LA FINE DEGLI IMPERI COLONIALI
Nei primi anni
Trenta un economista tedesco definì «decolonizzazione» il
movimento di liberazione dei Paesi coloniali asiatici e africani dalla
subordinazione politica ed economica alle potenze colonizzatrici europee: un
fenomeno che aveva preso a svilupparsi in Asia all'indomani della Prima guerra
mondiale, ma che si è realizzato, sempre a partire dall'Asia, solo in
questo dopoguerra.
Tanto in Asia quanto in Africa (dove la decolonizzazione
iniziò solo negli anni Cinquanta) la Seconda guerra mondiale
indebolì le resistenze colonialiste: sia perché le potenze alleate
dovettero fare esplicite promesse di autonomia, di indipendenza, o almeno di
revisione dello statuto di dipendenza, per ottenere la collaborazione dei popoli
coloniali allo sforzo bellico; sia perché le stesse amministrazioni
coloniali, almeno nell'Asia sudorientale, vennero travolte dalla sconfitta
militare degli Europei e dall'appoggio dei Giapponesi ai nazionalismi birmano e
indonesiano contro Inglesi e Olandesi. Perciò in Asia le potenze
coloniali o onorarono gli impegni presi prima della guerra e durante la guerra
(come nel caso dell'India), o riconobbero lo stato di fatto creato dalla guerra
(come nel caso della Birmania, oggi Myanmar); quando poi tentarono di
riconquistare con le armi le colonie perdute (come in Indonesia e in Indocina)
vennero battute.
Come risultato di questo processo, alla metà degli
anni Cinquanta quasi tutta l'Asia era indipendente (la Gran Bretagna concesse
l'indipendenza alla Malesia nel 1957, dopo avervi represso una rivolta contadina
organizzata dal partito Comunista; le sole colonie europee rimaste in Asia erano
Hong Kong e Macao, che Inglesi e Portoghesi, rispettivamente, restituirono alla
Cina nel 1997 e nel 1999). Per lo più asiatici erano perciò i
Paesi che si riunirono nel 1955 a Bandung, in Indonesia, per una conferenza che
impose all'attenzione del mondo lo schieramento dei Paesi «non
allineati» o «non impegnati». Alla conferenza partecipò
tuttavia, e con un ruolo importante, anche la Cina popolare, allora nettamente
schierata con il blocco sovietico. Ma proprio la Cina, per bocca del suo
rappresentante Zhou Enlai, propose un tema carico di avvenire: il rapporto tra
Paesi industrializzati dell'Europa e del Nord America, e Paesi poveri dell'Asia
e dell'Africa (e per estensione dell'America latina, o almeno di una parte di
essa), ovvero il conflitto mondiale tra le «città» sfruttatrici
e le «campagne» sfruttate, secondo un paragone ripreso dalla strategia
rivoluzionaria cinese. Benché l'Unione Sovietica dichiarasse allora la
propria simpatia per i Paesi neutrali o «non allineati», a molti dei
quali ha in vari tempi accordato prestiti per lo sviluppo e aiuti tecnici, le
implicazioni della posizione cinese emersero all'inizio degli anni Sessanta,
quando i cinesi inclusero anche l'Urss, accusata di «egemonismo»,
nelle «città».
Negli anni Cinquanta il movimento di
decolonizzazione si estese dall'Asia all'Africa. Qui la guerra restituì
l'indipendenza anzitutto alle ex colonie italiane: immediatamente l'Etiopia,
più tardi Libia (1951) e Somalia (1960). La Gran Bretagna concesse
l'indipendenza al Sudan (che aveva amministrato in condominio con l'Egitto) nel
1956; l'anno dopo il Ghana di Nkame Nkrumah fu la prima delle ex colonie
dell'Africa subsahariana a diventare indipendente; fra il 1960 (Nigeria) e il
1965 (Gambia) il grosso dell'Impero coloniale britannico fu smantellato;
soltanto i piccoli Stati del Lesotho e dello Swaziland ottennero l'indipendenza
un po' più tardi, nel 1966 e nel 1968. Ma la resistenza alla
decolonizzazione da parte dei coloni bianchi si manifestò, per
contraccolpo, nella secessione della Rhodesia del Sud, che abbandonò il
Commonwealth britannico nel 1965 per costituirsi in Repubblica governata dalla
minoranza bianca; questo regime, diretto da Ian Smith, tenne testa per quasi un
quindicennio ai movimenti di guerriglia neri; la rinuncia alla secessione e poi
il passaggio all'indipendenza del nuovo Stato (denominato Zimbabwe), diretto
dalla maggioranza nera, avvenne solo nel 1979-1980. La Rhodesia riuscì a
resistere a lungo grazie anche all'appoggio ricevuto dal vicino Sudafrica.
Questo Stato, abitato da una maggioranza nera ma dominato dalla minoranza
bianca, era entrato a far parte dell'Impero britannico nel 1902, dopo che i
coloni bianchi di origine olandese detti «boeri» erano stati sconfitti
militarmente dalla Gran Bretagna. Nel Sudafrica coesistevano perciò,
oltre a una maggioranza (oltre tre quarti della popolazione) di neri, per altro
divisi in etnie non sempre concordi, una minoranza bianca (circa un quinto)
divisa a sua volta in una componente di lingua inglese e in una, più
numerosa, di lingua afrikaan (i boeri), e altre minoranze di meticci e asiatici,
generalmente immigrati dall'India. Nel 1948 assunse il potere il partito
rappresentante la minoranza boera, che rafforzò un regime di segregazione
razziale tra bianchi e neri, denominato apartheid. Nel 1961 il Sudafrica
abbandonò anche il Commonwealth britannico, costituendosi in Repubblica
indipendente, controllando militarmente e politicamente l'intera Africa
meridionale, proteggendo la Rhodesia secessionista, occupando sino al 1989 il
territorio (ricchissimo di risorse minerarie) della Namibia, ingerendosi nelle
vicende delle ex colonie portoghesi di Angola e Mozambico, e alleggerendo
abilmente le proprie tensioni interne con il dare una formale autonomia
amministrativa a province abitate da neri ma soggette al Governo sudafricano (le
Black homelands o Bantustans), e con il costituire fra il 1976 e il 1981 quattro
veri e propri Stati formalmente indipendenti ma subordinati. Il regime
segregazionista sudafricano venne sempre condannato a parole dalla
comunità internazionale e sottoposto dalla fine degli anni Settanta a
sanzioni economiche (per altro largamente disattese) da parte di molti Paesi
dell'Onu. Ma le grandi risorse del sottosuolo (oro, diamanti), e la posizione
strategica, che assicurò al Governo sudafricano il sostegno dei Paesi
occidentali, gli permisero di mantenersi a lungo in un apparente isolamento.
Solo nel corso degli anni Ottanta la ripresa di movimenti di protesta della
maggioranza nera, repressi con la legge marziale, logorò la coesione
della minoranza bianca, il cui leader de Klerk nel 1989 fece liberare dal
carcere il principale esponente del movimento di opposizione nera, Nelson
Mandela.
Nel 1991 la cauta ma continua politica del governo de Klerk
operò nello smantellare la legislazione dell'apartheid e sempre nello
stesso anno gli Usa abrogaronono le sanzioni contro il Sudafrica. In
riconoscimento dell'opera svolta, de Klerk e Mandela vennero insigniti nel 1992
del premio Unesco per la pace, seguito, nel 1993, dal premio Nobel. Il cammino
verso l'integrazione razziale conobbe ancora difficoltà e tensioni, ma la
spirale di segregazione e violenza era stata, definitivamente, spezzata. Nel
1994 Nelson Mandela venne eletto presidente del Paese, carica che mantenne fino
al 1999, anno delle sue dimissioni.
La decolonizzazione francese ebbe non
solo ritmi e modalità assai diverse da quella inglese, ma a differenza di
questa, si ripercosse anche sul Paese colonizzatore. Essa iniziò nel
Nordafrica, dove nel 1956 il Marocco (mai stato formalmente una colonia, ma un
protettorato) e la Tunisia divennero indipendenti, sotto regimi rimasti legati
alla Francia. In Algeria, la prima colonia francese nel Maghreb, incorporata nel
1875 al territorio metropolitano, esisteva invece una numerosa comunità
di Europei (Francesi, Spagnoli, Italiani: oltre un milione su circa dieci
milioni di abitanti), soprannominati “pieds noirs’’. La lotta
della maggioranza musulmana per l'indipendenza prese la forma di una vera e
propria guerriglia (1954), seguita da campagne terroristiche sia nelle
città algerine sia in Francia, e brutalmente combattuta con
rastrellamenti e torture dall'esercito francese. L'opposizione della destra
nazionalista francese ad ogni trattativa con gli indipendentisti algerini
sfociò in un colpo di Stato che riportò al potere in Francia il
generale de Gaulle (1958). Egli, però, contro le aspettative dei fautori
della sua ascesa, negoziò l'indipendenza dell'Algeria (1962), invano
contrastata dalla sanguinosa campagna di attentati lanciata da un'organizzazione
terroristica, l'Oas, costituita tra i coloni francesi e i loro sostenitori in
patria. I “pieds noirs’’ abbandonarono in massa l'Algeria
indipendente, dove tre anni dopo il leader indipendentista Ben Bella fu
rovesciato dal capo dell'esercito, Boumedienne, rimasto poi al potere sino alla
morte (1978), e fautore di uno sviluppo pianificato e rigidamente
autoritario.
Alla morte di Boumedienne divenne presidente dell'Algeria
Chadi Bendjedid che rimase al potere fino all'inizio del 1992 quando si dimise.
Sotto la sua presidenza si manifestarono violentemente le contrapposizioni tra
lo Stato laico e le forze dell'islamismo integralista che avrebbero voluto dare
al Paese una connotazione religiosa accentuata; lo stesso Ben Bella, rientrato
in Algeria dopo quindici anni di prigionia e dieci di esilio, spinse con
infiammati discorsi gli integralisti ad iniziare la guerra santa e a sostenere
Saddam Hussein contro gli Americani. In questo scontro l'esercito si
schierò a sostegno dello Stato e appoggiò la decisione di
invalidare i risultati delle elezioni del 1992 che avevano dato la vittoria agli
integralisti.
Intanto cresceva la tensione e aumentavano gli omicidi; gli
integralisti islamici colpirono tutte le manifestazioni che a loro parere
potevano corrompere la tradizione musulmana: ne restarono vittime intellettuali,
ma anche uomini di spettacolo e cantanti che vennero. In un clima di guerra
civile, nel 1994 il generale in pensione Liamine Zeroual, nominato presidente
dall'Alto Consiglio di Sicurezza con un'insolita procedura, tentò una
politica di riconciliazione verso gli integralisti. Cinque anni più
tardi, dopo essere stato confermato da elezioni, si dimise: al suo posto venne
eletto Abdelaziz Bouteflika che cercò immediatamente un accordo con i
membri del Fronte di salvezza islamica (e con il suo braccio armato) procedendo
alla concessione di decine di procedimenti di grazia. Ciò nonostante
frange contrarie all’accordo continuarono a terrorizzare il Paese, e in
special modo la minoranza berbera, con cruente azioni omicide.
Nel resto
dell'Africa i Francesi pilotarono accortamente la liquidazione del loro Impero,
istituendo nel 1958 una «Comunità francese» nella quale alla
metropoli erano associati 12 Paesi africani già colonie (solo la Guinea
chiese l'indipendenza immediata); ma nel 1960 la comunità fu sciolta, e
tutti i Paesi divennero indipendenti, negoziando nello stesso tempo il
mantenimento di legami economici, cioè di sostanziale dipendenza, con la
Francia.
Sempre nel 1960, e sulla scia delle iniziative francesi, il Belgio
concesse repentinamente l'indipendenza alla colonia del Congo. Territorio tanto
ricco di materie prime e minerali preziosi quanto vasto, il Congo alla fine
dell'Ottocento fu sfruttato direttamente dalla corona belga con una
brutalità che scandalizzò l'opinione pubblica europea e in seguito
venne male amministrato dallo Stato belga, che non preparò in alcun modo,
a differenza della Gran Bretagna e in misura minore della Francia, il passaggio
della colonia all'indipendenza. La proclamazione della Repubblica congolese
aprì immediatamente un confuso conflitto di tendenze unitarie e
federaliste, rivalità etniche, ambizioni personali dei leader locali,
maneggi dei gruppi di interesse belgi (l'Union Minière, soprattutto) per
continuare a controllare il Paese, e soprattutto la provincia mineraria del
Katanga (che fu governata sino al 1964 da un Governo secessionista).
Il
leader unitario e progressista Patrice Lumumba fu assassinato (1961); il potere
fu assunto da un militare, Joseph Mobutu, che con l'aiuto degli occidentali
riprese gradualmente il controllo di tutto il Paese. Alla fine degli anni
Novanta però si scatenò una guerra civile che vide la caduta di
Mobutu e l’ascesa di Laurent-Derisé Kabila, oltre alla rinomina del
Paese, divenuto nel frattempo Zaire, in Repubblica Democratica del Congo. La
situazione andò peggiorando, con il continuo coinvolgimento di Ruanda,
Uganda, Zimbabwe, Namibia e Angola, e nel 2001 Kabila venne assassinato: fu
sostituito dal figlio. Statistiche stilate dall’Alto Commissariato Onu per
i Rifugiati stabilirono che dal 1998 al 2001 persero la vita circa 2,5 milioni
di persone direttamente o indirettamente interessate dal conflitto.
I
possedimenti spagnoli in Africa divennero indipendenti fra il 1968 (Guinea
Equatoriale) e il 1975 (Sahara occidentale spagnolo e Rio de Oro); ma contro la
volontà, accolta dagli Spagnoli, del Marocco e della Mauritania di
spartirsi questi ultimi territori, semispopolati, ma ricchi di fosfati, insorse
la guerriglia delle popolazioni indigene, organizzate dal fronte Polisario. La
guerriglia ebbe successo contro la Mauritania; il Marocco riuscì invece a
stabilizzare l'occupazione della costa e dei centri minerari.
