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Marxismo.

Insieme delle teorie filosofiche, economico-politiche, elaborate da K. Marx in stretta collaborazione con F. Engels. ║ Insieme dei principi teorico-pratici sviluppati dagli epigoni di K. Marx e F. Engels. • Filos. - Il M. occupa una posizione particolare, poiché le riflessioni di Marx non miravano a costituire un astratto sistema ideologico e filosofico, ma esigevano per se stesse una continua verifica nella stessa realtà socio-economica e acquistavano senso solo in una effettiva azione politica e rivoluzionaria. Marx considerò la propria opera come postfilosofica, affermando che il compito della filosofia vera e propria era concluso: "...I filosofi hanno solo interpretato in modo diverso il mondo, ora si tratta di cambiarlo." Tuttavia, già durante il periodo della Prima Internazionale (1864-76), nell'ambito delle polemiche sorte tra Marx, Weitling, Lassalle e Bakunin, si iniziò a usare il termine M. per indicare i sostenitori di Marx, anche se ancora non si era coscienti della totale complessità filosofica delle sue idee. Fu solo dopo la morte di Marx, con la pubblicazione postuma di molti dei suoi scritti a cura di Engels, che fu possibile ricostruire, nel suo percorso speculativo, il rigore sistematico del suo pensiero: si individuarono tre presupposti teorici fondamentali: la concezione dialettica della natura, quella materialistica della storia e la critica dell'economia politica. ║ Concezione dialettica della natura: nella sua impostazione dottrinale, Marx si richiamò alla dialettica di Hegel, trasferendo però il metodo dialettico hegeliano dal piano metafisico a quello reale, dalla teoria astratta al concreto comportamento umano. Infatti, pur sostenendo in gioventù la sinistra hegeliana, la sottopose a una severa e penetrante critica: la accusò di aver soffocato la validità del metodo dialettico nel rigore dogmatico di un sistema immobile e mistificatorio, prescindendo dal processo dialettico stesso della realtà, così da creare un'insanabile frattura tra mondo concreto, umano, reale, e mondo spirituale e astratto. Per Hegel ogni fenomeno, nella sua storicità, era il prodotto dello spirito del mondo, l'assoluto, che poteva raggiungere il culmine della propria rappresentazione solo nella coscienza fenomenica di sé; ciò avveniva attraverso un processo di evoluzione della realtà come continuo divenire, basato su stadi successivi di sviluppo di cui ognuno determinava le condizioni e le contraddizioni necessarie al suo stesso superamento, secondo il ritmo triadico di tesi-antitesi-sintesi. Così, ciò che vi era di negativo e di contraddittorio costituiva, in definitiva, la necessaria funzione dialettica di antitesi che induceva al superamento della tesi e della stessa antitesi. Questa visione dialettica fu trasferita da Marx dal campo astratto dell'assoluto a quello della realtà umana: il fenomenico (natura) nel suo divenire storico non era qualcosa di già dato a priori da un'entità spirituale, ma si realizzava nelle effettive condizioni materiali di vita, nel modo in cui gli uomini soddisfacevano i propri bisogni vitali e nei rapporti con i propri simili, cioè nell'attività umana o praxis in se stessa. L'uomo, infatti, esisteva in quanto ente naturale che si determinava nelle condizioni ambientali di vita, nell'economia e nei rapporti sociali, cioè sulla base di condizioni materiali. Sistema sociale e sistema economico-produttivo erano strettamente legati: il primo, infatti, poteva essere strutturato in classi a seconda dei ruoli (controllo delle risorse e dei mezzi economici, forza-lavoro produttiva) e dei rapporti di produzione. Il divenire storico era, dunque, il risultato del dinamismo conflittuale e dialettico tra le forze produttive e le forze di controllo della produzione nel sistema sociale relativo; era, cioè, frutto dei rapporti antitetici tra le classi. La storia era, quindi, storia di lotte di classi dominanti e dominate: oppressori e oppressi (liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni) furono continuamente in reciproco contrasto e condussero una lotta, ora latente ora aperta, terminata ogni volta nel superamento della conflittualità stessa, ora con una trasformazione rivoluzionaria della società, ora con la comune rovina delle classi in lotta. Così, da una primitiva società comunistica, senza classi, si determinò un progresso tecnico di produzione e il conseguente aumento della produttività umana, che si rivelò essere naturalmente in antitesi con la società comunistica. La conflittualità si acuì fino a sfociare nella società schiavistica, dove cioè la classe degli schiavi (forza produttiva) manteneva una classe consumatrice improduttiva, ma proprietaria dei mezzi di produzione. Questa struttura economico-sociale a sua volta determinò un ulteriore progresso delle forze produttive e un ulteriore condizione conflittuale tra le classi che si risolse nella società feudale. Con tali processi dialettici si giunse all'antinomia contemporanea, quella tra borghesia capitalistica e proletariato industriale: il modo di produzione capitalistico determinò un rapido sviluppo delle forze produttive, semplificando ed esasperando gli antagonismi fra le classi, in una forma di antitesi assoluta, che poteva portare solo al suo superamento definitivo, attraverso una rivoluzione sociale. Questo avrebbe segnato l'avvento di un nuovo ordinamento sociale senza classi e senza oppressione e sfruttamento economico, una società di uomini liberi e eguali. Chiamata ad attuare questa rivoluzione non era più la borghesia che, rimasta fino ad allora a guida della storia universale, non poteva più stimolarne il progresso senza collassare, ma doveva essere la nuova classe del proletariato: questa avrebbe realizzato la propria emancipazione sociale, politica e umana, la liberazione dell'intera società dal circolo vizioso degli antagonismi di classe. Ciò presupponeva