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ITINERARI - IL MONDO ATTUALE - STORIA - TERZO E QUARTO MONDO

LA FINE DEGLI IMPERI COLONIALI


Nei primi anni Trenta un economista tedesco definì «decolonizzazione» il movimento di liberazione dei Paesi coloniali asiatici e africani dalla subordinazione politica ed economica alle potenze colonizzatrici europee: un fenomeno che aveva preso a svilupparsi in Asia all'indomani della Prima guerra mondiale, ma che si è realizzato, sempre a partire dall'Asia, solo in questo dopoguerra.
Tanto in Asia quanto in Africa (dove la decolonizzazione iniziò solo negli anni Cinquanta) la Seconda guerra mondiale indebolì le resistenze colonialiste: sia perché le potenze alleate dovettero fare esplicite promesse di autonomia, di indipendenza, o almeno di revisione dello statuto di dipendenza, per ottenere la collaborazione dei popoli coloniali allo sforzo bellico; sia perché le stesse amministrazioni coloniali, almeno nell'Asia sudorientale, vennero travolte dalla sconfitta militare degli Europei e dall'appoggio dei Giapponesi ai nazionalismi birmano e indonesiano contro Inglesi e Olandesi. Perciò in Asia le potenze coloniali o onorarono gli impegni presi prima della guerra e durante la guerra (come nel caso dell'India), o riconobbero lo stato di fatto creato dalla guerra (come nel caso della Birmania, oggi Myanmar); quando poi tentarono di riconquistare con le armi le colonie perdute (come in Indonesia e in Indocina) vennero battute.
Come risultato di questo processo, alla metà degli anni Cinquanta quasi tutta l'Asia era indipendente (la Gran Bretagna concesse l'indipendenza alla Malesia nel 1957, dopo avervi represso una rivolta contadina organizzata dal partito Comunista; le sole colonie europee rimaste in Asia erano Hong Kong e Macao, che Inglesi e Portoghesi, rispettivamente, restituirono alla Cina nel 1997 e nel 1999). Per lo più asiatici erano perciò i Paesi che si riunirono nel 1955 a Bandung, in Indonesia, per una conferenza che impose all'attenzione del mondo lo schieramento dei Paesi «non allineati» o «non impegnati». Alla conferenza partecipò tuttavia, e con un ruolo importante, anche la Cina popolare, allora nettamente schierata con il blocco sovietico. Ma proprio la Cina, per bocca del suo rappresentante Zhou Enlai, propose un tema carico di avvenire: il rapporto tra Paesi industrializzati dell'Europa e del Nord America, e Paesi poveri dell'Asia e dell'Africa (e per estensione dell'America latina, o almeno di una parte di essa), ovvero il conflitto mondiale tra le «città» sfruttatrici e le «campagne» sfruttate, secondo un paragone ripreso dalla strategia rivoluzionaria cinese. Benché l'Unione Sovietica dichiarasse allora la propria simpatia per i Paesi neutrali o «non allineati», a molti dei quali ha in vari tempi accordato prestiti per lo sviluppo e aiuti tecnici, le implicazioni della posizione cinese emersero all'inizio degli anni Sessanta, quando i cinesi inclusero anche l'Urss, accusata di «egemonismo», nelle «città».
Negli anni Cinquanta il movimento di decolonizzazione si estese dall'Asia all'Africa. Qui la guerra restituì l'indipendenza anzitutto alle ex colonie italiane: immediatamente l'Etiopia, più tardi Libia (1951) e Somalia (1960). La Gran Bretagna concesse l'indipendenza al Sudan (che aveva amministrato in condominio con l'Egitto) nel 1956; l'anno dopo il Ghana di Nkame Nkrumah fu la prima delle ex colonie dell'Africa subsahariana a diventare indipendente; fra il 1960 (Nigeria) e il 1965 (Gambia) il grosso dell'Impero coloniale britannico fu smantellato; soltanto i piccoli Stati del Lesotho e dello Swaziland ottennero l'indipendenza un po' più tardi, nel 1966 e nel 1968. Ma la resistenza alla decolonizzazione da parte dei coloni bianchi si manifestò, per contraccolpo, nella secessione della Rhodesia del Sud, che abbandonò il Commonwealth britannico nel 1965 per costituirsi in Repubblica governata dalla minoranza bianca; questo regime, diretto da Ian Smith, tenne testa per quasi un quindicennio ai movimenti di guerriglia neri; la rinuncia alla secessione e poi il passaggio all'indipendenza del nuovo Stato (denominato Zimbabwe), diretto dalla maggioranza nera, avvenne solo nel 1979-1980. La Rhodesia riuscì a resistere a lungo grazie anche all'appoggio ricevuto dal vicino Sudafrica. Questo Stato, abitato da una maggioranza nera ma dominato dalla minoranza bianca, era entrato a far parte dell'Impero britannico nel 1902, dopo che i coloni bianchi di origine olandese detti «boeri» erano stati sconfitti militarmente dalla Gran Bretagna. Nel Sudafrica coesistevano perciò, oltre a una maggioranza (oltre tre quarti della popolazione) di neri, per altro divisi in etnie non sempre concordi, una minoranza bianca (circa un quinto) divisa a sua volta in una componente di lingua inglese e in una, più numerosa, di lingua afrikaan (i boeri), e altre minoranze di meticci e asiatici, generalmente immigrati dall'India. Nel 1948 assunse il potere il partito rappresentante la minoranza boera, che rafforzò un regime di segregazione razziale tra bianchi e neri, denominato apartheid. Nel 1961 il Sudafrica abbandonò anche il Commonwealth britannico, costituendosi in Repubblica indipendente, controllando militarmente e politicamente l'intera Africa meridionale, proteggendo la Rhodesia secessionista, occupando sino al 1989 il territorio (ricchissimo di risorse minerarie) della Namibia, ingerendosi nelle vicende delle ex colonie portoghesi di Angola e Mozambico, e alleggerendo abilmente le proprie tensioni interne con il dare una formale autonomia amministrativa a province abitate da neri ma soggette al Governo sudafricano (le Black homelands o Bantustans), e con il costituire fra il 1976 e il 1981 quattro veri e propri Stati formalmente indipendenti ma subordinati. Il regime segregazionista sudafricano venne sempre condannato a parole dalla comunità internazionale e sottoposto dalla fine degli anni Settanta a sanzioni economiche (per altro largamente disattese) da parte di molti Paesi dell'Onu. Ma le grandi risorse del sottosuolo (oro, diamanti), e la posizione strategica, che assicurò al Governo sudafricano il sostegno dei Paesi occidentali, gli permisero di mantenersi a lungo in un apparente isolamento. Solo nel corso degli anni Ottanta la ripresa di movimenti di protesta della maggioranza nera, repressi con la legge marziale, logorò la coesione della minoranza bianca, il cui leader de Klerk nel 1989 fece liberare dal carcere il principale esponente del movimento di opposizione nera, Nelson Mandela.
Nel 1991 la cauta ma continua politica del governo de Klerk operò nello smantellare la legislazione dell'apartheid e sempre nello stesso anno gli Usa abrogaronono le sanzioni contro il Sudafrica. In riconoscimento dell'opera svolta, de Klerk e Mandela vennero insigniti nel 1992 del premio Unesco per la pace, seguito, nel 1993, dal premio Nobel. Il cammino verso l'integrazione razziale conobbe ancora difficoltà e tensioni, ma la spirale di segregazione e violenza era stata, definitivamente, spezzata. Nel 1994 Nelson Mandela venne eletto presidente del Paese, carica che mantenne fino al 1999, anno delle sue dimissioni.
La decolonizzazione francese ebbe non solo ritmi e modalità assai diverse da quella inglese, ma a differenza di questa, si ripercosse anche sul Paese colonizzatore. Essa iniziò nel Nordafrica, dove nel 1956 il Marocco (mai stato formalmente una colonia, ma un protettorato) e la Tunisia divennero indipendenti, sotto regimi rimasti legati alla Francia. In Algeria, la prima colonia francese nel Maghreb, incorporata nel 1875 al territorio metropolitano, esisteva invece una numerosa comunità di Europei (Francesi, Spagnoli, Italiani: oltre un milione su circa dieci milioni di abitanti), soprannominati “pieds noirs’’. La lotta della maggioranza musulmana per l'indipendenza prese la forma di una vera e propria guerriglia (1954), seguita da campagne terroristiche sia nelle città algerine sia in Francia, e brutalmente combattuta con rastrellamenti e torture dall'esercito francese. L'opposizione della destra nazionalista francese ad ogni trattativa con gli indipendentisti algerini sfociò in un colpo di Stato che riportò al potere in Francia il generale de Gaulle (1958). Egli, però, contro le aspettative dei fautori della sua ascesa, negoziò l'indipendenza dell'Algeria (1962), invano contrastata dalla sanguinosa campagna di attentati lanciata da un'organizzazione terroristica, l'Oas, costituita tra i coloni francesi e i loro sostenitori in patria. I “pieds noirs’’ abbandonarono in massa l'Algeria indipendente, dove tre anni dopo il leader indipendentista Ben Bella fu rovesciato dal capo dell'esercito, Boumedienne, rimasto poi al potere sino alla morte (1978), e fautore di uno sviluppo pianificato e rigidamente autoritario.
Alla morte di Boumedienne divenne presidente dell'Algeria Chadi Bendjedid che rimase al potere fino all'inizio del 1992 quando si dimise. Sotto la sua presidenza si manifestarono violentemente le contrapposizioni tra lo Stato laico e le forze dell'islamismo integralista che avrebbero voluto dare al Paese una connotazione religiosa accentuata; lo stesso Ben Bella, rientrato in Algeria dopo quindici anni di prigionia e dieci di esilio, spinse con infiammati discorsi gli integralisti ad iniziare la guerra santa e a sostenere Saddam Hussein contro gli Americani. In questo scontro l'esercito si schierò a sostegno dello Stato e appoggiò la decisione di invalidare i risultati delle elezioni del 1992 che avevano dato la vittoria agli integralisti.
Intanto cresceva la tensione e aumentavano gli omicidi; gli integralisti islamici colpirono tutte le manifestazioni che a loro parere potevano corrompere la tradizione musulmana: ne restarono vittime intellettuali, ma anche uomini di spettacolo e cantanti che vennero. In un clima di guerra civile, nel 1994 il generale in pensione Liamine Zeroual, nominato presidente dall'Alto Consiglio di Sicurezza con un'insolita procedura, tentò una politica di riconciliazione verso gli integralisti. Cinque anni più tardi, dopo essere stato confermato da elezioni, si dimise: al suo posto venne eletto Abdelaziz Bouteflika che cercò immediatamente un accordo con i membri del Fronte di salvezza islamica (e con il suo braccio armato) procedendo alla concessione di decine di procedimenti di grazia. Ciò nonostante frange contrarie all’accordo continuarono a terrorizzare il Paese, e in special modo la minoranza berbera, con cruente azioni omicide.
Nel resto dell'Africa i Francesi pilotarono accortamente la liquidazione del loro Impero, istituendo nel 1958 una «Comunità francese» nella quale alla metropoli erano associati 12 Paesi africani già colonie (solo la Guinea chiese l'indipendenza immediata); ma nel 1960 la comunità fu sciolta, e tutti i Paesi divennero indipendenti, negoziando nello stesso tempo il mantenimento di legami economici, cioè di sostanziale dipendenza, con la Francia.
Sempre nel 1960, e sulla scia delle iniziative francesi, il Belgio concesse repentinamente l'indipendenza alla colonia del Congo. Territorio tanto ricco di materie prime e minerali preziosi quanto vasto, il Congo alla fine dell'Ottocento fu sfruttato direttamente dalla corona belga con una brutalità che scandalizzò l'opinione pubblica europea e in seguito venne male amministrato dallo Stato belga, che non preparò in alcun modo, a differenza della Gran Bretagna e in misura minore della Francia, il passaggio della colonia all'indipendenza. La proclamazione della Repubblica congolese aprì immediatamente un confuso conflitto di tendenze unitarie e federaliste, rivalità etniche, ambizioni personali dei leader locali, maneggi dei gruppi di interesse belgi (l'Union Minière, soprattutto) per continuare a controllare il Paese, e soprattutto la provincia mineraria del Katanga (che fu governata sino al 1964 da un Governo secessionista).
Il leader unitario e progressista Patrice Lumumba fu assassinato (1961); il potere fu assunto da un militare, Joseph Mobutu, che con l'aiuto degli occidentali riprese gradualmente il controllo di tutto il Paese. Alla fine degli anni Novanta però si scatenò una guerra civile che vide la caduta di Mobutu e l’ascesa di Laurent-Derisé Kabila, oltre alla rinomina del Paese, divenuto nel frattempo Zaire, in Repubblica Democratica del Congo. La situazione andò peggiorando, con il continuo coinvolgimento di Ruanda, Uganda, Zimbabwe, Namibia e Angola, e nel 2001 Kabila venne assassinato: fu sostituito dal figlio. Statistiche stilate dall’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati stabilirono che dal 1998 al 2001 persero la vita circa 2,5 milioni di persone direttamente o indirettamente interessate dal conflitto.
I possedimenti spagnoli in Africa divennero indipendenti fra il 1968 (Guinea Equatoriale) e il 1975 (Sahara occidentale spagnolo e Rio de Oro); ma contro la volontà, accolta dagli Spagnoli, del Marocco e della Mauritania di spartirsi questi ultimi territori, semispopolati, ma ricchi di fosfati, insorse la guerriglia delle popolazioni indigene, organizzate dal fronte Polisario. La guerriglia ebbe successo contro la Mauritania; il Marocco riuscì invece a stabilizzare l'occupazione della costa e dei centri minerari.
L'ultimo grande impero coloniale europeo in Africa a tramontare fu quello portoghese, comprendente la Guinea Bissau e le isole di Capoverde, l'Angola e il Mozambico. Questi possedimenti regalavano al Portogallo, povero e soggetto al regime reazionario e clericale di Salazar, un'illusione di grandezza fondata sullo sfruttamento degli uomini e delle risorse indigene a beneficio di poche compagnie e grandi proprietari. La lotta armata indipendentista, sviluppatasi prima e soprattutto nella Guinea e in Angola, gravò sull'economia del Portogallo, privo dei mezzi militari e finanziari per combattere la guerriglia, e soprattutto generò nelle stesse forze armate (di leva) incaricate di reprimerla una presa di coscienza dell'ingiustizia della guerra in corso in colonia e del fallimento del regime in patria. L'esercito portoghese abbatté il regime del successore di Salazar, Caetano, e concesse immediatamente l'indipendenza alle colonie (1974-1975). Dove, come in Guinea, esisteva un movimento politico organizzato, il trapasso fu facile; nel Mozambico contro il nuovo Governo si scatenò subito la guerriglia condotta dalle forze indigene già al servizio dei Portoghesi e successivamente sostenute dal Sudafrica: e sino a tutti gli anni Ottanta proprio il Sudafrica esercitò un virtuale protettorato sul Paese; in Angola, la colonia più ricca, tre movimenti indipendentisti rivali si contesero il potere, che fu assunto dall'Mpla, di orientamento vagamente marxista e il solo che non avesse una base prevalentemente tribale. A sostegno di uno degli altri movimenti, l'Unita, forte tra gli abitanti dell'interno, intervenne il Sudafrica, mentre a sostegno del nuovo Governo una forza di spedizione cubana appoggiata dall'Urss (1977). Come risultato, anche dopo il ritiro delle forze straniere, l'Angola è rimasto diviso, impoverito dalla guerra civile. Il fallimento dei tentativi di applicare forme di pianificazione e statalizzazione della produzione e del commercio, a imitazione del modello sovietico, costrinse i governanti angolani (come del resto quelli delle altre ex colonie portoghesi) a cercare il sostegno dei Paesi ricchi dell'Occidente.
Nel 1992 si ha la storica svolta che porta le forze in lotta a siglare a Lisbona un accordo che pone fine alla guerriglia. Sembra raggiunta finalmente la pace dopo 16 anni di lotte, ma le successive elezioni presidenziali e legislative diventano l'occasione per riaccendere la guerra civile. L'Unita contestando i dati riprende le armi contro il governo di Luanda; la guerriglia si riaccende, ma sembra che l'Unita sia isolata; alla fine del 1993 gli Americani decidono di riconoscere il Governo di Luanda. Ciò nonostante si assistette al persistere delle tensioni che, nel 1998, si tradussero nella ripresa delle ostilità all’interno delle diverse fazioni nazionali.
Il Mozambico aveva conosciuto una situazione analoga a quella dell'Angola, spaccato tra le forze governative del Frelimo, appoggiato dall'Urss da Cuba, e il movimento della Renamo, sostenuto dal Sudafrica; per 16 anni il Paese era stato sconvolto dalla guerriglia finché le due fazioni non firmarono gli accordi di Roma del 1992 con cui si poneva fine allo stato di guerra. L'Onu era incaricato di controllare il processo che avrebbe dovuto portare a libere elezioni.

