Insieme delle teorie filosofiche, economico-politiche, elaborate da K. Marx in
stretta collaborazione con F. Engels. ║ Insieme dei principi
teorico-pratici sviluppati dagli epigoni di K. Marx e F. Engels. • Filos.
- Il
M. occupa una posizione particolare, poiché le riflessioni di
Marx non miravano a costituire un astratto sistema ideologico e filosofico, ma
esigevano per se stesse una continua verifica nella stessa realtà
socio-economica e acquistavano senso solo in una effettiva azione politica e
rivoluzionaria. Marx considerò la propria opera come postfilosofica,
affermando che il compito della filosofia vera e propria era concluso: "...I
filosofi hanno solo interpretato in modo diverso il mondo, ora si tratta di
cambiarlo." Tuttavia, già durante il periodo della Prima Internazionale
(1864-76), nell'ambito delle polemiche sorte tra Marx, Weitling, Lassalle e
Bakunin, si iniziò a usare il termine
M. per indicare i
sostenitori di Marx, anche se ancora non si era coscienti della totale
complessità filosofica delle sue idee. Fu solo dopo la morte di Marx, con
la pubblicazione postuma di molti dei suoi scritti a cura di Engels, che fu
possibile ricostruire, nel suo percorso speculativo, il rigore sistematico del
suo pensiero: si individuarono tre presupposti teorici fondamentali: la
concezione dialettica della natura, quella materialistica della storia e la
critica dell'economia politica. ║
Concezione dialettica della
natura: nella sua impostazione dottrinale, Marx si richiamò alla
dialettica di Hegel, trasferendo però il metodo dialettico hegeliano dal
piano metafisico a quello reale, dalla teoria astratta al concreto comportamento
umano. Infatti, pur sostenendo in gioventù la sinistra hegeliana, la
sottopose a una severa e penetrante critica: la accusò di aver soffocato
la validità del metodo dialettico nel rigore dogmatico di un sistema
immobile e mistificatorio, prescindendo dal processo dialettico stesso della
realtà, così da creare un'insanabile frattura tra mondo concreto,
umano, reale, e mondo spirituale e astratto. Per Hegel ogni fenomeno, nella sua
storicità, era il prodotto dello spirito del mondo, l'assoluto, che
poteva raggiungere il culmine della propria rappresentazione solo nella
coscienza fenomenica di sé; ciò avveniva attraverso un processo di
evoluzione della realtà come continuo divenire, basato su stadi
successivi di sviluppo di cui ognuno determinava le condizioni e le
contraddizioni necessarie al suo stesso superamento, secondo il ritmo triadico
di tesi-antitesi-sintesi. Così, ciò che vi era di negativo e di
contraddittorio costituiva, in definitiva, la necessaria funzione dialettica di
antitesi che induceva al superamento della tesi e della stessa antitesi. Questa
visione dialettica fu trasferita da Marx dal campo astratto dell'assoluto a
quello della realtà umana: il fenomenico (natura) nel suo divenire
storico non era qualcosa di già dato a priori da un'entità
spirituale, ma si realizzava nelle effettive condizioni materiali di vita, nel
modo in cui gli uomini soddisfacevano i propri bisogni vitali e nei rapporti con
i propri simili, cioè nell'attività umana o
praxis in se
stessa. L'uomo, infatti, esisteva in quanto ente naturale che si determinava
nelle condizioni ambientali di vita, nell'economia e nei rapporti sociali,
cioè sulla base di condizioni materiali. Sistema sociale e sistema
economico-produttivo erano strettamente legati: il primo, infatti, poteva essere
strutturato in classi a seconda dei ruoli (controllo delle risorse e dei mezzi
economici, forza-lavoro produttiva) e dei rapporti di produzione. Il divenire
storico era, dunque, il risultato del dinamismo conflittuale e dialettico tra le
forze produttive e le forze di controllo della produzione nel sistema sociale
relativo; era, cioè, frutto dei rapporti antitetici tra le classi. La
storia era, quindi, storia di lotte di classi dominanti e dominate: oppressori e
oppressi (liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri
delle corporazioni e garzoni) furono continuamente in reciproco contrasto e
condussero una lotta, ora latente ora aperta, terminata ogni volta nel
superamento della conflittualità stessa, ora con una trasformazione
rivoluzionaria della società, ora con la comune rovina delle classi in
lotta. Così, da una primitiva società comunistica, senza classi,
si determinò un progresso tecnico di produzione e il conseguente aumento
della produttività umana, che si rivelò essere naturalmente in
antitesi con la società comunistica. La conflittualità si
acuì fino a sfociare nella società schiavistica, dove cioè
la classe degli schiavi (forza produttiva) manteneva una classe consumatrice
improduttiva, ma proprietaria dei mezzi di produzione. Questa struttura
economico-sociale a sua volta determinò un ulteriore progresso delle
forze produttive e un ulteriore condizione conflittuale tra le classi che si
risolse nella società feudale. Con tali processi dialettici si giunse
all'antinomia contemporanea, quella tra borghesia capitalistica e proletariato
industriale: il modo di produzione capitalistico determinò un rapido
sviluppo delle forze produttive, semplificando ed esasperando gli antagonismi
fra le classi, in una forma di antitesi assoluta, che poteva portare solo al suo
superamento definitivo, attraverso una rivoluzione sociale. Questo avrebbe
segnato l'avvento di un nuovo ordinamento sociale senza classi e senza
oppressione e sfruttamento economico, una società di uomini liberi e
eguali. Chiamata ad attuare questa rivoluzione non era più la borghesia
che, rimasta fino ad allora a guida della storia universale, non poteva
più stimolarne il progresso senza collassare, ma doveva essere la nuova
classe del proletariato: questa avrebbe realizzato la propria emancipazione
sociale, politica e umana, la liberazione dell'intera società dal circolo
