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Moore, George Edward.

Filosofo inglese. Studente a Cambridge, dopo un periodo trascorso tra Edimburgo e Londra, tornò all'università di Cambridge nel 1911 come lettore e poi come professore. A Cambridge trascorse tutta la sua vita, eccetto gli anni fra il 1940 e il 1944, durante i quali si recò negli Stati Uniti. Ancora giovane conobbe personalmente McTaggart, uno dei maggiori esponenti dell'Idealismo inglese, a cui si deve una iniziale influenza di tale dottrina sui primi scritti di M. In essi, peraltro, egli già stabilì l'assioma, basilare per lo sviluppo del suo pensiero, secondo il quale l'immediatezza è attributo essenziale della realtà. Considerando, poi, che tale attributo non è proprio solo della conoscenza del sensibile ma anche dell'intuizione intellettuale, M. approdò a una sorta di realismo logico (La natura del giudizio, 1899): egli infatti affermò la consistenza extrapsichica degli universali, che svolgono la funzione di predicato in un giudizio gnoseologico, al contrario dell'empirismo classico per il quale tali universali sono pure formazioni intellettuali. Questa impostazione lo condusse a una matura opposizione all'Idealismo, da cui aveva preso le mosse, dal momento che l'esistenza autonoma e non esclusivamente mentale dei concetti rendeva insostenibile la proposizione fondamentale del Neoidealismo, l'esse est percipi così come era stato formulato da G. Berkeley, per il quale la realtà non sarebbe che una proiezione della coscienza. Per M. (The refutation of idealism, 1903), invece, pensiero ed essere sono entità che si mantengono distinte nel processo gnoseologico perché percezione e concetto, lungi dall'esaurire in sé l'essere, rimandano a una realtà che li trascende. Questa impostazione ebbe delle ricadute importanti anche per la riflessione sull'etica da parte di M. (Principia Ethica, 1903): i giudizi morali, infatti, riguardavano a suo parere una realtà, e cioé il bene, che non è sensibile ma è razionale, per sé stante, non definibile perché semplice e come tale intuita immediatamente. Ma proprio il concetto di bene era stato in precedenza oggetto della cosiddetta "fallacia naturalistica", essendo di volta in volta identificato con una determinata realtà empirica (il piacere, l'utile, ecc. nelle etiche naturalistiche) o collegato alla struttura ontologica (coincidendo il bene, ad esempio per Spinoza, con la necessità cosmica). L'errore di queste teorie era stato appunto quello di tentare un'identificazione, indimostrata, fra il concetto di bene e una realtà limitata e ad esso eterogenea. L'etica dunque per M. non poteva avere una finalità normativa o prescrittiva, ma piuttosto analitica e doveva tendere alla definizione dei termini e dei concetti relativi alla sfera morale. M. riteneva infatti (La difesa del senso comune, 1925) che compito precipuo della morale come della filosofia in senso lato, fosse quello di fondare, chiarire e giustificare quelle affermazioni proprie del "senso comune" che, ancorché irriflesse e spontanee, avevano sempre a suo parere un contenuto di verità in quanto immediate e intuitive. Per questa sua visione della filosofia come disciplina analitica delle proposizioni comuni, M., insieme con Wittgenstein, è considerato il padre della filosofia analitica sorta in Inghilterra nel secondo dopoguerra (Londra 1873 - Cambridge 1958).