l'abolizione della proprietà privata e del profitto privato e il trasferimento alla collettività dei mezzi di produzione e di scambio e delle risorse economiche, per una gestione comune, nell'interesse collettivo: era questa la nuova società comunista, risultante dalla cosciente realizzazione fenomenica della natura stessa. Per assolvere a questo compito occorreva una "coscienza di classe" del proletariato, ossia la consapevolezza di costituire un gruppo sociale a sé, con una precisa funzione storica. ║ Concezione materialistica della storia: formulata da Marx, sotto l'influenza dell'Hegelismo e del Socialismo francese, in una serie di opere pubblicate tra il 1844 e il 1848, tale dottrina fu successivamente sviluppata e approfondita in un'esposizione sistematica da Engels e da altri pensatori, che la ridefinirono come materialismo storico o dialettico (V. MATERIALISMO). La storia per Marx era praxis, ossia attività umana in svolgimento: l'uomo creava se stesso nell'atto stesso di vivere e, agendo nelle effettive condizioni materiali di vita, determinava la natura intesa come processo storico, cioè come processo dialettico in atto, escludendo ogni apriorismo, ogni finalismo e ogni trascendenza. Anche la società era il risultato della praxis umana, e dunque della praxis storica, e ne seguiva il corso dialettico: ciò che la caratterizzava, che ne determinava le divisioni interne, ne configurava il costume, il modo di vivere e di pensare dei singoli, non era quindi un vincolo di natura politica, né giuridica, bensì un rapporto di carattere economico-produttivo, che materialmente consentiva alla società stessa e all'uomo di vivere. In questo senso il sistema economico-materiale era la base della società, la sua struttura, ciò che determinava il processo storico stesso. "...Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in genere, il processo sociale, politico e spirituale della vita". Infatti, "non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere ma, al contrario, è il loro essere sociale che determina la loro coscienza". "... Le rappresentazioni e i pensieri, lo scambio spirituale degli uomini appaiono come emanazione diretta del loro comportamento materiale. Ciò vale allo stesso modo per la produzione spirituale, quale essa si manifesta nella politica, nella legge, nella morale, nella religione, nella metafisica di un popolo". Tutto ciò (arte, letteratura, scienza, diritto, politica, religione) per Marx costituiva la sovrastruttura della società, in quanto relativo alla struttura economica. Pertanto, sia i rapporti giuridici, sia le forme dello Stato non potevano essere compresi, né per loro stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, poiché essi avevano le loro radici nei rapporti materiali dell'esistenza. Anche la religione era un prodotto sociale: era "l'uomo a fare la religione e non la religione a fare l'uomo"; infatti nel tentativo di soddisfare i propri bisogni reali, l'uomo costruiva prodotti immaginari e fantastici che offrivano però solo soddisfazioni illusorie, sviandolo dalla ricerca delle soddisfazioni reali. Così il Cristianesimo, attribuendo all'uomo una doppia vita, offriva l'immaginario conforto della vita ultraterrena come compenso per le sofferenze terrene. Perciò la religione doveva essere considerata come "l'oppio del popolo", come "il sole illusorio che muove intorno all'uomo finché questi non si muove intorno a se stesso". Pertanto, "togliere la religione, che è la felicità illusoria del popolo, significa avanzare l'esigenza della felicità reale di esso". La felicità reale era data solo da una società basata sulla eguaglianza economica e sociale, comunità di uomini liberi, senza classi, che si contendessero la proprietà dei mezzi e delle risorse produttive, senza sfruttati e sfruttatori. Finché fossero esistiti rapporti socio-economici basati su classi dominanti e oppresse, cioè su una struttura economica capitalistica, sarebbe continuata a esistere una sovrastruttura ideologica data dalla classe dominante, poiché "la classe che è la potenza materiale dominante della società, è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale, dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. Le idee dominanti non sono altro che l'espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee..." (Marx-Engels, L'ideologia tedesca). Solo con il cambiamento della base economica si poteva sconvolgere più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura ideologica. ║ Critica dell'economia politica: Marx si dedicò allo studio dell'economia moderna già dal 1844-45, ma i risultati delle sue ricerche comparvero solo più di dieci anni dopo, in una serie di scritti pubblicati postumi: Fondamenti della critica dell'economia politica (1857-58), Per la critica dell'economia politica (1859), Teorie sul plusvalore (1862-63), le cui concezioni fondamentali trovarono poi piena maturità e sistemazione nella grande opera di Marx, Il Capitale, critica dell'economia politica. Il punto di partenza fondamentale era la teoria del valore-lavoro, secondo la quale il valore delle merci equivaleva al tempo di lavoro socialmente necessario per la loro produzione. In una società capitalistica, però, i mezzi di produzione e la forza-lavoro necessaria non erano gestiti collettivamente, ma la privatizzazione dei primi, da parte di un'unica classe (la borghesia), ingenerò una classe di uomini (il proletariato), la cui unica ricchezza e proprietà era la propria forza-lavoro, ossia il complesso di qualità umane che consentivano all'uomo di erogare lavoro. Il proletariato, infatti, non aveva alcun controllo sul prodotto della propria forza-lavoro, ma le merci prodotte e i relativi profitti erano proprietà del capitale. Tuttavia, il capitale, nel sistema produttivo, aveva bisogno della forza-lavoro proletaria e instaurava con essa un rapporto economico e di compravendita: la capacità di lavoro era