vizioso degli antagonismi di classe. Ciò presupponeva l'abolizione della
proprietà privata e del profitto privato e il trasferimento alla
collettività dei mezzi di produzione e di scambio e delle risorse
economiche, per una gestione comune, nell'interesse collettivo: era questa la
nuova società comunista, risultante dalla cosciente realizzazione
fenomenica della natura stessa. Per assolvere a questo compito occorreva una
"coscienza di classe" del proletariato, ossia la consapevolezza di costituire un
gruppo sociale a sé, con una precisa funzione storica. ║
Concezione materialistica della storia: formulata da Marx, sotto
l'influenza dell'Hegelismo e del Socialismo francese, in una serie di opere
pubblicate tra il 1844 e il 1848, tale dottrina fu successivamente sviluppata e
approfondita in un'esposizione sistematica da Engels e da altri pensatori, che
la ridefinirono come
materialismo storico o
dialettico
(V. MATERIALISMO). La storia per Marx era
praxis, ossia attività umana in svolgimento: l'uomo creava se
stesso nell'atto stesso di vivere e, agendo nelle effettive condizioni materiali
di vita, determinava la natura intesa come processo storico, cioè come
processo dialettico in atto, escludendo ogni apriorismo, ogni finalismo e ogni
trascendenza. Anche la società era il risultato della
praxis
umana, e dunque della
praxis storica, e ne seguiva il corso dialettico:
ciò che la caratterizzava, che ne determinava le divisioni interne, ne
configurava il costume, il modo di vivere e di pensare dei singoli, non era
quindi un vincolo di natura politica, né giuridica, bensì un
rapporto di carattere economico-produttivo, che materialmente consentiva alla
società stessa e all'uomo di vivere. In questo senso il sistema
economico-materiale era la base della società, la sua struttura,
ciò che determinava il processo storico stesso. "...Il modo di produzione
della vita materiale condiziona, in genere, il processo sociale, politico e
spirituale della vita". Infatti, "non è la coscienza degli uomini che
determina il loro essere ma, al contrario, è il loro essere sociale che
determina la loro coscienza". "... Le rappresentazioni e i pensieri, lo scambio
spirituale degli uomini appaiono come emanazione diretta del loro comportamento
materiale. Ciò vale allo stesso modo per la produzione spirituale, quale
essa si manifesta nella politica, nella legge, nella morale, nella religione,
nella metafisica di un popolo". Tutto ciò (arte, letteratura, scienza,
diritto, politica, religione) per Marx costituiva la
sovrastruttura della
società, in quanto relativo alla
struttura economica. Pertanto,
sia i rapporti giuridici, sia le forme dello Stato non potevano essere compresi,
né per loro stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello
spirito umano, poiché essi avevano le loro radici nei rapporti materiali
dell'esistenza. Anche la religione era un prodotto sociale: era "l'uomo a fare
la religione e non la religione a fare l'uomo"; infatti nel tentativo di
soddisfare i propri bisogni reali, l'uomo costruiva prodotti immaginari e
fantastici che offrivano però solo soddisfazioni illusorie, sviandolo
dalla ricerca delle soddisfazioni reali. Così il Cristianesimo,
attribuendo all'uomo una doppia vita, offriva l'immaginario conforto della vita
ultraterrena come compenso per le sofferenze terrene. Perciò la religione
doveva essere considerata come "l'oppio del popolo", come "il sole illusorio che
muove intorno all'uomo finché questi non si muove intorno a se stesso".
Pertanto, "togliere la religione, che è la felicità illusoria del
popolo, significa avanzare l'esigenza della felicità reale di esso". La
felicità reale era data solo da una società basata sulla
eguaglianza economica e sociale, comunità di uomini liberi, senza classi,
che si contendessero la proprietà dei mezzi e delle risorse produttive,
senza sfruttati e sfruttatori. Finché fossero esistiti rapporti
socio-economici basati su classi dominanti e oppresse, cioè su una
struttura economica capitalistica, sarebbe continuata a esistere una
sovrastruttura ideologica data dalla classe dominante, poiché "la classe
che è la potenza materiale dominante della società, è in
pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi
della produzione materiale, dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi
della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono
assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione
intellettuale. Le idee dominanti non sono altro che l'espressione ideale dei
rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come
idee..." (Marx-Engels,
L'ideologia tedesca). Solo con il cambiamento
della base economica si poteva sconvolgere più o meno rapidamente tutta
la gigantesca sovrastruttura ideologica. ║
Critica dell'economia
politica: Marx si dedicò allo studio dell'economia moderna già
dal 1844-45, ma i risultati delle sue ricerche comparvero solo più di
dieci anni dopo, in una serie di scritti pubblicati postumi:
Fondamenti della
critica dell'economia politica (1857-58),
Per la critica dell'economia
politica (1859),
Teorie sul plusvalore (1862-63), le cui concezioni
fondamentali trovarono poi piena maturità e sistemazione nella grande
opera di Marx,
Il Capitale, critica dell'economia politica. Il punto di
partenza fondamentale era la teoria del
valore-lavoro, secondo la quale
il
valore delle merci equivaleva al tempo di lavoro socialmente
necessario per la loro produzione. In una società capitalistica,
però, i mezzi di produzione e la forza-lavoro necessaria non erano
gestiti collettivamente, ma la privatizzazione dei primi, da parte di un'unica
classe (la borghesia), ingenerò una classe di uomini (il proletariato),
la cui unica ricchezza e proprietà era la propria forza-lavoro, ossia il
complesso di qualità umane che consentivano all'uomo di erogare lavoro.
