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Mafia.

Termine di origine incerta, indicante la malavita organizzata siciliana. È costituita sulla base di associazioni, dette famiglie o cosche, tra loro indipendenti, ma in stretto rapporto di alleanza o di competizione. Caratteristica fondamentale della m., detta anche onorata società, è quella di essersi profondamente radicata nel tessuto sociale (legge dell'omertà e del silenzio) e di aver costituito un sistema di potere, contrapposto a quello legale, ma ad esso collegato, attraverso un intreccio di collusioni e complicità che comportano la partecipazione, diretta o indiretta, di insospettabili "uomini d'onore" e di rappresentanti del potere legale alle attività criminose di stampo mafioso. Elementi costitutivi della m. sono pertanto l'associazionismo per fini illeciti e l'affermazione di un potere extralegale, esercitato attraverso la collusione con persone investite di pubblici poteri, l'omertà e la vendetta che colpisce inesorabilmente chi trasgredisce alla legge del silenzio. • St. - Alcuni studiosi tendono a spiegare il fenomeno della m. facendo riferimento alla società, alla cultura e al carattere dei siciliani, quali sono andati formandosi nel corso dei secoli in rapporto con le lunghe dominazioni straniere: romana, bizantina, araba, normanna, sveva, spagnola. In quanto aggregato di associazioni per delinquere e organizzazione complessa, detentrice di un potere sotterraneo, la m. siciliana andò costituendosi molto prima di essere indicata con questo nome che, in origine, significava valentia, superiorità, baldanza. Già in uso ai primi dell'Ottocento, nel rione Borgo di Palermo, il termine andò diffondendosi nei decenni successivi e, dopo essere stato usato nella commedia dialettale I mafiusi di la Vicaria (1863) di G. Rizzotto, fu introdotto nella lingua italiana, assumendo un significato analogo al termine napoletano camorra. Indipendentemente dal nome, già all'inizio dell'Ottocento la m. era largamente diffusa nella Sicilia occidentale e centrale, quale fenomeno di delinquenza e malcostume. Le cause profonde del fenomeno vanno ricercate nell'instaurazione del regime feudale, con il quale si venne a creare nella società siciliana un dualismo (classe dei baroni e classe servile), condizionandone permanentemente i rapporti economici e sociali. Questo sistema feudale, basato essenzialmente su un'economia agricolo-latifondista, era ancora vivo nell'Ottocento, avendo nel frattempo dato origine al fenomeno del banditismo e del brigantaggio che, contrapponendosi al potere dei baroni e ai provvedimenti repressivi delle autorità centrali, trovava larga solidarietà nella popolazione, costretta inoltre a ubbidire alla legge dell'omertà, per non andare incontro a feroci vendette. In stretta connessione con il banditismo, e potendo come questo contare sull'omertà, andarono costituendosi le prime associazioni mafiose, operanti in modo semilegale come "fratellanze" e, sotto certi aspetti, come società di mutuo soccorso e di autodifesa delle classi inferiori contro i soprusi del potere baronale e amministrativo borbonico, sia per fare giustizia, sulla base di una legge non scritta, sia per corrompere i funzionari o per ottenere contropartite, in cambio di particolari favori e prestazioni. Componenti mafiose si ritrovano nelle bande dei bunache e dei picciotti che garantirono il successo dei liberali, a cominciare dai moti del 1820-21 sino all'impresa garibaldina e alla rivoluzione del 1860. Potenti associazioni di m., operanti come organizzazioni criminose, impegnate soprattutto nell'industria del delitto su commissione, andarono costituendosi e rafforzandosi negli anni successivi all'unità, contrapponendo inoltre un sistema di giustizia privata a quello ufficiale del governo italiano. Si andò sviluppando inoltre un crescente coinvolgimento nella vita politica, in quanto le consorterie locali cominciarono ad appoggiarsi alle associazioni mafiose, per conservare il potere o per strapparlo alla consorteria avversaria, così da creare le condizioni per la collusione, e un sempre più stretto intreccio, tra classe dirigente e m. che, in questo modo, si garantiva la protezione dei pubblici poteri, potendo impunemente compiere imprese criminose. Nel giro di alcuni decenni, essa divenne un'organizzazione potente e temibile, soprattutto nel Palermitano e nella Sicilia centro-orientale, esercitando un potere extralegale tale da costituire uno Stato nello Stato. Date le sue profonde radici nel tessuto sociale e la potenza acquisita, scarsi risultati ottennero i provvedimenti emanati dal governo centrale nel 1875, 1877, 1892. Negli anni del Fascismo, l'azione poliziesca fu intensificata, soprattutto con l'invio del prefetto C. Mori, ma le