considerata una merce e come tale pagata, secondo le regole del libero mercato. Ne risultava il salario, cioè il corrispondente valore economico della forza-lavoro del proletariato, calcolato in base alla quantità di lavoro necessaria per produrla, ossia in base a quanto occorreva per il sostentamento dell'operaio e della sua famiglia. La merce forza-lavoro, però, produceva a sua volta una merce di valore superiore a quello del salario stesso, cioè produceva più valore di quanto non costasse, e la differenza tra la quantità di lavoro erogato e il suo valore salariale costituiva il plusvalore. Questo rimaneva al datore di lavoro e ne costituiva il capitale, il quale incrementandosi, poteva usare altra forza-lavoro, senza però aumentarne il rispettivo valore, cioè senza aumentare il salario: ne derivava un accumulo sempre crescente di capitale, che arricchiva i pochi proprietari e sfruttava il proletariato. Questo fenomeno recava con sé due conseguenze: da un lato la composizione organica del capitale (ossia la parte investita in macchine, materie prime, attrezzature) aumentava sempre più rispetto al capitale variabile, rispetto cioè alla parte del capitale investita nell'acquisto della forza-lavoro, determinando la diminuzione dell'effettivo profitto e una sproporzione tra produzione e consumo. Il meccanismo economico capitalistico recava, perciò, in sé quelle contraddizioni che avrebbero determinato il suo stesso collasso. Dall'altro lato si generava un processo di auto-alienazione del soggetto operante (lavoratore-forza-lavoro) rispetto alla propria opera (merce prodotta), poiché il lavoro diventava oggetto di appropriazione e di sfruttamento da parte di altri uomini e il lavoratore decadeva a merce: il lavoro restava esterno a chi lo erogava come una forma di lavoro estraniato. Pertanto, "l'operaio non si afferma nel suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato, ma infelice, non svolge alcuna libera energia fisica e spirituale, bensì mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito... Il suo lavoro non è volontario, bensì forzato, è lavoro costrittivo. Il lavoro quindi non è la soddisfazione di un bisogno, bensì un mezzo per soddisfare dei bisogni esterni". L'alienazione implicava una profonda antitesi del proletariato rispetto alla borghesia e alla struttura economica relativa, implicava, cioè, l'acuirsi dell'antinomia tra le due classi sociali. Il capitalismo, quindi, generava di per se stesso quella conflittualità dialettica che sarebbe sfociata nel proprio superamento. Sulla base di queste premesse, Marx sosteneva che tale superamento poteva avvenire solo attraverso il Comunismo rivoluzionario, che avrebbe distrutto il sistema sociale basato sulla proprietà privata e su rapporti umani concepiti in termini di prezzo. Proponeva, invece, l'ideale di un'economia pianificata e umanizzata, in cui la produzione fosse sottoposta al controllo sociale collettivo, sopprimendo lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo e creando una società di uomini liberi. • St. - Le dottrine di Marx furono oggetto di interpretazioni differenti da parte dei successivi intellettuali socialisti, che come tali dovevano impegnarsi ad agire sulla realtà, a confrontarsi costantemente con essa in una seria lotta politica e non potevano limitarsi a mere discussioni ideologiche e dogmatiche. Punto di riferimento fondamentale per la discussione ideologica e politica negli anni successivi alla morte di Marx fu il Partito socialdemocratico tedesco (SPD), che crebbe rapidamente, divenendo la principale organizzazione politica tedesca e modello per i partiti marxisti di tutto il mondo. Alcuni scritti di Engels (come Il rovesciamento della scienza da parte del signor Eugen Dühring o Antidühring, 1878) contribuirono a formare quella coesione ideologica necessaria ai suoi membri, rafforzandone l'identità marxista. Allo SPD si unirono altri partiti operai europei che fondarono nel 1889 la Seconda Internazionale, organo di collegamento e di coordinamento di tutti i partiti socialisti. ║ Revisionismo-riformismo e M. ortodosso: dopo la morte di Engels nel 1895, si andarono configurando in seno alla Seconda Internazionale varie posizioni ideologico-politiche, ma le correnti principali erano quella revisionistica-riformistica e quella marxista ortodossa. Promotore inizialmente di un rigido M. fu K. Kautsky che, portando agli estremi alcune affermazioni presenti nelle opere di Marx, sostenne l'oggettività evoluzionistica della storia: il divenire storico non si svolgeva dialetticamente, attraverso il superamento cosciente delle antitesi sociali, ma per necessità naturale, secondo leggi di natura, estranee a qualunque volontà o coscienza di classe. Il sistema capitalistico sarebbe crollato spontaneamente e non per la consapevole lotta proletaria: l'unico compito del movimento dei lavoratori era quello di trovarsi pronto ad assumere la responsabilità politica al momento del crollo. Si fece, così, sostanzialmente assertore di una politica di attesa passiva, rafforzando la fede nella inevitabile vittoria della classe operaia. Alla luce di queste convinzioni, non condannò totalmente la corrente revisionista, in quanto risultava necessaria e inevitabile in quel momento storico e arrivò ad assumere una posizione centrista: continuò ad esprimersi in termini rivoluzionari con riferimento al futuro, ma in sostanza aderì alla prassi politica moderata che si stava divulgando nello SPD. La corrente revisionista trovò il suo teorico in Eduard Bernstein: esperto di economia, si era reso conto che la situazione economica del suo tempo non coincideva con le previsioni marxiane enunciate nel Capitale. Nuove riforme sociali avevano migliorato le condizioni di vita della classe operaia e si era verificato un incremento notevole del sistema produttivo capitalistico; perciò, sulla base di questi dati concreti, occorreva revisionare e aggiornare le teorie