Il proletariato, infatti, non aveva alcun controllo sul prodotto della propria
forza-lavoro, ma le merci prodotte e i relativi profitti erano proprietà
del capitale. Tuttavia, il capitale, nel sistema produttivo, aveva bisogno della
forza-lavoro proletaria e instaurava con essa un rapporto economico e di
compravendita: la capacità di lavoro era considerata una merce e come
tale pagata, secondo le regole del libero mercato. Ne risultava il
salario, cioè il corrispondente
valore economico della
forza-lavoro del proletariato, calcolato in base alla quantità di lavoro
necessaria per produrla, ossia in base a quanto occorreva per il sostentamento
dell'operaio e della sua famiglia. La merce forza-lavoro, però, produceva
a sua volta una merce di valore superiore a quello del salario stesso,
cioè produceva più valore di quanto non costasse, e la differenza
tra la quantità di lavoro erogato e il suo valore salariale costituiva il
plusvalore. Questo rimaneva al datore di lavoro e ne costituiva il
capitale, il quale incrementandosi, poteva usare altra forza-lavoro, senza
però aumentarne il rispettivo valore, cioè senza aumentare il
salario: ne derivava un accumulo sempre crescente di capitale, che arricchiva i
pochi proprietari e sfruttava il proletariato. Questo fenomeno recava con
sé due conseguenze: da un lato la
composizione organica del
capitale (ossia la parte investita in macchine, materie prime, attrezzature)
aumentava sempre più rispetto al
capitale variabile, rispetto
cioè alla parte del capitale investita nell'acquisto della forza-lavoro,
determinando la diminuzione dell'effettivo profitto e una sproporzione tra
produzione e consumo. Il meccanismo economico capitalistico recava,
perciò, in sé quelle contraddizioni che avrebbero determinato il
suo stesso collasso. Dall'altro lato si generava un processo di auto-alienazione
del soggetto operante (lavoratore-forza-lavoro) rispetto alla propria opera
(merce prodotta), poiché il lavoro diventava oggetto di appropriazione e
di sfruttamento da parte di altri uomini e il lavoratore decadeva a merce: il
lavoro restava esterno a chi lo erogava come una forma di
lavoro
estraniato. Pertanto, "l'operaio non si afferma nel suo lavoro, bensì
si nega, non si sente appagato, ma infelice, non svolge alcuna libera energia
fisica e spirituale, bensì mortifica il suo corpo e rovina il suo
spirito... Il suo lavoro non è volontario, bensì forzato, è
lavoro costrittivo. Il lavoro quindi non è la soddisfazione di un
bisogno, bensì un mezzo per soddisfare dei bisogni esterni".
L'alienazione implicava una profonda antitesi del proletariato rispetto alla
borghesia e alla struttura economica relativa, implicava, cioè, l'acuirsi
dell'antinomia tra le due classi sociali. Il capitalismo, quindi, generava di
per se stesso quella conflittualità dialettica che sarebbe sfociata nel
proprio superamento. Sulla base di queste premesse, Marx sosteneva che tale
superamento poteva avvenire solo attraverso il Comunismo rivoluzionario, che
avrebbe distrutto il sistema sociale basato sulla proprietà privata e su
rapporti umani concepiti in termini di prezzo. Proponeva, invece, l'ideale di
un'economia pianificata e umanizzata, in cui la produzione fosse sottoposta al
controllo sociale collettivo, sopprimendo lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo e
creando una società di uomini liberi. • St. - Le dottrine di Marx
furono oggetto di interpretazioni differenti da parte dei successivi
intellettuali socialisti, che come tali dovevano impegnarsi ad agire sulla
realtà, a confrontarsi costantemente con essa in una seria lotta politica
e non potevano limitarsi a mere discussioni ideologiche e dogmatiche. Punto di
riferimento fondamentale per la discussione ideologica e politica negli anni
successivi alla morte di Marx fu il Partito socialdemocratico tedesco (SPD), che
crebbe rapidamente, divenendo la principale organizzazione politica tedesca e
modello per i partiti marxisti di tutto il mondo. Alcuni scritti di Engels (come
Il rovesciamento della scienza da parte del signor Eugen Dühring o
Antidühring, 1878) contribuirono a formare quella coesione
ideologica necessaria ai suoi membri, rafforzandone l'identità marxista.
Allo SPD si unirono altri partiti operai europei che fondarono nel 1889 la
Seconda Internazionale, organo di collegamento e di coordinamento di tutti i
partiti socialisti. ║
Revisionismo-riformismo e
M.
ortodosso: dopo la morte di Engels nel 1895, si andarono configurando in
seno alla Seconda Internazionale varie posizioni ideologico-politiche, ma le
correnti principali erano quella revisionistica-riformistica e quella marxista
ortodossa. Promotore inizialmente di un rigido
M. fu K. Kautsky che,
portando agli estremi alcune affermazioni presenti nelle opere di Marx, sostenne
l'oggettività evoluzionistica della storia: il divenire storico non si
svolgeva dialetticamente, attraverso il superamento cosciente delle antitesi
sociali, ma per necessità naturale, secondo leggi di natura, estranee a
qualunque volontà o coscienza di classe. Il sistema capitalistico sarebbe
crollato spontaneamente e non per la consapevole lotta proletaria: l'unico
compito del movimento dei lavoratori era quello di trovarsi pronto ad assumere
la responsabilità politica al momento del crollo. Si fece, così,
sostanzialmente assertore di una politica di attesa passiva, rafforzando la fede
nella inevitabile vittoria della classe operaia. Alla luce di queste
convinzioni, non condannò totalmente la corrente revisionista, in quanto
risultava necessaria e inevitabile in quel momento storico e arrivò ad
assumere una posizione centrista: continuò ad esprimersi in termini
rivoluzionari con riferimento al futuro, ma in sostanza aderì alla prassi
politica moderata che si stava divulgando nello SPD. La corrente revisionista
trovò il suo teorico in Eduard Bernstein: esperto di economia, si era
reso conto che la situazione economica del suo tempo non coincideva con le
previsioni marxiane enunciate nel
Capitale. Nuove riforme sociali avevano
migliorato le condizioni di vita della classe operaia e si era verificato un
incremento notevole del sistema produttivo capitalistico; perciò, sulla
base di questi dati concreti, occorreva revisionare e aggiornare le teorie
marxiane. Ne risultava il disconoscimento della dialettica hegeliana,
poiché il divenire storico non procedeva di fatto attraverso
conflittualità evidenti, ma era piuttosto una evoluzione pacifica e
naturale: l'economia capitalistica si avviava a una graduale trasformazione in
un ordinamento di tipo socialista. Bernstein negava perciò la
necessità di una rivoluzione violenta, che rovesciasse la prassi
capitalistica e imponesse la dittatura del proletariato, sostenendo, invece,
l'efficacia di una collaborazione con il governo che patrocinasse una politica
di riforme e realizzasse una socialdemocrazia. Contemporaneamente al
Revisionismo tedesco si diffuse in Francia il Riformismo, ad opera di Alexandre
Millerand, che usò tale termine nelle sue opere, in contrapposizione al
M. ortodosso. Contro il fatalismo di Kautsky, si schierò, invece,
uno dei più importanti teorici del
M. francese, Georges Sorel:
favorevole a un'azione rivoluzionaria e pure non escludendo l'opera riformista,
sostenne che ogni rinnovamento, sia esso rivoluzionario o riformistico, poteva
avvenire solo grazie a una forte opposizione operaia al potere statuale.