misure repressive adottate non riuscirono a sradicare il fenomeno della m. le cui molteplici attività criminose e illecite, soprattutto di carattere economico, si erano notevolmente estese anche negli Stati Uniti. Una parte di rilievo ebbe la m. nello sbarco alleato in Sicilia nel 1943 e nella successiva attività del movimento separatista, conclusasi con l'assassinio del bandito Salvatore Giuliano nel 1950 e l'inserimento in un sistema di alleanze politiche, sviluppatosi dal 1945 in poi. Ne conseguì un allargamento del proprio giro d'affari e delle attività criminose, potendo contare su una vasta rete di complicità, di cui si valse largamente. Calogero Vizzini, per molti anni capo riconosciuto di tutta la m. siciliana, imputato per associazione a delinquere, corruzione di pubblici ufficiali e funzionari, estorsione e truffa aggravata oltre che come mandante di omicidi, rapine e stragi, ma rimasto impunito e onorato, dai rappresentanti del potere legale, sino alla morte nel 1954. La crescita del fenomeno mafioso e delle attività ad esso collegate indusse il Parlamento a costituire (11.4.1962) una commissione d'inchiesta con il compito di studiare il fenomeno e di proporre adeguate misure repressive. Essa proseguì i propri lavori anche nelle due successive legislature, assumendo poi carattere permanente (Commissione parlamentare antimafia). L'adozione di misure amministrative e di polizia, a cominciare dalla L. 31.5.1965 n. 575, basata essenzialmente sulla sorveglianza speciale e sul soggiorno obbligato, per gli indiziati di appartenenza ad associazioni mafiose, si dimostrarono del tutto inefficaci, contro il dilagare di una criminalità organizzata che, nel corso del decennio successivo, rinnovò e rafforzò le sue strutture portanti, assumendo una nuova configurazione. Ne è conseguita, da un lato, l'accentuazione della propria attività delittuosa, travolgendo ogni regola di "onorabilità", vigente nel passato, dall'altro, un'espansione dell'attività affaristica e imprenditoriale, soprattutto nel settore dell'edilizia. Il giro degli affari s'è andato notevolmente estendendo anche nell'Italia settentrionale e all'estero, grazie soprattutto agli ingenti guadagni derivanti dalla droga, avendo la m. assunto il controllo di un mercato di dimensioni tali, da fare della Sicilia il più grande crocevia mondiale del traffico di sostanze stupefacenti. Ne è conseguita una sanguinosa lotta per il potere, tra le varie cosche mafiose, e un moltiplicarsi delle uccisioni, con caratteristiche di vere e proprie stragi (58 morti nel 1980; 101 nel 1981; 151 nel 1982; 110 nel 1983). Contemporaneamente, venivano colpite le forze dell'ordine impegnate nel combattere il fenomeno mafioso e si aveva una lunga catena di cadaveri, con l'assassinio di sindacalisti, giornalisti, ufficiali, magistrati, uomini politici, tra cui il commissario Boris Giuliano (21.7.1979); Michele Reina, segretario regionale della DC (9.3.1979); Cesare Terranova, magistrato e deputato della sinistra indipendente, membro della Commissione antimafia (25.9.1979); Piersanti Mattarella, presidente della regione siciliana (6.1.1980). Ad essi si aggiungeva il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (3.9.1982), nominato prefetto di Palermo, con poteri eccezionali, per combattere la m. e impegnatosi immediatamente a trovare i collegamenti tra m. e investimenti in attività imprenditoriali, nonché i collegamenti tra m. e potere, attraverso una serie di accertamenti patrimoniali. Il suo assassinio affrettava l'approvazione, nello stesso mese, della legge antimafia, proposta nel marzo 1980 dal deputato comunista Pio La Torre, relatore di minoranza nella Commissione parlamentare antimafia, assassinato il 30.4.1982. La nuova legge si basava, non sulla tradizionale strategia poliziesca, ma su nuovi strumenti, scendendo sul terreno economico con verifiche bancarie, indagini patrimoniali, controllo degli appalti, ecc. Unitamente all'attività della guardia di finanza e della speciale sezione antimafia del tribunale di Palermo, la nuova legge consentiva di aprire alcune maglie nel potere mafioso. Nel 1984 dopo le confessioni del boss mafioso Tommaso Buscetta e di Salvatore Contorno si apriva un nuovo fronte di lotta. Le rivelazioni dei due "uomini d'onore" consentivano infatti di lanciare nel 1985 una grande operazione antimafia che permetteva di colpire l'organizzazione a vari livelli, nei suoi legami col potere politico ed economico siciliano (arresto dell'ex sindaco democristiano di Palermo, Vito Ciancimino e degli esattori Ignazio e Nino Salvo) e col traffico internazionale degli stupefacenti. Nello stesso anno tuttavia la m., lungi dall'essere debellata, reagiva violentemente contro le forze dell'Ordine colpendole nelle persone dei