marxiane. Ne risultava il disconoscimento della dialettica hegeliana, poiché il divenire storico non procedeva di fatto attraverso conflittualità evidenti, ma era piuttosto una evoluzione pacifica e naturale: l'economia capitalistica si avviava a una graduale trasformazione in un ordinamento di tipo socialista. Bernstein negava perciò la necessità di una rivoluzione violenta, che rovesciasse la prassi capitalistica e imponesse la dittatura del proletariato, sostenendo, invece, l'efficacia di una collaborazione con il governo che patrocinasse una politica di riforme e realizzasse una socialdemocrazia. Contemporaneamente al Revisionismo tedesco si diffuse in Francia il Riformismo, ad opera di Alexandre Millerand, che usò tale termine nelle sue opere, in contrapposizione al M. ortodosso. Contro il fatalismo di Kautsky, si schierò, invece, uno dei più importanti teorici del M. francese, Georges Sorel: favorevole a un'azione rivoluzionaria e pure non escludendo l'opera riformista, sostenne che ogni rinnovamento, sia esso rivoluzionario o riformistico, poteva avvenire solo grazie a una forte opposizione operaia al potere statuale. Determinante, quindi, era l'impatto violento della forza sindacale operaia. In Italia, nel Partito Socialista Italiano, la corrente riformista fu sostenuta da Filippo Turati e da Achille Loria, mentre isolate rimasero le posizioni hegeliane di Antonio Labriola, uno dei massimi interpreti e teorici del M., ma distante da una effettiva realizzazione politica. In Austria il M. ebbe interpreti particolari, quali Rudolf Hilferding, Otto Bauer e Max Adler, che favorirono un vivace dibattito teorico, determinando la nascita di un movimento marxista a sé stante, il cosiddetto Austromarxismo. Originale fu l'apporto di Adler, che ricercò un possibile accordo tra le riflessioni socio-antropologiche di Kant, il materialismo storico di Marx e la dialettica hegeliana, non distante dalle concezioni di Bernstein. In questo panorama teorico e politico così variegato, si andarono tuttavia delineando all'inizio del XX sec., nella Seconda Internazionale, posizioni più radicali di una sinistra marxista attenta ai movimenti di massa e alle conseguenze economico-politiche dell'imperialismo, fedele al M. rivoluzionario originale: tra i suoi sostenitori principali figuravano Karl Liebknecht, Rosa Luxemburg, Nikolaj Lenin. Già i primi scritti della Luxemburg erano critici nei confronti del Revisionismo: in Riforma sociale o rivoluzione? (1899) si sosteneva la necessità di una consapevole rivoluzione proletaria come unica soluzione definitiva alle antitesi economico-sociali e all'imminente crisi del capitalismo. Le sue teorie economiche furono compiutamente sviluppate più tardi, in un testo del 1913 (L'accumulazione del capitale), in cui, riprendendo le teorie di Marx sulla contraddizione implicita al capitalismo, relativa alla produzione, alla distribuzione e al consumo dei prodotti, vedeva nell'imperialismo una fase di decadenza del sistema e un segnale evidente della sua debolezza: per evitare la saturazione e l'implosione aveva bisogno di nuove aree da sfruttare e di nuovi mercati in cui smerciare. Durante il Congresso di Amsterdam della Seconda Internazionale, nel 1904, cominciò a manifestarsi una netta contrapposizione tra le due principali correnti e la loro incompatibilità risultò evidente, soprattutto sulle questioni dell'organizzazione e delle finalità del partito. La crisi si accentuò nel 1907, nel Congresso di Stoccarda, in concomitanza con l'acuirsi della crisi internazionale e con il profilarsi di uno scontro bellico europeo: si pose la questione della adesione o meno dei partiti socialisti alle scelte belliche delle borghesie nazionali e le divergenze divennero definitive spaccature. La corrente moderata e riformista tedesca si dichiarò disposta a sostenere lo Stato borghese in caso di conflitto, mentre la corrente rivoluzionaria (Luxemburg, Liebknecht, Lenin) si oppose attivamente a ogni scelta bellicistica, facendo approvare una risoluzione sulla guerra con cui si annunciava che il proletariato, qualora non fosse riuscito a impedire il conflitto, lo avrebbe trasformato in rivoluzione contro il capitalismo. Allo scoppio della prima guerra mondiale tutta la corrente moderata della socialdemocrazia tedesca, i partiti socialisti italiani e francesi presero una posizione interventista, seppure in ogni Paese si fossero manifestati moti popolari e movimenti socialisti e comunisti contro la guerra. Contro il militarismo e la guerra si schierarono Liebnecht e la Luxemburg, fondando la "Lega Spartaco". Nel biennio 1915-17 si svolsero le conferenze di Zimmerwald, Kienthal e Stoccolma, in cui Lenin denunciò il fallimento dell'Internazionale e il tradimento di quei partiti socialisti europei che avevano sostenuto l'intervento bellico dei propri Governi. Occorreva, perciò, secondo Lenin, trasformare la guerra in rivoluzione e ricreare un nuovo internazionalismo socialista. Ambigua fu la posizione assunta da Adler e Kautsky, che non si mostrarono né apertamente favorevoli né contrari al conflitto, non accettarono la posizione rivoluzionaria leniniana e la scissione dell'Internazionale, ma, di fatto staccatisi, fondarono l'Unione Internazionale Socialista o Internazionale di Vienna. La guerra e la rivoluzione sovietica del 1917 segnarono così la fine della Seconda Internazionale e determinarono la frattura definitiva tra "Comunismo" e "Socialismo", ossia tra M. sovietico e M. occidentale. ║ M. sovietico: si intende lo sviluppo teorico-politico particolare che il M. ebbe nella Russia zarista prima e nell'Unione Sovietica poi, grazie soprattutto a Lenin, le cui concezioni ne costituirono il fondamento. In questo senso si può parlare di M. sovietico come di M.