Determinante, quindi, era l'impatto violento della forza sindacale operaia. In
Italia, nel Partito Socialista Italiano, la corrente riformista fu sostenuta da
Filippo Turati e da Achille Loria, mentre isolate rimasero le posizioni
hegeliane di Antonio Labriola, uno dei massimi interpreti e teorici del
M., ma distante da una effettiva realizzazione politica. In Austria il
M. ebbe interpreti particolari, quali Rudolf Hilferding, Otto Bauer e Max
Adler, che favorirono un vivace dibattito teorico, determinando la nascita di un
movimento marxista a sé stante, il cosiddetto
Austromarxismo.
Originale fu l'apporto di Adler, che ricercò un possibile accordo tra le
riflessioni socio-antropologiche di Kant, il materialismo storico di Marx e la
dialettica hegeliana, non distante dalle concezioni di Bernstein. In questo
panorama teorico e politico così variegato, si andarono tuttavia
delineando all'inizio del XX sec., nella Seconda Internazionale, posizioni
più radicali di una sinistra marxista attenta ai movimenti di massa e
alle conseguenze economico-politiche dell'imperialismo, fedele al
M.
rivoluzionario originale: tra i suoi sostenitori principali figuravano Karl
Liebknecht, Rosa Luxemburg, Nikolaj Lenin. Già i primi scritti della
Luxemburg erano critici nei confronti del Revisionismo: in
Riforma sociale o
rivoluzione? (1899) si sosteneva la necessità di una consapevole
rivoluzione proletaria come unica soluzione definitiva alle antitesi
economico-sociali e all'imminente crisi del capitalismo. Le sue teorie
economiche furono compiutamente sviluppate più tardi, in un testo del
1913 (
L'accumulazione del capitale), in cui, riprendendo le teorie di
Marx sulla contraddizione implicita al capitalismo, relativa alla produzione,
alla distribuzione e al consumo dei prodotti, vedeva nell'imperialismo una fase
di decadenza del sistema e un segnale evidente della sua debolezza: per evitare
la saturazione e l'implosione aveva bisogno di nuove aree da sfruttare e di
nuovi mercati in cui smerciare. Durante il Congresso di Amsterdam della Seconda
Internazionale, nel 1904, cominciò a manifestarsi una netta
contrapposizione tra le due principali correnti e la loro incompatibilità
risultò evidente, soprattutto sulle questioni dell'organizzazione e delle
finalità del partito. La crisi si accentuò nel 1907, nel Congresso
di Stoccarda, in concomitanza con l'acuirsi della crisi internazionale e con il
profilarsi di uno scontro bellico europeo: si pose la questione della adesione o
meno dei partiti socialisti alle scelte belliche delle borghesie nazionali e le
divergenze divennero definitive spaccature. La corrente moderata e riformista
tedesca si dichiarò disposta a sostenere lo Stato borghese in caso di
conflitto, mentre la corrente rivoluzionaria (Luxemburg, Liebknecht, Lenin) si
oppose attivamente a ogni scelta bellicistica, facendo approvare una risoluzione
sulla guerra con cui si annunciava che il proletariato, qualora non fosse
riuscito a impedire il conflitto, lo avrebbe trasformato in rivoluzione contro
il capitalismo. Allo scoppio della prima guerra mondiale tutta la corrente
moderata della socialdemocrazia tedesca, i partiti socialisti italiani e
francesi presero una posizione interventista, seppure in ogni Paese si fossero
manifestati moti popolari e movimenti socialisti e comunisti contro la guerra.
Contro il militarismo e la guerra si schierarono Liebnecht e la Luxemburg,
fondando la "Lega Spartaco". Nel biennio 1915-17 si svolsero le conferenze di
Zimmerwald, Kienthal e Stoccolma, in cui Lenin denunciò il fallimento
dell'Internazionale e il tradimento di quei partiti socialisti europei che
avevano sostenuto l'intervento bellico dei propri Governi. Occorreva,
perciò, secondo Lenin, trasformare la guerra in rivoluzione e ricreare un
nuovo internazionalismo socialista. Ambigua fu la posizione assunta da Adler e
Kautsky, che non si mostrarono né apertamente favorevoli né
contrari al conflitto, non accettarono la posizione rivoluzionaria leniniana e
la scissione dell'Internazionale, ma, di fatto staccatisi, fondarono l'Unione
Internazionale Socialista o Internazionale di Vienna. La guerra e la rivoluzione
sovietica del 1917 segnarono così la fine della Seconda Internazionale e
determinarono la frattura definitiva tra "Comunismo" e "Socialismo", ossia tra
M. sovietico e
M. occidentale. ║
M. sovietico: si
intende lo sviluppo teorico-politico particolare che il
M. ebbe nella
Russia zarista prima e nell'Unione Sovietica poi, grazie soprattutto a Lenin, le
cui concezioni ne costituirono il fondamento. In questo senso si può
parlare di
M. sovietico come di
M.-Leninismo, definizione che
Stalin diede alle interpretazioni del
M. elaborate da Lenin,
codificandole nel 1938 e trasformandole in una sorta di filosofia di Stato
(V. LENINISMO). Lenin, fin dagli ultimi anni del
XIX sec., si era impegnato insieme a Georgij Plekhanov ad unificare i circoli
operai russi e a organizzare un Partito socialdemocratico. Nella Russia zarista
il capitalismo, secondo Lenin, aveva delle caratteristiche proprie,
perché strettamente correlato con la questione agraria, quindi richiedeva
una particolare strategia rivoluzionaria, gestita da un nuovo tipo di partito.