IL NUOVO COLONIALISMO


Mentre in Asia gli Europei avevano per lo più sovrapposto la loro autorità a strutture statali preesistenti (in India, ad esempio, gli Inglesi avevano lasciato buona parte del territorio sotto il governo formale dei sovrani locali; in Malesia avevano semplicemente subordinato politicamente i sultanati indigeni), nell'Africa nera avevano operato come in un vuoto, dividendo territori ed aggregando popolazioni in modo arbitrario. Perciò, benché il problema della decolonizzazione fosse stato originariamente dibattuto a proposito dell'Asia, esso fu sentito particolarmente dagli Africani. Alle correnti panasiatiche (tendenti cioè a sottolineare le comunanze di interessi e contatti tra i popoli asiatici), sorte tra le avanguardie intellettuali e politiche anticolonialiste in risposta alla cultura europea, corrisposero nell'Africa a Sud del Sahara un orientamento panafricanista e nel mondo arabo quello panarabo. Il panafricanismo rappresentava per tutti i Paesi dell'Africa nera un tentativo di ritrovare solidarietà, affinità, e radici culturali che la dominazione coloniale aveva cercato di cancellare, imponendo sulle lingue e i dialetti indigeni le lingue europee, (francese, inglese, portoghese), introducendo il cristianesimo nelle sue diverse denominazioni, orientando correnti di traffico e linee di comunicazione in funzione degli interessi delle potenze coloniali.
Il colonialismo, manifestando la superiorità tecnica del mondo occidentale, aveva provocato nei Paesi colonizzati il desiderio di assorbire quanto della cultura occidentale era necessario per assicurare la crescita economica, e nel contempo la volontà di difendere, contro la occidentalizzazione, le tradizioni culturali locali. Il problema della ricostruzione di un'identità culturale è stato avvertito non tanto nei Paesi asiatici o in quelli del Medio oriente islamizzato, dalle tradizioni culturali forti (tra gli stessi colonialisti occidentali è sempre esistita una corrente di attrazione per il mondo islamico), quanto, di nuovo, dai Paesi dell'Africa nera, dove la dispersione di quelle tradizioni ad opera del colonialismo è stata fortissima. D'altra parte, a questa difesa contrastano sia l'obiettiva utilità dell'adozione della cultura e della lingua dell'ex potenza coloniale, di fronte alla frammentazione delle culture e delle lingue indigene, sia la già ricordata artificialità di tante costruzioni statali, e l'estrema difficoltà a tradurre in atto le generiche aspirazioni alla solidarietà tra i diversi Stati di una medesima area culturale.
Persino nel mondo arabo mediorientale, accomunato da secoli di sottomissione politica alla stessa potenza (l'Impero ottomano), e frammentato soltanto fra la prima metà dell'Ottocento (indipendenza dell'Egitto) e la Prima guerra mondiale (fine dell'Impero ottomano e divisione dei domini turchi in mandati della Gran Bretagna e della Francia), i progetti di unificazione sono regolarmente falliti, anche perché motivati da ragioni propagandistiche e dalla ricerca di prestigio internazionale di questo o quel leader. Nel 1958 l'Egitto di Nasser costituì con la Siria un'effimera Repubblica araba unita, alla quale si sarebbe dovuto unire anche l'Iraq, e che fu invece sciolta nel 1961. Più recentemente ancora, in momenti diversi, sia il presidente egiziano Sadat sia quello siriano Assad (fautori di politiche opposte) annunciarono clamorosi, e nemmeno attuati, progetti di unione con la Libia. Siria e Iraq, Paesi governati da due distinte branche del partito Baas (inizialmente un partito nazionalista progressista di stampo socialista), furono per decenni in forte conflitto.
La tendenza prevalente è stata semmai quella di dividere ulteriormente gli Stati nati dalla decolonizzazione: dal Pakistan si è staccato, dopo una guerra civile e l'intervento dell'India, il Bangladesh (1971). Il Sudan comprende un Nord musulmano e un Sud nero, cristiano e animista, rimasti uniti soprattutto perché i ribelli del Sud non sono mai stati abbastanza forti da vincere le truppe governative che li hanno sempre repressi (dal 1983, anno della ripresa del conflitto iniziato nel 1962 e interrotto per 11 anni dal 1972, anno del trattato di pace che riconosceva il diritto della regione meridionale all’autogoverno, oltre un milione di persone persero la vita e quattro milioni furono costrette a fuggire a causa della guerra civile).
Soprattutto in Africa, perciò, la conquista dell'indipendenza non comportava affatto l'acquisizione della piena capacità da parte delle ex colonie di decidere il proprio assetto e di disporre delle proprie risorse. Già a Bandung Zhou Enlai aveva additato il pericolo del «neocolonialismo»: dell'instaurazione, cioè, di una forma indiretta di dominazione consistente non nella conquista armata, nell'amministrazione diretta dei territori e nell'espropriazione forzata delle risorse, ma nella sostanziale dipendenza dell'ex colonia dall'Occidente industrializzato (e magari dalla ex potenza coloniale) attraverso accordi economici e commerciali vantaggiosi solo per la parte più forte.
In effetti, gli aiuti concessi dai Paesi industrializzati alle loro ex colonie sotto forma di prestiti e di assistenza tecnica hanno perpetuato l'indebitamento di queste, vincolandone le politiche economiche e commerciali agli obblighi verso i creditori.

TERZO MONDO E TERZOMONDISMO


L'emergere dei Paesi ex coloniali ha imposto una riclassificazione della geografia politica ed economica del globo. Se di fronte ai blocchi molti di questi Paesi erano, o volevano presentarsi, come non allineati, anche rispetto al modello capitalistico occidentale e al modello sovietico rappresentavano complessivamente una realtà diversa. Erano i Paesi non industrializzati, né al modo delle economie di mercato né al modo statalistico dell'Urss: le «campagne», appunto, terre di una povertà per lo più precedente lo stesso sfruttamento industriale, società tradizionali scarsamente alfabetizzate e contraddistinte dalla persistenza di mentalità, modi di vita, forme e strumenti di lavoro, culture estranee tanto al mondo capitalista quanto al mondo comunista. Un Terzo mondo, quindi, compreso con difficoltà dagli occidentali, inclini a considerarlo al più come lo stadio arretrato e provvisorio di uno sviluppo economico inevitabile e pensato secondo i modelli dell'industrializzazione europea o nordamericana, ma con altrettanta difficoltà compreso dai Sovietici, pronti a fornire l'assistenza tecnica necessaria per costruire acciaierie, strade e dighe (la grande diga di Assuan, in Egitto, inaugurata nel 1964, fu forse la più colossale tra le realizzazioni sovietiche nel mondo afroasiatico), premesse tutte ad una altrettanto inevitabile modernizzazione socialista. Un Terzo mondo, spesso, poco apprezzato dagli stessi intellettuali e dirigenti politici dei Paesi liberatisi dal colonialismo, generalmente formatisi o nelle università della potenza coloniale (il tunisino Burghiba e il senegalese Senghor) o, se appartenenti alle avanguardie comuniste, negli anni di esilio più imprevedibili e talvolta avventurosi (Ho Chi Minh restò trent'anni lontano dal Vietnam, tra Parigi, Mosca e la Cina), protesi comunque a realizzarne la modernizzazione, quando non disponibili a lasciarne perpetuare lo sfruttamento in forme nuove. Un Terzo mondo, infine, che sotto il peso della nuova dipendenza economica vedeva associati ai Paesi appena liberi dal colonialismo anche quelli dell'America latina politicamente indipendenti dall'Ottocento, ma dipendenti di fatto dall'economia europea occidentale e statunitense. Del resto, in molti di questi Paesi ristrette élite discendenti in buona parte dai colonizzatori bianchi governavano su popolazioni indigene scarsamente alfabetizzate e poverissime, riproducendo il modello tradizionale delle società coloniali. Proprio nei Paesi latino-americani si è sviluppata in ambienti della sinistra cattolica (laica, ma in qualche caso anche ecclesiastica, rappresentata soprattutto da esponenti del clero regolare, cioè degli ordini religiosi; la gerarchia secolare ha rappresentato invece a lungo un solido puntello delle élite conservatrici) un'analisi della dipendenza economica del mondo ex coloniale non lontana dalle analisi condotte dagli intellettuali di provenienza marxista. Il «terzomondismo», inteso come attenzione alla realtà della divisione del mondo in due aree complessivamente separate (un'area ricca ed una povera, una sfruttatrice ed una sfruttata), per quanto attinga concetti e strumenti di analisi dalla teoria marxista, pone l'accento sul fatto che i Paesi sfruttatori sono nel loro complesso - compresa quindi la classe operaia - debitori del proprio benessere al dominio esercitato sui Paesi sfruttati. Si tratta di un orientamento intellettuale sviluppato dalla sinistra cristiana occidentale (in particolare di cultura francese) e da correnti eterodosse della sinistra marxista negli anni Cinquanta, e confluito un decennio dopo nel crogiolo intellettuale della nuova sinistra europea. Una sensibilità «terzomondista» ha continuato a caratterizzare la Chiesa cattolica anche nelle sue espressioni ufficiali: sia durante il pontificato di Paolo VI (1963-1978), sia durante quello di Giovanni Paolo II (dal 1978), che ha insistentemente fatto riferimento alla divisione tra «Nord» e «Sud» del mondo, intesi come metafore dei Paesi ricchi industrializzati e dei Paesi poveri. Una sensibilità che è diventata corrente di pensiero alla fine degli anni Novanta con la creazione di movimenti raggruppabili sotto la formula del Social Forum, ovvero della formazione sociale composita, inter-politica e inter-religiosa, avente come obiettivo comune la realizzazione di progetti caratterizzati da equità morale e solidale in ambito mondiale oltre alla risoluzione di problematiche legate alla disparità economico-sociale tra i popoli.