-Leninismo, definizione che Stalin diede alle interpretazioni del M. elaborate da Lenin, codificandole nel 1938 e trasformandole in una sorta di filosofia di Stato (V. LENINISMO). Lenin, fin dagli ultimi anni del XIX sec., si era impegnato insieme a Georgij Plekhanov ad unificare i circoli operai russi e a organizzare un Partito socialdemocratico. Nella Russia zarista il capitalismo, secondo Lenin, aveva delle caratteristiche proprie, perché strettamente correlato con la questione agraria, quindi richiedeva una particolare strategia rivoluzionaria, gestita da un nuovo tipo di partito. Il proletariato sarebbe stato l'unico vero protagonista nella imminente rivoluzione, senza alcuna intromissione borghese, ma avrebbe dovuto essere guidato da una élite di lavoratori-intellettuali, dotati di una profonda coscienza di classe e quindi rivoluzionari "professionisti", una sorta di nucleo centrale del partito, capace di dirigere le masse operaie e contadine nel processo rivoluzionario e nella instaurazione della dittatura del proletariato. In opposizione, così, alle varie tendenze revisionistiche e socialdemocratiche, Lenin riproponeva il termine "Comunismo". Lenin sviluppò tali teorie sul centralismo democratico negli anni 1902-05, suscitando reazioni critiche sia da parte dei membri della Seconda Internazionale, tra cui la seppur solidale Rosa Luxemburg, sia nell'ambito della socialdemocrazia russa, provocandone la divisione in due correnti: la bolscevica, seguace di Lenin, che sin dal 1903 conquistò la maggioranza del partito, e la menscevica, più moderata, che non escludeva dal processo rivoluzionario l'appoggio borghese. Lenin accompagnò la lotta politica ad una rigorosa analisi dei problemi teorici del M., divenendo uno dei principali ideologi del Comunismo russo: formulò la teoria dialettico-materialistica, rivendicando l'inscindibilità del materialismo storico marxista dal materialismo dialettico, facendo del M. una Weltanschauung filosofica e non più solo un metodo storico e sociologico (Materialismo ed empiriocriticismo, 1909). Tale visione del mondo era collegata a una teoria gnoseologica, la teoria della conoscenza realistica: la conoscenza della realtà da parte dell'uomo era un processo oggettivo, riflesso della realtà stessa, indipendente da ogni componente soggettiva. Infine, Lenin elaborò le sue concezioni sull'imperialismo negli stessi anni della Luxemburg, giungendo a posizioni simili, in aperto contrasto con quelle ottimistiche dei revisionisti: rifacendosi alla teoria marxista dell'accumulazione del capitale, Lenin spiegava lo stadio imperialistico del capitalismo, osservando che, sviluppandosi sempre più, il mercato diventava mondiale, le unità industriali diventavano monopoli e, nell'ambito delle unità nazionali, cessava quasi la concorrenza. Con la formazione delle combinazioni industriali, il controllo passava dalle mani dei produttori in quelle dei finanzieri e delle banche. La continua richiesta di mercati più vasti e la domanda di materie prime si trasformava in una lotta per la conquista dei territori non sfruttati e per il dominio dei popoli arretrati. Pertanto, nell'ambito della politica internazionale, diventava di vitale importanza, tra le potenze capitalistiche, il problema della ripartizione dei territori e dei popoli da sfruttare, mentre nell'ambito della politica interna il controllo capitalistico sulle istituzioni politiche diventava sempre più diretto, riducendo la democrazia parlamentare a un puro inganno. Fondamentalmente il capitalismo monopolistico-finanziario era il risultato logico della concorrenza capitalistica; l'imperialismo politico era la logica conseguenza del capitalismo monopolistico; la guerra era la logica conseguenza dell'imperialismo. Pertanto, bloccare l'imperialismo significava trasformare la guerra imperialista in rivoluzione proletaria. Celebre fu il suo scritto Imperialismo, fase suprema del capitalismo (1916). Nel 1912 Lenin convocò la Conferenza di Praga per rendere definitiva la frattura tra bolscevichi e menscevichi, trasformando la corrente bolscevica in un partito autonomo che assunse il nome di Partito socialdemocratico panrusso. Scoppiata l'8 marzo la rivoluzione "borghese" (Rivoluzione di Febbraio), continuò a dirigere l'opposizione bolscevica al governo Kerenskij e, d'intesa con L.D. Trotzkij, elaborò il piano per la presa del potere da parte dei bolscevichi: dopo il successo della Rivoluzione d'Ottobre (7 novembre) assunse la presidenza del Consiglio dei Commissari del Popolo. Sulla scia del successo della rivoluzione, Lenin fondò nel 1919 la Terza Internazionale, con il nome di Comintern, per promuovere la rivoluzione comunista mondiale. Secondo il centralismo democratico, nel Comintern vigeva un potere fortemente centralizzato, controllato dal Partito comunista sovietico (PCUS), mentre i partiti comunisti dei vari Paesi si impegnarono a modellare la loro organizzazione su quella del PCUS. Di fronte al rischio dell'involuzione burocratico-autoritaria del Partito comunista sovietico e dei partiti ad esso legati, si costituirono all'interno del partito stesso varie correnti di sinistra, fortemente critiche nei confronti del centralismo leniniano e del suo principale sostenitore, J.V. Stalin. In particolare L.D. Trotzkij sosteneva la necessità di uno stato di rivoluzione permanente e mondiale, che coinvolgesse il proletariato internazionale. Con la morte di Lenin, nel 1924, i contrasti interni si accentuarono: Stalin lo sostituì alla direzione del partito, estromesse ed eliminò i suoi oppositori, imponendo il suo progetto di costruire il Socialismo in un solo Paese, l'Unione Sovietica, producendo un perfetto centralismo burocratico e un sistema dittatoriale. A sostegno di questa struttura di potere riorganizzò le concezioni leniniane in una sorta di sintesi scolastica (Principi del Leninismo, 1924 e Materialismo storico e materialismo dialettico, 1938) facendone l'ideologia dogmatica del partito e dello Stato, annullando ogni possibilità di dibattito teorico, sotto la minaccia dell'accusa di "deviazionismo". Nella