Il proletariato sarebbe stato l'unico vero protagonista nella imminente
rivoluzione, senza alcuna intromissione borghese, ma avrebbe dovuto essere
guidato da una élite di lavoratori-intellettuali, dotati di una profonda
coscienza di classe e quindi rivoluzionari "professionisti", una sorta di nucleo
centrale del partito, capace di dirigere le masse operaie e contadine nel
processo rivoluzionario e nella instaurazione della dittatura del proletariato.
In opposizione, così, alle varie tendenze revisionistiche e
socialdemocratiche, Lenin riproponeva il termine "Comunismo". Lenin
sviluppò tali teorie sul
centralismo democratico negli anni
1902-05, suscitando reazioni critiche sia da parte dei membri della Seconda
Internazionale, tra cui la seppur solidale Rosa Luxemburg, sia nell'ambito della
socialdemocrazia russa, provocandone la divisione in due correnti: la
bolscevica, seguace di Lenin, che sin dal 1903 conquistò la maggioranza
del partito, e la menscevica, più moderata, che non escludeva dal
processo rivoluzionario l'appoggio borghese. Lenin accompagnò la lotta
politica ad una rigorosa analisi dei problemi teorici del
M., divenendo
uno dei principali ideologi del Comunismo russo: formulò la teoria
dialettico-materialistica, rivendicando l'inscindibilità del materialismo
storico marxista dal materialismo dialettico, facendo del
M. una
Weltanschauung filosofica e non più solo un metodo storico e
sociologico (
Materialismo ed empiriocriticismo, 1909). Tale visione del
mondo era collegata a una teoria gnoseologica, la teoria della conoscenza
realistica: la conoscenza della realtà da parte dell'uomo era un processo
oggettivo, riflesso della realtà stessa, indipendente da ogni componente
soggettiva. Infine, Lenin elaborò le sue concezioni sull'imperialismo
negli stessi anni della Luxemburg, giungendo a posizioni simili, in aperto
contrasto con quelle ottimistiche dei revisionisti: rifacendosi alla teoria
marxista dell'accumulazione del capitale, Lenin spiegava lo stadio
imperialistico del capitalismo, osservando che, sviluppandosi sempre più,
il mercato diventava mondiale, le unità industriali diventavano monopoli
e, nell'ambito delle unità nazionali, cessava quasi la concorrenza. Con
la formazione delle combinazioni industriali, il controllo passava dalle mani
dei produttori in quelle dei finanzieri e delle banche. La continua richiesta di
mercati più vasti e la domanda di materie prime si trasformava in una
lotta per la conquista dei territori non sfruttati e per il dominio dei popoli
arretrati. Pertanto, nell'ambito della politica internazionale, diventava di
vitale importanza, tra le potenze capitalistiche, il problema della ripartizione
dei territori e dei popoli da sfruttare, mentre nell'ambito della politica
interna il controllo capitalistico sulle istituzioni politiche diventava sempre
più diretto, riducendo la democrazia parlamentare a un puro inganno.
Fondamentalmente il capitalismo monopolistico-finanziario era il risultato
logico della concorrenza capitalistica; l'imperialismo politico era la logica
conseguenza del capitalismo monopolistico; la guerra era la logica conseguenza
dell'imperialismo. Pertanto, bloccare l'imperialismo significava trasformare la
guerra imperialista in rivoluzione proletaria. Celebre fu il suo scritto
Imperialismo, fase suprema del capitalismo (1916). Nel 1912 Lenin
convocò la Conferenza di Praga per rendere definitiva la frattura tra
bolscevichi e menscevichi, trasformando la corrente bolscevica in un partito
autonomo che assunse il nome di Partito socialdemocratico panrusso. Scoppiata
l'8 marzo la rivoluzione "borghese" (Rivoluzione di Febbraio), continuò a
dirigere l'opposizione bolscevica al governo Kerenskij e, d'intesa con L.D.
Trotzkij, elaborò il piano per la presa del potere da parte dei
bolscevichi: dopo il successo della Rivoluzione d'Ottobre (7 novembre) assunse
la presidenza del Consiglio dei Commissari del Popolo. Sulla scia del successo
della rivoluzione, Lenin fondò nel 1919 la Terza Internazionale, con il
nome di Comintern, per promuovere la rivoluzione comunista mondiale. Secondo il
centralismo democratico, nel Comintern vigeva un potere fortemente
centralizzato, controllato dal Partito comunista sovietico (PCUS), mentre i
partiti comunisti dei vari Paesi si impegnarono a modellare la loro
organizzazione su quella del PCUS. Di fronte al rischio dell'involuzione
burocratico-autoritaria del Partito comunista sovietico e dei partiti ad esso
legati, si costituirono all'interno del partito stesso varie correnti di
sinistra, fortemente critiche nei confronti del centralismo leniniano e del suo
principale sostenitore, J.V. Stalin. In particolare L.D. Trotzkij sosteneva la
necessità di uno stato di rivoluzione permanente e mondiale, che
coinvolgesse il proletariato internazionale. Con la morte di Lenin, nel 1924, i
contrasti interni si accentuarono: Stalin lo sostituì alla direzione del
partito, estromesse ed eliminò i suoi oppositori, imponendo il suo
progetto di costruire il Socialismo in un solo Paese, l'Unione Sovietica,
producendo un perfetto centralismo burocratico e un sistema dittatoriale. A
sostegno di questa struttura di potere riorganizzò le concezioni
leniniane in una sorta di sintesi scolastica (
Principi del Leninismo,
1924 e
Materialismo storico e materialismo dialettico, 1938) facendone
l'ideologia dogmatica del partito e dello Stato, annullando ogni
possibilità di dibattito teorico, sotto la minaccia dell'accusa di
"deviazionismo". Nella seconda opera in particolare Stalin volle presentare
un'esposizione sistematica del materialismo dialettico, sulla base delle idee
engelsiane e leniniane (
Materialismo ed empiriocriticismo). Secondo tale
esposizione, il mondo era per sua natura materiale, per cui gli eventi non
rappresentavano altro che i diversi aspetti della materia. Pertanto, anche il
pensiero, altro non era che un prodotto della materia. La realtà naturale
doveva essere intesa come una totalità organica di momenti che si