LE CONTRADDIZIONI DELL'INDIPENDENZA


In quasi tutti i Paesi del Terzo mondo giunti all'indipendenza o dove ha vinto un movimento rivoluzionario, le forze protagoniste della lotta indipendentista hanno teso a trasformarsi in un gruppo di potere esclusivo, attraverso l'instaurazione di un sistema politico a partito unico. Il formarsi di apparati burocratici e militari ha avuto anche come conseguenza l'irrigidimento delle strutture statali esistenti al momento dell'indipendenza, e quindi il perpetuarsi delle frontiere coloniali, il fallimento di ogni progetto federativo e il soffocamento delle spinte indipendentiste delle regioni e delle etnie minoritarie o periferiche, o distinte per religione e lingua.
Durante la dominazione coloniale le potenze europee avevano addestrato e incorporato nelle strutture militari e burocratiche, a livelli subordinati, elementi provenienti dai popoli dominati o colonizzati. E come il successo delle potenze coloniali si era fondato in larga misura sulla capacità di sfruttare le divisioni e le rivalità esistenti nelle società asiatiche e africane, così la resistenza del sistema coloniale si era basata sull'inserimento di alcune etnie nelle strutture burocratiche e militari. Gli Inglesi soprattutto applicarono il criterio di favorire le «etnie guerriere», cioè i popoli che avevano inizialmente opposto maggiore resistenza alla loro penetrazione o che si erano dimostrati leali nei momenti cruciali della conquista: i Sikh in India, gli Zulu nel Sudafrica, gli Ibo in Nigeria, i Kachin in Birmania (Myanmar), i Tamil a Ceylon (Sri Lanka). I nemici più pericolosi, soprattutto se rappresentavano delle minoranze, vennero gratificati di un ruolo di rilievo nelle forze di polizia e militari e nelle amministrazioni coloniali, a danno delle etnie maggioritarie. Queste sono state d'altra parte le protagoniste dei movimenti di indipendenza, conseguita la quale hanno occupato i posti di comando, respingendo spesso in posizione subordinata i privilegiati del sistema coloniale. L'indipendenza ha perciò avuto come conseguenza l'esplosione, soprattutto in Africa, di conflitti etnici e tribali e tentativi di separazione che sono stati soffocati nel sangue e comunque mai accettati in via di principio. L'Organizzazione per l'unità africana, un organismo che riunisce tutti i Paesi indipendenti del continente, ha sempre sostenuto le ragioni dei governi contro i ribelli separatisti, sulla base della considerazione che, vista l'artificialità, se non di tutte, di molte frontiere postcoloniali, ogni riconoscimento rappresenterebbe un incoraggiamento alla disgregazione dei nuovi Stati.
Di fatto, però, il Sudan è travagliato sin dal momento dell'indipendenza dalla rivolta delle regioni meridionali, nere e non islamizzate, contro il Governo centrale; in Nigeria il tentativo secessionista dell'etnia Ibo è stato soffocato a prezzo di una spaventosa guerra civile (1965-1967); nell'Angola divenuta indipendente la persistenza della guerra civile è stata favorita dalle basi etniche dei movimenti di guerriglia antigovernativi.
Attualmente nello Sri Lanka la minoranza tamil è in lotta contro la maggioranza cingalese per costituire uno stato separato nel Nord dell'isola.

L'AMERICA MINORE


Politicamente indipendente dall'inizio dell'Ottocento, l'America latina è rimasta dipendente sul piano economico dai centri del sistema capitalistico, Europa e Stati Uniti. Sin dal secolo scorso, anzi, gli Stati Uniti si sono imposti come il punto di riferimento politico di tutto il continente americano. Tuttavia, sino a Novecento inoltrato gli investimenti europei in America latina (inglesi soprattutto, ma anche tedeschi, francesi, belgi) sono stati più rilevanti di quelli statunitensi; e dagli anni Sessanta le imprese multinazionali europee e giapponesi hanno ripreso a investire in misura pari o superiore a quella delle multinazionali Usa. Gli Usa hanno però sempre badato a mantenere il controllo politico-strategico del continente, a prescindere dall'importanza degli interessi economici direttamente in gioco: il colpo di Stato militare in Cile nel 1973, ad esempio fu aiutato dagli Usa soprattutto per impedire la diffusione nel continente di una formula politica sgradita e per riaffermare la «sovranità limitata» dei Paesi latino-americani.
Dopo la Seconda guerra mondiale quasi ovunque nel continente sono state avviate politiche di industrializzazione, di ammodernamento agricolo (le «rivoluzioni verdi») e di allargamento del mercato interno. Con esiti diversissimi, date le diverse basi di partenza e le diseguali risorse produttive ed umane a disposizione di ciascun Paese.
Il Messico, teatro già fra gli anni Dieci e gli anni Trenta di questo secolo di una rivoluzione modernizzatrice sfociata in un regime autoritario (ma progressista in politica estera), ha sviluppato una sorta di complementarità economica con gli Usa, primo partner commerciale del Paese. Nelle regioni messicane a ridosso della frontiera si è formata una rete di attività industriali sussidiarie di quelle statunitensi. Gli Stati Uniti sono inoltre la meta di un flusso continuo e massiccio di emigranti (chicanos) da un Paese in costante crescita demografica. L'esodo, che ha fornito manodopera a basso costo all'economia agricola e industriale di intere regioni degli Usa, ha contribuito a dissimulare le tensioni sociali, che i programmi di sviluppo promossi dal Governo del presidente Echeverria con le entrate del petrolio negli anni Settanta non hanno allentato. Alla lunga, la modernizzazione autoritaria diretta dal partito da decenni al potere (autodefinitosi, senza ironia, «rivoluzionario istituzionale») ha fatto crescere le insofferenze, rivelate dall'aumento dei consensi, da un lato per la coalizione delle sinistre e dall'altro per un partito francamente conservatore e liberista.
Alcune delle contraddizioni economiche e sociali del Messico sembrarono esplodere nel 1993 con la rivolta nello stato di Chiapas dei braccianti senza terra, i campesinos. Questi richiamandosi alla figura di Zapata hanno dato vita ad una dura contestazione che è stata repressa sanguinosamente. L'impressione per questo eccidio fu molto forte in tutto il mondo; lo stesso Governo messicano scelse la via del dialogo e favorì una soluzione politica. Gli zapatisti, come si chiamarono i rivoltosi, decisero di appoggiare il candidato della sinistra nelle elezioni del 1994, ma queste vennero vinte ancora una volta dal candidato governativo, Ernesto Zedillo, tredicesimo presidente di un partito che in Messico era al potere da 65 anni. L'anno successivo il Governo e l'Esercito zapatista trovarono un accordo che prometteva maggiore autonomia alla popolazione indigena del Chiapas, ma nel 1996 gruppi armati rivoluzionari nel Sud del Paese attaccarono truppe governative, provocando una reazione militare che, nel 1997, provocò la morte di 45 indiani in un villaggio del Chiapas. L'avvenimento venne deplorato dall'opinione pubblica internazionale e il presidente Zedillo fu costretto a iniziare una serie di indagini che portarono alle dimissioni del governatore del Chiapas. Nel 2000, per la prima volta dal 1926, un rappresentante del partito di opposizione Alleanza per il cambiamento, Vicente Fox, venne eletto presidente. L'anno seguente fu possibile a un folto gruppo di guerriglieri zapatisti, guidati dal Subcomandante Marcos e sostenuti da moltissime organizzazioni internazionali e straniere, di marciare dal Chiapas a Città del Messico per presentare ufficialmente al Governo le loro richiese. Il Governo approvò allora una legge a favore della popolazione indigena che venne però rifiutata proprio da Marcos perché considerata poco incisiva e, con la sua esistenza, pericolosamente conclusiva. Lo sforzo governativo continuò e, nel novembre 2001, un mese dopo l'omicidio di Digna Ochoa, avvocato per i diritti umani, il presidente Fox istituì una commissione d'inchiesta per far luce sulla scomparsa di molti attivisti di sinistra durante gli anni Settanta e Ottanta.
Dove il sistema di controllo politico interno non era così solido e strutturato come in Messico, il fallimento dei programmi di sviluppo economico sostenuti dai crediti Usa ha accentuato i contrasti interni, moltiplicato i focolai di guerriglia e in seguito le situazioni di guerra civile. Sinché alcuni Paesi latino-americani (Colombia, Perù e Bolivia soprattutto), caratterizzati da una forte componente indiana e contadina, non avvantaggiata neppure dalle riforme agrarie attuate negli anni Sessanta e Settanta, hanno finito per trovare nella droga una delle principali voci di esportazione, ancorché illegale e controllata da organizzazioni criminali. In Colombia una lunga tradizione di violenza politica e di frammentazione è degenerata fra gli anni Ottanta e Novanta in una vera e propria guerra tra le organizzazioni criminali monopolizzatrici del traffico di droga e le autorità, sostenute dagli Usa, preoccupati per i guasti sociali prodotti dal consumo di droga nel loro Paese.
In questo senso un risultato di notevole importanza è stato raggiunto alla fine del 1993 con la scomparsa di Pablo Escobar a cui faceva capo la rete di produzione e smercio della droga e che ha trovato la morte in uno scontro a fuoco con la polizia colombiana. Nel 1995 Ernesto Samper Pizano, liberale, venne eletto presidente, sostituito tre anni più tardi dal conservatore Andres Pastrana Arango, impegnatosi a iniziare una serie di colloqui con i guerriglieri ai quali offrì una zona franca nel Sud, nella quale l'esercito ufficiale non aveva giurisdizione. Se ufficialmente la situazione colombiana avrebbe potuto stabilizzarsi, in realtà frange paramilitari di destra continuarono a imperversare nell'enclave protetta, dove, peraltro, si perpetravano crimini quali rapimenti, esecuzioni sommarie, ecc. Pastrana si mostrò comunque disposto a continuare a mantenere la zona franca, decisione che mantenne fino al febbraio 2002, quando accusò i guerriglieri di aver dirottato un cargo e ordinò loro di lasciare la zona. Le violenze continuarono (rapimento del candidato alla presidenza Ingrid Betancourt, uccisione di un senatore e di un vescovo), ostacolando il piano di lotta alla droga messo a punto con la partecipazione attiva del Governo degli Stati Uniti. Nel maggio dello stesso anno venne eletto alla presidenza Alvaro Uribe, avvocato liberale deciso a porre fine all'annosa questione colombiana.
L'inquieta America insulare è tornata alla ribalta negli anni Ottanta e Novanta in seguito al precipitare della situazione politica ad Haiti. Qui si era impiantata la dinastia dei Duvalier (padre e figlio) che per decine di anni avevano esercitato un potere dittatoriale; alla fine del 1990 trionfò in libere elezioni l'ex prete Jean Bertrand Aristide. Un tentativo di colpo di stato messo in atto da militari della vecchia guardia costrinsero subito dopo Aristide a fuggire in esilio e a chiedere l'intervento internazionale per ritornare nell'isola. Gli Stati Uniti decisero di appoggiarlo (Aristide era si era frattanto stabilito a Washington), ma l'intervento venne deciso solo dal presidente Clinton alla fine del 1994 tra timori e lentezze. Nel 1995 truppe statunitensi vennero mantenute sull'isola per garantire il manetnimento della pace: René Preval venne eletto presidente al posto di Aristide, carica che mantenne fino al 2000 quando, terminato il suo mandato, e terminato anche il periodo di presidenza per decreto, venne sostituito proprio da un rieletto Aristide. Nel 2001 si assistette a diversi tentativi di colpi di Stato, scoperti ancora in nuce, ma rivelatori del clima di incertezza e precarietà ancora presenti nel Paese.
In Cile, un Paese meno di altri travagliato dall'intervento dei militari nella politica nel corso del Novecento (ma la tradizione parlamentare cilena era in buona misura una mistificazione), il Governo riformatore del presidente Salvador Allende (1970-73) venne abbattuto da un sanguinoso colpo di Stato, al quale seguì la dittatura del generale Pinochet. Solo nel 1990, dopo aver sperimentato una gestione dell'economia ispirata a dottrine liberistiche che accentuarono le diseguaglianze sociali, il Cile tornò, con il consenso dei militari, ad un Governo civile. Pinochet venne sostituito a capo dello Stato dal cristiano-democratico Patricio Aylwin, mantenendo però la carica di comandante supremo dell'esercito. Nel 1998 Pinochet abbandonò l'esercito e venne eletto senatore a vita, ma, durante una visita in Gran Bretagna, venne arrestato e accusato della sparizone di alcuni cittadini spagnoli durante la repressione dittatoriale degli anni Settanta e Ottanta. Inizialmente accusato anche da giudici cileni di rapimento e di crimini contro l'umanità, venne dichiarato in seguito non processabile per motivi di salute e di età: poté allora rientrare liberamente in patria.
Salvador Allende

