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Moksa.

(dal sanscrito moks-: desiderare di essere libero). Voce sanscrita: liberazione; termine filosofico-religioso equivalente al sostantivo femminile mukti. Il pensiero indiano considera il m. come il fine ultimo dell'uomo: la vita è dolore (duhkha) ed è soggetta alla malattia, alla vecchiaia e alla morte; e, nel contempo, è un processo inesauribile, perché le azioni (karman), che sempre la caratterizzano, inevitabilmente producono dei frutti (phala), ossia degli effetti. A seconda della qualità delle azioni compiute, i frutti possono essere positivi o negativi, ma a prescindere da tale dimensione etica, ogni vita, in quanto tale, reca in sé consequenzialmente degli effetti. Alcuni di questi possono esaurirsi durante il corso della vita stessa, ma altri permangono inespressi in questa vita, e dunque devono esaurirsi successivamente, in un'altra vita. Ne deriva un ciclo inesauribile di vite e di morti, il samsāra, dove ogni vita è effetto di vite precedenti e contemporaneamente causa di quelle successive, in cui si scontano o si godono i frutti delle azioni già compiute. Le diverse correnti speculative indiane hanno elaborato, però, delle soluzioni per interrompere tale catena, cioè diverse vie di liberazione, di m. appunto. Tra queste ricordiamo la pratica sacrificale (karmamarga) che comporta il rispetto formale delle tradizionali norme di vita brahmaniche, stabilite dai Dharma šāstra e propria dei primi tre ordinamenti sociali; una via più esoterica è quella della conoscenza (jñānamarga), accessibile a chi si dedica alla dimensione speculativa. Attraverso questa si riconosce la sostanziale identità tra ātman, l'anima individuale, e il brahman, l'Assoluto, a cui tutto ritorna, al di là di ogni molteplice apparenza (māyā) e al di là di ogni singola azione. Tale conoscenza non è mai una forma nozionistica di sapere, ma una consapevolezza derivata da pratiche meditative e ascetiche, anche esasperate, che possono comportare anche una totale non-azione, spesso al limite dell'ortodossia brahmanica. Una terza via è quella della pratica consapevole di una forma di disciplina, fisica e mentale, lo yogamarga: solo attraverso il perfetto controllo su se stessi è possibile superare la propria materialità corporea, scoprendo in sé l'Assoluto e congiungendosi con esso. Legata a questa via ha ottenuto particolare fama, soprattutto in Occidente, la via di liberazione tantrica, di carattere ascetico-iniziatico e mistico: l'iniziato giunge all'unione con l'Assoluto, attraverso il congiungimento con la propria šakti, la potenza creativa femminile che, informandosi nella materia, determina la creazione dell'universo nella sua molteplice alterità. Si può risalire all'unità originaria proprio ripercorrendo a ritroso il processo creativo, cioè ritornando nel flusso della sākti. Tale congiunzione deve essere oltre che mentale e psichica, anche fisica, ossia sessuale. Molto praticata a tutti i livelli sociali è il bhaktimarga, la via della devozione, che comporta una costante e disinteressata cura devozionale a una divinità prediletta, per la quale si agisce costantemente, secondo il proprio dovere (svadharma), senza alcun fine, solo per amore. In questo senso può essere considerata una sorta di disciplina dell'azione, karmayoga; ad essa si riferisce uno dei testi più conosciuti dell'India, la Bhagavadgītā, il cosiddetto Canto del Beato. La divinità può concedere graziosamente la salvezza, ossia l'annullamento dei frutti delle vite precedenti.