condizionavano reciprocamente. Questa totalità organica era
essenzialmente dinamica, e lo sviluppo procedeva dalla quantità alla
qualità. Il divenire, quindi, non era un semplice processo di crescita,
"ma uno sviluppo che passa da mutamenti quantitativi, insignificanti e latenti,
a mutamenti aperti e radicali, qualitativi". La processualità dinamica
del reale non postulava alcun principio extraumano, come sua causa. La legge
dialettica si basava sul principio che "gli oggetti e i fenomeni della natura
implicano delle condizioni interne, poiché hanno tutti un lato positivo e
un lato negativo, un passato e un futuro, elementi che deperiscono ed elementi
che si sviluppano, e la lotta fra questi opposti costituisce l'intero contesto
del processo di sviluppo". Pertanto, il processo del reale si attuava
"attraverso il manifestarsi delle condizioni inerenti agli oggetti, ai fenomeni,
attraverso una lotta delle tendenze opposte, che agiscono sulla base di queste
contraddizioni". Fu rilevato che questa accentuazione della dialettica della
natura, da parte del
M. sovietico, appariva in contrasto col pensiero di
Marx e persino con quello di Lenin. Infatti, essendo la dialettica marxista,
nella sua struttura concettuale, una dialettica della realtà storica,
essa non poteva includere la natura, "se non nella misura in cui quest'ultima
è essa stessa parte della realtà storica". Con la morte di Stalin,
nel 1953, si avviò un processo di destalinizzazione ad opera dei suoi
successori, pur attraverso continue oscillazioni di tendenza (non mancarono
esempi di neostalinismo); fu riconosciuto, inoltre, il principio delle diverse
vie nazionali al Socialismo, anche pacifiche. Nel 1985, infine, Michail
Gorbaciov, alla guida del PCUS, avviò un nuovo corso politico ed
economico mirante al decentramento e a una sostanziale liberalizzazione,
riprendendo temi della tradizione liberaldemocratica, in particolare quello
dell'inalienabilità dei diritti dell'uomo che garantiscono la
libertà di espressione individuale in ogni sua forma, la giustizia e la
nonviolenza. Con tale posizione critica nei confronti del collettivismo il
M. sovietico si avviava ad una forma di Socialismo liberale. Nel 1991
l'Unione Sovietica si sciolse e 11 Repubbliche diedero vita alla Comunità
di Stati indipendenti. ║
M. cinese: sviluppo teorico-politico
particolare che il
M. ebbe in Cina, a partire dagli anni Venti,
soprattutto grazie all'impegno teorico e pratico di Mao Tse-Tung, che
rielaborò le dottrine marxiane e leniniane alla luce della tradizione
culturale cinese. Sin dalle prime opere (
Analisi delle classi nella
società cinese, 1926;
Rapporto di inchiesta sul movimento
contadino nello Hunan, 1927) riconobbe un preminente ruolo rivoluzionario
non tanto al proletariato urbano e industriale, come era per il
M.
tradizionale, ma al proletariato rurale, cioè ai contadini delle
campagne. Tuttavia, Mao Tse-Tung concordava con Lenin sulla necessità di
un centralismo democratico, ossia di un nucleo direttivo, intellettuale e
militare, che guidasse le masse contadine nella rivoluzione agraria. La
strategia di lotta dominante doveva essere una forma di guerriglia contadina,
che con attacchi mirati, indebolisse l'esercito regolare. In ogni caso la lotta
rivoluzionaria non escludeva alcuna forza sociale, borghesia compresa,
purché contraria alla dominazione imperialista e al regime feudale.
Pertanto, la rivoluzione socialista doveva essere, almeno nella sua fase
iniziale, una rivoluzione nazional-democratica e tutti coloro che non fossero in
via pregiudiziale nemici, dovevano essere recuperati alla rivoluzione finale
attraverso un'educazione rivoluzionaria (
Sulla nuova democrazia, 1940;
Sulla dittatura democratica del popolo, 1949). Con la proclamazione della
Repubblica Popolare Cinese nel 1949, Mao Tse-Tung si dedicò soprattutto
alla ricostruzione economica e statuale, favorendo, sotto l'influsso sovietico,
lo sviluppo industriale e urbano. Dopo il 1956 i rapporti con l'Unione Sovietica
si raffreddarono e fu lanciata la "campagna dei cento fiori" che sfociò
nel 1966, dopo una serie di contrasti, nella "rivoluzione culturale proletaria":
era inizialmente un programma educativo che mirava a integrare gli
intellettuali, i dirigenti e in genere i funzionari di partito nella vita
contadina. Così Mao Tse-Tung intendeva fare in modo che la nuova classe
dirigente mantenesse i contatti con la realtà produttiva e non si
isolasse in una sterile e privilegiata burocrazia. D'altra parte avrebbe
incrementato lo sviluppo dell'agricoltura, evitando gli eccessi industriali e
gli squilibri sovietici: importante in questo senso risultò la formazione
di cooperative particolari, le "comuni popolari", che riunivano in sé
compiti produttivi, funzioni amministrative, educative e di difesa nazionale.
Questo piano prevedeva il trasferimento di dirigenti cittadini e funzionari di
partito nelle campagne per impegnarli nei lavori umili e manuali; erano inoltre
sottoposti a una aperta critica da parte degli studenti e dei giovani membri del
partito, a un periodo di rieducazione, con la successiva reintegrazione, dopo
una fase di autocritica. Non mancarono intolleranze ed eccessi che compromisero
il risultato del programma; con la morte di Mao nel 1976 si aprì
all'interno del Partito comunista cinese un duro dibattito tra le diverse
fazioni, da cui risultò una politica meno drastica, più
riformistica, pur tra contrasti e incertezze. Ne conseguì una rinnovata
apertura all'Occidente e nuovi accordi con l'Unione Sovietica prima e con la
Russia poi; sul piano economico il processo di riforma instaurò il
"socialismo di mercato" che concedeva una totale autonomia alle imprese
pubbliche. ║
M. in Occidente: in concomitanza con la fondazione
dell'Unione Sovietica, i partiti comunisti occidentali per lo più furono
soggetti al monopolio sovietico, ma non mancarono tra gli intellettuali coloro
che vollero continuare il dibattito speculativo sulla filosofia marxista,
nonostante la minaccia di condanne ideologiche da parte del regime stalinista.