I grandi Paesi di immigrazione della costa atlantica hanno a loro volta conosciuto sviluppi divergenti. L'Argentina e l'Uruguay, rovinati economicamente dal crollo dei prezzi della carne, di cui erano massimi esportatori, e della lana dopo la fine della guerra, conobbero una involuzione economica e politica. L'Argentina ha cercato di industrializzarsi con l'intervento dello Stato durante la presidenza del generale Juan Domingo Perón, 1946-1955. Questi diede vita ad un movimento, denominato «giustizialista», di impronta populista, capace di legare le masse proletarie e sottoproletarie organizzate da sindacati di regime ad un programma che sommava progressismo e nazionalismo. Perón, alla maniera dei dittatori fascisti europei, stabiliva un rapporto autoritario e paternalistico con le masse mobilitate in adunate oceaniche e raggiunte da una diffusa attività di patronato. Ma il tentativo, rimasto a metà e non facilitato dalla drammatica storia politica di un Paese governato per lunghi periodi da dittature militari (l'ultima, 1974-1982, particolarmente feroce nella repressione, che ha fatto migliaia di vittime), è ancora in corso; e quella che era stata la meta di milioni di emigranti Italiani e iberici è ormai abbandonata da molti dei loro discendenti.
Il Brasile, ricchissimo di risorse naturali e materie prime, e partito da livelli di vita e istruzione inferiori a quelli dell'Argentina, ha attuato soprattutto nel ventennio (1964-1983) della dittatura militare che abbatté un presidente progressista una industrializzazione a tappe forzate e una modernizzazione autoritaria che hanno posto le basi per il decollo del Paese, in mezzo a contraddizioni profondissime: distruzione dell'ambiente (la foresta amazzonica) e diseguaglianze spaventose accanto a industrie tecnologicamente avanzate e livelli di vita statunitensi per una minoranza della popolazione. Tornato il Paese al sistema parlamentare per il ritiro dalla scena dei militari, i partiti di orientamento socialdemocratico e progressista hanno conquistato importanti amministrazioni locali e portato il loro candidato, un ex operaio di San Paolo, al ballottaggio per la presidenza della Repubblica nel 1989, senza però riuscire a prevalere su un candidato conservatore, Fernando Collor de Mello, riuscito a far presa sul vastissimo elettorato sottoproletario. Le diseguaglianze del Paese sono pari alle sue potenzialità; ma nessun tentativo riformatore, né con i presidenti populisti degli anni Cinquanta-Sessanta (Goulart, Quadros), né dopo il ritorno dei militari nelle caserme ha avuto la possibilità di svilupparsi. Il forte tasso di inflazione, le rivendicazioni indigene, l'affrancamento dalle superpotenze economiche operanti nella Paese, soprattutto nella zona amazzonica, la grande povertà e l'alta percentuale di criminalità, in buona parte infantile: questi e altri i grandi problemi che gli esponenti ai vertici del Brazile dovettero affrontare durante gli anni a cavallo tra XX e XXI secolo.
Sono stati però i Paesi dell'America centrale, sia dell'istmo sia dei Caraibi, gli esempi più clamorosi delle conseguenze della dipendenza dai centri dell'economia mondiale e dei tentativi di sottrarsi ad essa. La zona è stata definita «il cortile di casa degli Stati Uniti», alludendo all'attenzione che gli Usa pongono al controllo militare della regione. Qui a più riprese sono stati effettuati interventi militari diretti o sono stati sostenuti colpi di Stato o movimenti armati irregolari per rovesciare Governi giudicati ostili e insediare Governi amici: nel 1954 in Guatemala; nel 1965 a Santo Domingo; dagli anni Settanta in Salvador; negli ultimi anni Ottanta in Nicaragua; nel 1983 a Grenada; nel 1989 a Panama.
A Cuba il tentativo di invasione di esuli antigovernativi organizzato dai servizi segreti statunitensi fallì nel 1961. Il controllo del canale di Panama ha rappresentato inoltre un'occasione di attrito con il Governo panamense: dopo una lunga controversia, solo nel 1978 il presidente Carter firmò un accordo per trasferire, in più tappe, l'amministrazione del canale al Governo panamense; ma l'intervento statunitense nella politica della Repubblica dell'istmo è continuato.
La supremazia politica e militare statunitense sull'intero continente latino-americano è rimasta in definitiva forte. Solo Cuba, in tutto il continente, continua a contrapporsi agli Usa. Legata alla monocultura della canna da zucchero, dipendeva per le sue esportazioni dal mercato nordamericano; costituiva inoltre un luogo di vacanza e di insediamento di attività illecite (gioco d'azzardo, prostituzione) controllate dalla malavita organizzata statunitense. Nel contempo, aveva livelli di vita e di istruzione molto più alti degli altri Paesi della regione, e una vita politica assai articolata. Contro la ventennale dittatura di fatto dell'ex sergente Fulgencio Batista un giovane avvocato liberalradicale e nazionalista, Fidel Castro, tentò l'insurrezione. Incarcerato ed esiliato, Castro ritornò a Cuba con pochi compagni nel 1957, e iniziò una guerriglia che Batista non riuscì a reprimere. Crollato rapidamente il dittatore, alla fine del 1958 il nuovo regime, diretto da Castro, radicalizzò le proprie posizioni espropriando con la riforma agraria le piantagioni di canna da zucchero. Gli Usa, ostili, sostennero una fallita invasione di esuli (1961), col risultato di spingere Cuba all'alleanza aperta con l'Urss. Dopo una fase di sostegno alle guerriglie latino-americane (il personaggio più romantico e popolare della rivoluzione cubana, Ernesto «Che» Guevara, morì nel 1967 in Bolivia, dove tentava di accendere un movimento insurrezionale) Castro ha finito per stringere una alleanza ufficiale con l'Urss, sino ad entrare nel Comecon, e a inviare truppe in Angola e in Etiopia di concerto con le iniziative della politica estera sovietica. La struttura dell'economia cubana non cambiò: dipendente dalle esportazioni di zucchero, tabacco e altre materie prime sino all'avvento della rivoluzione, continuò ad esserlo, cambiando la destinazione dei carichi, diretti verso l'Urss e altri Paesi dell'Est europeo: almeno sino a quando la crisi della stessa economia sovietica non ridusse - e quindi interruppe - anche gli aiuti all'economia cubana. Sconfitti analfabetismo e malattie epidemiche, pur dovendo far fronte all'esodo di gran parte della classe media e istruita dell'isola (centinaia di migliaia di cubani presero la via degli Stati Uniti), i dirigenti castristi non risolsero facilmente le contraddizioni del socialismo «reale»: statalizzazione totale, pianificazione burocratica, regime di partito unico eliminarono le stridenti ingiustizie di un tempo, al prezzo però dell'esercizio della democrazia.
Dal punto di vista statunitense, se Carter fu sul punto di ristabilire relazioni diplomatiche con Cuba, Reagan mantenne l'accerchiamento economico dell'isola, costringendo il Paese a drastiche misure di salvaguardia economica.
La politica statunitense verso Cuba non cambiò neppure con il successore di Reagan, George Bush, mentre si aggravò la situazione interna dell'isola dove vennero avvertiti i contraccolpi delle mutate condizioni politiche internazionali. La scomparsa dell'Urss e il crollo dei regimi comunisti lasciarono Cuba isolata economicamente e ideologicamente, unica area (insieme con la Corea del Nord) a sostenere la validità del modello comunista. I dirigenti furono obbligati ad abbassare fortemente il tenore di vita dei cubani razionando i viveri ed economizzando le risorse energetiche. Il blocco commerciale praticato dagli Usa costrinse Fidel Castro a mostrarsi più condiscendente con l'opposizione che si andava via via manifestando nell'isola, ma che soprattutto era forte tra i fuoriusciti che vivevano negli Usa. Significativi furono gli incontri nel 1994 con rappresentanti di esuli a cui Castro chiese di investire capitali nell'isola.
Lo stesso prestigio del capo comunista apparve in declino: se i suoi discorsi continuarono ad essere seguiti da centinaia di migliaia di persone, serpeggiava nell'isola la critica e l'insoddisfazione che si manifestava anche con tumulti e fughe all'estero. L'amministrazione Clinton seguì la stessa politica dei predecessori nei confronti di Cuba, ma proprio il problema degli esuli, che numerosi tentavano di raggiungere le coste americane, spinse l'amministrazione americana ad allacciare rapporti con le autorità cubane per regolare questo flusso. Nel 1998 papa Giovanni Paolo II visitò l'isola, dando vita a un momento storico di amplissima portata, eguagliato, l'anno successivo, dal cosiddetto "caso Elian Gonzales'', la lunga vicenda giudiziaria che si concluse con il ritorno a Cuba di un bimbo, salvato da un naufragio mentre stava fuggendo in Usa con la madre e il patrigno, e riaffidato al padre, nonostante la vasta opera di mobilitazione pubblica messa in atto da gruppi di esiliati cubani in Florida. Nel 2001, inoltre, per la prima volta dopo oltre 40 anni, gli Stati Uniti ruppero l'embargo alimentare per aiutare le popolazioni tragicamente toccate dall'uragano Michelle. Nel gennaio 2002 venne chiusa l'ultima base russa sull'isola proprio mentre venivano portati nella base americana di Guantanamo i prigionieri sospettati di essere membri di Al-Qaeda catturati in Afghanistan nell'ambito dell'operazione "Libertà duratura''.
La guerriglia (dallo spagnolo guerrilla piccola guerra: il termine risale alla guerra d'indipendenza degli spagnoli contro Napoleone, 1808-1813), la forma di lotta armata classica dei popoli dominati coloniali contro i dominanti, ha nell'America latina una tradizione secolare, risalente alla fase stessa dell'indipendenza, e poi alle turbolente vicende ottocentesche dei diversi Stati nazionali. E proprio in America latina nel corso degli anni Cinquanta essa ha trovato un campo di applicazione assai esteso e variato, una teorizzazione, alcuni esempi di successo.
Il campo di applicazione è stato quello di quasi tutti gli Stati del continente, sebbene in tempi e in forme diverse. Cuba è stato l'esempio di maggior successo, di un movimento guerrigliero genericamente progressista giunto al potere «sulla canna del fucile» e trasformatosi in regime di Governo. Ma il modello cubano, tipico degli anni Cinquanta e della lotta contro dittatori militari feroci ma privi di consenso sociale, è rimasto isolato, insulare appunto. In Colombia la guerriglia è un fenomeno endemico, ma senza sbocco, addirittura dalla fine degli anni Quaranta (negli anni Sessanta ne fu protagonista un intellettuale cattolico che aveva abbandonato la Chiesa, Camilo Torres, morto in combattimento), e ha finito per rappresentare per i Governi un avversario meno pericoloso delle organizzazioni criminali dedite al traffico della droga, in Venezuela un movimento guerrigliero legato al partito Comunista agì durante gli anni Cinquanta-Sessanta e fu represso dal Governo: in entrambi i Paesi si trattava di guerriglia rurale, condotta nelle aree montagnose e boscose. Nel Guatemala e nel Salvador è un fenomeno tuttora in corso e rappresenta una insurrezione a larga base contadina e indiana repressa con ferocia terroristica da Governi militari che esprimono gli interessi di esigue minoranze proprietarie e dei loro protettori statunitensi. Nel Nicaragua dominato dalla famiglia Somoza la guerriglia ha avuto successo (1978), cacciando il dittatore e instaurando un governo nazionalista e populista comprendente cristiani progressisti, marxisti, socialdemocratici, all'insegna della tradizione anti-imperialista nicaraguense incarnata negli anni Venti e Trenta da Cesar «Augusto» Sandino. Un po' per la loro connotazione originaria di «fronte popolare», un po' per resistere all'accerchiamento economico e militare subito messo in atto dagli Usa, i «sandinisti» nicaraguensi hanno proposto il proprio modello come una via originale, né marxista né capitalista, ma eclettica e radicata nella storia nazionale. Alla fine, però, la pressione esterna e le incursioni di guerriglieri antigovernativi aiutati dagli Usa hanno indotto i sandinisti a indire elezioni che hanno dato la maggioranza ai conservatori, in grado di ottenere aiuti statunitensi.
Presidente e capo del governo è stata eletta Violeta Chamorro, vedova di un giornalista che era stato ucciso dai sicari del dittatore Somoza. Il nuovo Governo ottenne aiuti dagli Usa e, pur tra tensioni interne (c'era chi accusava Violeta Chamorro di aver tradito gli ideali sandinisti), riuscì a mantenere il controllo della situazione. Alterno fu il sostegno degli Usa che nel 1992 bloccarono i crediti, sbloccadoli l'anno dopo. Dopo Violeta Chamorro furono eletti presidenti Arnoldo Aleman (1996) e Enrique Bolanos (2001): tutti e tre, oltre a problemi politico-economici, dovettero affrontare gravi calamità naturali, quali il grave terremoto del 1992 e il devastante uragano Mitch del 1998.
Lo sconfinato Brasile dei "gorilas'' (i generali golpisti), teatro sino agli anni Trenta di ampi fenomeni di banditismo sociale nelle campagne povere del Nordeste, ha conosciuto durante la dittatura militare movimenti di guerriglia urbana spietatamente stroncati dal Governo. Ma la fisionomia della società brasiliana e la mancanza di referenti politici impedirono alla guerriglia di raggiungere le dimensioni dei movimenti armati uruguaiani, i "tupamaros'', e argentini, i "montoneros''. Questi hanno condotto tra gli anni Sessanta e Settanta una guerriglia urbana contro i Governi militari dei rispettivi Paesi, in collegamento con alcune forze politiche tradizionali: i "montoneros'' argentini traevano origine dalla sinistra cristiana legata al movimento peronista e a questo rimasero collegati sino alla metà degli anni Settanta, quando il regime militare affermatosi in Argentina con il sostegno della destra peronista (il vecchio leader Perón rientrò dall'esilio nel 1973 per assumere nuovamente la presidenza, ma governò appoggiandosi alla destra del suo movimento e sconfessando i guerriglieri che si erano richiamati al suo programma) condusse una repressione spietata (8000 morti certi, forse da 15.000 a 30.000 vittime effettive), estesa spesso ai familiari dei veri o presunti oppositori, e attuata nell'ombra, incarcerando o uccidendo le vittime senza processo. Desaparecidos (= «scomparsi») è il nome delle vittime della repressione militare. Solo la sconfitta del Governo militare in una breve guerra contro la Gran Bretagna per le isole Falkland procurò l'uscita di scena dei generali e il ritorno a un Governo civile. La situazione si presentò subito gravissima e i presidenti eletti (Raul Alfonsin, Carlos Menem) optarono per drastiche misure di austerità che non impedirono al Paese di sprofondare sempre più nel baratro dell'indebitamento internazionale. Nel 1999 venne eletto Fernando de la Rua, dell'alleanza di centro sinistra, che si trovò a dovere afforntare anche l'arresto per traffico illecito d'armi dell'ex presidente Menem. La crisi argentina continuò a progredire, toccando il suo massimo livello alla fine del 2001. In poche settimane si susseguirono tre presidenti (dopo De la Rua, Adolfo Rodriguez Saa ed Eduardo Duhalde), mentre il Governo bloccava i conti bancari della popolazione argentina che scendeva nelle strade per manifestare apertamente il proprio dissenso. La situazione si inasprì con il passar del tempo, portando il Paese all'orlo del collasso economico-finanziario-sociale.
Il Perù dal 1972 ha conosciuto una travagliata vita politica che a partire dal 1980 si è trasformata in una intensa e crudele attività di guerriglia. Teatro delle azioni sono state le regioni meridionali del Paese dove ha operato un movimento noto come Sendero luminoso (= "sentiero luminoso") a base contadina e ispirato a un comunitarismo agrario dalle radici indigene. La presenza alla testa del movimento di alcuni intellettuali di simpatie marxiste-leniniste e l'uso di slogan politici cinesi degli anni Sessanta hanno indotto gli osservatori occidentali a stabilire paragoni forse affrettati proprio con l'esperienza cinese; la ferocia terroristica dei guerriglieri, controbattuta del resto dalla ferocia terroristica dell'esercito regolare, ha fatto a sua volta pensare a una ripetizione della vicenda cambogiana dei Khmer rossi. Di fatto la disgregazione della società contadina tradizionale, agevolata dalla stessa riforma agraria attuata tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta da un Governo di militari progressisti, e il mancato sviluppo dell'economia peruviana hanno creato tensioni fortissime, alle quali nessuno dei successivi Governi ha posto rimedio. La situazione sembrò conoscere una svolta nel 1990 quando alle elezioni presidenziali si affermò Alberto Fujimori, un agronomo discendente di emigrati giapponesi, che vinse il ballottaggio con lo scrittore Vargas Llosa. Nei mesi successivi il gruppo terrorista di Sendero luminoso apparve in crisi, ma la minaccia del terrorismo non era finita.
Il Paese venne colpito nel 1991 da una terribile epidemia di colera che fece migliaia di vittime e mise in evidenza le pessime condizioni igienico-sanitarie, ma anche l'estrema povertà degli indios che erano le prime vittime del morbo. Nell'aprile del 1992 il presidente Fujimori sciolse il Parlamento assumendo i pieni poteri con l'appoggio delle forze armate: fu il cosiddetto "golpe bianco". Né questa misura né l'arresto del capo storico di Sendero luminoso Abimael Guzmán Reynoso misero completamente fine al terrorismo; il presidente Fujimori rafforzò il suo potere vincendo il referendum sulla Costituzione da lui voluta, operazione che gli consentì di ricandidarsi alla fine del mandato e comminare la pena di morte per i terroristi, ma proprio in occasione delle votazioni sulla nuova Costituzione (novembre 1993) Sendero luminoso ricomparve con sporadici attentati terroristici. Venne intrapresa allora una vasta campagna antiterroristica che portò all'arresto di oltre 6 mila guerriglieri e, conseguentemente, alla rielezione di Fujimori. Tra il 1996 e il 1997, però, si consumò uno dei più difficili momenti della storia peruviana quando un gruppo di guerriglieri del gruppo filocastrista Túpac amaru prese in ostaggio molti invitati alla festa di Natale all'ambasciata giapponese a Lima. Dopo alcuni mesi (aprile) gli ostaggi vennero liberati, ma tutti i guerriglieri furono uccisi durante l'intervento delle forze speciali. Nel 2000 uno scandalo avente come protagonista il capo dei Servizi segreti Vladimiro Montesinos, accusato di corruzione, portò alle dimissioni anche di Fujimori che venne successivamente accusato di inadempienza. Nel 2001 venne eletto il primo presidente di origine indios, Alejandro Toledo.
Il leader cubano Fidel Castro