L'ultimo
grande impero coloniale europeo in Africa a tramontare fu quello portoghese,
comprendente la Guinea Bissau e le isole di Capoverde, l'Angola e il Mozambico.
Questi possedimenti regalavano al Portogallo, povero e soggetto al regime
reazionario e clericale di Salazar, un'illusione di grandezza fondata sullo
sfruttamento degli uomini e delle risorse indigene a beneficio di poche
compagnie e grandi proprietari. La lotta armata indipendentista, sviluppatasi
prima e soprattutto nella Guinea e in Angola, gravò sull'economia del
Portogallo, privo dei mezzi militari e finanziari per combattere la guerriglia,
e soprattutto generò nelle stesse forze armate (di leva) incaricate di
reprimerla una presa di coscienza dell'ingiustizia della guerra in corso in
colonia e del fallimento del regime in patria. L'esercito portoghese
abbatté il regime del successore di Salazar, Caetano, e concesse
immediatamente l'indipendenza alle colonie (1974-1975). Dove, come in Guinea,
esisteva un movimento politico organizzato, il trapasso fu facile; nel Mozambico
contro il nuovo Governo si scatenò subito la guerriglia condotta dalle
forze indigene già al servizio dei Portoghesi e successivamente sostenute
dal Sudafrica: e sino a tutti gli anni Ottanta proprio il Sudafrica
esercitò un virtuale protettorato sul Paese; in Angola, la colonia
più ricca, tre movimenti indipendentisti rivali si contesero il potere,
che fu assunto dall'Mpla, di orientamento vagamente marxista e il solo che non
avesse una base prevalentemente tribale. A sostegno di uno degli altri
movimenti, l'Unita, forte tra gli abitanti dell'interno, intervenne il
Sudafrica, mentre a sostegno del nuovo Governo una forza di spedizione cubana
appoggiata dall'Urss (1977). Come risultato, anche dopo il ritiro delle forze
straniere, l'Angola è rimasto diviso, impoverito dalla guerra civile. Il
fallimento dei tentativi di applicare forme di pianificazione e statalizzazione
della produzione e del commercio, a imitazione del modello sovietico, costrinse
i governanti angolani (come del resto quelli delle altre ex colonie portoghesi)
a cercare il sostegno dei Paesi ricchi dell'Occidente.
Nel 1992 si ha la
storica svolta che porta le forze in lotta a siglare a Lisbona un accordo che
pone fine alla guerriglia. Sembra raggiunta finalmente la pace dopo 16 anni di
lotte, ma le successive elezioni presidenziali e legislative diventano
l'occasione per riaccendere la guerra civile. L'Unita contestando i dati
riprende le armi contro il governo di Luanda; la guerriglia si riaccende, ma
sembra che l'Unita sia isolata; alla fine del 1993 gli Americani decidono di
riconoscere il Governo di Luanda. Ciò nonostante si assistette al
persistere delle tensioni che, nel 1998, si tradussero nella ripresa delle
ostilità all’interno delle diverse fazioni nazionali.
Il
Mozambico aveva conosciuto una situazione analoga a quella dell'Angola, spaccato
tra le forze governative del Frelimo, appoggiato dall'Urss da Cuba, e il
movimento della Renamo, sostenuto dal Sudafrica; per 16 anni il Paese era stato
sconvolto dalla guerriglia finché le due fazioni non firmarono gli
accordi di Roma del 1992 con cui si poneva fine allo stato di guerra. L'Onu era
incaricato di controllare il processo che avrebbe dovuto portare a libere
elezioni.
IL NUOVO COLONIALISMO
Mentre in Asia gli Europei avevano per lo
più sovrapposto la loro autorità a strutture statali preesistenti
(in India, ad esempio, gli Inglesi avevano lasciato buona parte del territorio
sotto il governo formale dei sovrani locali; in Malesia avevano semplicemente
subordinato politicamente i sultanati indigeni), nell'Africa nera avevano
operato come in un vuoto, dividendo territori ed aggregando popolazioni in modo
arbitrario. Perciò, benché il problema della decolonizzazione
fosse stato originariamente dibattuto a proposito dell'Asia, esso fu sentito
particolarmente dagli Africani. Alle correnti panasiatiche (tendenti cioè
a sottolineare le comunanze di interessi e contatti tra i popoli asiatici),
sorte tra le avanguardie intellettuali e politiche anticolonialiste in risposta
alla cultura europea, corrisposero nell'Africa a Sud del Sahara un orientamento
panafricanista e nel mondo arabo quello panarabo. Il panafricanismo
rappresentava per tutti i Paesi dell'Africa nera un tentativo di ritrovare
solidarietà, affinità, e radici culturali che la dominazione
coloniale aveva cercato di cancellare, imponendo sulle lingue e i dialetti
indigeni le lingue europee, (francese, inglese, portoghese), introducendo il
cristianesimo nelle sue diverse denominazioni, orientando correnti di traffico e
linee di comunicazione in funzione degli interessi delle potenze
coloniali.
Il colonialismo, manifestando la superiorità tecnica del
mondo occidentale, aveva provocato nei Paesi colonizzati il desiderio di
assorbire quanto della cultura occidentale era necessario per assicurare la
crescita economica, e nel contempo la volontà di difendere, contro la
occidentalizzazione, le tradizioni culturali locali. Il problema della
ricostruzione di un'identità culturale è stato avvertito non tanto
nei Paesi asiatici o in quelli del Medio oriente islamizzato, dalle tradizioni
culturali forti (tra gli stessi colonialisti occidentali è sempre
esistita una corrente di attrazione per il mondo islamico), quanto, di nuovo,
dai Paesi dell'Africa nera, dove la dispersione di quelle tradizioni ad opera
del colonialismo è stata fortissima. D'altra parte, a questa difesa
contrastano sia l'obiettiva utilità dell'adozione della cultura e della
lingua dell'ex potenza coloniale, di fronte alla frammentazione delle culture e
delle lingue indigene, sia la già ricordata artificialità di tante
costruzioni statali, e l'estrema difficoltà a tradurre in atto le
generiche aspirazioni alla solidarietà tra i diversi Stati di una
medesima area culturale.
Persino nel mondo arabo mediorientale, accomunato
da secoli di sottomissione politica alla stessa potenza (l'Impero ottomano), e
frammentato soltanto fra la prima metà dell'Ottocento (indipendenza
dell'Egitto) e la Prima guerra mondiale (fine dell'Impero ottomano e divisione
dei domini turchi in mandati della Gran Bretagna e della Francia), i progetti di
unificazione sono regolarmente falliti, anche perché motivati da ragioni
propagandistiche e dalla ricerca di prestigio internazionale di questo o quel
leader. Nel 1958 l'Egitto di Nasser costituì con la Siria un'effimera
Repubblica araba unita, alla quale si sarebbe dovuto unire anche l'Iraq, e che
fu invece sciolta nel 1961. Più recentemente ancora, in momenti diversi,
sia il presidente egiziano Sadat sia quello siriano Assad (fautori di politiche
opposte) annunciarono clamorosi, e nemmeno attuati, progetti di unione con la
Libia. Siria e Iraq, Paesi governati da due distinte branche del partito Baas
(inizialmente un partito nazionalista progressista di stampo socialista), furono
per decenni in forte conflitto.
La tendenza prevalente è stata
semmai quella di dividere ulteriormente gli Stati nati dalla decolonizzazione:
dal Pakistan si è staccato, dopo una guerra civile e l'intervento
dell'India, il Bangladesh (1971). Il Sudan comprende un Nord musulmano e un Sud
nero, cristiano e animista, rimasti uniti soprattutto perché i ribelli
del Sud non sono mai stati abbastanza forti da vincere le truppe governative che
li hanno sempre repressi (dal 1983, anno della ripresa del conflitto iniziato
nel 1962 e interrotto per 11 anni dal 1972, anno del trattato di pace che
riconosceva il diritto della regione meridionale all’autogoverno, oltre un
milione di persone persero la vita e quattro milioni furono costrette a fuggire
a causa della guerra civile).
Soprattutto in Africa, perciò, la
conquista dell'indipendenza non comportava affatto l'acquisizione della piena
capacità da parte delle ex colonie di decidere il proprio assetto e di
disporre delle proprie risorse. Già a Bandung Zhou Enlai aveva additato
il pericolo del «neocolonialismo»: dell'instaurazione, cioè, di
una forma indiretta di dominazione consistente non nella conquista armata,
nell'amministrazione diretta dei territori e nell'espropriazione forzata delle
risorse, ma nella sostanziale dipendenza dell'ex colonia dall'Occidente
industrializzato (e magari dalla ex potenza coloniale) attraverso accordi
economici e commerciali vantaggiosi solo per la parte più forte.
In
effetti, gli aiuti concessi dai Paesi industrializzati alle loro ex colonie
sotto forma di prestiti e di assistenza tecnica hanno perpetuato l'indebitamento
di queste, vincolandone le politiche economiche e commerciali agli obblighi
verso i creditori.
TERZO MONDO E TERZOMONDISMO
L'emergere dei Paesi ex coloniali ha imposto
una riclassificazione della geografia politica ed economica del globo. Se di
fronte ai blocchi molti di questi Paesi erano, o volevano presentarsi, come non
allineati, anche rispetto al modello capitalistico occidentale e al modello
sovietico rappresentavano complessivamente una realtà diversa. Erano i
Paesi non industrializzati, né al modo delle economie di mercato
né al modo statalistico dell'Urss: le «campagne», appunto,
terre di una povertà per lo più precedente lo stesso sfruttamento
industriale, società tradizionali scarsamente alfabetizzate e
contraddistinte dalla persistenza di mentalità, modi di vita, forme e
strumenti di lavoro, culture estranee tanto al mondo capitalista quanto al mondo
comunista. Un Terzo mondo, quindi, compreso con difficoltà dagli
occidentali, inclini a considerarlo al più come lo stadio arretrato e
provvisorio di uno sviluppo economico inevitabile e pensato secondo i modelli
dell'industrializzazione europea o nordamericana, ma con altrettanta
difficoltà compreso dai Sovietici, pronti a fornire l'assistenza tecnica
necessaria per costruire acciaierie, strade e dighe (la grande diga di Assuan,
in Egitto, inaugurata nel 1964, fu forse la più colossale tra le
realizzazioni sovietiche nel mondo afroasiatico), premesse tutte ad una
altrettanto inevitabile modernizzazione socialista. Un Terzo mondo, spesso, poco
apprezzato dagli stessi intellettuali e dirigenti politici dei Paesi liberatisi
dal colonialismo, generalmente formatisi o nelle università della potenza
coloniale (il tunisino Burghiba e il senegalese Senghor) o, se appartenenti alle
avanguardie comuniste, negli anni di esilio più imprevedibili e talvolta
avventurosi (Ho Chi Minh restò trent'anni lontano dal Vietnam, tra
Parigi, Mosca e la Cina), protesi comunque a realizzarne la modernizzazione,
quando non disponibili a lasciarne perpetuare lo sfruttamento in forme nuove. Un
Terzo mondo, infine, che sotto il peso della nuova dipendenza economica vedeva
associati ai Paesi appena liberi dal colonialismo anche quelli dell'America
latina politicamente indipendenti dall'Ottocento, ma dipendenti di fatto
dall'economia europea occidentale e statunitense. Del resto, in molti di questi
Paesi ristrette élite discendenti in buona parte dai colonizzatori
bianchi governavano su popolazioni indigene scarsamente alfabetizzate e
poverissime, riproducendo il modello tradizionale delle società
coloniali. Proprio nei Paesi latino-americani si è sviluppata in ambienti
della sinistra cattolica (laica, ma in qualche caso anche ecclesiastica,
rappresentata soprattutto da esponenti del clero regolare, cioè degli
ordini religiosi; la gerarchia secolare ha rappresentato invece a lungo un
solido puntello delle élite conservatrici) un'analisi della dipendenza
economica del mondo ex coloniale non lontana dalle analisi condotte dagli
intellettuali di provenienza marxista. Il «terzomondismo», inteso come
attenzione alla realtà della divisione del mondo in due aree
complessivamente separate (un'area ricca ed una povera, una sfruttatrice ed una
sfruttata), per quanto attinga concetti e strumenti di analisi dalla teoria
marxista, pone l'accento sul fatto che i Paesi sfruttatori sono nel loro
complesso - compresa quindi la classe operaia - debitori del proprio benessere
al dominio esercitato sui Paesi sfruttati. Si tratta di un orientamento
intellettuale sviluppato dalla sinistra cristiana occidentale (in particolare di
cultura francese) e da correnti eterodosse della sinistra marxista negli anni
Cinquanta, e confluito un decennio dopo nel crogiolo intellettuale della nuova
sinistra europea. Una sensibilità «terzomondista» ha continuato
a caratterizzare la Chiesa cattolica anche nelle sue espressioni ufficiali: sia
durante il pontificato di Paolo VI (1963-1978), sia durante quello di Giovanni
Paolo II (dal 1978), che ha insistentemente fatto riferimento alla divisione tra
«Nord» e «Sud» del mondo, intesi come metafore dei Paesi
ricchi industrializzati e dei Paesi poveri. Una sensibilità che è
diventata corrente di pensiero alla fine degli anni Novanta con la creazione di
movimenti raggruppabili sotto la formula del Social Forum, ovvero della
formazione sociale composita, inter-politica e inter-religiosa, avente come
obiettivo comune la realizzazione di progetti caratterizzati da equità
morale e solidale in ambito mondiale oltre alla risoluzione di problematiche
legate alla disparità economico-sociale tra i popoli.