Dal punto di vista teorico, infatti, occorreva ricercare un'alternativa al
materialismo storico-dialettico staliniano, che fornisse il presupposto
ideologico per costruire un modello politico alternativo sia all'esperienza
sovietica, sia a quella socialdemocratica e riformistica. Tra gli oppositori,
critici della tendenza ideologica leninista, considerata una tipica espressione
del processo di burocratizzazione della società sovietica, figurano Karl
Korsch e György Lukács. Korsch, autorevole rappresentante del
Partito comunista tedesco, da cui fu escluso nel 1925, considerava la filosofia
leninista prodotto della particolare condizione economica e sociale russa, per
cui essa non poteva essere considerata "la filosofia rivoluzionaria del
proletariato" in assoluto. Inoltre la concezione materialistica di Lenin
"annullava il rovesciamento materialistico della dialettica hegeliana realizzato
da Marx e da Engels": riportava tutta la discussione tra il materialismo e
l'idealismo a una fase storica precedente, già superata dalla filosofia
idealistica tedesca da Kant a Hegel. Lenin, infatti, ritornerebbe ai contrasti
assoluti, già superati dialetticamente da Hegel, tra il "pensiero" e
l'"essere", tra lo "spirito" e la "materia". Korsch, invece, mirava a
ripristinare la dimensione dialettico-rivoluzionaria del
M., per
estendere lo scontro rivoluzionario in Occidente, indipendentemente
dall'esperienza sovietica. Infatti la costruzione del Socialismo in un solo
Paese aveva comportato in realtà la restaurazione di una forma oppressiva
di capitalismo statale. Per Korsch il centralismo statale doveva occuparsi di
elaborare una comune politica sociale, lasciando però autonomia nella
gestione produttiva delle aziende; a garantire un coordinamento tra i due poli
vi erano i consigli operai e sindacali. Korsch presentò le sue teorie nel
1923, nell'opera
Marxismo e filosofia, che fu condannata per
deviazionismo dal V Congresso dell'Internazionale Comunista (1924). Anche
Lukács inizialmente non accettò l'esperienza sovietica come unica
esperienza rivoluzionaria possibile, ma rivendicò una iniziativa
rivoluzionaria a livello europeo, che restituisse la libertà e la
felicità all'umanità tutta, secondo le originarie concezioni
marxiane. Questo comportava il superamento del conflitto dialettico
soggetto-oggetto che riguardava in primo luogo il proletariato, perché da
soggetto era divenuto, in qualità di merce, interamente oggetto del
processo produttivo. Tuttavia, proprio perché direttamente coinvolto
negli avvenimenti, il proletariato era l'unico che potesse agire dall'interno e
rovesciare la situazione, sovvertendo la realtà capitalistica. Superare
la condizione di proletariato significava prendere coscienza del proprio essere
soggetto, prendere coscienza cioè della propria condizione sociale e
storica: solo nel soggetto storico che riconosce se stesso potevano coincidere e
trovare identità soggetto-oggetto, teoria e prassi. Tali teorie furono
pubblicate in
Storia e coscienza di classe (1923), che fu condannato dal
V Congresso dell'Internazionale e accusato di soggettivismo; più tardi
Lukács stesso sconfessò il suo testo, accettando il dogmatismo
sovietico. In Italia, nello stesso periodo, Antonio Gramsci lavorò a una
ridefinizione del
M. in ambito filosofico, dandone una interpretazione in
chiave storicistica e antideterministica, in contrapposizione allo storicismo
idealistico di Croce, ponendo al centro della riflessione l'attività
umana come era storicamente determinata (filosofia della praxis) e l'insieme dei
concreti rapporti che legano gli uomini tra loro. Inizialmente sostenitore della
linea bolscevico-leninista dell'Internazionale, in seguito criticò la
posizione eccessivamente accentratrice e dogmatica del Partito comunista
sovietico, in favore di un movimento rivoluzionario internazionale. Questo,
tuttavia, doveva essere preceduto da una fase di transizione socialistica, in
cui pacificamente e sotto una democrazia parlamentare il Partito comunista
avrebbe raccolto consensi e alleati tra le varie forze popolari e borghesi. La
pratica stessa rettificava l'idea di rivoluzione: sarebbe stato un processo
contraddittorio e dialettico di lunga durata e non un cambiamento totale e
immediato. Determinante in questo senso era il ruolo degli intellettuali: le
rivoluzioni potevano avere successo se gli intellettuali della nuova classe
avessero ottenuto l'egemonia culturale. Questa poteva essere raggiunta solo
grazie ad una preparazione organica dei nuovi intellettuali, cioè
attraverso una vasta cultura scientifica e umanistica, esattamente
corrispondente alla relazione organica esistente tra economia, politica e
filosofia, che il
M. per primo aveva fondato (
Quaderni dal
carcere, 1948-51). Negli anni Trenta e Quaranta il dibattito intellettuale
proseguì in Occidente, invadendo altri ambiti disciplinari (storico,
economico, filosofico, sociologico, scientifico, estetico, psicanalitico): il
M. divenne una componente insopprimibile della cultura occidentale.
Esempio di tale contaminazione fu la Scuola di Francoforte, con i suoi
principali esponenti (W. Benjamin, M. Horkheimer, Th.W. Adorno, H. Marcuse, J.