IL ROMANZO SUDAMERICANO


La leggenda, se di leggenda si può parlare, nasce sul finire degli anni Sessanta, con i memorabili Cent'anni di solitudine di Gabriel García Márquez. Mentre sui muri e nelle piazze d'Europa si proclamava desiderabile e incipiente l'assunzione dell'immaginazione al potere, da un angolo periferico del mondo uscivano cinquecento fitte pagine che ne segnavano l'apoteosi. Immaginazione posta, per di più, al servizio della demistificazione dei meccanismi e delle trappole del potere, quale si esercitava in un continente disgraziatissimo. Fu un trionfo. Un breviario laico delle nuove generazioni. Si trattava della storia di una famiglia pluricentenaria (i Buendía); di un patriarca fondatore (José Arcadio); di una matriarca vestale di tradizioni insidiate (Ursula Iguarán); di un caudillo-eroe sventurato (il mitico Aureliano, colui che combatté diciassette guerre e le perse tutte). Storia di furori erotici, di fecondazioni prodigiose e di purezze inconcepibili. Delle mirabolanti sperimentazioni scientifiche del vecchio José Arcadio, quelle che gli fecero percorrere come nuove le tappe cruciali del progresso del sapere («la terra è rotonda come un'arancia», esclamerà estasiato!) e lo guidarono nelle sue circumnavigazioni mentali («è possibile ritornare al punto di partenza sempre navigando verso Oriente» dichiarerà ridisegnando un percorso speculare rispetto a quello dell'Ammiraglio del Mare Oceano e quasi presagendo la traiettoria dei Cent'anni di solitudine, pronti a salpare alla conquista della vecchia Europa!). Saga nazional popolare e insieme rivisitazione fantastica (e in cifra) della storia del Continente. Da allora, Macondo, il mitico villaggio dei Buendía, e segnato sull'atlante personale di ogni attento lettore assai più nettamente di tanti luoghi realissimi di quel continente.
Sull'onda del successo di Cent'anni di solitudine (milioni di copie vendute, 700.000 solo in Italia), si redigono programmi di lancio su vasta scala della narrativa latino-americana, la quale sintomaticamente mutuerà la sua intitolazione (romanzo del boom) dal gergo dell'industria culturale. Per molti, il romanzo fu la porta d'accesso ai misteri, raramente gaudiosi, di quella parte di mondo. Un «caso» unico e memorabile. Una delle «periferie» del mondo, mentre si esibiva nelle vesti seducentissime della sua letteratura, ribaltava un rapporto di sudditanza con la metropoli. Il grande scrittore cèco Milan Kundera, a chi lo interrogava sulla morte presunta del romanzo, consigliava la lettura di rito.
Certo, c'era stata la rivoluzione cubana. L'epopea di Sierra Maestra. Il «Che» era entrato nell'iconografia della sinistra terzomondistica con gli occhi fiammeggianti e il basco di comandante guerriero dell'inflazionatissimo poster. E poi, a veder bene, il rapporto tra rivoluzione cubana e narrativa del boom non fu di sola contemporaneità. La Habana diviene punto di riferimento per molti scrittori latino-americani. I quali si incontrano nella piazza della Cattedrale o sulle spiagge di Varadero. Ma più sovente nel quartiere di El Vedado, e sulle pagine della rivista «Casa de Las Américas», che a El Vedado ha la sua sede. Le firme prestigiose di Lezama Lima e di Carlos Fuentes, di Mario Vargas Llosa e di Juan Rulfo, di García Márquez e di Alejo Carpentier raccolte nello spazio quadrato della pagina del prestigioso mensile realizzano, dibattendo e sovente dissentendo, l'unità culturale del Continente e insieme si interrogano sulla dipendenza neocoloniale dei loro Paesi. L'adesione alla rivoluzione si prolunga nel programma di affrancamento dalle tutele del Vecchio continente e degli Stati Uniti. Si rivalutano i propri maestri (Asturias, Arguedas, e al di là dei dissensi politici, Borges), si rileggono le avanguardie dei primi decenni del secolo. Si parte alla ricerca delle proprie radici, ora in direzione del remoto passato precolombiano, ora attingendo alle cronache della brutalità contemporanea, addentrandosi nei crogiuoli delle razze o nella favolosa e debordante natura americana. Il romanzo latino-americano occupa trincee diverse. Il fronte della denuncia sociale con Manuel Scorza, del fantastico con Jorge Luis Borges e Julio Cortázar, del realismo magico con Carpentier, del reale meraviglioso con Gabriel García Márquez. Dà spazio al mito, alla magia, al sovrannaturale; frequenta registri iperbolici per tentare di dar voce a una realtà esorbitante («nella nostra America, la realtà sopravanza ogni possibile immaginazione», sentenzia García Márquez).
L'idillio era destinato a spezzarsi. Mentre i veleni del caso Padilla (il giovane poeta cubano, oggetto di censura da parte del regime castrista) rinsecchiscono i «cento fiori» della sua politica culturale, si registrano le prime defezioni. Per un García Márquez, un Cortázar, un Carpentier che continuarono a credere in Cuba socialista, non mancarono i Mario Vargas Llosa, i Carlos Fuentes, i Cabrera Infante che resero esplicito il loro dissenso, netto e senza riserve. Dissolta la connotazione unanimistica e il monolitismo politico, i centri propulsori del boom si spostarono prima a Barcellona, sede della casa editrice Seix Barral, poi a Parigi, attorno alla rivista «Mundo Nuevo». In Italia, Feltrinelli e Einaudi guidarono la fila degli editori che sugli esotici best seller venuti da oltreoceano rinverdirono le proprie fortune. L'emozione della fine violenta di Unidad popular in Cile, rinsaldò il sodalizio tra sinistra europea e continente. Si esecrò la tirannia sulle pagine dei «romanzi della dittatura» (Il ricorso del metodo di Carpentier, Io il supremo di Roa Bastos, L'autunno del patriarca di García Márquez...). Ci fu un momento in cui si disse che il boom era morto. Il cileno José Donoso, autore di una Storia personale del boom, ne vergò l'epitaffio parlando del fenomeno come «di un carro di guitti, della forma alquanto indefinita, piuttosto malconcio e malfamato». In effetti, in larga misura si andò disperdendo quella compattezza, quel senso di una comune avventura, quel gusto di sperimentare forme nuove e temi forti, che avevano fatto di quel romanzo il Romanzo Contemporaneo per eccellenza Però quella mancanza venne ben presto colmata da una nuova letteratura, prettamente femminile, che aveva la cilena Isabel Allende come capofila ma che annoverava tra le esponenti di punta anche Marcela Serrano (Cile), Angeles Mastretta e Laura Esquivel (Messico), Gioconda Belli (Guatemala).