commissari Giuseppe Montana e Antonio Cassarà, e col fallito attentato ai danni del giudice Carlo Palermo che provocava tre vittime. Nel febbraio 1986 iniziava Palermo il cosiddetto maxiprocesso contro la m. che vedeva imputati, tra i circa 450 personaggi di spicco dell'"onorata società", i boss mafiosi Luciano Liggio, Pippo Calò e Michele Greco, arrestato nelle campagne intorno a Palermo pochi giorni dopo l'inizio del dibattimento e già condannato all'ergastolo in contumacia per l'assassinio del giudice Rocco Chinnici. Nel 1989, però, alcuni degli imputati sono stati assolti nel giudizio di primo grado perché non è stata riconosciuta l'esistenza della "cupola" come organo centrale della m. Da indagini del CENSIS risultano coinvolte in attività mafiose circa 500 mila persone, con un giro di affari pari a quasi il 10% del prodotto interno lordo italiano. Negli anni successivi venivano introdotte nuove disposizioni contro il fenomeno mafioso. La L. 19 marzo 1990 n. 55 (nota anche come riforma alla legge Rognoni-La Torre), oltre ad ampliare i poteri della magistratura e della polizia giudiziaria nell'espletamento delle indagini su soggetti sospetti, intensificava i controlli sulle concessioni pubbliche e sui patrimoni dei soggetti condannati per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Nel 1991 venivano inoltre approvati due decreti legge: il primo vietava la concessione di misure alternative alla detenzione, aumentava i termini di carcerazione preventiva per gli imputati di maggior pericolosità sociale e stabiliva l'assunzione di 29.000 carabinieri e poliziotti; il secondo introduceva due nuovi organismi con il compito di centralizzare e coordinare le attività investigative e giudiziarie contro la m.: la Direzione Nazionale Antimafia, detta "Superprocura" e la Direzione Investigativa Antimafia, detta "Superpolizia". Ma la m. si preparava a infliggere un duro colpo allo Stato: nel maggio del 1992 a Capaci, sull'autostrada Palermo-Punta Raisi, veniva ucciso con una potente carica di esplosivo Giovanni Falcone - già capo del pool antimafia, direttore degli Affari Penali del ministero della Giustizia e candidato alla guida della Superprocura - insieme alla moglie e agli agenti della scorta; poche settimane dopo, con uguale brutalità, veniva assassinato a Palermo il giudice Borsellino, amico di Falcone e profondo conoscitore del fenomeno mafioso. Tali episodi suscitavano nel Paese una forte reazione emotiva, unita al sospetto che la giustizia italiana fosse destinata a soccombere nella lotta contro la m. La risposta dello Stato si concretizzava immediatamente nell'invio in Sicilia di migliaia di soldati dell'esercito, segno tangibile della presenza di uno Stato deciso a riaffermare il suo controllo in tale regione; ma soprattutto in una più intensa attività investigativa. Nel giro di pochi mesi venivano arrestati gli esponenti di maggior spicco della m. siciliana: Giuseppe Madonia e soprattutto Salvatore Riina, ritenuto responsabile di tutti gli omicidi mafiosi degli anni Settanta e Ottanta nonché delle ultime stragi di Capaci e di Palermo. Nella primavera del 1993 si apriva un nuovo scenario: clamorose rivelazioni di alcuni pentiti, che già avevano consentito di assestare duri colpi alla criminalità organizzata, indicavano presunti legami esistenti tra il senatore democristiano Giulio Andreotti e esponenti mafiosi. Inizialmente restio a sottrarsi all'immunità parlamentare, Andreotti chiedeva in seguito che fosse concessa l'autorizzazione a procedere nei suoi confronti. Nel 1994, i confronti giudiziari tra Tommaso Buscetta e alcuni mafiosi e le continue rivelazioni fatte dai pentiti ai magistrati antimafia suscitavano una serie di polemiche e contrasti in seno al Parlamento sull'opportunità di una riforma della legge sui pentiti. Nel marzo 1995 un nuovo gesto intimidatorio da parte della m. nei confronti dei pentiti suscitava grande scalpore: veniva ucciso Domenico Buscetta, nipote di Tommaso. A distanza di pochi mesi veniva arrestato Leoluca Bagarella, cognato del superboss mafioso Totò Riina, diventato il numero uno della m. dopo l'arresto di quest'ultimo. Nello stesso anno le rivelazioni del pentito Vincenzo Scaratino permettevano di individuare esecutori e mandanti dell'omicidio di Paolo Borsellino. Nel settembre 1995, nell'aula bunker dell'Ucciardone di Palermo, prendeva avvio il processo per m. contro Giulio Andreotti, che si sarebbe, peraltro, concluso con l'assoluzione dell'imputato. Per completare l'attacco ai vertici di Cosa Nostra e dei Corleonesi, iniziata con la cattura di Totò Riina, nel maggio 1996 veniva arrestato il responsabile dell'omicidio di G. Falcone, Giovanni Brusca, sospettato di essere anche coinvolto nelle stragi di Roma, Firenze e Milano del 1993.