LE CONTRADDIZIONI DELL'INDIPENDENZA
In quasi tutti i Paesi del Terzo mondo
giunti all'indipendenza o dove ha vinto un movimento rivoluzionario, le forze
protagoniste della lotta indipendentista hanno teso a trasformarsi in un gruppo
di potere esclusivo, attraverso l'instaurazione di un sistema politico a partito
unico. Il formarsi di apparati burocratici e militari ha avuto anche come
conseguenza l'irrigidimento delle strutture statali esistenti al momento
dell'indipendenza, e quindi il perpetuarsi delle frontiere coloniali, il
fallimento di ogni progetto federativo e il soffocamento delle spinte
indipendentiste delle regioni e delle etnie minoritarie o periferiche, o
distinte per religione e lingua.
Durante la dominazione coloniale le
potenze europee avevano addestrato e incorporato nelle strutture militari e
burocratiche, a livelli subordinati, elementi provenienti dai popoli dominati o
colonizzati. E come il successo delle potenze coloniali si era fondato in larga
misura sulla capacità di sfruttare le divisioni e le rivalità
esistenti nelle società asiatiche e africane, così la resistenza
del sistema coloniale si era basata sull'inserimento di alcune etnie nelle
strutture burocratiche e militari. Gli Inglesi soprattutto applicarono il
criterio di favorire le «etnie guerriere», cioè i popoli che
avevano inizialmente opposto maggiore resistenza alla loro penetrazione o che si
erano dimostrati leali nei momenti cruciali della conquista: i Sikh in India,
gli Zulu nel Sudafrica, gli Ibo in Nigeria, i Kachin in Birmania (Myanmar), i
Tamil a Ceylon (Sri Lanka). I nemici più pericolosi, soprattutto se
rappresentavano delle minoranze, vennero gratificati di un ruolo di rilievo
nelle forze di polizia e militari e nelle amministrazioni coloniali, a danno
delle etnie maggioritarie. Queste sono state d'altra parte le protagoniste dei
movimenti di indipendenza, conseguita la quale hanno occupato i posti di
comando, respingendo spesso in posizione subordinata i privilegiati del sistema
coloniale. L'indipendenza ha perciò avuto come conseguenza l'esplosione,
soprattutto in Africa, di conflitti etnici e tribali e tentativi di separazione
che sono stati soffocati nel sangue e comunque mai accettati in via di
principio. L'Organizzazione per l'unità africana, un organismo che
riunisce tutti i Paesi indipendenti del continente, ha sempre sostenuto le
ragioni dei governi contro i ribelli separatisti, sulla base della
considerazione che, vista l'artificialità, se non di tutte, di molte
frontiere postcoloniali, ogni riconoscimento rappresenterebbe un incoraggiamento
alla disgregazione dei nuovi Stati.
Di fatto, però, il Sudan
è travagliato sin dal momento dell'indipendenza dalla rivolta delle
regioni meridionali, nere e non islamizzate, contro il Governo centrale; in
Nigeria il tentativo secessionista dell'etnia Ibo è stato soffocato a
prezzo di una spaventosa guerra civile (1965-1967); nell'Angola divenuta
indipendente la persistenza della guerra civile è stata favorita dalle
basi etniche dei movimenti di guerriglia antigovernativi.
Attualmente nello
Sri Lanka la minoranza tamil è in lotta contro la maggioranza cingalese
per costituire uno stato separato nel Nord dell'isola.
L'AMERICA MINORE
Politicamente indipendente dall'inizio
dell'Ottocento, l'America latina è rimasta dipendente sul piano economico
dai centri del sistema capitalistico, Europa e Stati Uniti. Sin dal secolo
scorso, anzi, gli Stati Uniti si sono imposti come il punto di riferimento
politico di tutto il continente americano. Tuttavia, sino a Novecento inoltrato
gli investimenti europei in America latina (inglesi soprattutto, ma anche
tedeschi, francesi, belgi) sono stati più rilevanti di quelli
statunitensi; e dagli anni Sessanta le imprese multinazionali europee e
giapponesi hanno ripreso a investire in misura pari o superiore a quella delle
multinazionali Usa. Gli Usa hanno però sempre badato a mantenere il
controllo politico-strategico del continente, a prescindere dall'importanza
degli interessi economici direttamente in gioco: il colpo di Stato militare in
Cile nel 1973, ad esempio fu aiutato dagli Usa soprattutto per impedire la
diffusione nel continente di una formula politica sgradita e per riaffermare la
«sovranità limitata» dei Paesi latino-americani.
Dopo la
Seconda guerra mondiale quasi ovunque nel continente sono state avviate
politiche di industrializzazione, di ammodernamento agricolo (le
«rivoluzioni verdi») e di allargamento del mercato interno. Con esiti
diversissimi, date le diverse basi di partenza e le diseguali risorse produttive
ed umane a disposizione di ciascun Paese.
Il Messico, teatro già fra
gli anni Dieci e gli anni Trenta di questo secolo di una rivoluzione
modernizzatrice sfociata in un regime autoritario (ma progressista in politica
estera), ha sviluppato una sorta di complementarità economica con gli
Usa, primo partner commerciale del Paese. Nelle regioni messicane a ridosso
della frontiera si è formata una rete di attività industriali
sussidiarie di quelle statunitensi. Gli Stati Uniti sono inoltre la meta di un
flusso continuo e massiccio di emigranti (chicanos) da un Paese in costante
crescita demografica. L'esodo, che ha fornito manodopera a basso costo
all'economia agricola e industriale di intere regioni degli Usa, ha contribuito
a dissimulare le tensioni sociali, che i programmi di sviluppo promossi dal
Governo del presidente Echeverria con le entrate del petrolio negli anni
Settanta non hanno allentato. Alla lunga, la modernizzazione autoritaria diretta
dal partito da decenni al potere (autodefinitosi, senza ironia,
«rivoluzionario istituzionale») ha fatto crescere le insofferenze,
rivelate dall'aumento dei consensi, da un lato per la coalizione delle sinistre
e dall'altro per un partito francamente conservatore e liberista.
Alcune
delle contraddizioni economiche e sociali del Messico sembrarono esplodere nel
1993 con la rivolta nello stato di Chiapas dei braccianti senza terra, i
campesinos. Questi richiamandosi alla figura di Zapata hanno dato vita ad una
dura contestazione che è stata repressa sanguinosamente. L'impressione
per questo eccidio fu molto forte in tutto il mondo; lo stesso Governo messicano
scelse la via del dialogo e favorì una soluzione politica. Gli zapatisti,
come si chiamarono i rivoltosi, decisero di appoggiare il candidato della
sinistra nelle elezioni del 1994, ma queste vennero vinte ancora una volta dal
candidato governativo, Ernesto Zedillo, tredicesimo presidente di un partito che
in Messico era al potere da 65 anni. L'anno successivo il Governo e l'Esercito
zapatista trovarono un accordo che prometteva maggiore autonomia alla
popolazione indigena del Chiapas, ma nel 1996 gruppi armati rivoluzionari nel
Sud del Paese attaccarono truppe governative, provocando una reazione militare
che, nel 1997, provocò la morte di 45 indiani in un villaggio del
Chiapas. L'avvenimento venne deplorato dall'opinione pubblica internazionale e
il presidente Zedillo fu costretto a iniziare una serie di indagini che
portarono alle dimissioni del governatore del Chiapas. Nel 2000, per la prima
volta dal 1926, un rappresentante del partito di opposizione Alleanza per il
cambiamento, Vicente Fox, venne eletto presidente. L'anno seguente fu possibile
a un folto gruppo di guerriglieri zapatisti, guidati dal Subcomandante Marcos e
sostenuti da moltissime organizzazioni internazionali e straniere, di marciare
dal Chiapas a Città del Messico per presentare ufficialmente al Governo
le loro richiese. Il Governo approvò allora una legge a favore della
popolazione indigena che venne però rifiutata proprio da Marcos
perché considerata poco incisiva e, con la sua esistenza, pericolosamente
conclusiva. Lo sforzo governativo continuò e, nel novembre 2001, un mese
dopo l'omicidio di Digna Ochoa, avvocato per i diritti umani, il presidente Fox
istituì una commissione d'inchiesta per far luce sulla scomparsa di molti
attivisti di sinistra durante gli anni Settanta e Ottanta.
Dove il sistema
di controllo politico interno non era così solido e strutturato come in
Messico, il fallimento dei programmi di sviluppo economico sostenuti dai crediti
Usa ha accentuato i contrasti interni, moltiplicato i focolai di guerriglia e in
seguito le situazioni di guerra civile. Sinché alcuni Paesi
latino-americani (Colombia, Perù e Bolivia soprattutto), caratterizzati
da una forte componente indiana e contadina, non avvantaggiata neppure dalle
riforme agrarie attuate negli anni Sessanta e Settanta, hanno finito per trovare
nella droga una delle principali voci di esportazione, ancorché illegale
e controllata da organizzazioni criminali. In Colombia una lunga tradizione di
violenza politica e di frammentazione è degenerata fra gli anni Ottanta e
Novanta in una vera e propria guerra tra le organizzazioni criminali
monopolizzatrici del traffico di droga e le autorità, sostenute dagli
Usa, preoccupati per i guasti sociali prodotti dal consumo di droga nel loro
Paese.
In questo senso un risultato di notevole importanza è stato
raggiunto alla fine del 1993 con la scomparsa di Pablo Escobar a cui faceva capo
la rete di produzione e smercio della droga e che ha trovato la morte in uno
scontro a fuoco con la polizia colombiana. Nel 1995 Ernesto Samper Pizano,
liberale, venne eletto presidente, sostituito tre anni più tardi dal
conservatore Andres Pastrana Arango, impegnatosi a iniziare una serie di
colloqui con i guerriglieri ai quali offrì una zona franca nel Sud, nella
quale l'esercito ufficiale non aveva giurisdizione. Se ufficialmente la
situazione colombiana avrebbe potuto stabilizzarsi, in realtà frange
paramilitari di destra continuarono a imperversare nell'enclave protetta, dove,
peraltro, si perpetravano crimini quali rapimenti, esecuzioni sommarie, ecc.
Pastrana si mostrò comunque disposto a continuare a mantenere la zona
franca, decisione che mantenne fino al febbraio 2002, quando accusò i
guerriglieri di aver dirottato un cargo e ordinò loro di lasciare la
zona. Le violenze continuarono (rapimento del candidato alla presidenza Ingrid
Betancourt, uccisione di un senatore e di un vescovo), ostacolando il piano di
lotta alla droga messo a punto con la partecipazione attiva del Governo degli
Stati Uniti. Nel maggio dello stesso anno venne eletto alla presidenza Alvaro Uribe, avvocato liberale deciso a porre fine all'annosa questione colombiana.
L'inquieta America insulare è tornata alla ribalta
negli anni Ottanta e Novanta in seguito al precipitare della situazione politica ad Haiti.
Qui si era impiantata la dinastia dei Duvalier (padre e figlio) che per decine
di anni avevano esercitato un potere dittatoriale; alla fine del 1990
trionfò in libere elezioni l'ex prete Jean Bertrand Aristide. Un
tentativo di colpo di stato messo in atto da militari della vecchia guardia
costrinsero subito dopo Aristide a fuggire in esilio e a chiedere l'intervento
internazionale per ritornare nell'isola. Gli Stati Uniti decisero di appoggiarlo
(Aristide era si era frattanto stabilito a Washington), ma l'intervento venne
deciso solo dal presidente Clinton alla fine del 1994 tra timori e lentezze. Nel
1995 truppe statunitensi vennero mantenute sull'isola per garantire il
manetnimento della pace: René Preval venne eletto presidente al posto di
Aristide, carica che mantenne fino al 2000 quando, terminato il suo mandato, e
terminato anche il periodo di presidenza per decreto, venne sostituito proprio
da un rieletto Aristide. Nel 2001 si assistette a diversi tentativi di colpi di
Stato, scoperti ancora in nuce, ma rivelatori del clima di incertezza e
precarietà ancora presenti nel Paese.
In Cile, un Paese meno di
altri travagliato dall'intervento dei militari nella politica nel corso del
Novecento (ma la tradizione parlamentare cilena era in buona misura una
mistificazione), il Governo riformatore del presidente Salvador Allende
(1970-73) venne abbattuto da un sanguinoso colpo di Stato, al quale seguì
la dittatura del generale Pinochet. Solo nel 1990, dopo aver sperimentato una
gestione dell'economia ispirata a dottrine liberistiche che accentuarono le
diseguaglianze sociali, il Cile tornò, con il consenso dei militari, ad
un Governo civile. Pinochet venne sostituito a capo dello Stato dal
cristiano-democratico Patricio Aylwin, mantenendo però la carica di
comandante supremo dell'esercito. Nel 1998 Pinochet abbandonò l'esercito
e venne eletto senatore a vita, ma, durante una visita in Gran Bretagna, venne
arrestato e accusato della sparizone di alcuni cittadini spagnoli durante la
repressione dittatoriale degli anni Settanta e Ottanta. Inizialmente accusato
anche da giudici cileni di rapimento e di crimini contro l'umanità, venne
dichiarato in seguito non processabile per motivi di salute e di età:
poté allora rientrare liberamente in patria.