BUENOS AIRES: TRA EUROPA E TERZO MONDO


«La storia di Buenos Aires - osserva Bruce Chatwin, di passaggio per la metropoli, mèta la Patagonia - sta scritta nel suo elenco telefonico. Pompey Romanov, Emilio Rommel, Crespina D.Z. de Rose, Ladislao Radzwill, Elizabeta Martha de Rotschild - cinque nomi scelti a caso sotto la R - raccontavano una storia di esilio, delusioni e ansie nascosta sotto una cortina di merletti». è uno dei possibili fili di Arianna per orientarsi nel labirinto. A fianco di questi nomi altisonanti, ci sono pagine intere di Rossi, Devoto, Sánchez: sono i figli o i nipoti dei tanos (contrazione di napolitanos: sta per Italiani in genere) e dei gallegos (gli Spagnoli). Si aggiungano le colonie di Polacchi, di Tedeschi, di ebrei. E Buenos Aires apparirà quel che è: patria di culture in esilio, metropoli di province alla deriva dalle proprie capitali. Babele inestricabile di lingue, di culture (e La biblioteca di Babele non per caso è il titolo di uno dei racconti di Jorge Luis Borges, il più celebre argentino di questo secolo).
Ognuno di questi «esuli» vi ha lasciato la sua traccia. A ridosso del porto, oltre Piazza San Martín, c'è l'Hotel de Immigrantes. Lì i contadini del Sud d'Italia facevano sosta in attesa di un contratto per le haciendas della pampa a Entre Rios, Corrientes o Rio Negro. Qua e là resistono ancora i conventillos, fabbricati enormi nei cui cortili in comune la povera gente si inventò il cocoliche e il lunfardo, lingue franche per comunicare oltre la babele dei dialetti. Sul Riachuelo (il «fiumiciattolo»), non distante da dove la leggenda vuole che nel 1536 Antonio de Mendoza abbia gettato le prime fondamenta di Buenos Aires abbandonando poche coppie di bovini che al suo ritorno, un decennio più tardi, si sarebbero prodigiosamente moltiplicate segnando la vocazione del Paese, sorge il quartiere genovese della Boca, dalle coloratissime case di lamiera ondulata, i cortili interni inondati di fiori e le rivendite di farinata. All'altro lato, il quartiere di Palermo, così chiamato da quel «siciliano, Dominguez (Domenico) di Palermo d'Italia, il quale - scrive Jorges Luis Borges in Evaristo Carriego - aggiunse al suo nome anche quello della patria, per conservare forse un appellativo che non fosse spagnolizzabile».
Due sono le anime di Buenos Aires. C'è l'anima sentimentale e patetica dei guappi, dei compadritos, dei malavitosi queruli di Almafuerte, di Carriego, delle milongas e dei tanghi postribolari cantati da Carlos Gardel, tombeur de femmes dai capelli impomatati e dal languido sorriso, alla cui statua di bronzo nel cimitero della Chacarita (Gardel morì nel 1935, in un incidente aereo) la devozione popolare non fa mai mancare il conforto di una sigaretta accesa; della mitica Evita Perón, a dispetto delle ombre della sua biografia, madre purissima e misericordiosa delle litanie e delle liturgie giustizialiste dei descamisados.
Ma a fianco di questa, c'è l'altra Buenos Aires, ironica, cerebrale, cosmopolita, esterofila. La metropoli dotata di robusti antidoti contro grandi e piccole malinconie. E contro grandi e piccole tragedie: dalla endemica crisi economica all'inflazione a tre cifre, dalle decine di migliaia di «scomparsi» a carico delle giunte militari alla sconfitta delle isole Malvine, fino al fallimento dei piani (ultimo, in ordine di tempo, il piano Austral) con cui i presidenti che si sono succeduti alla Casa Rosada han cercato di porre un argine al disastro. Se il tango («un pensiero triste che si balla», secondo Armando Discépolo) esprime il lato «molle» e lacrimoso della città, è il "truco" a restituirne il versante maschio e disincantato, la propensione al gioco e la sapienza del mentire.
«Si ha nel truco - sono parole di Borges - un potenziamento dell'inganno. Il giocatore che getta brontolando le carte sul tavolo potrebbe nascondere un buon gioco (astuzia elementare), oppure al contrario vi sta ingannando con la verità affinché noi non vi prestiamo fede (astuzia al quadrato). Il suo spirito è quello dei due barattieri che nel mezzo della sconfinata pianura russa si salutarono. - Dove vai Daniel? disse uno. - A Sebastopoli - disse l'altro. E il primo: - Tu menti, Daniel. Mi rispondi che vai a Sebastopoli perché io pensi che vai a Novgorod, ma la verità è che tu vai davvero a Sebastopoli. Tu menti, Daniel -».
è la predisposizione illustrata dall'apologo di Borges a fare di Buenos Aires una città della finzione, del gioco, dello straniamento, del paradosso. In una parola, una città essenzialmente letteraria. Julio Cortázar ha ascritto il «sentimento del fantastico» (e la più grande letteratura argentina è letteratura fantastica) al «sentimento di non esserci del tutto», al senso di «eccentricità» e di «estraneità» che deriva all'argentino dal suo essere figlio di molti padri, risultato di molte culture, prodotto di infinite letture... Calle Florida, passeggio e salotto buono della metropoli («l'abito della domenica di Buenos Aires, che la città usa tutti i giorni», è stato detto) tenne a battesimo le prime avanguardie, vide nascere mitiche riviste (da «Proa» a «Martín Fierro»), fu laboratorio dei più arditi sperimentalismi. E nel quadrilatero di strade fra Corrientes, Uruguay, Pellegrini e la stessa Florida si sono architettate alcune delle metafore in cui l'uomo di questo secolo ha tradotto le sue inquietudini e nevrosi: lo scardinamento della routine attraverso la manomissione di un anello nella catena causale degli eventi narrati in Cortázar; gli specchi, gli inestricabili labirinti, le biblioteche infinite che tengono e contengono l'universo di Borges; la sotterranea città dei ciechi, microcosmo fecale di Sopra eroi e tombe di Sábato...
«Abbiamo fatto una grande capitale, perché non abbiamo saputo fare una grande nazione». Buenos Aires è capitale di un Paese da cui la separa una frontiera insormontabile. Città aperta. Predisposta all'importazione indiscriminata dei risultati, ormai disseccati e trasfigurati, della storia europea. E insieme chiusa, ermeticamente chiusa rispetto al suo retroterra avvertito come «estraneo», alieno e «barbaro». Buenos Aires è la negazione del territorio di cui è capitale. Così le figure irreali delle sue favole fantastiche, i suoi personaggi scissi e sperduti tra topografie fredde e geometriche, i suoi labirinti pervasivi sono in realtà la cifra della solitudine che è, nella fattispecie, assenza di storia, frattura con un passato distrutto da forze incomprensibili (è il caso delle culture precolombiane) o abbandonato senza rimedio (la storia degli emigranti). Ezequiel Martínez Estrada, in La testa di Golia, che rimane il migliore ritratto della metropoli, così la descrive: «Ormai la città intera è una finzione, il più stupendo dei simulacri che la finzione ha conquistato a spese della realtà aspra ma nobilissima della campagna. Non v'è rapporto possibile tra questa Babele e quella pampa, quelle selve che rappresentano l'essenza del Paese disarticolato e disfatto per assicurare la spettacolare, slacciata grandezza dell'urbe. Buenos Aires assorbe brutalmente e ciecamente la ricchezza dell'interno, si alimenta della miseria, dell'arretratezza, dell'ignoranza, della solitudine».

LA VIA INDIANA


La nascita dell'India indipendente fu salutata come quella della «più popolosa democrazia del mondo», intendendo con democrazia un sistema politico parlamentare e rappresentativo. Sotto questo aspetto, in effetti, l'India rappresenta un'eccezione nel Terzo mondo. Persino rispetto al Pakistan, nato come l'India dalla divisione del dominio inglese, ma governato a più riprese da dittature militari, lacerato a lungo dal contrasto tra Pakistan occidentale e orientale, quest'ultimo staccatosi nel 1971 a formare un nuovo Stato, il Bangladesh. Tuttavia, se in India le procedure parlamentari sono state quasi sempre rispettate e le elezioni regolarmente tenute, nel mezzo secolo successivo all'indipendenza il potere centrale e locale è stato, salvo un breve intervallo e salvo qualche eccezione, appannaggio sempre dello stesso partito, il Congresso, protagonista della lotta per l'indipendenza. Inoltre, da Nehru a Indira - e Rajiv Gandhi, una vera e propria dinastia politica ha diretto con pochi intervalli il Paese dall'indipendenza alle soglie degli anni Novanta. Le difficoltà dell'India indipendente erano senza dubbio enormi, e originate anzitutto dalla grande complessità della società indiana. Coesistevano nel nuovo Stato masse sterminate di contadini poveri o miserabili, sparsi in centinaia di migliaia di villaggi, una classe feudale ristretta e privilegiata, un ceto professionale di formazione e cultura britannica, particolarismi religiosi (il 10 per cento degli indiani, polarizzato ai due estremi della scala sociale e con una forte presenza nell'esercito, è musulmano), etnici (la piccola minoranza sikh è assai più ricca della media della popolazione indiana) e linguistici. Il Congresso, partito laico, interetnico e interconfessionale, espressione delle minoranze istruite e politicamente attive, ha perciò rappresentato il collante politico di un subcontinente frammentatissimo. Gandhi, ucciso da un fanatico induista nel 1948, non poté partecipare alla vita dell'India indipendente. è probabile che egli vedesse il futuro del Paese nella lenta valorizzazione dell'economia di villaggio, agricola e artigianale; e, in ogni caso, sul piano economico egli sostenne le posizioni dei conservatori. In realtà, all'interno del Congresso si fronteggiavano l'ala rappresentata da Patel, vicina agli interessi dei proprietari terrieri e degli imprenditori e commercianti privati, e l'ala capeggiata da Nehru, presto il leader indiscusso del partito e del Paese, con un programma tendenzialmente socialdemocratico all'interno e neutralista in politica estera (Nehru assunse in effetti un ruolo di primo piano nel movimento dei Paesi non allineati). In realtà, il «socialismo» attuato dal Congresso fu puramente verbale; attraverso la pianificazione quinquennale, furono create per intervento dello Stato infrastrutture e trasporti e i nuclei di un'industria pesante; ma per il resto lo sviluppo industriale, modesto sino a tutti gli anni Sessanta, rimase affidato all'iniziativa privata o agli investimenti esteri. Nelle campagne i programmi per lo sviluppo diretti dal Governo cercarono di migliorare la produttività agricola e di rafforzare gli strati dei contadini agiati, base elettorale, tra l'altro, del partito del Congresso; sempre, però con risultati diseguali e complessivamente modesti sino agli anni Sessanta. D'altra parte, la persistenza del sistema delle caste (frutto assai più della accorta difesa di utili meccanismi sociali da parte dei privilegiati, che non di fattori culturali) favoriva lo sfruttamento dei contadini poveri e dei braccianti nelle campagne; l'enorme frammentazione del Paese ostacolava il coagulo di movimenti di opposizione. In alcune aree dell'India hanno avuto luogo rivolte agrarie e anche fenomeni di guerriglia contadina contro i grandi proprietari; alcuni governi locali sono stati retti a lungo dai comunisti (per altro divisi in due partiti, filosovietico e filocinese). Ma nessuno di questi fenomeni ha assunto rilevanza nazionale; mentre i proprietari medio-ricchi in tutto il Paese sono stati sostanzialmente leali al Congresso e alla sua dirigenza occidentalizzata e urbana, o ai partiti più conservatori. D'altra parte, dagli anni Settanta un più deciso intervento statale, con Indira Gandhi, e i progressi delle politiche agricole hanno raggiunto risultati di rilievo. Lentamente, e certo al prezzo delle sofferenze quotidiane di masse di Indiani, si è formato il nucleo di una società moderna: il 10 per cento circa della popolazione istruito (valutazioni più ottimistiche vorrebbero raddoppiare questa percentuale), ha un reddito sufficientemente elevato per coltivare modi di vita e aspirazioni influenzati dai modelli occidentali. Questa società ha trovato la sua migliore espressione politica negli ultimi anni di governo di Indira Gandhi e poi in quelli del figlio Rajiv.
L'India strinse un patto di cooperazione militare con l'Urss, che prevedeva la partecipazione di cosmonauti indiani alle imprese spaziali sovietiche. E il Paese, a suo tempo umiliato dalla Cina e dal Pakistan nelle guerre di frontiera, esercitò un ruolo di potenza regionale, avendo stabilito un protettorato di fatto sul Bangladesh ed essendo intervenuto nella guerra civile dello Sri Lanka con un corpo di spedizione, ufficialmente per ristabilire la pace. Nel contempo i gruppi affaristici locali e stranieri (europei e statunitensi) legati alle nuove industrie di stato avevano trovato l'occasione di proficui affari. Ma l'India delle isole di agricoltura prospera e delle industrie moderne, comprese quelle nucleare e aerospaziale, che aveva ormai raggiunto l'autosufficienza alimentare, cresceva su moltitudini miserabili; in uno dei gruppi etnici più favoriti, i sikh, si era inoltre sviluppato un movimento nazionalistico dei cui attentati era stata a suo tempo vittima la stessa Indira Gandhi (1984). All'inizio degli anni Novanta la forza del Congresso apparve erosa: certamente, come venne osservato, anche per le scarse capacità politiche di Rajiv, ma soprattutto segno della difficoltà di padroneggiare le contraddizioni della società indiana.
Alle elezione del 1989 si era già verificata la sconfitta del Partito del Congresso; l'elettorato musulmano spaventato dalle concessioni fatte da Gandhi agli indù e temendo per la laicità dello Stato, non aveva votato il Partito del Congresso e Gandhi stesso non era più sentito come l'autorità capace di mantenere la pace sociale e religiosa. I conflitti scoppiarono violenti, politici, come quello nel Kashmir dove gruppi islamici chiedevano l'indipendenza, e religiosi tra indù e musulmani (1990). Le difficili condizioni del Paese portarono a nuove elezioni, ma anche a violenze: durante la campagna elettorale lo stesso Rajiv Gandhi venne assassinato (1991). Il Partito del Congresso non sembrava capace trovare un nuovo capace leader, mentre la violenza religiosa si diffondeva nel Paese: durante le elezioni separatisti sikh hanno compirono sanguinosi attentati, e un po' in tutta l'India esplose la conflittualità religiosa. Agli inizi del 1992 trecentomila indù demolirono la moschea di Ayodhaya sostenendo che era sorta su un luogo sacro dedicato a Rama: nei disordini seguiti avevano perso la vita 1200 persone. Nel gennaio del 1993 centinaia furono i morti registrati a Bombay a causa degli scontri tra musulmani e indù e i conflitti continuarono anche negli anni a venire. Nel 1996 il congresso si ritrovò dinanzi alla più grave crisi di consensi di tutta la sua storia. Vincitore fu il BJP, il partito nazionalista indù che due anni dopo andò al Governo con il primo ministro Atal Behari Vajpayee. Dal punto di vista internazionale, l'India fu generalmente condannata per la sua decisione di effettuare esperimenti nucleari e per il suo coinvolgimento nella ripresa della lotta con il Pakistan, anch'esso impegnato in esperimenti nucleari, per l'indipendenza del Kashmir. Questa continuò fino all'estate del 2001, quando vi fu una breve tregua che permise ai leader indiano Vajpayee e pakistano Pervez Musharraf di incontrarsi, senza però arrivare a una conclusione decisiva. Nel mese di ottobre gli scontri ripresero più duri che mai, arrivando al loro culmine nel mese di dicembre, quando un gruppo suicida attaccò il Parlamento di Nuova Dehli provocando diverse vittime: diretta conseguenza dell'attentato fu l'assembramento di truppe su entrambi i fronti indiano e pakistano. Nei mesi a seguire la tensione crebbe sempre più fortemente.
Indira Gandhi