seconda opera in particolare Stalin volle presentare un'esposizione sistematica del materialismo dialettico, sulla base delle idee engelsiane e leniniane (Materialismo ed empiriocriticismo). Secondo tale esposizione, il mondo era per sua natura materiale, per cui gli eventi non rappresentavano altro che i diversi aspetti della materia. Pertanto, anche il pensiero, altro non era che un prodotto della materia. La realtà naturale doveva essere intesa come una totalità organica di momenti che si condizionavano reciprocamente. Questa totalità organica era essenzialmente dinamica, e lo sviluppo procedeva dalla quantità alla qualità. Il divenire, quindi, non era un semplice processo di crescita, "ma uno sviluppo che passa da mutamenti quantitativi, insignificanti e latenti, a mutamenti aperti e radicali, qualitativi". La processualità dinamica del reale non postulava alcun principio extraumano, come sua causa. La legge dialettica si basava sul principio che "gli oggetti e i fenomeni della natura implicano delle condizioni interne, poiché hanno tutti un lato positivo e un lato negativo, un passato e un futuro, elementi che deperiscono ed elementi che si sviluppano, e la lotta fra questi opposti costituisce l'intero contesto del processo di sviluppo". Pertanto, il processo del reale si attuava "attraverso il manifestarsi delle condizioni inerenti agli oggetti, ai fenomeni, attraverso una lotta delle tendenze opposte, che agiscono sulla base di queste contraddizioni". Fu rilevato che questa accentuazione della dialettica della natura, da parte del M. sovietico, appariva in contrasto col pensiero di Marx e persino con quello di Lenin. Infatti, essendo la dialettica marxista, nella sua struttura concettuale, una dialettica della realtà storica, essa non poteva includere la natura, "se non nella misura in cui quest'ultima è essa stessa parte della realtà storica". Con la morte di Stalin, nel 1953, si avviò un processo di destalinizzazione ad opera dei suoi successori, pur attraverso continue oscillazioni di tendenza (non mancarono esempi di neostalinismo); fu riconosciuto, inoltre, il principio delle diverse vie nazionali al Socialismo, anche pacifiche. Nel 1985, infine, Michail Gorbaciov, alla guida del PCUS, avviò un nuovo corso politico ed economico mirante al decentramento e a una sostanziale liberalizzazione, riprendendo temi della tradizione liberaldemocratica, in particolare quello dell'inalienabilità dei diritti dell'uomo che garantiscono la libertà di espressione individuale in ogni sua forma, la giustizia e la nonviolenza. Con tale posizione critica nei confronti del collettivismo il M. sovietico si avviava ad una forma di Socialismo liberale. Nel 1991 l'Unione Sovietica si sciolse e 11 Repubbliche diedero vita alla Comunità di Stati indipendenti. ║ M. cinese: sviluppo teorico-politico particolare che il M. ebbe in Cina, a partire dagli anni Venti, soprattutto grazie all'impegno teorico e pratico di Mao Tse-Tung, che rielaborò le dottrine marxiane e leniniane alla luce della tradizione culturale cinese. Sin dalle prime opere (Analisi delle classi nella società cinese, 1926; Rapporto di inchiesta sul movimento contadino nello Hunan, 1927) riconobbe un preminente ruolo rivoluzionario non tanto al proletariato urbano e industriale, come era per il M. tradizionale, ma al proletariato rurale, cioè ai contadini delle campagne. Tuttavia, Mao Tse-Tung concordava con Lenin sulla necessità di un centralismo democratico, ossia di un nucleo direttivo, intellettuale e militare, che guidasse le masse contadine nella rivoluzione agraria. La strategia di lotta dominante doveva essere una forma di guerriglia contadina, che con attacchi mirati, indebolisse l'esercito regolare. In ogni caso la lotta rivoluzionaria non escludeva alcuna forza sociale, borghesia compresa, purché contraria alla dominazione imperialista e al regime feudale. Pertanto, la rivoluzione socialista doveva essere, almeno nella sua fase iniziale, una rivoluzione nazional-democratica e tutti coloro che non fossero in via pregiudiziale nemici, dovevano essere recuperati alla rivoluzione finale attraverso un'educazione rivoluzionaria (Sulla nuova democrazia, 1940; Sulla dittatura democratica del popolo, 1949). Con la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949, Mao Tse-Tung si dedicò soprattutto alla ricostruzione economica e statuale, favorendo, sotto l'influsso sovietico, lo sviluppo industriale e urbano. Dopo il 1956 i rapporti con l'Unione Sovietica si raffreddarono e fu lanciata la "campagna dei cento fiori" che sfociò nel 1966, dopo una serie di contrasti, nella "rivoluzione culturale proletaria": era inizialmente un programma educativo che mirava a integrare gli intellettuali, i dirigenti e in genere i funzionari di partito nella vita contadina. Così Mao Tse-Tung intendeva fare in modo che la nuova classe dirigente mantenesse i contatti con la realtà produttiva e non si isolasse in una sterile e privilegiata burocrazia. D'altra parte avrebbe incrementato lo sviluppo dell'agricoltura, evitando gli eccessi industriali e gli squilibri sovietici: importante in questo senso risultò la formazione di cooperative particolari, le "comuni popolari", che riunivano in sé compiti produttivi, funzioni amministrative, educative e di difesa nazionale. Questo piano prevedeva il trasferimento di dirigenti cittadini e funzionari di partito nelle campagne per impegnarli nei lavori umili e manuali; erano inoltre sottoposti a una aperta critica da parte degli studenti e dei giovani membri del partito, a un periodo di rieducazione, con la successiva reintegrazione, dopo una fase di autocritica. Non mancarono intolleranze ed eccessi che compromisero il risultato del programma; con la morte di Mao nel 1976 si aprì all'interno del Partito comunista cinese un duro dibattito tra le diverse fazioni, da cui risultò una politica meno drastica, più riformistica, pur tra contrasti e