Salvador AllendeI grandi Paesi di immigrazione della costa atlantica
hanno a loro volta conosciuto sviluppi divergenti. L'Argentina e l'Uruguay,
rovinati economicamente dal crollo dei prezzi della carne, di cui erano massimi
esportatori, e della lana dopo la fine della guerra, conobbero una involuzione
economica e politica. L'Argentina ha cercato di industrializzarsi con
l'intervento dello Stato durante la presidenza del generale Juan Domingo
Perón, 1946-1955. Questi diede vita ad un movimento, denominato
«giustizialista», di impronta populista, capace di legare le masse
proletarie e sottoproletarie organizzate da sindacati di regime ad un programma
che sommava progressismo e nazionalismo. Perón, alla maniera dei
dittatori fascisti europei, stabiliva un rapporto autoritario e paternalistico
con le masse mobilitate in adunate oceaniche e raggiunte da una diffusa
attività di patronato. Ma il tentativo, rimasto a metà e non
facilitato dalla drammatica storia politica di un Paese governato per lunghi
periodi da dittature militari (l'ultima, 1974-1982, particolarmente feroce nella
repressione, che ha fatto migliaia di vittime), è ancora in corso; e
quella che era stata la meta di milioni di emigranti Italiani e iberici è
ormai abbandonata da molti dei loro discendenti.
Il Brasile, ricchissimo di
risorse naturali e materie prime, e partito da livelli di vita e istruzione
inferiori a quelli dell'Argentina, ha attuato soprattutto nel ventennio
(1964-1983) della dittatura militare che abbatté un presidente
progressista una industrializzazione a tappe forzate e una modernizzazione
autoritaria che hanno posto le basi per il decollo del Paese, in mezzo a
contraddizioni profondissime: distruzione dell'ambiente (la foresta amazzonica)
e diseguaglianze spaventose accanto a industrie tecnologicamente avanzate e
livelli di vita statunitensi per una minoranza della popolazione. Tornato il
Paese al sistema parlamentare per il ritiro dalla scena dei militari, i partiti
di orientamento socialdemocratico e progressista hanno conquistato importanti
amministrazioni locali e portato il loro candidato, un ex operaio di San Paolo,
al ballottaggio per la presidenza della Repubblica nel 1989, senza però
riuscire a prevalere su un candidato conservatore, Fernando Collor de Mello,
riuscito a far presa sul vastissimo elettorato sottoproletario. Le
diseguaglianze del Paese sono pari alle sue potenzialità; ma nessun
tentativo riformatore, né con i presidenti populisti degli anni
Cinquanta-Sessanta (Goulart, Quadros), né dopo il ritorno dei militari
nelle caserme ha avuto la possibilità di svilupparsi. Il forte tasso di
inflazione, le rivendicazioni indigene, l'affrancamento dalle superpotenze
economiche operanti nella Paese, soprattutto nella zona amazzonica, la grande
povertà e l'alta percentuale di criminalità, in buona parte
infantile: questi e altri i grandi problemi che gli esponenti ai vertici del
Brazile dovettero affrontare durante gli anni a cavallo tra XX e XXI
secolo.
Sono stati però i Paesi dell'America centrale, sia
dell'istmo sia dei Caraibi, gli esempi più clamorosi delle conseguenze
della dipendenza dai centri dell'economia mondiale e dei tentativi di sottrarsi
ad essa. La zona è stata definita «il cortile di casa degli Stati
Uniti», alludendo all'attenzione che gli Usa pongono al controllo militare
della regione. Qui a più riprese sono stati effettuati interventi
militari diretti o sono stati sostenuti colpi di Stato o movimenti armati
irregolari per rovesciare Governi giudicati ostili e insediare Governi amici:
nel 1954 in Guatemala; nel 1965 a Santo Domingo; dagli anni Settanta in
Salvador; negli ultimi anni Ottanta in Nicaragua; nel 1983 a Grenada; nel 1989 a
Panama.
A Cuba il tentativo di invasione di esuli antigovernativi
organizzato dai servizi segreti statunitensi fallì nel 1961. Il controllo
del canale di Panama ha rappresentato inoltre un'occasione di attrito con il
Governo panamense: dopo una lunga controversia, solo nel 1978 il presidente
Carter firmò un accordo per trasferire, in più tappe,
l'amministrazione del canale al Governo panamense; ma l'intervento statunitense
nella politica della Repubblica dell'istmo è continuato.
La
supremazia politica e militare statunitense sull'intero continente
latino-americano è rimasta in definitiva forte. Solo Cuba, in tutto il
continente, continua a contrapporsi agli Usa. Legata alla monocultura della
canna da zucchero, dipendeva per le sue esportazioni dal mercato nordamericano;
costituiva inoltre un luogo di vacanza e di insediamento di attività
illecite (gioco d'azzardo, prostituzione) controllate dalla malavita organizzata
statunitense. Nel contempo, aveva livelli di vita e di istruzione molto
più alti degli altri Paesi della regione, e una vita politica assai
articolata. Contro la ventennale dittatura di fatto dell'ex sergente Fulgencio
Batista un giovane avvocato liberalradicale e nazionalista, Fidel Castro,
tentò l'insurrezione. Incarcerato ed esiliato, Castro ritornò a
Cuba con pochi compagni nel 1957, e iniziò una guerriglia che Batista non
riuscì a reprimere. Crollato rapidamente il dittatore, alla fine del 1958
il nuovo regime, diretto da Castro, radicalizzò le proprie posizioni
espropriando con la riforma agraria le piantagioni di canna da zucchero. Gli
Usa, ostili, sostennero una fallita invasione di esuli (1961), col risultato di
spingere Cuba all'alleanza aperta con l'Urss. Dopo una fase di sostegno alle
guerriglie latino-americane (il personaggio più romantico e popolare
della rivoluzione cubana, Ernesto «Che» Guevara, morì nel 1967
in Bolivia, dove tentava di accendere un movimento insurrezionale) Castro ha
finito per stringere una alleanza ufficiale con l'Urss, sino ad entrare nel
Comecon, e a inviare truppe in Angola e in Etiopia di concerto con le iniziative
della politica estera sovietica. La struttura dell'economia cubana non
cambiò: dipendente dalle esportazioni di zucchero, tabacco e altre
materie prime sino all'avvento della rivoluzione, continuò ad esserlo,
cambiando la destinazione dei carichi, diretti verso l'Urss e altri Paesi
dell'Est europeo: almeno sino a quando la crisi della stessa economia sovietica
non ridusse - e quindi interruppe - anche gli aiuti all'economia cubana.
Sconfitti analfabetismo e malattie epidemiche, pur dovendo far fronte all'esodo
di gran parte della classe media e istruita dell'isola (centinaia di migliaia di
cubani presero la via degli Stati Uniti), i dirigenti castristi non risolsero
facilmente le contraddizioni del socialismo «reale»: statalizzazione
totale, pianificazione burocratica, regime di partito unico eliminarono le
stridenti ingiustizie di un tempo, al prezzo però dell'esercizio della
democrazia.
Dal punto di vista statunitense, se Carter fu sul punto di
ristabilire relazioni diplomatiche con Cuba, Reagan mantenne l'accerchiamento
economico dell'isola, costringendo il Paese a drastiche misure di salvaguardia
economica.
La politica statunitense verso Cuba non cambiò neppure
con il successore di Reagan, George Bush, mentre si aggravò la situazione
interna dell'isola dove vennero avvertiti i contraccolpi delle mutate condizioni
politiche internazionali. La scomparsa dell'Urss e il crollo dei regimi
comunisti lasciarono Cuba isolata economicamente e ideologicamente, unica area
(insieme con la Corea del Nord) a sostenere la validità del modello
comunista. I dirigenti furono obbligati ad abbassare fortemente il tenore di
vita dei cubani razionando i viveri ed economizzando le risorse energetiche. Il
blocco commerciale praticato dagli Usa costrinse Fidel Castro a mostrarsi
più condiscendente con l'opposizione che si andava via via manifestando
nell'isola, ma che soprattutto era forte tra i fuoriusciti che vivevano negli
Usa. Significativi furono gli incontri nel 1994 con rappresentanti di esuli a
cui Castro chiese di investire capitali nell'isola.
Lo stesso prestigio del
capo comunista apparve in declino: se i suoi discorsi continuarono ad essere
seguiti da centinaia di migliaia di persone, serpeggiava nell'isola la critica e
l'insoddisfazione che si manifestava anche con tumulti e fughe all'estero.
L'amministrazione Clinton seguì la stessa politica dei predecessori nei
confronti di Cuba, ma proprio il problema degli esuli, che numerosi tentavano di
raggiungere le coste americane, spinse l'amministrazione americana ad allacciare
rapporti con le autorità cubane per regolare questo flusso. Nel 1998 papa
Giovanni Paolo II visitò l'isola, dando vita a un momento storico di
amplissima portata, eguagliato, l'anno successivo, dal cosiddetto "caso Elian
Gonzales'', la lunga vicenda giudiziaria che si concluse con il ritorno a Cuba
di un bimbo, salvato da un naufragio mentre stava fuggendo in Usa con la madre e
il patrigno, e riaffidato al padre, nonostante la vasta opera di mobilitazione
pubblica messa in atto da gruppi di esiliati cubani in Florida. Nel 2001,
inoltre, per la prima volta dopo oltre 40 anni, gli Stati Uniti ruppero
l'embargo alimentare per aiutare le popolazioni tragicamente toccate
dall'uragano Michelle. Nel gennaio 2002 venne chiusa l'ultima base russa
sull'isola proprio mentre venivano portati nella base americana di Guantanamo i
prigionieri sospettati di essere membri di Al-Qaeda catturati in Afghanistan
nell'ambito dell'operazione "Libertà duratura''.
La guerriglia
(dallo spagnolo guerrilla piccola guerra: il termine risale alla guerra
d'indipendenza degli spagnoli contro Napoleone, 1808-1813), la forma di lotta
armata classica dei popoli dominati coloniali contro i dominanti, ha
nell'America latina una tradizione secolare, risalente alla fase stessa
dell'indipendenza, e poi alle turbolente vicende ottocentesche dei diversi Stati
nazionali. E proprio in America latina nel corso degli anni Cinquanta essa ha
trovato un campo di applicazione assai esteso e variato, una teorizzazione,
alcuni esempi di successo.
Il campo di applicazione è stato quello
di quasi tutti gli Stati del continente, sebbene in tempi e in forme diverse.
Cuba è stato l'esempio di maggior successo, di un movimento guerrigliero
genericamente progressista giunto al potere «sulla canna del fucile» e
trasformatosi in regime di Governo. Ma il modello cubano, tipico degli anni
Cinquanta e della lotta contro dittatori militari feroci ma privi di consenso
sociale, è rimasto isolato, insulare appunto. In Colombia la guerriglia
è un fenomeno endemico, ma senza sbocco, addirittura dalla fine degli
anni Quaranta (negli anni Sessanta ne fu protagonista un intellettuale cattolico
che aveva abbandonato la Chiesa, Camilo Torres, morto in combattimento), e ha
finito per rappresentare per i Governi un avversario meno pericoloso delle
organizzazioni criminali dedite al traffico della droga, in Venezuela un
movimento guerrigliero legato al partito Comunista agì durante gli anni
Cinquanta-Sessanta e fu represso dal Governo: in entrambi i Paesi si trattava di
guerriglia rurale, condotta nelle aree montagnose e boscose. Nel Guatemala e nel
Salvador è un fenomeno tuttora in corso e rappresenta una insurrezione a
larga base contadina e indiana repressa con ferocia terroristica da Governi
militari che esprimono gli interessi di esigue minoranze proprietarie e dei loro
protettori statunitensi. Nel Nicaragua dominato dalla famiglia Somoza la
guerriglia ha avuto successo (1978), cacciando il dittatore e instaurando un
governo nazionalista e populista comprendente cristiani progressisti, marxisti,
socialdemocratici, all'insegna della tradizione anti-imperialista nicaraguense
incarnata negli anni Venti e Trenta da Cesar «Augusto» Sandino. Un po'
per la loro connotazione originaria di «fronte popolare», un po' per
resistere all'accerchiamento economico e militare subito messo in atto dagli
Usa, i «sandinisti» nicaraguensi hanno proposto il proprio modello
come una via originale, né marxista né capitalista, ma eclettica e
radicata nella storia nazionale. Alla fine, però, la pressione esterna e
le incursioni di guerriglieri antigovernativi aiutati dagli Usa hanno indotto i
sandinisti a indire elezioni che hanno dato la maggioranza ai conservatori, in
grado di ottenere aiuti statunitensi.
Presidente e capo del governo
è stata eletta Violeta Chamorro, vedova di un giornalista che era stato
ucciso dai sicari del dittatore Somoza. Il nuovo Governo ottenne aiuti dagli Usa
e, pur tra tensioni interne (c'era chi accusava Violeta Chamorro di aver tradito
gli ideali sandinisti), riuscì a mantenere il controllo della situazione.
Alterno fu il sostegno degli Usa che nel 1992 bloccarono i crediti, sbloccadoli
l'anno dopo. Dopo Violeta Chamorro furono eletti presidenti Arnoldo Aleman
(1996) e Enrique Bolanos (2001): tutti e tre, oltre a problemi
politico-economici, dovettero affrontare gravi calamità naturali, quali
il grave terremoto del 1992 e il devastante uragano Mitch del 1998.
Lo
sconfinato Brasile dei "gorilas'' (i generali golpisti), teatro sino agli anni
Trenta di ampi fenomeni di banditismo sociale nelle campagne povere del
Nordeste, ha conosciuto durante la dittatura militare movimenti di guerriglia
urbana spietatamente stroncati dal Governo. Ma la fisionomia della
società brasiliana e la mancanza di referenti politici impedirono alla
guerriglia di raggiungere le dimensioni dei movimenti armati uruguaiani, i
"tupamaros'', e argentini, i "montoneros''. Questi hanno condotto tra gli anni
Sessanta e Settanta una guerriglia urbana contro i Governi militari dei
rispettivi Paesi, in collegamento con alcune forze politiche tradizionali: i
"montoneros'' argentini traevano origine dalla sinistra cristiana legata al
movimento peronista e a questo rimasero collegati sino alla metà degli
anni Settanta, quando il regime militare affermatosi in Argentina con il
sostegno della destra peronista (il vecchio leader Perón rientrò
dall'esilio nel 1973 per assumere nuovamente la presidenza, ma governò
appoggiandosi alla destra del suo movimento e sconfessando i guerriglieri che si
erano richiamati al suo programma) condusse una repressione spietata (8000 morti
certi, forse da 15.000 a 30.000 vittime effettive), estesa spesso ai familiari
dei veri o presunti oppositori, e attuata nell'ombra, incarcerando o uccidendo
le vittime senza processo. Desaparecidos (= «scomparsi») è il
nome delle vittime della repressione militare. Solo la sconfitta del Governo
militare in una breve guerra contro la Gran Bretagna per le isole Falkland
procurò l'uscita di scena dei generali e il ritorno a un Governo civile.