LA VIA CINESE


Con la proclamazione della Repubblica popolare cinese (ottobre 1949), il «campo socialista» veniva a comprendere il Paese più popolato del pianeta. A differenza dell'India, la Cina usciva non solo da un passato di grandi squilibri sociali e di generale povertà, ma anche da un trentennio di disordine politico, giunto al culmine quando l'invasione giapponese si sovrappose alla guerra civile già in corso tra nazionalisti e comunisti. In Cina negli anni Venti il movimento comunista nelle grandi città venne schiacciato dalle forze armate nazionaliste. La sopravvivenza e la crescita del comunismo cinese ebbero perciò basi contadine e periferiche: la «campagna» andò, una volta sconfitti i Giapponesi, alla conquista della «città». Base sociale e ispirazione teorica dei comunisti cinesi differivano da quelle dei Sovietici sin dal momento della presa del potere. Tuttavia, l'aiuto sovietico fu accettato nei primi anni di pace (turbata, per altro, dalla partecipazione alla guerra di Corea); e una buona parte del gruppo dirigente cinese, rappresentata negli anni Cinquanta-Sessanta soprattutto da Liu Shaoqi, era disposta a seguire il modello di sviluppo economico sovietico e a stringere legami durevoli con l'Urss. Il problema agrario, gravissimo in un Paese massicciamente contadino e dominato da sempre da un ceto di latifondisti, fu affrontato, non senza spargimenti di sangue e manifestazioni di radicalismo terroristico osteggiate dallo stesso Partito comunista perché dannose per la produzione, con la redistribuzione delle terre e l'eliminazione della vecchia élite rurale; mentre le attività bancarie e industriali (ma non le piccole industrie, l'artigianato e il piccolo commercio) vennero subito nazionalizzate. I dirigenti cinesi non intendevano però subordinare né lo sviluppo interno del Paese né la sua politica estera alle direttive sovietiche; i sovietici, d'altro canto, cercavano di inglobare la Cina nel sistema di relazioni economiche del «campo socialista», che prevedeva una sorta di divisione del lavoro tra i diversi Paesi: alla Cina sarebbe toccato il ruolo, non gradito, di Paese ad economia agricola e artigianale. Allo stesso modo, i Sovietici intendevano controllare il sistema difensivo cinese e influenzare la politica estera della Repubblica popolare. Nel 1953 i dirigenti cinesi vararono il loro primo piano quinquennale, sull'esempio sovietico e due anni dopo avviarono la collettivizzazione dell'agricoltura: attraverso la mobilitazione delle masse, anziché nel più brutale modo seguito dall'Urss negli anni Trenta, come fanno osservare gli studiosi simpatizzanti dell'esperienza cinese; ma la mobilitazione era, forse, agevolata dal recente ricordo del terrore che aveva accompagnato la riforma agraria.
Nella seconda metà degli anni Cinquanta i dirigenti cinesi avviarono nello stesso tempo il progressivo distacco dall'Urss (che comportò anche la fine degli aiuti tecnici sovietici) e un grandioso sforzo di industrializzazione accelerata e decentrata noto come il «grande balzo in avanti» (1958-1960). C'era senz'altro in una parte dei governanti cinesi, e soprattutto in Mao Zedong, che aveva avuto una iniziale formazione anarchica, il desiderio di evitare gli squilibri e le sofferenze che il modello staliniano aveva imposto all'Urss: sacrificio delle campagne, formazione di una burocrazia onnipotente e priva di controlli, netta separazione tra lavoro manuale e intellettuale, profonde differenziazioni regionali. Al tempo stesso tutti, compresi i meno favorevoli alle idee di Mao, condividevano un volontarismo ottimistico non sempre fondato su un'adeguata capacità di previsione delle conseguenze che iniziative imposte a un Paese di oltre mezzo miliardo di abitanti potevano avere. Così, la valutazione del «grande balzo in avanti» da parte degli studiosi è fortemente diversa. Da molti l'iniziativa è giudicata un fallimento, che provocò, nonostante le buone intenzioni, enormi sofferenze alla popolazione. D'altra parte, alcuni degli obiettivi prefissi furono raggiunti: nelle campagne furono istituzionalizzate le comuni, come organizzazioni di produzione; mentre il balzo nella produzione industriale e nella diffusione delle attività industriali fu effettivamente imponente: alla centralizzazione dell'economia fu sostituita una centralizzazione delle decisioni fondamentali, che lasciava autonomia alle iniziative periferiche. Il movimento venne però accompagnato da molte ingenuità e molta confusione, da sprechi e squilibri tra i vari settori produttivi; tanto che all'inizio degli anni Sessanta furono nuovamente rettificate le direttive e fu ridato spazio al ruolo dei tecnici e dei pianificatori. Poiché Mao aveva fortemente sostenuto l'iniziativa del «grande balzo», egli fu provvisoriamente messo da parte nella fase di ritorno ad un modello assai più vicino a quello sovietico dei primi anni Sessanta. Ma, dopo una campagna propagandistica diretta agli studenti e ai giovani intellettuali, e con l'appoggio del capo dell'esercito, Lin Biao, Mao lanciò nel 1966 la «grande rivoluzione culturale proletaria» appoggiata dal movimento delle «guardie rosse» e dalla mobilitazione degli operai delle grandi città come Shangai.
In un certo senso, la «rivoluzione culturale» era una riproposizione in forma e dimensioni nuove della ricerca di Mao di una via cinese distinta da quella sovietica e caratterizzata da uno sviluppo lento e graduale, equilibrato, il più possibile egualitario, ostile alla formazione di privilegi burocratici e alla specializzazione, e continuamente messo in discussione grazie alla partecipazione delle masse. Di fatto, il movimento sfuggì di mano alla direzione centrale (come era probabilmente inevitabile) e rischiò di sconvolgere le linee maestre della politica estera (contrariamente alle intenzioni pacifiche dei dirigenti cinesi, che non volevano complicazioni internazionali, ci furono incidenti con soldati sovietici sul fiume Ussuri e l'ambasciata britannica venne attaccata); inoltre l'importanza di Lin Biao come punto di riferimento del movimento esaltava oltre misura il ruolo dell'esercito. Nel corso di quattro anni la «rivoluzione culturale» provocò una epurazione del gruppo dirigente (in particolare di Liu Shaoqi) e una straordinaria mobilitazione politica (con viaggi delle guardie rosse attraverso il Paese, trasferimenti degli studenti nelle campagne, entusiasmi delle avanguardie operaie), che non danneggiarono, a quanto sembra, la produzione industriale. Tuttavia gli sconvolgimenti portati da un movimento sempre meno controllabile in un Paese vasto e differenziato rischiavano di tradursi in una frantumazione e confusione di poteri e di affidare il governo a un uomo forte come Lin Biao. Dopo che la «rivoluzione culturale» era di fatto terminata, Lin Biao scomparve in un misterioso incidente (1971); la supremazia del partito sull'esercito venne riaffermata e la Cina aprì al mondo esterno stabilendo clamorosamente relazioni diplomatiche con gli Usa (Nixon stesso visitò Pechino) e con altri Paesi occidentali ed entrando a far parte dell'Onu, mentre perdurava l'ostilità nei confronti dell'Urss, con la quale fra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio degli anni Sessanta era stata consumata una clamorosa rottura. Come nel caso del «grande balzo in avanti», il volontarismo e lo zelo antiburocratico e antispecialistico si tradussero in enormi sprechi di risorse, competenze e intelligenze. Inoltre, l'ispirazione antiautoritaria del movimento si traduceva in pratiche autoritarie: destituzioni, processi pubblici, incarcerazioni, intimidazioni (senza contare il costo in vite umane degli scontri tra fautori e oppositori della «rivoluzione culturale», un costo particolarmente alto proprio per le guardie rosse, una volta sceso in campo l'esercito). Se Mao aveva ragione di additare all'attenzione le «contraddizioni in seno al popolo», incitando perciò a sviluppare la lotta tra le diverse linee all'interno del partito, l'invito a «bombardare il quartier generale» partiva da chi del quartiere generale faceva parte da sempre: le iniziative spontanee ebbero l'incoraggiamento dall'alto. E infine, lo stato di effervescenza suscitato dalla «rivoluzione culturale» non poteva protrarsi in eterno.
La stabilizzazione dei primi anni Settanta fu attuata sotto il segno di una sorta di santificazione di Mao, al quale tutti si richiamavano ritualmente; di fatto tornarono a contrapporsi una linea sostenitrice della ripresa dello sviluppo economico su basi tradizionali, restituendo prestigio e competenze alle direzioni aziendali e ai tecnici e puntando all'ammodernamento dell'apparato produttivo, grazie anche alle aperture all'Occidente, e un'altra linea che si richiamava ancora in maniera generica ai principi ispiratori della «rivoluzione culturale». Il confronto vero tra la linea economicista e quella politicista («conservatori» e «radicali», secondo una semplificazione cara agli osservatori occidentali influenzati dal maoismo) si dispiegò tuttavia dopo la scomparsa di Zhou Enlai, il principale artefice della politica estera cinese, e di Mao (settembre 1976). Un mese dopo, la vedova di Mao e altri tre esponenti radicali, da allora noti con la denominazione spregiativa di «banda dei quattro», furono arrestati. Gradualmente ma sicuramente ritornò al potere Deng Xiaobing, un vecchio leader epurato durante la «rivoluzione culturale», fautore di una modernizzazione accelerata dell'economia cinese.
Negli anni Ottanta la Cina di Deng sembrò rovesciare completamente le direttive maoiste, privilegiando la formazione di quadri tecnici, inviando studenti a formarsi nelle università occidentali, soprattutto statunitensi, incoraggiando la formazione di un ceto di contadini indipendenti, tornando ad una politica di incentivi alla produzione e di accentuazione delle differenziazioni salariali. Gli investimenti occidentali e una maggiore apertura all'esterno favorirono la rapida diffusione, almeno nelle grandi città, di fenomeni di costume ispirati all'imitazione del modo di vita americano. Ai successi produttivi, del resto controllati con mano ferma dal gruppo dirigente del partito, si accompagnarono però negli ambienti studenteschi nuovde ventate antiautoritaria, anche se questa volta di segno occidentalizzante e liberalizzante, che finirono con l'opporre ai dirigenti promotori delle riforme economiche la richiesta di un inizio di pluralismo politico.
Per gli Occidentali, e gli Europei in particolare, gli avvenimenti cinesi degli ultimi anni richiamano immediatamente alla memoria la strage di Tienanmen. Nell'aprile del 1989 migliaia di studenti avevano occupato a Pechino la piazza Tienanmen, al centro della capitale e simbolo del regime: chiedevano libertà e lotta alla corruzione. Tra le fila del partito si svolgeva frattanto una silenziosa ma aspra lotta: i manifestanti chiedevano anche le dimissioni di Deng Xiaoping. Nella notte del 19 aprile venne dato ordine all'esercito di riportare la normalità nel Paese perché la protesta studentesca si era frattanto estesa anche ad altre città. Più di un milione di persone scesero allora in piazza per impedire pacificamente alle truppe di giungere sulla piazza Tienanmen. Ai primi di giugno i reparti speciali, fatti arrivare da zone periferiche della Cina perché non vi fossero simpatie verso i dimostranti, sgombrò la piazza con i carri armati. Fonti occidentali parlarono di un massacro: 7000 morti. Poi cominciò la repressione: condanne e fucilazioni. Sulla scena politica era intanto ricomparso Deng Xiaoping, rimasto in ombra nelle giornate cruciali; ora elogiava gli autori della repressione. I processi contro i leader delle manifestazioni del 1989 continuarono fino al 1991.
Deng Xiaoping rappresentò allora l'uomo forte della Cina e la sua linea riformatrice seppe imporsi con successo; nel 1992 lo stesso dirigente chiese l'intervento dell'americano Lawrence Klein (premio Nobel per l'economia) per guidare la Cina verso il capitalismo. L'anno dopo l'Assemblea nazionale del popolo ratificò la scelta del quattordicesimo congresso del Partito comunista cinese: dalla Costituzione erano stati eliminati punti essenziali di un progetto comunista come la pianificazione economica e le comuni rurali, che erano stati i due pilastri del maoismo. Veniva inoltre stabilito il principio dell'economia socialista in mercato.
Gli osservatori occidentali in Cina confermarono che le trasformazioni erano rivolte a creare nel Paese un'economia di mercato sul modello di quella capitalistica. Era previsto un forte tasso di sviluppo con tutte le contraddizioni che questo avrebbe comportato : vi sarebbero stati almeno cento milioni di cinesi che si sarebbero spostati da una parte all'altra della Cina dando vita a fenomeni di urbanizzazione e accentuando sempre più gli ormai evidenti segni di diseguaglianze sociali. Sul piano politico l'abbandono del progetto maoista e l'adesione al modello di sviluppo occidentale permise un parziale riavvicinamento della Cina a Taiwan e nel 1993 per la prima volta, sia pure a livello ufficioso, delegazioni di entrambi i Paesi si incontrarono. Nel 1995, però, la Cina non esitò da effettuare esercitazioni militari nello stretto di Taiwan, sottolineando in questo modo la propria supremazia militare e politica (più tardi, nel 2001, arrivò addirittura a simulare un'invasione dell'isola). Nel 1996 Cina, Russia, Kazakistan, Kirgisistan e Tagikistan si accordarono per arginare le tensioni etniche e religiose all'interno dei rispettivi Paesi in un legame che li fece soprannominare i "Cinque di Shangai''. Nel 1997 Deng Xiaoping morì: anni prima aveva però passato il testimone politico a Jiang Zemin. Sempre nel 1997 Hong Kong ritornò alla Cina, seguito, due anni più tardi, da Macao. Intanto disordini scoppiarono nello Stato di Xinjiang. Nel 2001 ai Cinque di Shangai si unì anche l'Uzbekistan per consolidare la lotta al terrorismo e alla guerriglia etnico-religiosa interna. Nello stesso anno la Cina fu ammessa all'interno dell'Organizzazione mondiale del commercio, a conferma del diverso ruolo internazionale assunto dal Paese.
Mao Tse-Tung