incertezze. Ne conseguì una rinnovata apertura all'Occidente e nuovi accordi con l'Unione Sovietica prima e con la Russia poi; sul piano economico il processo di riforma instaurò il "socialismo di mercato" che concedeva una totale autonomia alle imprese pubbliche. ║ M. in Occidente: in concomitanza con la fondazione dell'Unione Sovietica, i partiti comunisti occidentali per lo più furono soggetti al monopolio sovietico, ma non mancarono tra gli intellettuali coloro che vollero continuare il dibattito speculativo sulla filosofia marxista, nonostante la minaccia di condanne ideologiche da parte del regime stalinista. Dal punto di vista teorico, infatti, occorreva ricercare un'alternativa al materialismo storico-dialettico staliniano, che fornisse il presupposto ideologico per costruire un modello politico alternativo sia all'esperienza sovietica, sia a quella socialdemocratica e riformistica. Tra gli oppositori, critici della tendenza ideologica leninista, considerata una tipica espressione del processo di burocratizzazione della società sovietica, figurano Karl Korsch e György Lukács. Korsch, autorevole rappresentante del Partito comunista tedesco, da cui fu escluso nel 1925, considerava la filosofia leninista prodotto della particolare condizione economica e sociale russa, per cui essa non poteva essere considerata "la filosofia rivoluzionaria del proletariato" in assoluto. Inoltre la concezione materialistica di Lenin "annullava il rovesciamento materialistico della dialettica hegeliana realizzato da Marx e da Engels": riportava tutta la discussione tra il materialismo e l'idealismo a una fase storica precedente, già superata dalla filosofia idealistica tedesca da Kant a Hegel. Lenin, infatti, ritornerebbe ai contrasti assoluti, già superati dialetticamente da Hegel, tra il "pensiero" e l'"essere", tra lo "spirito" e la "materia". Korsch, invece, mirava a ripristinare la dimensione dialettico-rivoluzionaria del M., per estendere lo scontro rivoluzionario in Occidente, indipendentemente dall'esperienza sovietica. Infatti la costruzione del Socialismo in un solo Paese aveva comportato in realtà la restaurazione di una forma oppressiva di capitalismo statale. Per Korsch il centralismo statale doveva occuparsi di elaborare una comune politica sociale, lasciando però autonomia nella gestione produttiva delle aziende; a garantire un coordinamento tra i due poli vi erano i consigli operai e sindacali. Korsch presentò le sue teorie nel 1923, nell'opera Marxismo e filosofia, che fu condannata per deviazionismo dal V Congresso dell'Internazionale Comunista (1924). Anche Lukács inizialmente non accettò l'esperienza sovietica come unica esperienza rivoluzionaria possibile, ma rivendicò una iniziativa rivoluzionaria a livello europeo, che restituisse la libertà e la felicità all'umanità tutta, secondo le originarie concezioni marxiane. Questo comportava il superamento del conflitto dialettico soggetto-oggetto che riguardava in primo luogo il proletariato, perché da soggetto era divenuto, in qualità di merce, interamente oggetto del processo produttivo. Tuttavia, proprio perché direttamente coinvolto negli avvenimenti, il proletariato era l'unico che potesse agire dall'interno e rovesciare la situazione, sovvertendo la realtà capitalistica. Superare la condizione di proletariato significava prendere coscienza del proprio essere soggetto, prendere coscienza cioè della propria condizione sociale e storica: solo nel soggetto storico che riconosce se stesso potevano coincidere e trovare identità soggetto-oggetto, teoria e prassi. Tali teorie furono pubblicate in Storia e coscienza di classe (1923), che fu condannato dal V Congresso dell'Internazionale e accusato di soggettivismo; più tardi Lukács stesso sconfessò il suo testo, accettando il dogmatismo sovietico. In Italia, nello stesso periodo, Antonio Gramsci lavorò a una ridefinizione del M. in ambito filosofico, dandone una interpretazione in chiave storicistica e antideterministica, in contrapposizione allo storicismo idealistico di Croce, ponendo al centro della riflessione l'attività umana come era storicamente determinata (filosofia della praxis) e l'insieme dei concreti rapporti che legano gli uomini tra loro. Inizialmente sostenitore della linea bolscevico-leninista dell'Internazionale, in seguito criticò la posizione eccessivamente accentratrice e dogmatica del Partito comunista sovietico, in favore di un movimento rivoluzionario internazionale. Questo, tuttavia, doveva essere preceduto da una fase di transizione socialistica, in cui pacificamente e sotto una democrazia parlamentare il Partito comunista avrebbe raccolto consensi e alleati tra le varie forze popolari e borghesi. La pratica stessa rettificava l'idea di rivoluzione: sarebbe stato un processo contraddittorio e dialettico di lunga durata e non un cambiamento totale e immediato. Determinante in questo senso era il ruolo degli intellettuali: le rivoluzioni potevano avere successo se gli intellettuali della nuova classe avessero ottenuto l'egemonia culturale. Questa poteva essere raggiunta solo grazie ad una preparazione organica dei nuovi intellettuali, cioè attraverso una vasta cultura scientifica e umanistica, esattamente corrispondente alla relazione organica esistente tra economia, politica e filosofia, che il M. per primo aveva fondato (Quaderni dal carcere, 1948-51). Negli anni Trenta e Quaranta il dibattito intellettuale proseguì in Occidente, invadendo altri ambiti disciplinari (storico, economico, filosofico, sociologico, scientifico, estetico, psicanalitico): il M. divenne una componente insopprimibile della cultura occidentale. Esempio di tale contaminazione fu la Scuola di Francoforte, con i suoi principali esponenti (W. Benjamin, M. Horkheimer, Th.W. Adorno, H. Marcuse, J. Habermas) che, pur partendo dalle scienze sociali, ricorreva a discipline diverse per studiare i fenomeni sociali, poiché considerava