La situazione si presentò subito gravissima e i presidenti eletti (Raul
Alfonsin, Carlos Menem) optarono per drastiche misure di austerità che
non impedirono al Paese di sprofondare sempre più nel baratro
dell'indebitamento internazionale. Nel 1999 venne eletto Fernando de la Rua,
dell'alleanza di centro sinistra, che si trovò a dovere afforntare anche
l'arresto per traffico illecito d'armi dell'ex presidente Menem. La crisi
argentina continuò a progredire, toccando il suo massimo livello alla
fine del 2001. In poche settimane si susseguirono tre presidenti (dopo De la
Rua, Adolfo Rodriguez Saa ed Eduardo Duhalde), mentre il Governo bloccava i
conti bancari della popolazione argentina che scendeva nelle strade per
manifestare apertamente il proprio dissenso. La situazione si inasprì con
il passar del tempo, portando il Paese all'orlo del
collasso economico-finanziario-sociale.
Il Perù dal 1972 ha
conosciuto una travagliata vita politica che a partire dal 1980 si è
trasformata in una intensa e crudele attività di guerriglia. Teatro delle
azioni sono state le regioni meridionali del Paese dove ha operato un movimento
noto come Sendero luminoso (= "sentiero luminoso") a base contadina e ispirato a
un comunitarismo agrario dalle radici indigene. La presenza alla testa del
movimento di alcuni intellettuali di simpatie marxiste-leniniste e l'uso di
slogan politici cinesi degli anni Sessanta hanno indotto gli osservatori
occidentali a stabilire paragoni forse affrettati proprio con l'esperienza
cinese; la ferocia terroristica dei guerriglieri, controbattuta del resto dalla
ferocia terroristica dell'esercito regolare, ha fatto a sua volta pensare a una
ripetizione della vicenda cambogiana dei Khmer rossi. Di fatto la disgregazione
della società contadina tradizionale, agevolata dalla stessa riforma
agraria attuata tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni
Settanta da un Governo di militari progressisti, e il mancato sviluppo
dell'economia peruviana hanno creato tensioni fortissime, alle quali nessuno dei
successivi Governi ha posto rimedio. La situazione sembrò conoscere una
svolta nel 1990 quando alle elezioni presidenziali si affermò Alberto
Fujimori, un agronomo discendente di emigrati giapponesi, che vinse il
ballottaggio con lo scrittore Vargas Llosa. Nei mesi successivi il gruppo
terrorista di Sendero luminoso apparve in crisi, ma la minaccia del terrorismo
non era finita.
Il Paese venne colpito nel 1991 da una terribile epidemia
di colera che fece migliaia di vittime e mise in evidenza le pessime condizioni
igienico-sanitarie, ma anche l'estrema povertà degli indios che erano le
prime vittime del morbo. Nell'aprile del 1992 il presidente Fujimori sciolse il
Parlamento assumendo i pieni poteri con l'appoggio delle forze armate: fu il
cosiddetto "golpe bianco". Né questa misura né l'arresto del capo
storico di Sendero luminoso Abimael Guzmán Reynoso misero completamente
fine al terrorismo; il presidente Fujimori rafforzò il suo potere
vincendo il referendum sulla Costituzione da lui voluta, operazione che gli
consentì di ricandidarsi alla fine del mandato e comminare la pena di
morte per i terroristi, ma proprio in occasione delle votazioni sulla nuova
Costituzione (novembre 1993) Sendero luminoso ricomparve con sporadici attentati
terroristici. Venne intrapresa allora una vasta campagna antiterroristica che
portò all'arresto di oltre 6 mila guerriglieri e, conseguentemente, alla
rielezione di Fujimori. Tra il 1996 e il 1997, però, si consumò
uno dei più difficili momenti della storia peruviana quando un gruppo di
guerriglieri del gruppo filocastrista Túpac amaru prese in ostaggio molti
invitati alla festa di Natale all'ambasciata giapponese a Lima. Dopo alcuni mesi
(aprile) gli ostaggi vennero liberati, ma tutti i guerriglieri furono uccisi
durante l'intervento delle forze speciali. Nel 2000 uno scandalo avente come
protagonista il capo dei Servizi segreti Vladimiro Montesinos, accusato di
corruzione, portò alle dimissioni anche di Fujimori che venne
successivamente accusato di inadempienza. Nel 2001 venne eletto il primo
presidente di origine indios, Alejandro Toledo.
Il leader cubano Fidel Castro
IL ROMANZO SUDAMERICANO
La leggenda, se di leggenda si può
parlare, nasce sul finire degli anni Sessanta, con i memorabili Cent'anni di
solitudine di Gabriel García Márquez. Mentre sui muri e nelle
piazze d'Europa si proclamava desiderabile e incipiente l'assunzione
dell'immaginazione al potere, da un angolo periferico del mondo uscivano
cinquecento fitte pagine che ne segnavano l'apoteosi. Immaginazione posta, per
di più, al servizio della demistificazione dei meccanismi e delle
trappole del potere, quale si esercitava in un continente disgraziatissimo. Fu
un trionfo. Un breviario laico delle nuove generazioni. Si trattava della storia
di una famiglia pluricentenaria (i Buendía); di un patriarca fondatore
(José Arcadio); di una matriarca vestale di tradizioni insidiate (Ursula
Iguarán); di un caudillo-eroe sventurato (il mitico Aureliano, colui che
combatté diciassette guerre e le perse tutte). Storia di furori erotici,
di fecondazioni prodigiose e di purezze inconcepibili. Delle mirabolanti
sperimentazioni scientifiche del vecchio José Arcadio, quelle che gli
fecero percorrere come nuove le tappe cruciali del progresso del sapere
(«la terra è rotonda come un'arancia», esclamerà
estasiato!) e lo guidarono nelle sue circumnavigazioni mentali («è
possibile ritornare al punto di partenza sempre navigando verso Oriente»
dichiarerà ridisegnando un percorso speculare rispetto a quello
dell'Ammiraglio del Mare Oceano e quasi presagendo la traiettoria dei Cent'anni
di solitudine, pronti a salpare alla conquista della vecchia Europa!). Saga
nazional popolare e insieme rivisitazione fantastica (e in cifra) della storia
del Continente. Da allora, Macondo, il mitico villaggio dei Buendía, e
segnato sull'atlante personale di ogni attento lettore assai più
nettamente di tanti luoghi realissimi di quel continente.
Sull'onda del
successo di Cent'anni di solitudine (milioni di copie vendute, 700.000 solo in
Italia), si redigono programmi di lancio su vasta scala della narrativa
latino-americana, la quale sintomaticamente mutuerà la sua intitolazione
(romanzo del boom) dal gergo dell'industria culturale. Per molti, il romanzo fu
la porta d'accesso ai misteri, raramente gaudiosi, di quella parte di mondo. Un
«caso» unico e memorabile. Una delle «periferie» del mondo,
mentre si esibiva nelle vesti seducentissime della sua letteratura, ribaltava un
rapporto di sudditanza con la metropoli. Il grande scrittore cèco Milan
Kundera, a chi lo interrogava sulla morte presunta del romanzo, consigliava la
lettura di rito.
Certo, c'era stata la rivoluzione cubana. L'epopea di
Sierra Maestra. Il «Che» era entrato nell'iconografia della sinistra
terzomondistica con gli occhi fiammeggianti e il basco di comandante guerriero
dell'inflazionatissimo poster. E poi, a veder bene, il rapporto tra rivoluzione
cubana e narrativa del boom non fu di sola contemporaneità. La Habana
diviene punto di riferimento per molti scrittori latino-americani. I quali si
incontrano nella piazza della Cattedrale o sulle spiagge di Varadero. Ma
più sovente nel quartiere di El Vedado, e sulle pagine della rivista
«Casa de Las Américas», che a El Vedado ha la sua sede. Le
firme prestigiose di Lezama Lima e di Carlos Fuentes, di Mario Vargas Llosa e di
Juan Rulfo, di García Márquez e di Alejo Carpentier raccolte nello
spazio quadrato della pagina del prestigioso mensile realizzano, dibattendo e
sovente dissentendo, l'unità culturale del Continente e insieme si
interrogano sulla dipendenza neocoloniale dei loro Paesi. L'adesione alla
rivoluzione si prolunga nel programma di affrancamento dalle tutele del Vecchio
continente e degli Stati Uniti. Si rivalutano i propri maestri (Asturias,
Arguedas, e al di là dei dissensi politici, Borges), si rileggono le
avanguardie dei primi decenni del secolo. Si parte alla ricerca delle proprie
radici, ora in direzione del remoto passato precolombiano, ora attingendo alle
cronache della brutalità contemporanea, addentrandosi nei crogiuoli delle
razze o nella favolosa e debordante natura americana. Il romanzo
latino-americano occupa trincee diverse. Il fronte della denuncia sociale con
Manuel Scorza, del fantastico con Jorge Luis Borges e Julio Cortázar, del
realismo magico con Carpentier, del reale meraviglioso con Gabriel García
Márquez. Dà spazio al mito, alla magia, al sovrannaturale;
frequenta registri iperbolici per tentare di dar voce a una realtà
esorbitante («nella nostra America, la realtà sopravanza ogni
possibile immaginazione», sentenzia García
Márquez).
L'idillio era destinato a spezzarsi. Mentre i veleni del
caso Padilla (il giovane poeta cubano, oggetto di censura da parte del regime
castrista) rinsecchiscono i «cento fiori» della sua politica
culturale, si registrano le prime defezioni. Per un García
Márquez, un Cortázar, un Carpentier che continuarono a credere in
Cuba socialista, non mancarono i Mario Vargas Llosa, i Carlos Fuentes, i Cabrera
Infante che resero esplicito il loro dissenso, netto e senza riserve. Dissolta
la connotazione unanimistica e il monolitismo politico, i centri propulsori del
boom si spostarono prima a Barcellona, sede della casa editrice Seix Barral, poi
a Parigi, attorno alla rivista «Mundo Nuevo». In Italia, Feltrinelli e
Einaudi guidarono la fila degli editori che sugli esotici best seller venuti da
oltreoceano rinverdirono le proprie fortune. L'emozione della fine violenta di
Unidad popular in Cile, rinsaldò il sodalizio tra sinistra europea e
continente. Si esecrò la tirannia sulle pagine dei «romanzi della
dittatura» (Il ricorso del metodo di Carpentier, Io il supremo di Roa
Bastos, L'autunno del patriarca di García Márquez...). Ci fu un
momento in cui si disse che il boom era morto. Il cileno José Donoso,
autore di una Storia personale del boom, ne vergò l'epitaffio parlando
del fenomeno come «di un carro di guitti, della forma alquanto indefinita,
piuttosto malconcio e malfamato». In effetti, in larga misura si
andò disperdendo quella compattezza, quel senso di una comune avventura,
quel gusto di sperimentare forme nuove e temi forti, che avevano fatto di quel
romanzo il Romanzo Contemporaneo per eccellenza Però quella mancanza
venne ben presto colmata da una nuova letteratura, prettamente femminile, che
aveva la cilena Isabel Allende come capofila ma che annoverava tra le esponenti
di punta anche Marcela Serrano (Cile), Angeles Mastretta e Laura Esquivel
(Messico), Gioconda Belli (Guatemala).
BUENOS AIRES: TRA EUROPA E TERZO MONDO
«La storia di Buenos Aires - osserva
Bruce Chatwin, di passaggio per la metropoli, mèta la Patagonia - sta
scritta nel suo elenco telefonico. Pompey Romanov, Emilio Rommel, Crespina D.Z.
de Rose, Ladislao Radzwill, Elizabeta Martha de Rotschild - cinque nomi scelti a
caso sotto la R - raccontavano una storia di esilio, delusioni e ansie nascosta
sotto una cortina di merletti». è uno dei possibili fili di Arianna
per orientarsi nel labirinto. A fianco di questi nomi altisonanti, ci sono
pagine intere di Rossi, Devoto, Sánchez: sono i figli o i nipoti dei
tanos (contrazione di napolitanos: sta per Italiani in genere) e dei gallegos
(gli Spagnoli). Si aggiungano le colonie di Polacchi, di Tedeschi, di ebrei. E
Buenos Aires apparirà quel che è: patria di culture in esilio,
metropoli di province alla deriva dalle proprie capitali. Babele inestricabile
di lingue, di culture (e La biblioteca di Babele non per caso è il titolo
di uno dei racconti di Jorge Luis Borges, il più celebre argentino di
questo secolo).