Habermas) che, pur partendo dalle scienze sociali, ricorreva a discipline
diverse per studiare i fenomeni sociali, poiché considerava la
società come un tutto nella sua molteplice complessità. Questo
apparente eclettismo si fondava sulla teoria critica già presente in
Marx: in quanto prodotti di tale società, non era possibile per i
sociologi stessi determinare in modo immediato e positivistico un oggetto
"società", ma occorreva una autoriflessione partendo dal punto di vista
che potesse fornire una visione totale di tale società, quello delle
classi sfruttate. Determinante in questa prospettiva critica era la dialettica,
che in quanto tale era contraria a ogni forma di ideologia e di definizione
aprioristica. Severa, in questo senso, fu la critica al
M. sovietico da
parte di H. Marcuse (
Soviet Marxism, 1958): egli rilevava che nel
M. sovietico, "il ruolo stesso della dialettica ha subito una
trasformazione significativa, cessando di essere un modo di pensare critico, per
tramutarsi in una
Weltanschauung e in un metodo universale, dotato di
regole e principi rigorosamente stabiliti". Una trasformazione che, secondo
Marcuse, portava a una distruzione della dialettica, più radicale di
qualsiasi revisione. Tale cambiamento corrispondeva "a quello che ha trasformato
il
M. stesso da teoria a ideologia; la dialettica si riveste delle
qualità magiche del pensiero e delle comunicazioni ufficiali". Pertanto,
il movimento del pensiero dialettico veniva codificato in un sistema filosofico,
mentre la teoria marxiana cessava di essere l'organo della coscienza e della
prassi rivoluzionaria, e penetrava di sé le sovrastrutture di un sistema
di dominio già stabilizzatosi. Infatti, quando la teoria marxiana si
trasformava in una
Weltanschauung scientifica generale la dialettica
diventava un'astratta teoria della coscienza. Un'altra contaminazione proficua
fu quella con la psicoanalisi, i cui esiti si ritrovano in W. Reich, E. Fromm e
nello stesso Marcuse: le malattie psichiche avevano le loro radici nelle
strutture sociali e in particolare in uno dei suoi organismi principali, la
famiglia. Nel secondo dopoguerra si accentuò nel
M. occidentale la
tendenza a procedere settorialmente nella ricerca e nell'attività
speculativa delle diverse discipline. Nell'ambito strettamente filosofico
stimolante fu l'incontro dello Strutturalismo con il
M., sia nell'ambito
linguistico e semiotico, sia in quello antropologico (C. Levi-Strauss), che in
quello psicanalitico (J. Lacan). In rapporto alle scienze sociali interessanti
furono gli sviluppi di P. Sweezy, J. O'Connor, H. Bravermann; mentre per la
logica e l'epistemologia importanti furono gli scritti di G. Della Volpe e di L.
Althusser. Altre influenze si riscontravano nel Poststrutturalismo francese di
M. Foucault, J. Derrida e G. Deleuze. ║
M. e
Socialismo
reale: di fatto l'esperienza sovietica fu l'esempio principale di
attualizzazione delle teorie marxiane e modello per altri Paesi, ma
indubbiamente la "realtà" non corrispose alle istanze originali del
M. Inoltre il processo di liberalizzazione avviato in Unione Sovietica da
Gorbaciov modificò l'assetto politico ed economico dell'Europa orientale
fino a culminare nella caduta del muro di Berlino del 1989 e nello smembramento
dell'Unione Sovietica stessa del 1991, con i relativi disconoscimenti dei
partiti comunisti e soprattutto del collettivismo, che il
M. considerava
la meta finale del processo storico. Il venir meno del modello sovietico,
abbandonato dai partiti comunisti occidentali negli anni Ottanta, e quindi il
rinnegamento del Comunismo in molti Paesi marxisti negli anni Novanta,
aprì una fase di riflessione e di autocritica sia politica che teorica,
nonché quella fase definita come "crisi del
M.". Problematica era
la valutazione dell'esperienza sovietica, se considerata come una delle
possibili fasi di sviluppo del
M., o invece come la sua unica e
inevitabile realizzazione. La questione rimase aperta, anche alla luce degli
altri esempi di Socialismo reale, verificatisi sia in Europa, sia nel Terzo
Mondo dopo la seconda guerra mondiale, sulla scia del modello sovietico, primo
tra tutti quello cinese. Particolare in Europa fu l'esempio del
Titoismo
jugoslavo, che dal 1948 si distaccò dalle direttive del Comintern e, nel
contempo, non accettò l'influenza occidentale statunitense, facendo
così parte dei Paesi non allineati. Nonostante l'accusa di eterodossia
nei confronti del
M.-Leninismo, mantenne una politica interna
centralistica per assorbire le spinte nazionalistiche centrifughe. Un altro
esempio importante, al di fuori dell'Europa, fu quello risultante dalla
rivoluzione castrista a Cuba, con la conseguente proclamazione della Repubblica
socialista, nel 1961. Rappresentante principale del movimento cubano fu Ernesto
Guevara, che teorizzò e applicò quale strategia rivoluzionaria la
lotta di guerriglia per arruolamento volontario di chiunque, indistintamente,
purché contrario ai sopprusi dell'imperialismo, del nuovo colonialismo
statunitense e sovietico, dei Governi complici e allineati. La rivoluzione,
dunque, non era più di competenza solo del proletariato industriale, ma
di tutti gli sfruttati e di quanti fossero pronti a combattere; scopo
principale, inoltre, era l'abbattimento dei regimi imperialistici imposti ai
Paesi del Terzo Mondo dalle politiche neo-coloniali sia degli Stati Uniti sia
dell'Unione Sovietica. Il
M. cubano, come già quello cinese, si
configurava come ideologia rivoluzionaria dei movimenti di liberazione nazionale
dell'America Latina, dell'Asia e dell'Africa: grazie all'impegno
internazionalista del guevarismo nacquero l'Organizzazione di solidarietà
dei popoli d'Africa, Asia, America Latina (OSPAAAL) e l'Organizzazione
Latino-americana di solidarietà (OLAS); nel 1966 si tenne a Cuba la
Conferenza tricontinentale e nel 1979 quella dei Paesi non allineati. Data,
così, la pluralità degli esiti e degli sviluppi reali che il
M. ebbe sia a livello politico sia a livello teorico, spesso si
preferisce parlare di
marxismi più che di
M.
Nikolaj Lenin