TRISTI CONDIZIONI DI VITA


Prima della rivoluzione i contadini cinesi vivevano in una condizione miserabile. Uno di questi, dopo il successo della rivoluzione cinese a cui aveva attivamente partecipato, ricordava ancora con sofferenza le precedenti, tristi condizioni di vita.
«Io sono di Henshang. La mia famiglia aveva sempre vissuto là, ma da varie generazioni non avevamo più terra sufficiente per campare. Così cominciai a lavorare per un proprietario terriero. Il padrone mi svegliava al canto del gallo; dovevo trasportare acqua e letame. Dovevo rassegnarmi a fare di tutto. Un giorno d'estate, quando i meloni maturarono, ne lasciai cadere uno che si ruppe. Era stato un incidente ma il padrone si arrabbiò, prese la vanga e mi dette un colpo in testa. Si vede ancora la cicatrice. Io svenni e ripresi i sensi solo nel pomeriggio: ero tutto insanguinato. Il padrone mi aveva lasciato nel punto dove ero caduto».

LA «RIVOLUZIONE CULTURALE» CINESE


è l'alba del 18 agosto del 1966: sulla grande piazza di Tian An Men, nel cuore di Pechino, centinaia di migliaia di ragazzi, attendono di veder comparire il Grande Timoniere. Scandiscono slogan rivoluzionari e cantano L'oriente è rosso, un inno le cui parole dicono: «L'oriente è rosso, il sole si leva, la Cina ha partorito un Mao Zedong». E, proprio nel momento in cui i primi raggi del sole illuminano il cielo, Mao appare sugli spalti di Tian An Men. I giovani sono in preda al delirio, esultano, piangono, sventolano i libretti rossi con le citazioni di Mao, hanno al braccio una fascia con su scritto «Guardia rossa». è la stessa fascia che Mao indossa legittimando così platealmente il movimento delle Guardie Rosse che lo acclamano loro comandante in capo.
Da quel momento, per poco più di un anno, saranno questi giovanissimi a scatenare in tutta la Cina la «Grande Rivoluzione Culturale Proletaria» andando all'assalto del partito Comunista, bombardando, come aveva ordinato Mao, il «quartier generale», distruggendo tutto quanto era «vecchio»: antichi monumenti profanati e sfregiati perché rappresentavano il passato feudale, libri dati alle fiamme perché propagandavano teorie borghesi o comunque «arretrate»; centinaia di migliaia di uomini e donne, per la maggior parte veterani del Partito comunista, costretti a portare il «cappello d'asino», a subire umiliazioni, violenze e morte per mano di questi adolescenti autorizzati dall'alto a ergersi a giustizieri spazzando via tutti i «demoni e i mostri» per far trionfare il «regno della virtù».
Ma ora ci si chiede: cosa è stata in realtà la «rivoluzione culturale» che all'epoca venne salutata come primo esperimento di «rivoluzione nella rivoluzione»? E come mai sono stati scelti proprio i giovanissimi per dare anima e corpo a questo sommovimento di massa?
La «rivoluzione culturale» è da considerarsi senza dubbio una lotta per il potere: Mao vuol far sparire tutti coloro che si oppongono alla sua linea politica e, in particolare, quegli oppositori che si trovano in seno al partito. Per raggiungere questo scopo sceglie così la soluzione più radicale: distruggere il partito stesso contando sul proprio carisma personale per mobilitare le masse. Ma non è soltanto per ambizione personale che Mao vuole distruggere il partito e prendere il potere. è sempre presente, nel suo pensiero e nelle sue azioni, un anelito verso l'utopia, un desiderio di assoluto che genera una permanente insoddisfazione per i risultati acquisiti. Capo di una rivoluzione che ha trionfato, non esita infatti a rimettere in discussione tutto per impedire che «la Cina cambi colore», cioè che prevalga la nuova borghesia della burocrazia statale, corrotta e corruttrice che «siede sulla testa delle masse togliendogli il respiro». Così scrive in un saggio del 1964 nel quale sostiene che quando la rivoluzione diventa istituzione perde di vista i propri obiettivi. I veri nemici sono quindi per Mao all'interno del partito, ai suoi vertici, ed è necessario combatterli facendo appello alla gioventù per mantenere viva la fiamma dei tempi eroici. E ancora: bisogna ricreare il clima di quei tempi per «forgiare la tempra dei successori della rivoluzione».
Questo scritto del 1964 è già il manifesto della «rivoluzione culturale» e fornisce risposta al secondo interrogativo, cioè come mai siano stati scelti proprio i giovani come principali agenti di questo sommovimento gigantesco che ha destato tanto interesse per il fatto che, almeno nelle prime fasi, è stato contraddistinto da uno spirito libertario espresso da incisive parole d'ordine lanciate da Mao stesso come «Ribellarsi è giusto!», «Abbasso il re dell'inferno, liberate i piccoli diavoli!», «Bombardate il quartier generale!».
A questi incitamenti fa però da contraltare il culto forsennato che si crea intorno alla personalità di Mao il quale, come tutti gli utopisti e i rivoluzionari romantici si dimostra un acuto critico della realtà ma non riesce a dare una forma costruttiva alle sue proposte. Sogna di costituire degli organismi di massa permanenti ispirati al modello della Comune di Parigi, cioè delle strutture democratiche popolari che permettano alle masse di avere il controllo effettivo del sistema produttivo e del proprio destino ma vi rinuncia subito, sopraffatto dal turbine degli eventi che ha scatenato. è un turbine che alla Cina è costato dai venti ai trenta milioni di morti portando l'immenso Paese che ancora non ha superato la barriera dell'arretratezza, alla guerra civile. Poco più di un anno dopo l'oceanico raduno delle Guardie Rosse a piazza Tian An Men, le forze sociali e le contraddizioni che sono state scatenate hanno assunto vita autonoma e una tale virulenza da sfuggire al loro manipolatore. A quel punto vi sono soltanto due soluzioni: abbandonare il Paese all'insurrezione o fare appello all'esercito per ristabilire l'ordine. Mao sceglie la seconda soluzione che significa decretare la morte della «rivoluzione culturale». L'agonia sarà comunque lunga e scossa da violenti soprassalti.
Le parole d'ordine della «rivoluzione culturale» e l'ideologia maoista, che si presenta come radicalmente contestatrice del potere costituito, hanno però vasta eco in Occidente. E l'hanno, per ironia della storia o per mancanza di informazioni sulla realtà cinese, proprio nel momento in cui non c'è più in Cina nessuna rivoluzione ma i militari hanno imposto la loro dittatura e il culto di Mao imperversa assumendo forme di fanatismo religioso.
Infatti le parole d'ordine libertarie lanciate da Mao in Cina infiammano prima i campus delle università americane e poi si propagano in tutta Europa rinvigorendo e legittimando ideologicamente alcuni aspetti di quel movimento dissacratore e di rinnovamento che va sotto il nome di «Sessantotto». Si proclama che «la Cina è vicina» e che al suo modello bisogna ispirarsi per «liberare le masse», «rovesciare il mondo», «creare l'uomo nuovo». La Cina però non è mai stata tanto lontana e isolata come nel 1968 quando le avverse fazioni di Guardie Rosse, dopo essersi combattute a vicenda in vere e proprie battaglie campali, sono state attaccate dall'esercito che non ha esitato a usare artiglieria pesante e bombe al napalm. Le Guardie Rosse e tutti i «ribelli» che Mao aveva esaltato come «successori della rivoluzione» sono sgominati dall'esercito, massacrati. Quelli che riescono a evitare il massacro o l'arresto vengono mandati in campagna a «rieducarsi»: nel periodo 1968-69 sono più di venti milioni i giovani ex ribelli che subiscono questa punizione presentata come una possibilità di «rigenerarsi» attraverso il lavoro manuale. Mentre in Europa scoppia il Sessantotto, in Cina è stato ristabilito l'ordine ed è un ordine militare.
La «rivoluzione culturale» non è riuscita a portare il regno della virtù su questa terra e a dare il potere alle masse ma Mao tuttavia non la ripudia ufficialmente cosicché ora si ritiene che sia durata dieci anni, dal 1966 al 1976, anno in cui muore Mao. In realtà è durata meno di tre anni e se è vero che è stata lanciata con lo scopo di distruggere la burocrazia di partito, si è rivelata un totale fallimento perché nel 1969 il partito Comunista è di nuovo il nucleo dirigente del regime. Quel che è peggio è che ormai si tratta di un partito diviso in opposte fazioni dove tutte le battaglie si combattono ai vertici provocando continue oscillazioni della linea politica e gravi crisi. La più grave è stata quella del 1971, quando venne sventato il tentativo di colpo di Stato di Lin Biao, capo delle Forze Armate e erede designato di Mao. O la crisi che si ebbe in seguito alle manifestazioni popolari di Tian An Men, nell'aprile del 1976, per commemorare Zhou Enlai: in quell'occasione l'esercito aprì il fuoco sulla folla come è successo poi anche nell'estate del 1989. Soltanto con la scomparsa di Mao, nel settembre del 1976, e con l'arresto dei suoi principali collaboratori tra i quali sua moglie Jang Qin, membro della cosiddetta «banda dei quattro», si sblocca una situazione che appariva senza via d'uscita e si arriva alla condanna ufficiale della «rivoluzione culturale». Ora in Cina non si parla più di «rivoluzione culturale» ma dei «dieci anni di catastrofe». Per milioni e milioni di persone le cui vite sono state sconvolte da questo evento e dalle sue conseguenze, la precisione della periodizzazione ha poca importanza. La Cina ha pagato a lungo il prezzo di quella fuga verso l'utopia voluta da Mao Zedong.

LA SINISTRA OCCIDENTALE E LA RIVOLUZIONE CULTURALE

Le vicende cinesi, soprattutto quelle della «rivoluzione culturale», hanno entusiasmato una parte delle nuova sinistra occidentale. Il pensiero di Mao ha avuto forse più fini esegeti in Europa che non in Cina. In questo senso, la Cina ha preso il posto dell'Urss per una generazione di intellettuali di sinistra occidentali. In realtà, della Cina non si è mai saputo abbastanza (vista l'impossibilità di compiere liberamente indagini e studi e la scarsità di dati statistici) per poter fondare un giudizio serio: per qualche anno è prevalsa l'apologia acritica di una «rivoluzione culturale» e di un maoismo conosciuti molto spesso di seconda mano; più di recente è invalsa una semplicistica e disinvolta denigrazione di quegli stessi fenomeni, che egualmente impedisce di conoscerli. Certamente la Cina ha percorso una strada diversa da quella sovietica, grazie anche a Mao e alla sua influenza all'interno del partito Comunista cinese. D'altra parte, la «rivoluzione culturale» appare, retrospettivamente, più una lotta di retroguardia per rallentare un corso che si è comunque affermato, che non una prospettiva praticabile. E ciò non per la debolezza della riflessione di Mao, che al contrario era stata estremamente lucida nel prevedere la necessità di «molte rivoluzioni culturali», e assai coerente nel proporre per il Paese uno sviluppo lento, equilibrato ed endogeno; ma piuttosto per la forza delle cose e per l'effetto dello sviluppo delle forze produttive. In un certo senso, il primato della politica sostenuto da Mao tendeva a realizzare una «rivoluzione contro il Capitale», per riprendere l'espressione adoperata da Gramsci a proposito della rivoluzione d'Ottobre: vale a dire, un'iniziativa d'avanguardia sfasata rispetto allo stadio di sviluppo dell'economia; allo stesso modo, tendeva a prefigurare un modello di partito assolutamente originale e non si sa quanto realizzabile, soprattutto in un Paese di oltre un miliardo di abitanti.