Ognuno di questi «esuli» vi ha lasciato la sua
traccia. A ridosso del porto, oltre Piazza San Martín, c'è l'Hotel
de Immigrantes. Lì i contadini del Sud d'Italia facevano sosta in attesa
di un contratto per le haciendas della pampa a Entre Rios, Corrientes o Rio
Negro. Qua e là resistono ancora i conventillos, fabbricati enormi nei
cui cortili in comune la povera gente si inventò il cocoliche e il
lunfardo, lingue franche per comunicare oltre la babele dei dialetti. Sul
Riachuelo (il «fiumiciattolo»), non distante da dove la leggenda vuole
che nel 1536 Antonio de Mendoza abbia gettato le prime fondamenta di Buenos
Aires abbandonando poche coppie di bovini che al suo ritorno, un decennio
più tardi, si sarebbero prodigiosamente moltiplicate segnando la
vocazione del Paese, sorge il quartiere genovese della Boca, dalle coloratissime
case di lamiera ondulata, i cortili interni inondati di fiori e le rivendite di
farinata. All'altro lato, il quartiere di Palermo, così chiamato da quel
«siciliano, Dominguez (Domenico) di Palermo d'Italia, il quale - scrive
Jorges Luis Borges in Evaristo Carriego - aggiunse al suo nome anche quello
della patria, per conservare forse un appellativo che non fosse
spagnolizzabile».
Due sono le anime di Buenos Aires. C'è
l'anima sentimentale e patetica dei guappi, dei compadritos, dei malavitosi
queruli di Almafuerte, di Carriego, delle milongas e dei tanghi postribolari
cantati da Carlos Gardel, tombeur de femmes dai capelli impomatati e dal
languido sorriso, alla cui statua di bronzo nel cimitero della Chacarita (Gardel
morì nel 1935, in un incidente aereo) la devozione popolare non fa mai
mancare il conforto di una sigaretta accesa; della mitica Evita Perón, a
dispetto delle ombre della sua biografia, madre purissima e misericordiosa delle
litanie e delle liturgie giustizialiste dei descamisados.
Ma a fianco di
questa, c'è l'altra Buenos Aires, ironica, cerebrale, cosmopolita,
esterofila. La metropoli dotata di robusti antidoti contro grandi e piccole
malinconie. E contro grandi e piccole tragedie: dalla endemica crisi economica
all'inflazione a tre cifre, dalle decine di migliaia di «scomparsi» a
carico delle giunte militari alla sconfitta delle isole Malvine, fino al
fallimento dei piani (ultimo, in ordine di tempo, il piano Austral) con cui i
presidenti che si sono succeduti alla Casa Rosada han cercato di porre un argine
al disastro. Se il tango («un pensiero triste che si balla», secondo
Armando Discépolo) esprime il lato «molle» e lacrimoso della
città, è il "truco" a restituirne il versante maschio e
disincantato, la propensione al gioco e la sapienza del mentire.
«Si
ha nel truco - sono parole di Borges - un potenziamento dell'inganno. Il
giocatore che getta brontolando le carte sul tavolo potrebbe nascondere un buon
gioco (astuzia elementare), oppure al contrario vi sta ingannando con la
verità affinché noi non vi prestiamo fede (astuzia al quadrato).
Il suo spirito è quello dei due barattieri che nel mezzo della sconfinata
pianura russa si salutarono. - Dove vai Daniel? disse uno. - A Sebastopoli -
disse l'altro. E il primo: - Tu menti, Daniel. Mi rispondi che vai a Sebastopoli
perché io pensi che vai a Novgorod, ma la verità è che tu
vai davvero a Sebastopoli. Tu menti, Daniel -».
è la
predisposizione illustrata dall'apologo di Borges a fare di Buenos Aires una
città della finzione, del gioco, dello straniamento, del paradosso. In
una parola, una città essenzialmente letteraria. Julio Cortázar ha
ascritto il «sentimento del fantastico» (e la più grande
letteratura argentina è letteratura fantastica) al «sentimento di
non esserci del tutto», al senso di «eccentricità» e di
«estraneità» che deriva all'argentino dal suo essere figlio di
molti padri, risultato di molte culture, prodotto di infinite letture... Calle
Florida, passeggio e salotto buono della metropoli («l'abito della domenica
di Buenos Aires, che la città usa tutti i giorni», è stato
detto) tenne a battesimo le prime avanguardie, vide nascere mitiche riviste (da
«Proa» a «Martín Fierro»), fu laboratorio dei
più arditi sperimentalismi. E nel quadrilatero di strade fra Corrientes,
Uruguay, Pellegrini e la stessa Florida si sono architettate alcune delle
metafore in cui l'uomo di questo secolo ha tradotto le sue inquietudini e
nevrosi: lo scardinamento della routine attraverso la manomissione di un anello
nella catena causale degli eventi narrati in Cortázar; gli specchi, gli
inestricabili labirinti, le biblioteche infinite che tengono e contengono
l'universo di Borges; la sotterranea città dei ciechi, microcosmo fecale
di Sopra eroi e tombe di Sábato...
«Abbiamo fatto una grande
capitale, perché non abbiamo saputo fare una grande nazione». Buenos
Aires è capitale di un Paese da cui la separa una frontiera
insormontabile. Città aperta. Predisposta all'importazione indiscriminata
dei risultati, ormai disseccati e trasfigurati, della storia europea. E insieme
chiusa, ermeticamente chiusa rispetto al suo retroterra avvertito come
«estraneo», alieno e «barbaro». Buenos Aires è la
negazione del territorio di cui è capitale. Così le figure irreali
delle sue favole fantastiche, i suoi personaggi scissi e sperduti tra topografie
fredde e geometriche, i suoi labirinti pervasivi sono in realtà la cifra
della solitudine che è, nella fattispecie, assenza di storia, frattura
con un passato distrutto da forze incomprensibili (è il caso delle
culture precolombiane) o abbandonato senza rimedio (la storia degli emigranti).
Ezequiel Martínez Estrada, in La testa di Golia, che rimane il migliore
ritratto della metropoli, così la descrive: «Ormai la città
intera è una finzione, il più stupendo dei simulacri che la
finzione ha conquistato a spese della realtà aspra ma nobilissima della
campagna. Non v'è rapporto possibile tra questa Babele e quella pampa,
quelle selve che rappresentano l'essenza del Paese disarticolato e disfatto per
assicurare la spettacolare, slacciata grandezza dell'urbe. Buenos Aires assorbe
brutalmente e ciecamente la ricchezza dell'interno, si alimenta della miseria,
dell'arretratezza, dell'ignoranza, della solitudine».
LA VIA INDIANA
La nascita dell'India indipendente fu
salutata come quella della «più popolosa democrazia del mondo»,
intendendo con democrazia un sistema politico parlamentare e rappresentativo.
Sotto questo aspetto, in effetti, l'India rappresenta un'eccezione nel Terzo
mondo. Persino rispetto al Pakistan, nato come l'India dalla divisione del
dominio inglese, ma governato a più riprese da dittature militari,
lacerato a lungo dal contrasto tra Pakistan occidentale e orientale,
quest'ultimo staccatosi nel 1971 a formare un nuovo Stato, il Bangladesh.
Tuttavia, se in India le procedure parlamentari sono state quasi sempre
rispettate e le elezioni regolarmente tenute, nel mezzo secolo successivo
all'indipendenza il potere centrale e locale è stato, salvo un breve
intervallo e salvo qualche eccezione, appannaggio sempre dello stesso partito,
il Congresso, protagonista della lotta per l'indipendenza. Inoltre, da Nehru a
Indira - e Rajiv Gandhi, una vera e propria dinastia politica ha diretto
con pochi intervalli il Paese dall'indipendenza alle soglie degli anni Novanta.
Le difficoltà dell'India indipendente erano senza dubbio enormi, e
originate anzitutto dalla grande complessità della società
indiana. Coesistevano nel nuovo Stato masse sterminate di contadini poveri o
miserabili, sparsi in centinaia di migliaia di villaggi, una classe feudale
ristretta e privilegiata, un ceto professionale di formazione e cultura
britannica, particolarismi religiosi (il 10 per cento degli indiani, polarizzato
ai due estremi della scala sociale e con una forte presenza nell'esercito,
è musulmano), etnici (la piccola minoranza sikh è assai più
ricca della media della popolazione indiana) e linguistici. Il Congresso,
partito laico, interetnico e interconfessionale, espressione delle minoranze
istruite e politicamente attive, ha perciò rappresentato il collante
politico di un subcontinente frammentatissimo. Gandhi, ucciso da un fanatico
induista nel 1948, non poté partecipare alla vita dell'India
indipendente. è probabile che egli vedesse il futuro del Paese nella
lenta valorizzazione dell'economia di villaggio, agricola e artigianale; e, in
ogni caso, sul piano economico egli sostenne le posizioni dei conservatori. In
realtà, all'interno del Congresso si fronteggiavano l'ala rappresentata
da Patel, vicina agli interessi dei proprietari terrieri e degli imprenditori e
commercianti privati, e l'ala capeggiata da Nehru, presto il leader indiscusso
del partito e del Paese, con un programma tendenzialmente socialdemocratico
all'interno e neutralista in politica estera (Nehru assunse in effetti un ruolo
di primo piano nel movimento dei Paesi non allineati). In realtà, il
«socialismo» attuato dal Congresso fu puramente verbale; attraverso la
pianificazione quinquennale, furono create per intervento dello Stato
infrastrutture e trasporti e i nuclei di un'industria pesante; ma per il resto
lo sviluppo industriale, modesto sino a tutti gli anni Sessanta, rimase affidato
all'iniziativa privata o agli investimenti esteri. Nelle campagne i programmi
per lo sviluppo diretti dal Governo cercarono di migliorare la
produttività agricola e di rafforzare gli strati dei contadini agiati,
base elettorale, tra l'altro, del partito del Congresso; sempre, però con
risultati diseguali e complessivamente modesti sino agli anni Sessanta. D'altra
parte, la persistenza del sistema delle caste (frutto assai più della
accorta difesa di utili meccanismi sociali da parte dei privilegiati, che non di
fattori culturali) favoriva lo sfruttamento dei contadini poveri e dei
braccianti nelle campagne; l'enorme frammentazione del Paese ostacolava il
coagulo di movimenti di opposizione. In alcune aree dell'India hanno avuto luogo
rivolte agrarie e anche fenomeni di guerriglia contadina contro i grandi
proprietari; alcuni governi locali sono stati retti a lungo dai comunisti (per
altro divisi in due partiti, filosovietico e filocinese). Ma nessuno di questi
fenomeni ha assunto rilevanza nazionale; mentre i proprietari medio-ricchi in
tutto il Paese sono stati sostanzialmente leali al Congresso e alla sua
dirigenza occidentalizzata e urbana, o ai partiti più conservatori.
D'altra parte, dagli anni Settanta un più deciso intervento statale, con
Indira Gandhi, e i progressi delle politiche agricole hanno raggiunto risultati
di rilievo. Lentamente, e certo al prezzo delle sofferenze quotidiane di masse
di Indiani, si è formato il nucleo di una società moderna: il 10
per cento circa della popolazione istruito (valutazioni più ottimistiche
vorrebbero raddoppiare questa percentuale), ha un reddito sufficientemente
elevato per coltivare modi di vita e aspirazioni influenzati dai modelli
occidentali. Questa società ha trovato la sua migliore espressione
politica negli ultimi anni di governo di Indira Gandhi e poi in quelli del
figlio Rajiv.
L'India strinse un patto di cooperazione militare con l'Urss,
che prevedeva la partecipazione di cosmonauti indiani alle imprese spaziali
sovietiche. E il Paese, a suo tempo umiliato dalla Cina e dal Pakistan nelle
guerre di frontiera, esercitò un ruolo di potenza regionale, avendo
stabilito un protettorato di fatto sul Bangladesh ed essendo intervenuto nella
guerra civile dello Sri Lanka con un corpo di spedizione, ufficialmente per
ristabilire la pace. Nel contempo i gruppi affaristici locali e stranieri
(europei e statunitensi) legati alle nuove industrie di stato avevano trovato
l'occasione di proficui affari. Ma l'India delle isole di agricoltura prospera e
delle industrie moderne, comprese quelle nucleare e aerospaziale, che aveva
ormai raggiunto l'autosufficienza alimentare, cresceva su moltitudini
miserabili; in uno dei gruppi etnici più favoriti, i sikh, si era inoltre
sviluppato un movimento nazionalistico dei cui attentati era stata a suo tempo
vittima la stessa Indira Gandhi (1984). All'inizio degli anni Novanta la forza
del Congresso apparve erosa: certamente, come venne osservato, anche per le
scarse capacità politiche di Rajiv, ma soprattutto segno della
difficoltà di padroneggiare le contraddizioni della società
indiana.
Alle elezione del 1989 si era già verificata la sconfitta
del Partito del Congresso; l'elettorato musulmano spaventato dalle concessioni
fatte da Gandhi agli indù e temendo per la laicità dello Stato,
non aveva votato il Partito del Congresso e Gandhi stesso non era più
sentito come l'autorità capace di mantenere la pace sociale e religiosa.
I conflitti scoppiarono violenti, politici, come quello nel Kashmir dove gruppi
islamici chiedevano l'indipendenza, e religiosi tra indù e musulmani
(1990). Le difficili condizioni del Paese portarono a nuove elezioni, ma anche a
violenze: durante la campagna elettorale lo stesso Rajiv Gandhi venne
assassinato (1991). Il Partito del Congresso non sembrava capace trovare un
nuovo capace leader, mentre la violenza religiosa si diffondeva nel Paese:
durante le elezioni separatisti sikh hanno compirono sanguinosi attentati, e un
po' in tutta l'India esplose la conflittualità religiosa. Agli inizi del
1992 trecentomila indù demolirono la moschea di Ayodhaya sostenendo che
era sorta su un luogo sacro dedicato a Rama: nei disordini seguiti avevano perso
la vita 1200 persone. Nel gennaio del 1993 centinaia furono i morti registrati a
Bombay a causa degli scontri tra musulmani e indù e i conflitti
continuarono anche negli anni a venire. Nel 1996 il congresso si ritrovò
dinanzi alla più grave crisi di consensi di tutta la sua storia.