la società come un tutto nella sua molteplice complessità. Questo apparente eclettismo si fondava sulla teoria critica già presente in Marx: in quanto prodotti di tale società, non era possibile per i sociologi stessi determinare in modo immediato e positivistico un oggetto "società", ma occorreva una autoriflessione partendo dal punto di vista che potesse fornire una visione totale di tale società, quello delle classi sfruttate. Determinante in questa prospettiva critica era la dialettica, che in quanto tale era contraria a ogni forma di ideologia e di definizione aprioristica. Severa, in questo senso, fu la critica al M. sovietico da parte di H. Marcuse (Soviet Marxism, 1958): egli rilevava che nel M. sovietico, "il ruolo stesso della dialettica ha subito una trasformazione significativa, cessando di essere un modo di pensare critico, per tramutarsi in una Weltanschauung e in un metodo universale, dotato di regole e principi rigorosamente stabiliti". Una trasformazione che, secondo Marcuse, portava a una distruzione della dialettica, più radicale di qualsiasi revisione. Tale cambiamento corrispondeva "a quello che ha trasformato il M. stesso da teoria a ideologia; la dialettica si riveste delle qualità magiche del pensiero e delle comunicazioni ufficiali". Pertanto, il movimento del pensiero dialettico veniva codificato in un sistema filosofico, mentre la teoria marxiana cessava di essere l'organo della coscienza e della prassi rivoluzionaria, e penetrava di sé le sovrastrutture di un sistema di dominio già stabilizzatosi. Infatti, quando la teoria marxiana si trasformava in una Weltanschauung scientifica generale la dialettica diventava un'astratta teoria della coscienza. Un'altra contaminazione proficua fu quella con la psicoanalisi, i cui esiti si ritrovano in W. Reich, E. Fromm e nello stesso Marcuse: le malattie psichiche avevano le loro radici nelle strutture sociali e in particolare in uno dei suoi organismi principali, la famiglia. Nel secondo dopoguerra si accentuò nel M. occidentale la tendenza a procedere settorialmente nella ricerca e nell'attività speculativa delle diverse discipline. Nell'ambito strettamente filosofico stimolante fu l'incontro dello Strutturalismo con il M., sia nell'ambito linguistico e semiotico, sia in quello antropologico (C. Levi-Strauss), che in quello psicanalitico (J. Lacan). In rapporto alle scienze sociali interessanti furono gli sviluppi di P. Sweezy, J. O'Connor, H. Bravermann; mentre per la logica e l'epistemologia importanti furono gli scritti di G. Della Volpe e di L. Althusser. Altre influenze si riscontravano nel Poststrutturalismo francese di M. Foucault, J. Derrida e G. Deleuze. ║ M. e Socialismo reale: di fatto l'esperienza sovietica fu l'esempio principale di attualizzazione delle teorie marxiane e modello per altri Paesi, ma indubbiamente la "realtà" non corrispose alle istanze originali del M. Inoltre il processo di liberalizzazione avviato in Unione Sovietica da Gorbaciov modificò l'assetto politico ed economico dell'Europa orientale fino a culminare nella caduta del muro di Berlino del 1989 e nello smembramento dell'Unione Sovietica stessa del 1991, con i relativi disconoscimenti dei partiti comunisti e soprattutto del collettivismo, che il M. considerava la meta finale del processo storico. Il venir meno del modello sovietico, abbandonato dai partiti comunisti occidentali negli anni Ottanta, e quindi il rinnegamento del Comunismo in molti Paesi marxisti negli anni Novanta, aprì una fase di riflessione e di autocritica sia politica che teorica, nonché quella fase definita come "crisi del M.". Problematica era la valutazione dell'esperienza sovietica, se considerata come una delle possibili fasi di sviluppo del M., o invece come la sua unica e inevitabile realizzazione. La questione rimase aperta, anche alla luce degli altri esempi di Socialismo reale, verificatisi sia in Europa, sia nel Terzo Mondo dopo la seconda guerra mondiale, sulla scia del modello sovietico, primo tra tutti quello cinese. Particolare in Europa fu l'esempio del Titoismo jugoslavo, che dal 1948 si distaccò dalle direttive del Comintern e, nel contempo, non accettò l'influenza occidentale statunitense, facendo così parte dei Paesi non allineati. Nonostante l'accusa di eterodossia nei confronti del M.-Leninismo, mantenne una politica interna centralistica per assorbire le spinte nazionalistiche centrifughe. Un altro esempio importante, al di fuori dell'Europa, fu quello risultante dalla rivoluzione castrista a Cuba, con la conseguente proclamazione della Repubblica socialista, nel 1961. Rappresentante principale del movimento cubano fu Ernesto Guevara, che teorizzò e applicò quale strategia rivoluzionaria la lotta di guerriglia per arruolamento volontario di chiunque, indistintamente, purché contrario ai sopprusi dell'imperialismo, del nuovo colonialismo statunitense e sovietico, dei Governi complici e allineati. La rivoluzione, dunque, non era più di competenza solo del proletariato industriale, ma di tutti gli sfruttati e di quanti fossero pronti a combattere; scopo principale, inoltre, era l'abbattimento dei regimi imperialistici imposti ai Paesi del Terzo Mondo dalle politiche neo-coloniali sia degli Stati Uniti sia dell'Unione Sovietica. Il M. cubano, come già quello cinese, si configurava come ideologia rivoluzionaria dei movimenti di liberazione nazionale dell'America Latina, dell'Asia e dell'Africa: grazie all'impegno internazionalista del guevarismo nacquero l'Organizzazione di solidarietà dei popoli d'Africa, Asia, America Latina (OSPAAAL) e l'Organizzazione Latino-americana di solidarietà (OLAS); nel 1966 si tenne a Cuba la Conferenza tricontinentale e nel 1979 quella dei Paesi non allineati. Data, così, la pluralità degli esiti e degli sviluppi reali che il M. ebbe sia a livello politico sia a livello teorico, spesso si preferisce parlare di marxismi più che di M.
Nikolaj Lenin