intendeva rinunciare
ai territori ottenuti nel 1939 in forza dello scellerato patto
Ribbentrop-Molotov, che comprendevano le regioni orientali della Polonia. In
cambio la Polonia avrebbe incorporato le regioni orientali della Germania, fino
alla linea dei fiumi Oder e Neisse. Gli anglo-americani non avevano modo di
contrastare le richieste sovietiche e la Polonia fu abbandonata al suo
destino.
Nell'ottobre 1944 Churchill ebbe a Mosca un abboccamento diretto
con Stalin, nel corso del quale i due statisti, accomunati da una concezione
fortemente «realistica» della politica, definirono le rispettive sfere
di influenza degli occidentali e dei Russi nel resto dell'Europa orientale e
balcanica. In una pagina spesso citata delle Memorie Churchill ha raccontato
così la fase saliente del negoziato:
... Il momento era
favorevole per trattare; perciò io dissi: - Sistemiamo le nostre faccende
nei Balcani. I vostri eserciti si trovano in Romania e in Bulgaria, dove noi
abbiamo interessi missioni e agenti. Non procediamo a offerte e controfferte
stiracchiate. Per quanto riguarda la Gran Bretagna e la Russia, che ne direste
se aveste una maggioranza del 90 per cento in Romania e noi una percentuale
analoga in Grecia e partecipassimo invece su piede di perfetta parità in
Jugoslavia? - Mentre si procedeva alla traduzione, trascrissi ciò su
mezzo foglio di carta:
Romania
Russia..................................90%
Gli altri...............................10%
Grecia
Gran Bretagna
(d'intesa con gli Stati Uniti)..........90%
Russia..................................10%
Bulgaria
Russia..................................75%
Gli altri...............................25%
Passai il foglietto
attraverso il tavolo a Stalin, che nel frattempo aveva udito la traduzione. Ci
fu una piccola pausa. Poi prese la sua matita blu e con essa tracciò un
grosso segno di «visto» sul foglio, che quindi ci restituì. La
faccenda fu così completamente sistemata in men che non si
dica...
Nel pieno del conflitto era stata manifestata l'intenzione di
eliminare una volta per tutte il pericolo tedesco togliendo alla Germania per
molto tempo la possibilità di risorgere come potenza militare e
industriale. I progetti andavano dallo spezzettamento della Germania in
più Stati, alla riduzione del Paese ad un'economia esclusivamente
agricola e pastorale (il cosiddetto «piano Morgenthau», dal nome del
ministro americano che lo propose). Per risolvere questo e gli altri problemi
dell'assetto internazionale del dopoguerra fu tenuta la conferenza di Yalta, in
Crimea.
Yalta è diventata sinonimo di spartizione del mondo in sfere
di influenza tra le grandi potenze. A Yalta i dissensi fra i Tre Grandi (come
erano chiamati i leader delle tre maggiori potenze alleate, Churchill, Stalin e
Roosevelt) emersero chiaramente su quasi tutti i temi in discussione. Stalin
mostrò di avere le idee più chiare. Enunciò senza veli e
senza scrupoli i princìpi che chi aveva vinto la guerra aveva il diritto
di dettare la pace, che le grandi potenze dovevano contare più delle
piccole e che ad ognuna di esse doveva essere riconosciuta un'area d'influenza
nella quale le altre si sarebbero impegnate a non interferire. Erano
princìpi in contrasto con la «Carta Atlantica» (che anche
Stalin aveva accettato) e con le norme del diritto internazionale; ma la
coerenza non è la virtù precipua degli uomini di Stato.
Gli
occidentali ottennero di mitigare il trattamento che Stalin voleva riservare
alla Germania, strapparono alcune concessioni formali sulla Polonia e fecero
accettare la Francia come un'altra delle grandi potenze vincitrici della guerra.
Ma in definitiva la conferenza non poteva modificare i risultati conseguiti sui
campi di battaglia e questi risultati erano tutti a favore dell'Unione
Sovietica. I sovietici sottolinearono che il loro Paese aveva enormemente
sofferto a causa della Germania e che aveva contribuito in maniera determinante
alla vittoria finale su di essa: perciò aveva diritto a tutelare in
avvenire la propria sicurezza garantendosi il controllo dei Paesi confinanti, a
cominciare dalla Polonia.
Per stroncare la forza del Giappone che resisteva
ormai da solo, gli Stati Uniti decisero, nell'agosto 1945, di impiegare le prime
bombe atomiche costruite dagli scienziati inglesi e americani lanciandole sulle
città di Hiroshima e Nagasaki. La guerra terminava così con due
spaventosi massacri, del tutto inutili dal punto di vista strategico, ma
utilissimi dal punto di vista politico quale indiretta ammonizione al Governo
sovietico a moderare le sue ambizioni espansionistiche, e perfettamente conformi
al carattere terroristico che aveva assunto il conflitto. A proposito del
carattere terroristico del conflitto, basti ricordare che il bilancio di sangue
risultò assai più grave di quello, già spaventoso, della
Prima guerra mondiale e che delle decine di milioni di vittime la maggioranza fu
rappresentata dai civili.
I TRE GRANDI ALLA CONFERENZA DI YALTA
La fitta trama di scambi epistolari e di
incontri diretti e indiretti tra Churchill, Roosevelt e Stalin, costituisce
forse l'aspetto più interessante del conflitto. I Tre si riunirono solo
in due occasioni: a Teheran nel novembre 1943 e a Yalta nel febbraio 1945. Al
Cairo, nel novembre 1943, era presenta Jang Gaishek, come «quarto
grande», in accordo con la tendenza americana a riconoscere alla Cina il
ruolo di grande potenza: un ruolo che Roosevelt negava invece alla Francia, con
la conseguenza che De Gaulle fu tenuto fuori del grande giro diplomatico. Negli
ultimi mesi di guerra, infine, furono tenute la Conferenza di San Francisco, fra
i ministri degli esteri degli Stati coalizzati contro l'Asse (aprile-giugno
1945) e la Conferenza di Postdam, (luglio-agosto) di nuovo fra i Tre Grandi: ma
prima di San Francisco era morto Roosevelt e prima che si concludesse quella di
Potsdam Churchill, risultato sconfitto alle elezioni, non era più primo
ministro, sicché nell'ultima delle conferenze di guerra Stalin si
ritrovò con Truman, nuovo presidente americano, e con Attlee, nuovo
premier inglese.
Churchill, Roosevelt e Stalin alla conferenza di Yalta