Vincitore fu il BJP, il partito nazionalista indù che due anni dopo
andò al Governo con il primo ministro Atal Behari Vajpayee. Dal punto di
vista internazionale, l'India fu generalmente condannata per la sua decisione di
effettuare esperimenti nucleari e per il suo coinvolgimento nella ripresa della
lotta con il Pakistan, anch'esso impegnato in esperimenti nucleari, per
l'indipendenza del Kashmir. Questa continuò fino all'estate del 2001,
quando vi fu una breve tregua che permise ai leader indiano Vajpayee e pakistano
Pervez Musharraf di incontrarsi, senza però arrivare a una conclusione
decisiva. Nel mese di ottobre gli scontri ripresero più duri che mai,
arrivando al loro culmine nel mese di dicembre, quando un gruppo suicida
attaccò il Parlamento di Nuova Dehli provocando diverse vittime: diretta
conseguenza dell'attentato fu l'assembramento di truppe su entrambi i fronti
indiano e pakistano. Nei mesi a seguire la tensione crebbe sempre più fortemente.
Indira Gandhi
LA VIA CINESE
Con la proclamazione della Repubblica
popolare cinese (ottobre 1949), il «campo socialista» veniva a
comprendere il Paese più popolato del pianeta. A differenza dell'India,
la Cina usciva non solo da un passato di grandi squilibri sociali e di generale
povertà, ma anche da un trentennio di disordine politico, giunto al
culmine quando l'invasione giapponese si sovrappose alla guerra civile
già in corso tra nazionalisti e comunisti. In Cina negli anni Venti il
movimento comunista nelle grandi città venne schiacciato dalle forze
armate nazionaliste. La sopravvivenza e la crescita del comunismo cinese ebbero
perciò basi contadine e periferiche: la «campagna» andò,
una volta sconfitti i Giapponesi, alla conquista della «città».
Base sociale e ispirazione teorica dei comunisti cinesi differivano da quelle
dei Sovietici sin dal momento della presa del potere. Tuttavia, l'aiuto
sovietico fu accettato nei primi anni di pace (turbata, per altro, dalla
partecipazione alla guerra di Corea); e una buona parte del gruppo dirigente
cinese, rappresentata negli anni Cinquanta-Sessanta soprattutto da Liu Shaoqi,
era disposta a seguire il modello di sviluppo economico sovietico e a stringere
legami durevoli con l'Urss. Il problema agrario, gravissimo in un Paese
massicciamente contadino e dominato da sempre da un ceto di latifondisti, fu
affrontato, non senza spargimenti di sangue e manifestazioni di radicalismo
terroristico osteggiate dallo stesso Partito comunista perché dannose per
la produzione, con la redistribuzione delle terre e l'eliminazione della vecchia
élite rurale; mentre le attività bancarie e industriali (ma non le
piccole industrie, l'artigianato e il piccolo commercio) vennero subito
nazionalizzate. I dirigenti cinesi non intendevano però subordinare
né lo sviluppo interno del Paese né la sua politica estera alle
direttive sovietiche; i sovietici, d'altro canto, cercavano di inglobare la Cina
nel sistema di relazioni economiche del «campo socialista», che
prevedeva una sorta di divisione del lavoro tra i diversi Paesi: alla Cina
sarebbe toccato il ruolo, non gradito, di Paese ad economia agricola e
artigianale. Allo stesso modo, i Sovietici intendevano controllare il sistema
difensivo cinese e influenzare la politica estera della Repubblica popolare. Nel
1953 i dirigenti cinesi vararono il loro primo piano quinquennale, sull'esempio
sovietico e due anni dopo avviarono la collettivizzazione dell'agricoltura:
attraverso la mobilitazione delle masse, anziché nel più brutale
modo seguito dall'Urss negli anni Trenta, come fanno osservare gli studiosi
simpatizzanti dell'esperienza cinese; ma la mobilitazione era, forse, agevolata
dal recente ricordo del terrore che aveva accompagnato la riforma
agraria.
Nella seconda metà degli anni Cinquanta i dirigenti cinesi
avviarono nello stesso tempo il progressivo distacco dall'Urss (che
comportò anche la fine degli aiuti tecnici sovietici) e un grandioso
sforzo di industrializzazione accelerata e decentrata noto come il «grande
balzo in avanti» (1958-1960). C'era senz'altro in una parte dei governanti
cinesi, e soprattutto in Mao Zedong, che aveva avuto una iniziale formazione
anarchica, il desiderio di evitare gli squilibri e le sofferenze che il modello
staliniano aveva imposto all'Urss: sacrificio delle campagne, formazione di una
burocrazia onnipotente e priva di controlli, netta separazione tra lavoro
manuale e intellettuale, profonde differenziazioni regionali. Al tempo stesso
tutti, compresi i meno favorevoli alle idee di Mao, condividevano un
volontarismo ottimistico non sempre fondato su un'adeguata capacità di
previsione delle conseguenze che iniziative imposte a un Paese di oltre mezzo
miliardo di abitanti potevano avere. Così, la valutazione del
«grande balzo in avanti» da parte degli studiosi è fortemente
diversa. Da molti l'iniziativa è giudicata un fallimento, che
provocò, nonostante le buone intenzioni, enormi sofferenze alla
popolazione. D'altra parte, alcuni degli obiettivi prefissi furono raggiunti:
nelle campagne furono istituzionalizzate le comuni, come organizzazioni di
produzione; mentre il balzo nella produzione industriale e nella diffusione
delle attività industriali fu effettivamente imponente: alla
centralizzazione dell'economia fu sostituita una centralizzazione delle
decisioni fondamentali, che lasciava autonomia alle iniziative periferiche. Il
movimento venne però accompagnato da molte ingenuità e molta
confusione, da sprechi e squilibri tra i vari settori produttivi; tanto che
all'inizio degli anni Sessanta furono nuovamente rettificate le direttive e fu
ridato spazio al ruolo dei tecnici e dei pianificatori. Poiché Mao aveva
fortemente sostenuto l'iniziativa del «grande balzo», egli fu
provvisoriamente messo da parte nella fase di ritorno ad un modello assai
più vicino a quello sovietico dei primi anni Sessanta. Ma, dopo una
campagna propagandistica diretta agli studenti e ai giovani intellettuali, e con
l'appoggio del capo dell'esercito, Lin Biao, Mao lanciò nel 1966 la
«grande rivoluzione culturale proletaria» appoggiata dal movimento
delle «guardie rosse» e dalla mobilitazione degli operai delle grandi
città come Shangai.
In un certo senso, la «rivoluzione
culturale» era una riproposizione in forma e dimensioni nuove della ricerca
di Mao di una via cinese distinta da quella sovietica e caratterizzata da uno
sviluppo lento e graduale, equilibrato, il più possibile egualitario,
ostile alla formazione di privilegi burocratici e alla specializzazione, e
continuamente messo in discussione grazie alla partecipazione delle masse. Di
fatto, il movimento sfuggì di mano alla direzione centrale (come era
probabilmente inevitabile) e rischiò di sconvolgere le linee maestre
della politica estera (contrariamente alle intenzioni pacifiche dei dirigenti
cinesi, che non volevano complicazioni internazionali, ci furono incidenti con
soldati sovietici sul fiume Ussuri e l'ambasciata britannica venne attaccata);
inoltre l'importanza di Lin Biao come punto di riferimento del movimento
esaltava oltre misura il ruolo dell'esercito. Nel corso di quattro anni la
«rivoluzione culturale» provocò una epurazione del gruppo
dirigente (in particolare di Liu Shaoqi) e una straordinaria mobilitazione
politica (con viaggi delle guardie rosse attraverso il Paese, trasferimenti
degli studenti nelle campagne, entusiasmi delle avanguardie operaie), che non
danneggiarono, a quanto sembra, la produzione industriale. Tuttavia gli
sconvolgimenti portati da un movimento sempre meno controllabile in un Paese
vasto e differenziato rischiavano di tradursi in una frantumazione e confusione
di poteri e di affidare il governo a un uomo forte come Lin Biao. Dopo che la
«rivoluzione culturale» era di fatto terminata, Lin Biao scomparve in
un misterioso incidente (1971); la supremazia del partito sull'esercito venne
riaffermata e la Cina aprì al mondo esterno stabilendo clamorosamente
relazioni diplomatiche con gli Usa (Nixon stesso visitò Pechino) e con
altri Paesi occidentali ed entrando a far parte dell'Onu, mentre perdurava
l'ostilità nei confronti dell'Urss, con la quale fra la fine degli anni
Cinquanta e l'inizio degli anni Sessanta era stata consumata una clamorosa
rottura. Come nel caso del «grande balzo in avanti», il volontarismo e
lo zelo antiburocratico e antispecialistico si tradussero in enormi sprechi di
risorse, competenze e intelligenze. Inoltre, l'ispirazione antiautoritaria del
movimento si traduceva in pratiche autoritarie: destituzioni, processi pubblici,
incarcerazioni, intimidazioni (senza contare il costo in vite umane degli
scontri tra fautori e oppositori della «rivoluzione culturale», un
costo particolarmente alto proprio per le guardie rosse, una volta sceso in
campo l'esercito). Se Mao aveva ragione di additare all'attenzione le
«contraddizioni in seno al popolo», incitando perciò a
sviluppare la lotta tra le diverse linee all'interno del partito, l'invito a
«bombardare il quartier generale» partiva da chi del quartiere
generale faceva parte da sempre: le iniziative spontanee ebbero
l'incoraggiamento dall'alto. E infine, lo stato di effervescenza suscitato dalla
«rivoluzione culturale» non poteva protrarsi in eterno.
La
stabilizzazione dei primi anni Settanta fu attuata sotto il segno di una sorta
di santificazione di Mao, al quale tutti si richiamavano ritualmente; di fatto
tornarono a contrapporsi una linea sostenitrice della ripresa dello sviluppo
economico su basi tradizionali, restituendo prestigio e competenze alle
direzioni aziendali e ai tecnici e puntando all'ammodernamento dell'apparato
produttivo, grazie anche alle aperture all'Occidente, e un'altra linea che si
richiamava ancora in maniera generica ai principi ispiratori della
«rivoluzione culturale». Il confronto vero tra la linea economicista e
quella politicista («conservatori» e «radicali», secondo una
semplificazione cara agli osservatori occidentali influenzati dal maoismo) si
dispiegò tuttavia dopo la scomparsa di Zhou Enlai, il principale artefice
della politica estera cinese, e di Mao (settembre 1976). Un mese dopo, la vedova
di Mao e altri tre esponenti radicali, da allora noti con la denominazione
spregiativa di «banda dei quattro», furono arrestati. Gradualmente ma
sicuramente ritornò al potere Deng Xiaobing, un vecchio leader epurato
durante la «rivoluzione culturale», fautore di una modernizzazione
accelerata dell'economia cinese.
Negli anni Ottanta la Cina di Deng
sembrò rovesciare completamente le direttive maoiste, privilegiando la
formazione di quadri tecnici, inviando studenti a formarsi nelle
università occidentali, soprattutto statunitensi, incoraggiando la
formazione di un ceto di contadini indipendenti, tornando ad una politica di
incentivi alla produzione e di accentuazione delle differenziazioni salariali.
Gli investimenti occidentali e una maggiore apertura all'esterno favorirono la
rapida diffusione, almeno nelle grandi città, di fenomeni di costume
ispirati all'imitazione del modo di vita americano. Ai successi produttivi, del
resto controllati con mano ferma dal gruppo dirigente del partito, si
accompagnarono però negli ambienti studenteschi nuovde ventate
antiautoritaria, anche se questa volta di segno occidentalizzante e
liberalizzante, che finirono con l'opporre ai dirigenti promotori delle riforme
economiche la richiesta di un inizio di pluralismo politico.
Per gli
Occidentali, e gli Europei in particolare, gli avvenimenti cinesi degli ultimi
anni richiamano immediatamente alla memoria la strage di Tienanmen. Nell'aprile
del 1989 migliaia di studenti avevano occupato a Pechino la piazza Tienanmen, al
centro della capitale e simbolo del regime: chiedevano libertà e lotta
alla corruzione. Tra le fila del partito si svolgeva frattanto una silenziosa ma
aspra lotta: i manifestanti chiedevano anche le dimissioni di Deng Xiaoping.
Nella notte del 19 aprile venne dato ordine all'esercito di riportare la
normalità nel Paese perché la protesta studentesca si era
frattanto estesa anche ad altre città. Più di un milione di
persone scesero allora in piazza per impedire pacificamente alle truppe di
giungere sulla piazza Tienanmen. Ai primi di giugno i reparti speciali, fatti
arrivare da zone periferiche della Cina perché non vi fossero simpatie
verso i dimostranti, sgombrò la piazza con i carri armati. Fonti
occidentali parlarono di un massacro: 7000 morti. Poi cominciò la
repressione: condanne e fucilazioni. Sulla scena politica era intanto ricomparso
Deng Xiaoping, rimasto in ombra nelle giornate cruciali; ora elogiava gli autori
della repressione. I processi contro i leader delle manifestazioni del 1989
continuarono fino al 1991.
Deng Xiaoping rappresentò allora l'uomo
forte della Cina e la sua linea riformatrice seppe imporsi con successo; nel
1992 lo stesso dirigente chiese l'intervento dell'americano Lawrence Klein
(premio Nobel per l'economia) per guidare la Cina verso il capitalismo. L'anno
dopo l'Assemblea nazionale del popolo ratificò la scelta del
quattordicesimo congresso del Partito comunista cinese: dalla Costituzione erano
stati eliminati punti essenziali di un progetto comunista come la pianificazione
economica e le comuni rurali, che erano stati i due pilastri del maoismo. Veniva
inoltre stabilito il principio dell'economia socialista in mercato.
Gli
osservatori occidentali in Cina confermarono che le trasformazioni erano rivolte
a creare nel Paese un'economia di mercato sul modello di quella capitalistica.
Era previsto un forte tasso di sviluppo con tutte le contraddizioni che questo
avrebbe comportato : vi sarebbero stati almeno cento milioni di cinesi che si
sarebbero spostati da una parte all'altra della Cina dando vita a fenomeni di
urbanizzazione e accentuando sempre più gli ormai evidenti segni di
diseguaglianze sociali. Sul piano politico l'abbandono del progetto maoista e
l'adesione al modello di sviluppo occidentale permise un parziale
riavvicinamento della Cina a Taiwan e nel 1993 per la prima volta, sia pure a
livello ufficioso, delegazioni di entrambi i Paesi si incontrarono. Nel 1995,
però, la Cina non esitò da effettuare esercitazioni militari nello
stretto di Taiwan, sottolineando in questo modo la propria supremazia militare e
politica (più tardi, nel 2001, arrivò addirittura a simulare
un'invasione dell'isola). Nel 1996 Cina, Russia, Kazakistan, Kirgisistan e
Tagikistan si accordarono per arginare le tensioni etniche e religiose
all'interno dei rispettivi Paesi in un legame che li fece soprannominare i
"Cinque di Shangai''. Nel 1997 Deng Xiaoping morì: anni prima aveva
però passato il testimone politico a Jiang Zemin. Sempre nel 1997 Hong
Kong ritornò alla Cina, seguito, due anni più tardi, da Macao.
Intanto disordini scoppiarono nello Stato di Xinjiang. Nel 2001 ai Cinque di
Shangai si unì anche l'Uzbekistan per consolidare la lotta al terrorismo
e alla guerriglia etnico-religiosa interna. Nello stesso anno la Cina fu ammessa
all'interno dell'Organizzazione mondiale del commercio, a conferma del diverso
ruolo internazionale assunto dal Paese.
Mao Tse-Tung
TRISTI CONDIZIONI DI VITA
Prima della rivoluzione i contadini cinesi
vivevano in una condizione miserabile. Uno di questi, dopo il successo della
rivoluzione cinese a cui aveva attivamente partecipato, ricordava ancora con
sofferenza le precedenti, tristi condizioni di vita.
«Io sono di
Henshang. La mia famiglia aveva sempre vissuto là, ma da varie
generazioni non avevamo più terra sufficiente per campare. Così
cominciai a lavorare per un proprietario terriero. Il padrone mi svegliava al
canto del gallo; dovevo trasportare acqua e letame. Dovevo rassegnarmi a fare di
tutto. Un giorno d'estate, quando i meloni maturarono, ne lasciai cadere uno che
si ruppe. Era stato un incidente ma il padrone si arrabbiò, prese la
vanga e mi dette un colpo in testa. Si vede ancora la cicatrice. Io svenni e
ripresi i sensi solo nel pomeriggio: ero tutto insanguinato. Il padrone mi aveva
lasciato nel punto dove ero caduto».
LA «RIVOLUZIONE CULTURALE» CINESE
è l'alba del 18 agosto del 1966:
sulla grande piazza di Tian An Men, nel cuore di Pechino, centinaia di migliaia
di ragazzi, attendono di veder comparire il Grande Timoniere. Scandiscono slogan
rivoluzionari e cantano L'oriente è rosso, un inno le cui parole dicono:
«L'oriente è rosso, il sole si leva, la Cina ha partorito un Mao
Zedong». E, proprio nel momento in cui i primi raggi del sole illuminano il
cielo, Mao appare sugli spalti di Tian An Men. I giovani sono in preda al
delirio, esultano, piangono, sventolano i libretti rossi con le citazioni di
Mao, hanno al braccio una fascia con su scritto «Guardia rossa».
è la stessa fascia che Mao indossa legittimando così platealmente
il movimento delle Guardie Rosse che lo acclamano loro comandante in
capo.
Da quel momento, per poco più di un anno, saranno questi
giovanissimi a scatenare in tutta la Cina la «Grande Rivoluzione Culturale
Proletaria» andando all'assalto del partito Comunista, bombardando, come
aveva ordinato Mao, il «quartier generale», distruggendo tutto quanto
era «vecchio»: antichi monumenti profanati e sfregiati perché
rappresentavano il passato feudale, libri dati alle fiamme perché
propagandavano teorie borghesi o comunque «arretrate»; centinaia di
migliaia di uomini e donne, per la maggior parte veterani del Partito comunista,
costretti a portare il «cappello d'asino», a subire umiliazioni,
violenze e morte per mano di questi adolescenti autorizzati dall'alto a ergersi
a giustizieri spazzando via tutti i «demoni e i mostri» per far
trionfare il «regno della virtù».
Ma ora ci si chiede:
cosa è stata in realtà la «rivoluzione culturale» che
all'epoca venne salutata come primo esperimento di «rivoluzione nella
rivoluzione»? E come mai sono stati scelti proprio i giovanissimi per dare
anima e corpo a questo sommovimento di massa?
La «rivoluzione
culturale» è da considerarsi senza dubbio una lotta per il potere:
Mao vuol far sparire tutti coloro che si oppongono alla sua linea politica e, in
particolare, quegli oppositori che si trovano in seno al partito. Per
raggiungere questo scopo sceglie così la soluzione più radicale:
distruggere il partito stesso contando sul proprio carisma personale per
mobilitare le masse. Ma non è soltanto per ambizione personale che Mao
vuole distruggere il partito e prendere il potere. è sempre presente, nel
suo pensiero e nelle sue azioni, un anelito verso l'utopia, un desiderio di
assoluto che genera una permanente insoddisfazione per i risultati acquisiti.
Capo di una rivoluzione che ha trionfato, non esita infatti a rimettere in
discussione tutto per impedire che «la Cina cambi colore», cioè
che prevalga la nuova borghesia della burocrazia statale, corrotta e corruttrice
che «siede sulla testa delle masse togliendogli il respiro».
Così scrive in un saggio del 1964 nel quale sostiene che quando la
rivoluzione diventa istituzione perde di vista i propri obiettivi. I veri nemici
sono quindi per Mao all'interno del partito, ai suoi vertici, ed è
necessario combatterli facendo appello alla gioventù per mantenere viva
la fiamma dei tempi eroici. E ancora: bisogna ricreare il clima di quei tempi
per «forgiare la tempra dei successori della rivoluzione».
Questo
scritto del 1964 è già il manifesto della «rivoluzione
culturale» e fornisce risposta al secondo interrogativo, cioè come
mai siano stati scelti proprio i giovani come principali agenti di questo
sommovimento gigantesco che ha destato tanto interesse per il fatto che, almeno
nelle prime fasi, è stato contraddistinto da uno spirito libertario
espresso da incisive parole d'ordine lanciate da Mao stesso come
«Ribellarsi è giusto!», «Abbasso il re dell'inferno,
liberate i piccoli diavoli!», «Bombardate il quartier
generale!».
A questi incitamenti fa però da contraltare il
culto forsennato che si crea intorno alla personalità di Mao il quale,
come tutti gli utopisti e i rivoluzionari romantici si dimostra un acuto critico
della realtà ma non riesce a dare una forma costruttiva alle sue
proposte. Sogna di costituire degli organismi di massa permanenti ispirati al
modello della Comune di Parigi, cioè delle strutture democratiche
popolari che permettano alle masse di avere il controllo effettivo del sistema
produttivo e del proprio destino ma vi rinuncia subito, sopraffatto dal turbine
degli eventi che ha scatenato. è un turbine che alla Cina è
costato dai venti ai trenta milioni di morti portando l'immenso Paese che ancora
non ha superato la barriera dell'arretratezza, alla guerra civile. Poco
più di un anno dopo l'oceanico raduno delle Guardie Rosse a piazza Tian
An Men, le forze sociali e le contraddizioni che sono state scatenate hanno
assunto vita autonoma e una tale virulenza da sfuggire al loro manipolatore. A
quel punto vi sono soltanto due soluzioni: abbandonare il Paese all'insurrezione
o fare appello all'esercito per ristabilire l'ordine. Mao sceglie la seconda
soluzione che significa decretare la morte della «rivoluzione
culturale». L'agonia sarà comunque lunga e scossa da violenti
soprassalti.
Le parole d'ordine della «rivoluzione culturale» e
l'ideologia maoista, che si presenta come radicalmente contestatrice del potere
costituito, hanno però vasta eco in Occidente. E l'hanno, per ironia
della storia o per mancanza di informazioni sulla realtà cinese, proprio
nel momento in cui non c'è più in Cina nessuna rivoluzione ma i
militari hanno imposto la loro dittatura e il culto di Mao imperversa assumendo
forme di fanatismo religioso.
Infatti le parole d'ordine libertarie
lanciate da Mao in Cina infiammano prima i campus delle università
americane e poi si propagano in tutta Europa rinvigorendo e legittimando
ideologicamente alcuni aspetti di quel movimento dissacratore e di rinnovamento
che va sotto il nome di «Sessantotto». Si proclama che «la Cina
è vicina» e che al suo modello bisogna ispirarsi per «liberare
le masse», «rovesciare il mondo», «creare l'uomo
nuovo». La Cina però non è mai stata tanto lontana e isolata
come nel 1968 quando le avverse fazioni di Guardie Rosse, dopo essersi
combattute a vicenda in vere e proprie battaglie campali, sono state attaccate
dall'esercito che non ha esitato a usare artiglieria pesante e bombe al napalm.
Le Guardie Rosse e tutti i «ribelli» che Mao aveva esaltato come
«successori della rivoluzione» sono sgominati dall'esercito,
massacrati. Quelli che riescono a evitare il massacro o l'arresto vengono
mandati in campagna a «rieducarsi»: nel periodo 1968-69 sono
più di venti milioni i giovani ex ribelli che subiscono questa punizione
presentata come una possibilità di «rigenerarsi» attraverso il
lavoro manuale. Mentre in Europa scoppia il Sessantotto, in Cina è stato
ristabilito l'ordine ed è un ordine militare.
La «rivoluzione
culturale» non è riuscita a portare il regno della virtù su
questa terra e a dare il potere alle masse ma Mao tuttavia non la ripudia
ufficialmente cosicché ora si ritiene che sia durata dieci anni, dal 1966
al 1976, anno in cui muore Mao. In realtà è durata meno di tre
anni e se è vero che è stata lanciata con lo scopo di distruggere
la burocrazia di partito, si è rivelata un totale fallimento
perché nel 1969 il partito Comunista è di nuovo il nucleo
dirigente del regime. Quel che è peggio è che ormai si tratta di
un partito diviso in opposte fazioni dove tutte le battaglie si combattono ai
vertici provocando continue oscillazioni della linea politica e gravi crisi. La
più grave è stata quella del 1971, quando venne sventato il
tentativo di colpo di Stato di Lin Biao, capo delle Forze Armate e erede
designato di Mao. O la crisi che si ebbe in seguito alle manifestazioni popolari
di Tian An Men, nell'aprile del 1976, per commemorare Zhou Enlai: in
quell'occasione l'esercito aprì il fuoco sulla folla come è
successo poi anche nell'estate del 1989. Soltanto con la scomparsa di Mao, nel
settembre del 1976, e con l'arresto dei suoi principali collaboratori tra i
quali sua moglie Jang Qin, membro della cosiddetta «banda dei
quattro», si sblocca una situazione che appariva senza via d'uscita e si
arriva alla condanna ufficiale della «rivoluzione culturale». Ora in
Cina non si parla più di «rivoluzione culturale» ma dei
«dieci anni di catastrofe». Per milioni e milioni di persone le cui
vite sono state sconvolte da questo evento e dalle sue conseguenze, la
precisione della periodizzazione ha poca importanza. La Cina ha pagato a lungo
il prezzo di quella fuga verso l'utopia voluta da Mao Zedong.
LA SINISTRA OCCIDENTALE E LA RIVOLUZIONE CULTURALE
Le vicende cinesi, soprattutto quelle della
«rivoluzione culturale», hanno entusiasmato una parte delle nuova
sinistra occidentale. Il pensiero di Mao ha avuto forse più fini esegeti
in Europa che non in Cina. In questo senso, la Cina ha preso il posto dell'Urss
per una generazione di intellettuali di sinistra occidentali. In realtà,
della Cina non si è mai saputo abbastanza (vista l'impossibilità
di compiere liberamente indagini e studi e la scarsità di dati
statistici) per poter fondare un giudizio serio: per qualche anno è
prevalsa l'apologia acritica di una «rivoluzione culturale» e di un
maoismo conosciuti molto spesso di seconda mano; più di recente è
invalsa una semplicistica e disinvolta denigrazione di quegli stessi fenomeni,
che egualmente impedisce di conoscerli. Certamente la Cina ha percorso una
strada diversa da quella sovietica, grazie anche a Mao e alla sua influenza
all'interno del partito Comunista cinese. D'altra parte, la «rivoluzione
culturale» appare, retrospettivamente, più una lotta di retroguardia
per rallentare un corso che si è comunque affermato, che non una
prospettiva praticabile. E ciò non per la debolezza della riflessione di
Mao, che al contrario era stata estremamente lucida nel prevedere la
necessità di «molte rivoluzioni culturali», e assai coerente
nel proporre per il Paese uno sviluppo lento, equilibrato ed endogeno; ma
piuttosto per la forza delle cose e per l'effetto dello sviluppo delle forze
produttive. In un certo senso, il primato della politica sostenuto da Mao
tendeva a realizzare una «rivoluzione contro il Capitale», per
riprendere l'espressione adoperata da Gramsci a proposito della rivoluzione
d'Ottobre: vale a dire, un'iniziativa d'avanguardia sfasata rispetto allo stadio
di sviluppo dell'economia; allo stesso modo, tendeva a prefigurare un modello di
partito assolutamente originale e non si sa quanto realizzabile, soprattutto in
un Paese di oltre un miliardo di abitanti.